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Eddytoriale 151 (20 febbraio 2012)
16 Agosto 2012
Eddytoriali 2010-2012

Si tratta di una nuova proposta di legge, promossa dalla struttura delle Camere di commercio volte a valorizzare le iniziative immobiliari (Tecnoborsa), con la complicità (ovviamente culturale) del Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori (Cnappc), del Consiglio nazionale degli ingegneri (Cni), del prof. Paolo Stella Richter, coadiuvati da alcuni tecnici.

La proposta è volta di fatto a consolidare e a renderli permanenti, introducendole nel diritto e nella prassi politica e amministrativa, due delle peggiori e più devastanti “innovazioni” della malcultura urbanistica degli anni Novanta: i “diritti edificatori” come ineluttabile privilegio assegnato al proprietario di un suolo per effetto di una decisione di uno strumento urbanistico generale; la “perequazione”, ossia l'attribuzione di un quantum di edificabilità a ciascun terreno investito dalla pianificazione urbanistica, sia esso destinato a edificazione privata o pubblica, a servizi e verde, a strade e così via.

Sul documento che ci accingiamo a commentare (e che riportiamo in calce), i promotori intendono «ricercare il più̀ ampio consenso possibile presso altri stakeholders istituzionali; per cui al fine di favorire una larga condivisione il testo sarà̀ trasmesso anche agli enti ed alle organizzazioni che compongono il Comitato tecnico scientifico di Tecnoborsa, nonché́ alle associazioni interessate ai settori della pianificazione, delle costruzioni e dell’immobiliare e alle pubbliche amministrazioni, in particolare comuni e regioni alle quali la legge attribuisce la competenza in materia». Cercheremo di fare altrettanto.

In rapida sintesi le proposta si concreta in una premessa, un premio e un passaggio operativo.

La premessa è un postulato assiomatico : esistono suoli che hanno una «vocazione edificatoria», ossia una «oggettiva predisposizione alla edificabilità̀». Essi non comprendono solo le aree già edificate legittimamente e quelle vincolate da un titolo abilitativo (concessione edilizia, permesso di costruire o altro) legittimamente rilasciato e non decaduto, ma anche le ulteriori categorie: «b) aree destinate all’edificazione dal piano urbanistico vigente alla data di entrata in vigore della presente legge; c) aree non edificate che risultino comprese nel perimetro dell’agglomerato urbano, o siano comunque già dotate delle opere di urbanizzazione primaria o per le quali le opere stesse risultino già̀ previste dal programma triennale delle opere pubbliche del Comune o per le quali infine il proprietario abbia già̀ assunto l’impegno di procedere alla loro realizzazione».

Chi cosa ottiene il premio, e in che consiste? Lo ottiene, manco a dirlo, il proprietario delle aree che hanno una siffatta vocazione. Innanzitutto quelle aree sono «soggette a perequazione urbanistica» (art. 3, comma 2); cioè, se il comune, con un successivo piano urbanistico, ritiene di dover eliminare o ridurre l'edificabilità su quell'area e su altre in analoghe condizioni (perché c'è sotto una falda idrica o una villa romana, o perché è ridotto il fabbisogno di aree edificabili, o perché l'esigenza della tutela del paesaggio e dei beni culturali ha indotto lo Stato ad ampliare le categorie di beni territoriali da sottoporre a protezione, o per qualunque altra motivata ragione che abbia indotto a modificare il precedente piano) il comune deve assicurare al proprietario di ottenere altrove il lucro che gli è stato donato con l'edificabilità, o comunque deve indennizzarlo per il ben tolto. E “naturalmente”, in caso di espropriazione per pubblica utilità, al proprietario verrà pagata un'indennità la quale comprende l'entità della sua “vocazione edificatoria”, mentre per le altre aree non “vocate” l'indennità sarà determinata applicando «la disciplina vigente per le aree agricole» (art. 8, comma 3). Insomma, l'articolo 42, comma 2 della Costituzione, che dispone che la Repubblica può espropriare un'area per motivi d'interesse generale salvo indennizzo, attua questa disposizione nel senso di renderla più favorevole al privato di quanto già oggi non sia.

Questi i vantaggi derivanti dalla premessa: premio al privato, penalità al pubblico. . Ma la “vocazione edificatoria” (questa espressione ci fa inorridire, ma dobbiamo continuare a scriverla) è tutt'altro che “oggettiva”. Lo si comprende dall'elencazione che il documento fa delle categorie di aree che la compongono. Diciamolo pure, è altamente discrezionale. Il passaggio operativo allora è quello di stabilire chi decide. Decide il comune: anzi, gli 8mila e passa comuni italiani, i quali, «con proprio atto tecnico di accertamento [...] individuano il perimetro dell’agglomerato urbano e le aree esterne a vocazione edificatoria». La regione, per conto suo, stabilirà quali sono «i presupposti specifici per il riconoscimento della vocazione edificatoria» (art. 3, comma 3).

Tralasciamo di segnalare, in questa prima valutazione della proposta immobiliarista, le incredibili norme sul trasferimento delle cubature una volta concesse e mai riducibili; trascuriamo le eccezioni di costituzionalità che si potrebbero fare a una siffatta legge, che accresce le sperequazioni tra i diversi soggetti interessati (non solo quella, fondamentale sebbene nessuno se ne preoccupi tra proprietari e non proprietari, ma quelle interne all'universo dei proprietari fondiari) e colpisce al cuore la responsabilità della Repubblica (in primo luogo dello Stato) di tutelare il paesaggio. Trascuriamo le incoerenze interne del pur breve articolato proposto (quale quella tra aree “vocate” e aree definite fabbricabili dal piano urbanistico). Ci sembra che già le nostre rapide annotazioni rivelino la vera natura del documento: accrescere ulteriormente il peso della rendita fondiaria urbana in Italia, rafforzare la disponibilità dei suoli a essere “vocati” alla trasformazione. Il “risultato atteso” dell’accettazione della logica, delle definizioni e dei meccanismi del progetto degli Immobiliaristi &Co. è quello della ripresa della spinta all’ulteriore consumo di suolo, all’espulsione dell’agricoltura dalle aree periurbane e via via da quelle più lontane, e in definitiva all’ulteriore estensione di quella repellente crosta di cemento e asfalto che già avvolge il nostro presente, e il futuro degli abitanti del Belpaese.

La speranza è che la proposta di Tecnoborsa e dei suoi volenterosi collaboratori raccolga la pronta e indignata reazione – in primo luogo – di quanti hanno abbracciato la causa della critica al “consumo di suolo”, della difesa del paesaggio e dell'ambiente, della promozione delle identità locali, e della costruzione di un'economia fondata sul lavoro (e sul suo impiego socialmente produttivo) e non sull'incremento della rendita fondiaria.

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