Non sono molti, in Italia, gli storici che si siano occupati di ambiente. E che abbiano raccontato le vicende dei fiumi, delle colline, delle pianure e delle paludi. E di come gli uomini se ne siano serviti, spesso correttamente, spesso abusandone. Con la storia delle risorse naturali si cimenta da tempo Piero Bevilacqua, professore di Storia contemporanea all'Università "La Sapienza" di Roma, che prova a ricostruire il nostro passato non limitandosi alle dinamiche dell'economia o alla vita sociale e politica, ma attribuendo dignità di soggetto storico alle forze ambientali. Non è difficile intendere quanto questa indagine torni comoda per capire cosa accade nel nostro paese ogni volta che un acquazzone si abbatte più irruento del solito. L'ultimo lavoro di Bevilacqua è appena uscito, si intitola Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo: è un volume curato insieme a Gabriella Corona e raccoglie studi di giovani ricercatori sulla legislazione forestale nei secoli scorsi, sull'idea di territorio in età giolittiana, sulla storia della biodiversità, della pesca, delle bonifiche e dei sismi (Donzelli, pagg. 329, lire 45.000). Di qualche anno fa è Tra natura e storia (ora ripubblicato sempre da Donzelli, pagg. 224, lire 35.000).
Professor Bevilacqua, al Nord e al Centro si continua a morire travolti da un'alluvione. Ma si può cominciare questa intervista ricordando che esattamente vent'anni fa un terremoto distruggeva l'Irpinia e parte della Basilicata. Morirono tremila persone. Abbiamo riflettuto a sufficienza su quella tragedia?
"No. Ma bisogna distinguere. La storiografia, generalmente insensibile alle questioni ambientali, ha raggiunto livelli di eccellenza nell'indagine su questi eventi. L'Istituto nazionale di geofisica di Bologna ha pubblicato un Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1990 di straordinario rilievo. Con la storia dei terremoti si realizza l'antico detto della historia magistra vitae".
In che senso?
"La memoria è la nostra geologia: apprendiamo da uno studio di Emanuela Guidoboni che negli ultimi cinquecento anni in Italia ci sono stati centosettantaquattro terremoti distruttivi, in media uno ogni tre, quattro anni. In Sicilia e in Calabria, le regioni più disastrate, la media è rispettivamente di uno ogni 17 e 19 anni: almeno una generazione di persone che vivono lì affronta una ricostruzione sismica".
Sono dati terribili.
"Non sono finiti. Nel secolo che si è chiuso sono morte 200.000 persone. E il costo dei sismi accaduti negli ultimi trent'anni ammonta a 180.000 miliardi di lire".
Lei parlava di historia magistra vitae. Non sembra che la comunità nazionale tenga conto di questi studi. O no?
"Purtroppo non ne fa buon uso. Siamo affetti, classe dirigente e semplici cittadini, da un abbaglio tecnologico, che ci fa perdere di vista un dato storico: la fragilità del nostro territorio. Implicitamente ci sentiamo sicuri, non ci sembra possibile che un paese che ha raggiunto simili livelli di benessere soccomba di fronte a un evento naturale".
Da dove deriva questa mitologia?
"Il sapere medio è povero di competenze geografiche e naturalistiche. Un uomo colto dell'Ottocento le maneggiava invece con dimestichezza: prenda il caso di Giustino Fortunato. Poi è prevalsa una certa vulgata idealistica. Nelle scuole la geografia è stata messa ai margini. Oggi una persona di buona cultura stenterebbe a riconoscere cinque, sei alberi fra i più frequenti del nostro paesaggio".
Stiamo negando un passato di grandi conoscenze. E' questo che vuol dire?
"Esattamente. L'Italia ha inaugurato la scienza idraulica moderna. Nel Nord del paese esistevano due grandi emergenze: la pianura Padana e la laguna veneta. La pianura padana è fra i più intricati sistemi idrografici del mondo. Dal Medioevo in poi tante fonti storiche segnalano la questione. E per secoli è proseguito lo sforzo affinché si rendesse agibile quella pianura. Nell'Ottocento gli idraulici sostenevano che il Po fosse frutto del lavoro umano, un fiume costruito, tanto imponenti erano stati i lavori per condurre in un unico argine la quantità di bracci in cui il corso si disperdeva. Carlo Cattaneo definisce il Po "un immenso deposito di fatiche". Nel XVII secolo fu attuata una gigantesca opera idraulica, rimasta senza pari: venne dirottata la foce del fiume per evitare che scaricasse materiali nella laguna veneta".
