Dalle spiagge ai fiumi e alle caserme
Mario Sensini,
«Federalismo» e «demanio» son già, prese a sé stanti, due parole o, forse meglio, due concetti difficili da capire. Ma nel «federalismo demaniale» proposto dal governo come primo passo concreto di quella che un tempo si chiamava devolution, e che da qualche giorno riempie la cronaca politica italiana, si rischia davvero di perdere la strada. Che significa veramente? Cosa cambia per noi cittadini? Quanto ci costa? E, alla fine, chi ci guadagna?
Entro poche settimane il Parlamento, che sta esaminando il decreto legislativo che lo attua, e il governo, che dovrà poi recepirne le indicazioni prima di trasformarlo definitivamente in legge, dovranno dare risposte concrete. Il testo è vago, e i quesiti in ballo sono tanti. Almeno quanto è alta la posta in gioco, perché dietro quelle due parole così misteriose si nasconde una partita che vale miliardi di euro. Che può significare la fortuna di una città, ma anche la rovina di un’amministrazione incapace. Proviamo a capire.
La posta in gioco
Il Codice civile del 1942 stabilisce che lidi, spiagge, porti, fiumi, laghi, acque pubbliche, miniere, aeroporti, beni storici, archeologici e artistici, ferrovie, grandi strade, acquedotti, caserme, foreste appartengono allo Stato e sono gestiti dal Demanio. Nel frattempo, però, la nostra Repubblica è cambiata. Per la nuova Costituzione non è più formata solo dallo Stato, ma anche da Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane. E dunque anche loro hanno diritto ad avere e a gestire una parte del patrimonio pubblico.
Il decreto all’esame del Parlamento prevede, appunto, che a essi possano essere trasferiti alcuni beni demaniali, e introduce un concetto del tutto nuovo, la valorizzazione degli stessi. Non si parla di beni culturali, ma di spiagge, fiumi, laghi, immobili e terreni, caserme inutilizzate, miniere e piccoli aeroporti, per un valore di 3,2 miliardi di euro. È una valutazione a spanne, ma attendibile, fatta dal Demanio considerando i beni pubblici oggi inutilizzati. Sono valori sottostimati, calcolati sui prezzi ai quali sono iscritti nel bilancio pubblico, ma è comunque una «quota irrisoria» del patrimonio pubblico, come ha detto il direttore dell’Agenzia del Demanio, Maurizio Prato, l’altro giorno in Parlamento.
Un patrimonio sconosciuto
Calcolato con gli stessi parametri il patrimonio pubblico vale 49,7 miliardi di euro, anche se a prezzi «di mercato», secondo l’istituto di ricerche «Scenari immobiliari», ne vale quattro volte tanto, 200 e passa miliardi di euro, escludendo dal conto le università e i loro beni, il patrimonio artistico e culturale, il Demanio militare. E si tratta sempre di valori stimati, perché un censimento di tutti i beni pubblici, per assurdo che sia, non esiste. Lo stanno costruendo in questi giorni, perché lo impone l’ultima Finanziaria. Il termine concesso a tutte le amministrazioni per comunicare i beni posseduti scadeva il 31 marzo scorso, ma siamo ancora a metà dell’opera. Ci vorrà tutto il 2010, spiegano al Tesoro, per avere i dati completi.
Rendite misere
Anche se hanno un valore «irrisorio» rispetto al resto, alle Regioni e agli enti locali potrebbero andare 10 mila terreni e altrettanti immobili, 5 mila chilometri di spiagge, 234 corsi idrici, 550 chilometri quadrati di specchi lacustri. Un sacco di roba. Che oggi non rende praticamente nulla: secondo il Demanio 237 milioni di euro, ai quali vanno sottratti i costi di manutenzione (sconosciuti pure quelli!). Cedendoli a Regioni ed enti locali, comunque, lo Stato non ci rimetterà nulla, perché ridurrà i trasferimenti a chi li prenderà in carico per una somma pari a quella rendita (per giunta risparmiando sui costi di manutenzione). L’idea di base è quella di far fruttare questo patrimonio, girandolo a chi ha i mezzi per farlo rendere davvero: ad esempio i Comuni, che possono cambiare la destinazione d’uso di immobili e terreni con una variante urbanistica, oppure le Regioni, che oggi non hanno incentivi a legiferare sul turismo marittimo, che pure è di loro competenza, perché i canoni di concessione delle spiagge (la miseria di 97 milioni l’anno) li incassa lo Stato.
