, dal Mibac agli enti locali, alle Università, ha ricevuto, finalmente, uno schiaffone: il 27 settembre si è svolta a Roma una giornata di mobilitazione, riflessione, protesta organizzata dall’Associazione Bianchi Bandinelli sul precariato giovanile nell’ambito dei beni culturali.
L'Italia dei Beni Culturali: formazione senza lavoro e lavoro senza formazione, il titolo dell’iniziativa di grande impatto sociale, culturale, emotivo, cui anche eddyburg ha aderito e che ha finalmente acceso i riflettori su quelle migliaia di giovani laureati nell’ambito dei beni culturali, in percentuali altissime specializzati e plurispecializzati costretti a condizioni lavorative troppo spesso sotto il limite della dignità, senza diritti, nè tutele. E’ l’inferno del precariato che sta condannando una o forse due generazioni ad una qualità di vita con pochi confronti in Europa.
Le crisi speculari di Università e Mibac (quest’ultima probabilmente irreversibile), hanno aggravato e accellerato il fenomeno: da un lato l’Università ormai persa in un loop autoreferenziale ha continuato a proporre, nel corso degli ultimi vent’anni, percorsi formativi privi di sbocchi professionali e per di più inadeguati anche sotto il profilo delle competenze richieste in ambito lavorativo: valgano per tutti i famigerati corsi o facoltà in Conservazione in beni culturali, moltiplicatisi soprattutto negli anni ’90. Dall’altro lato, un Ministero sempre più esangue, ormai incapace di mantenere i seppur minimi livelli di gestione del patrimonio culturale, sta procedendo da almeno un lustro alla dismissione delle proprie funzioni in una climax di tentativi maldestri e pasticciati: dai commissariamenti alle fondazioni, ai fantozziani esperimenti di marketing elaborati dalla Direzione alla Valorizzazione.
Eppure, in tale convergenza di disastri, queste migliaia di ragazzi che hanno resistito nel loro impegno, nonostante retribuzioni orarie fra i 5 e i 10 euro lordi, e un reddito annuo che, nella grande maggioranza dei casi non supera i 10.000 euro lordi l’anno (la soglia di povertà secondo l’ISTAT), hanno sostanzialmente garantito, cifre alla mano, il mantenimento di un livello dignitoso alla gestione dei nostri musei, archivi, biblioteche, delle centinaia di interventi di archeologia preventiva o di emergenza.
Il quadro articolato di questa complessa galassia è stato fornito nella giornata della Bianchi Bandinelli dagli stessi giovani precari, di gran lunga i più efficaci, da Federico De Martino a Claudio Gamba a Tsao Cevoli e Salvo Barrano, che con le loro documentatissime relazioni hanno dimostrato, geometrico more, quanto la situazione in questo settore sia da allarme rosso: siamo di fronte ad una vera e propria bomba sociale costituita da ormai decine di migliaia di giovani (e non più tanto giovani, nel frattempo).
A completare, sotto il profilo emotivo, la crudezza dei dati numerici, un gruppo di giovani attori (a loro volta precari) ha recitato i racconti di vita dei precari dei beni culturali.
Purtroppo, la lettura delle storie e testimonianze di lavoro precario ha subito uno spostamento rispetto al programma e per lo stesso motivo un’interessante relazione sulle forme contrattuali è stata brutalmente interrotta per lasciar spazio al sottosegretario dei beni culturali Roberto Cecchi appalesatosi nel frattempo.
Costui, dopo un intervento più consono a chi avesse trascorso la sua vita in tutt’altre faccende affaccendato rispetto al mondo dei beni culturali e dopo aver persino pronunciato il famigerato enunciato “beni culturali come volano dello sviluppo”, con un gesto di arroganza che riuniva in sè il peggio del malcostume politico della prima e seconda repubblica assieme, al termine di un discorsetto in cui – lui, funzionario statale per oltre trent’anni e rappresentante del governo in carica - ha livorosamente ribadito il suo sdegno per tutti coloro che “demonizzano il privato”, se ne è sgattaiolato via, senza attendere un solo minuto, verso il successivo inderogabile impegno.
Ci dica, sottosegretario Cecchi, quali appuntamenti c’erano nella sua agenda, più importanti di ascoltare le ragioni, spietate nella neutrale freddezza delle cifre, struggenti nella rivisitazione teatrale, aggiornatissime e inedite nella loro sistematicità, di coloro che in condizioni, non solo precarie economicamente, ma spesso lesive della dignità professionale e umana contribuiscono in maniera ormai determinante a reggere il sempre più pericolante sistema della tutela del nostro patrimonio culturale?
Forse una svendita pronta cassa all’Abramovich di turno del brand pompeiano (essendo quello del Colosseo ormai indisponibile per i prossimi 15-20 anni)?
Nessuno si aspettava da lei risposte – non le ha sapute dare in trent’anni di carriera ai vertici del Mibac che la collocano di diritto nell’olimpo dei correi dell’attuale disastrosa situazione del ministero - ma il semplice doveroso ascolto, imprescindibile in chi riveste un ruolo che dovrebbe essere di servizio all’intera comunità dei cittadini e in primo luogo di coloro che per quel ministero da lei rappresentato lavorano con una passione persino un po’ incosciente.
Negli astanti, l’educazione ha prevalso sull’indignazione: e questo è stato forse l’unico neo di un’iniziativa che, seppur in altre forme, dovrà continuare.
Perchè se una speranza si è affacciata, in mezzo ai racconti sconsolati, alle riflessioni desolate, ai dati drammatici, mi sembra possa essere letta soprattutto in una nuova consapevolezza di questi giovani, ormai indisponibili a farsi illudere dalle chimere del posto fisso nel Ministero o nell’Università, istituzioni ormai sature e soprattutto bisognose, urgentemente, di una radicale riforma che dovrà essere gestita “dal basso”. Non tanto per pulsioni radicaliste, ma perchè, come è stato ampiamente dimostrato anche l’altro ieri, è in questa fetta della società, ormai sempre più importante dal punto di vista anche numerico, che si trovano le idee più innovative e le energie più (forse le sole) vitali.