E arriviamo a Venezia. In un suo saggio di alcuni anni fa, Venezia e le acque, lei sosteneva che la legittimazione a governare la città dipendeva dalle capacità idrauliche della sua classe dirigente, che doveva dimostrarsi in grado di salvaguardare la laguna dall'interramento...
"In quel libro cercavo di raccontare la storia mirabile di un successo tecnico. Una grande opera fu anche la deviazione del fiume Brenta che, come il Po, alterava l'equilibrio della laguna scaricandovi le sue scorie. E a quella seguirono altre iniziative in diverse regioni. Basti ricordare la colmata della Val di Chiana, o il canale Cavour, costruito nell'Ottocento". Come si è arrivati al dissesto e alla noncuranza di oggi? "In seguito a tanti processi. In primo luogo la riduzione delle superfici agricole. Ancora nel 1951 ventisette milioni di ettari erano coltivati. Oggi sono quindici".
Ma il minore sfruttamento della terra non arreca anche vantaggi?
"No, se al posto dell'agricoltura subentra un insediamento cementizio, che impermeabilizza il terreno. Inoltre le trasformazioni nei metodi di coltivazione, pur necessarie per ricavare più reddito, possono provocare effetti negativi sulla tenuta del territorio".
Mi faccia un esempio.
"E' necessaria una premessa. Gli idraulici dell'Ottocento avevano capito che la dorsale appenninica andava incontro allo scivolamento di materiali disgregati dalle vette verso valle, all'erosione delle rocce. Questi eventi provocavano un colmamento delle zone costiere. Nei secoli passati, secondo molte fonti, i problemi erano attutiti dai contratti di mezzadria che imponevano ai contadini di restare nei fondi e di controllare i movimenti della terra e delle acque. Si costruivano i muri di sostegno, e se si sfaldavano si riparavano. Si deviavano i fiumi, si bonificavano le colline, indirizzando l'acqua piovana, si riempivano i fossi, si addolcivano le pendenze con le colmate. Buona parte del profilo collinare toscano è il prodotto di questa manutenzione".
E ora, invece, cosa accade?
"Prevale il lavoro meccanico, che insieme a tanti vantaggi ha provocato anche danni. Un trattore per arare un terreno va in direzione della massima pendenza. Scende e poi risale, agevolando i fenomeni franosi. Troppo spesso i vigneti sono sistemati in verticale. Un tempo, invece, o si costruivano i terrazzamenti oppure si procedeva "giro poggio", come si diceva, tagliando orizzontalmente e dolcemente la collina".
Ma è impossibile arrestare il processo di meccanizzazione.
"D'accordo. Ma resta il fatto che, storicamente, una delle cause dei fenomeni franosi che angustiano le zone appenniniche o le Prealpi è lo spopolamento delle colline interne. E le frane si abbattono sulle pianure inverosimilmente intasate sia dalle abitazioni che dagli stabilimenti industriali. Per non parlare delle costruzioni abusive, tirate su nelle golene o sui greti dei fiumi. E' difficile far tornare i contadini sulle alture, ma allora inventiamoci altri sistemi per non abbandonarle".
A cosa pensa?
"Dieci anni fa la Comunità europea ha varato un programma che si chiama "set aside" e consiste nel disincentivare le coltivazioni - tenga conto che i magazzini europei sono pieni di eccedenze - e nel favorire sui pendii le colture biologiche o la forestazione. Nei secoli scorsi, in particolare al Sud, le alluvioni sono state frenate dai boschi. In Calabria, prima dell'Unità, si procedette a una bonifica dei corsi alti dei fiumi che, raccontano molte memorie, erano pescosissimi e adesso sono ridotti a discariche. E' possibile che non si riesca a formare botanici, biologi, geologi? Nelle amministrazioni statali preunitarie figuravano molte più competenze di quante, in proporzione, ce ne siano oggi".
Lei accennava ai difetti della storiografia contemporanea. Vogliamo chiudere la conversazione su questo?
"Da noi prevale una formazione umanistica e solo umanistica. La storia politica è indispensabile, ci mancherebbe. Ma è possibile che non ci si spinga mai a dialogare con altri saperi, come quelli geografici o agronomici? Quando mi occupo di queste ricerche i miei interlocutori sono i geologi e gli urbanisti. Il mio libro Tra natura e storia non è stato né recensito né segnalato su nessuna rivista storica specializzata. In Germania o in Francia la situazione è diversa. Eppure noi siamo un paese molto più vulnerabile: io credo che nella mitologia popolare la salvaguardia secolare di Venezia possa avere lo stesso rilievo degli Orazi e Curiazi".