Valorizzare o vendere?
Mettere a reddito, però, può anche essere la premessa per vendere, visto che gli enti locali sono sempre a corto di soldi. E oggi non c’è una regola che gli impone di usare le somme incassate dalle privatizzazioni per ridurre il debito, come invece è obbligato a fare lo Stato. Anche se valgono poco, quei beni garantiscono comunque un pezzettino del debito pubblico, che domani sarebbe scoperto. Un problema molto serio, ma non l’unico, che il Parlamento e il governo dovranno chiarire.
Tempi troppo stretti?
Sciolti i nodi e varata la legge (si deve fare entro il 21 maggio), inizierà la corsa contro il tempo: entro il 21 agosto tutte le amministrazioni pubbliche centrali dovranno dire quali immobili e terreni vogliono tenersi e perché, e un mese dopo l’Agenzia del demanio pubblicherà l’elenco dei beni disponibili. Per la verità una prima lista all’Economia già ce l’hanno ed è su quella base che hanno stimato i 3,2 miliardi dei beni trasferibili. Ma la tengono chiusa a chiave in un cassetto, proprio perché, dicono, la scelta deve essere «motivata e responsabile». Entro il 21 dicembre Regioni ed enti locali dovranno, a loro volta, dire quali di quei beni vogliono prendersi. A partire dal 21 gennaio 2011 potranno essere varati i decreti per l’attribuzione ai nuovi proprietari. Tempi strettissimi anche a giudizio dell’Agenzia del demanio, che non a caso ha suggerito al governo di allungarli. Immaginiamo tuttavia che tutto fili liscio, e che dai primi mesi dell’anno prossimo il processo sia in moto. Chi ci assicura che la caserma abbandonata nel centro della città sia bonificata, restaurata, liberata dalle erbacce, se non dagli occupanti abusivi?
Si vota su Internet
La palla a questo punto passa agli amministratori locali. Sindaci, governatori, presidenti di provincia dovranno indicare sui siti Internet dell’amministrazione cosa intendono fare con i beni ricevuti. E qui entriamo in gioco noi contribuenti. Sì, perché la legge prevede che su questi progetti si possano indire delle consultazioni pubbliche, anche telematiche, tra i cittadini. Si vota, signori. Si può dire sì o no al nuovo supermercato o al nuovo albergo, al cinema o al museo. Le amministrazioni locali non sono obbligate a consultare i cittadini, ma le più avvedute e sagge lo faranno. E in quei casi la parola del popolo sarà legge. Ve l’immaginate il nuovo sindaco che, infischiandosene di quel che vogliono i suoi concittadini, decida di fare un bel centro commerciale al posto di un giardino pubblico?
«Non facciamola diventare una corsa all’oro»
Pierluigi Panza – intervista a Giulia Maria Crespi
«Atrii muscosi» e «fori cadenti» finiranno in mano ad avidi governatori e sindaci senza scrupoli pronti a far cassa affidando le spiagge ai bagnini e le rovine ai baristi?
Forse non accadrà nulla di tutto ciò, ma «prevenire è meglio che, poi, criticare». Questo lo slogan della combattiva Giulia Maria Crespi, presidente onorario del Fai.
