I poteri assoluti hanno sempre prodotto effetti contrari a quelli promessi o desiderati. Sono falliti e falliscono per una ragione endogena, connaturata cioè alla loro stessa natura: la centralizzazione delle decisioni e delle responsabilità in una persona si traduce invariabilmente nell’impossibilità di prendere buone decisioni e, soprattutto, decisioni oneste.
Perché il piú onesto ed efficiente dei capi non può sopperire a un limite umano: l’impossibilità di sapere, prevedere e comprendere tutto e quindi prendere decisioni su uomini e cose che siano sagge. Questo nel migliore dei casi; nel caso appunto che le cattive decisioni siano l’esito di un errore non intenzionale da parte di chi tiene in mano la catena del comando e non può umanamente controllare che tutti gli anelli siano integri. Non è necessario che ci sia intenzione malevola. Questo dimostra il vulnus insito nell’idea che la celerità di decisione richieda centralizzazione e potere discrezionale assoluto, o al di sopra della legge.
Il liberalismo e il costituzionalismo sono nati non a caso nella fucina della critica dei poteri assoluti che incrostavano la società e lo stato dell’antico regime. E il perno della loro critica, vincente è stato proprio questo: le decisioni su questioni complesse come quelle pubbliche hanno la possibilità di essere migliori quando sono prese da un gruppo più o meno ampio, un collettivo, secondo regole che tutti conoscono e che, soprattutto, demandano ad altri il controllo e il monitoraggio. I controllori non possono essere anche autori. La risposta più radicale alle forme monocratiche di decisione è stata appunto la divisione dei poteri e delle funzioni. Se la gerarchia delle responsabilità serve a creare un team che opera celermente e bene è tuttavia su un sistema di controllo autonomo che riposa la possibilità di contare su buone decisioni. Questa vecchia regola è sempre nuova, e vale anche per la governance della Protezione civile o per qualunque organismo decisionale che si avvale di competenze diverse e soprattutto usa risorse pubbliche. Su questa base, assai semplice e intuitiva, si regge la possibilità di portare a termine decisioni che siano dettate da efficienza, competenza e trasparenza. La velocizzazione e l’efficienza delle decisioni non ha proprio nulla a che fare con le scorciatoie; mentre la trasparenza è una componente dell’efficienza e della competenza.
In questi anni di propaganda dell’emergenza si è fatto credere (chi ci governa ci ha fatto credere) che la politica sia la causa delle lentezze e della corruzione. Ma la politica dell’anti-politica ha generato una sottocultura dell’efficienza fittizia, quella fasulla celerità che pare venire naturalmente quando le regole e la giustizia sono aggirate. La politica dell’anti-politica si è tradotta nel mettere in moto un sistema arbitrario di decisori assoluti, un collage di zone d’ombra dove i radar della legge sono ciechi. Così sono nate agenzie cesaristiche e opere faraoniche. Così si è radicato l’aziendalismo nelle politiche pubbliche, un «fare» che fa capo non alla legge e alle regole ma a un uomo politico-imprenditore e ai suoi uomini di fiducia.
Questa è la logica cesaristica del «fare», la propaganda dell’emergenza finalizzata a creare zone franche dove a decidere del lecito e dell’illecito è la discrezione del facitore. Ma è più di questo, poiché per mantenere zone franche è necessario che si interrompa l’informazione e la partecipazione, che si blocchi la democrazia. Nel libro Potere assoluto. La protezione civile al tempo di Bertolaso, Manuele Bonaccorsi descrive così la vita nei campi post-terremoto all’Aquila: «I campi sono diventati subito campi militari, dove era impedito ai cittadini di riunirsi e discutere,» e questo per consentire di tenere tutto rigorosamente segreto, fuori dell’occhio del pubblico. La logica dell’emergenza non può che essere antidemocratica perché antipolitica: l’esito, come vediamo in questi giorni, non è efficienza ma spreco e malaffare.