L’articolo che segue, non descrive mai la forma dello spazio, e la lascia all’immaginazione, agli automatismi, alla conoscenza diretta del lettore. Credo che questa sia la sua forza. Non si tratta di un testo particolare, visto che racconta, in una città simile a tante altre, piccole storie familiari legate a un grande progetto urbanistico e sociale, gestito da una altrettanto grande agenzia pubblica per l’edilizia popolare. Siamo a Chicago, e potremmo essere – come si capisce da subito – anche a Londra, Parigi, Milano, ecc.
Ma la cosa più importante mi pare, appunto, il fatto che la forma dello spazio scivoli in secondo piano: sia skipped , per usare il termine con cui gli operatori sociali chiamano i soggetti usciti dalla visibilità. Non perché questa forma non sia importante, anzi a volte importantissima e vero caposaldo per la qualità generale della vita urbana, ma perché essa è solo una parte (e anche a volte, solo a volte, non importantissima) di questa vita.
Come ci raccontano le vive testimonianze delle solite madri-single -inquiline, c’è un’infinità di cose a costruire il neighborhood . Un’infinità di cose che non stanno (e perché dovrebbero starci?) nei disegni dei progettisti. Progettisti che, di conseguenza, hanno più o meno “fallito” non quando i loro luminosi corridoi puzzano di piscio e si incrostano di goffi graffiti, ma quando schizzi e prospettive nascono su tavoli distanti ed estranei – e magari non per propria colpa – alla domanda sociale su cui si sostengono. (fb)
Titolo originale Mixed tale for former residents of demolished CHA buildings – Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini
Magari di recente stavate guidando lungo la Dan Ryan, avete guardato in su verso le torri che si allineavano sul lato orientale della superstrada, e vi siete accorti che non c’erano più, a parte tre.
O può darsi che foste diretti a sud sulla Lake, vicino a Damen, quando avete notato linde casette dall’aria suburbana, dove una volta c’erano le famigerate Henry Horner Homes.
Oppure, ancora, stavate girando fra la Quarantunesima e Prairie, e avete visto che quell’edificio di sedici piani non esiste più.
Dopo aver assimilato il nuovo panorama urbano, sorge una domanda: dove è finita tutta la gente?
La risposta è una complicata miscela di cifre, persone, e politiche di abitazioni pubbliche. Ognuna delle circa 6.000 famiglie che hanno lasciato le case popolari da 1999 ha la sua particolare storia.
Alcune stanno ancora cercandola propria strada, mentre altre hanno trovato la felicità in altri quartieri. E anche se può sembrare una sorpresa a chi ha sentito solo storie di orrori sulla vita nelle case popolari, molti degli ex abitanti ancora rimpiangono le loro case multipiano.
Cifre
Nell’ottobre 1999, c’erano 16.428 famiglie che vivevano nelle case della Chicago Housing Authority con regolare contratto, secondo i registri dell’agenzia. Fra allora e l’ottobre 2003, 6.372 famiglie hanno lasciato la CHA. Molte di queste, 2.434, hanno accettato gli Housing Choice Vouchers (buoni casa, n.d.t.) a finanziamento federale, secondo il programma già chiamato “Sezione 8”, e hanno cercato fortuna nel mercato privato. La maggioranza spera di ritornare in alloggi CHA nei quartieri a tipologie per redditi misti, in corso di costruzione o allo stadio di progetto.
Le rimanenti 3.938 famiglie sono uscite dalle graduatorie delle abitazioni pubbliche per molte ragioni, tra cui morte o sfratto. Ma la maggioranza della popolazione che non ha optato per i vouchers e che è uscita dalle graduatorie, è “scivolata via”, ovvero non ha dato alla CHA alcuna spiegazione per andarsene, o ha informato l’agenzia che se ne stava andando verso varie destinazioni, compresa la coabitazione presso familiari o conoscenti.
Le circa 2.000 famiglie che sono “scivolate via” o se ne sono andate, sono quelle che preoccupano di più gli operatori delle case popolari e per i senzatetto. È perché si tratta delle frange più vulnerabili, che possono aver rinunciato a navigare attraverso la confusa burocrazia CHA, specialmente nei primi anni del piano di trasformazione.
Se i funzionari della CHA affermano di poter ricostruire la condizione di tutte le famiglie, escluse 300, che hanno lasciato le case, dichiarano anche di non essere responsabili per il mancato servizio a chi non ha partecipato alle assemblee, firmato le richieste, seguito le procedure. “Offriamo servizi a moltissime persone” ci dice Meghan Harte, direttore dei servizi generali per gli inquilini “Sono servizi volontari, e dunque se vogliono trarne vantaggio, possono; se non vogliono, non vogliono”.