«Sono d’accordo con l’allarme lanciato ieri da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera. I provvedimenti federalisti sul passaggio del patrimonio dallo Stato alle Regioni non sono ancora andati alla Camera; meglio bloccarsi ora, una volta approvati sarebbe più difficile modificarli».
Non che tutto vada protetto, nemmeno per la Crespi, perché altrimenti potremmo recintare l’intera Penisola...
«Sì, è vero, tanti immobili sono inutili, crollano e sono lì a far niente. E trovo che sia giusto affidarli a qualcuno perché possano servire a fruttare qualche soldo! Ma mi spaventa il passaggio del patrimonio dallo Stato alle Regioni, perché si apre una falla pericolosa nella nostra Costituzione. La Corte costituzionale ha ribadito nel 2007 che la tutela del paesaggio è di esclusiva competenza dello Stato».
La Crespi porta a sostegno della propria valutazione gli «omenoni» della Repubblica, anzitutto Einaudi, che diceva di non dividere «l’Italia in pillole».
«D’accordo, il processo di regionalizzazione è inarrestabile. Ma c’è un bene che la Costituzione affida con chiarezza allo Stato: questo è la tutela del patrimonio artistico e paesaggistico, perché i beni demaniali sono di tutti. E trovo che sia pericoloso passarli alle Regioni perché in questo momento c’è un’inarrestabile e avida corsa a depredare il territorio, e questa cosa spaventa. Avendo eliminato l’Ici, un errore grave, i Comuni saranno spinti a voler fare soldi altrove».
Insomma, bisogna sottrarre il «patrimonio» a quelli che fanno la corsa al «denaro». Quasi un ossimoro. Ma una soluzione c’è già: non cedere i beni vincolati.
«Sì, lo so, e in questo è stato bravo il ministro Bondi a ribadire che niente di quanto è vincolato si può toccare. Ma mi chiedo: sarà davvero così?».
Lei aveva timore, ricordiamo a Giulia Maria Crespi, anche quando entrò in vigore il codice Urbani; qualcuno parlava di Colosseo che sarebbe stato venduto. Poi con Rutelli il codice è stato approvato ed è diventato operativo con Bondi.
«La mia paura è che si terrà poco conto del vincolo, nonostante l’altolà di Bondi».
Per ovviare a questo rischio va tutelato il ruolo delle sovrintendenze, veri organi periferici, già «federalisti», dello Stato centrale.
«Trovo che il parere delle sovrintendenze debba rimanere, debba restare vincolante sul patrimonio e anche su ogni struttura urbanistica che va a incidere su paesaggi vincolati. È vero che le sovrintendenze sono organi sul territorio, ma si rifanno a una legge nazionale. Le Regioni potrebbero agire autonomamente».
Se i beni passassero alle Regioni, ma restassero anche le sovrintendenze, si creerebbero problemi decisionali...
«Anche se un terreno è vincolato, la Regione diventa più forte della sovrintendenza. Oggi un padre vende persino la figlia per denaro, figuriamoci se non si venderanno i terreni! Il patrimonio deve essere fonte di finanziamento per il turismo, invece siamo scesi al sesto posto. Il nostro patrimonio è una riserva aurea per turismo consapevole e di qualità».
Cosa teme di più?
«Ad esempio che tutte le spiagge vadano in concessione. S’inizia con il realizzare un gabinetto, poi un bar che diventa ristorante, quindi gli si aggiunge un negozio. E così la distruzione del patrimonio è fatta. Penso anche alle sponde dei laghi: vede cosa hanno già fatto? Si fanno abusi e poi non si tolgono. Se si trasferisce agli enti locali anche questo aspetto si apre una falla pericolosissima. Anche se per alcuni immobili inutili va bene. So che stanno predisponendo un elenco di beni che possono essere ceduti».
Sotto tiro ci sono anche i poligoni di tiro!
«È grave anche questo. I poligoni andrebbero sistemati e aperti come giardini. Anche quello di Milano, lungo viale Certosa. Per ora non è stato permesso».