Ma gli impegnati nel settore, come Katherine Waltz, avvocato del Sargent Shriver National Center on Poverty Law, dicono che la CHA si sta lavando le mani delle persone vittime della determinazione dell’agenzia nel demolire le abitazioni multipiano senza attivare un’adeguata pianificazione e informazione.
”Le famiglie sono state trascinate in questa corsa alla rilocalizzazione e non hanno potuto muoversi in tempo ... o contrattare il proprio percorso dentro a questo processo” ci dice Waltz” Se ne sono andate e hanno rinunciato”.
L’avvocato Richard Wheelock, che rappresenta gli inquilini CHA, ci dice “per un gran numero di queste famiglie, credo che la CHA abbia l’obbligo di seguirle perché se ne sono andate a causa delle condizioni di degrado degli alloggi”.
Che ha studiato il piano, come l’osservatore indipendente della CHA, Thomas Sullivan, ha criticato l’agenzia per non aver attivato adeguati servizi in loco nei primi anni del piano. Nel suo ultimi rapporto Sullivan afferma che ci sono ancora problemi, ma nota significativi miglioramenti nell’informazione e negli investimenti.
Meghan Harte afferma che il nuovo sistema computerizzato di monitoraggio – che aiuterà l’agenzia a ricostruire i movimenti degli inquilini dentro e fuori i quartieri – sarà completato e attivato entro la prossima settimana.
Il gruppo di lavoro CHA ha in programma di far visita anche a tutte le famiglie che hanno approfittato dei vouchers – oltre ai servizi offerti da appositi consulenti – e ha raggiunto la meta con circa il cinquanta per cento dei nuclei, secondo Harte.
Ci può essere bisogno di più di un trasloco per le famiglie voucher, nel trovare l’abitazione più adatta. Harte riconosce che il primo spostamento può essere verso zone non lontane dal proprio quartiere.
”La gente deve muoversi in zone dove ha amici, dove frequenta la chiesa e ha relazioni”.
Persone
* Frances Savage sta davanti all’edificio ad appartamenti al civico 4000 di South Calumet, nervosa perché deve traslocare per la terza volta da quando è stata costretta a lasciare la sua casa alle Washington Park Homes nel 2001, dopo ventisette anni.
Si guarda attorno, al prato pieno di immondizia che, dice, è in parte causa dei topi nell’edificio, e scuote la testa. Non è come doveva essere. Le avevano detto che la vita sarebbe stata migliore, una volta lasciato l’appartamento.
Come altri inquilini CHA, Savage ha avuto la scelta fra trasferirsi in un altro quartiere dell’istituto, oppure cercare la sorte nel mercato con un voucher. Spaventata dalla prospettiva di trascinare i suoi quattro figli – due dei quali adolescenti – nei territori sconosciuti di un altro quartiere popolare, Savage è scesa in campo col suo voucher.
Nonostante la CHA dicesse di voler aiutare la gente a trovare un nuovo appartamento, Savage afferma che il sostegno dell’agenzia ha lasciato molto a desiderare. “Cacciavano la gente in posti orribili”, dice.
Trovò un appartamento all’isolato 5600 della South Michigan. Come la maggior parte degli inquilini CHA Savage, 37 anni, trova casa in zone dove scuole e occasioni di lavoro non sono molto migliori di quelle che ha lasciato. Nel 2003, solo il 3 per cento degli inquilini voucher si sono trasferiti in “zone di opportunità” con migliori scuole e ambiente.
All’inizio il nuovo posto sembrava “OK”, ricorda Savage, “ma le bande in zona stavano cominciando a reclutare membri”. Così in agosto si trasferì nell’appartamento fra la Quarantesima e Calumet, in parte anche perché le mancava il vecchio quartiere. Era tornata in territori familiari, ma scoprì subito cha la casa era infestata dai topi. Dice che si lamentò con l’amministratore, senza risultati.
Savage, che ha una invalidità per lesioni alla spina dorsale, aveva anche problemi economici. Le bollette del gas da 200 dollari al mese pesavano. Così quest’estate ha fatto i bagagli e si è spostata di nuovo.
In aggiunta agli altri problemi, alla signora Savage manca il senso comunitario delle vecchia casa multipiano, dove i vicini potevano tener d’occhio l’appartamento quando lei era fuori.
”In questi isolati la gente non guarda in faccia a nessuno” ci dice “Qui ho paura a uscire di casa”.
** Secondo Denise Campbell, ex inquilina delle Stateway Gardens, l’esperienza da quando ha lasciato il quartiere dove viveva dall’età di 11 anni, è stata “un vero inferno”.
Campbell, di 43 anni, è stata una delle ultime persone a lasciare l’edificio al 3737 di South Federal, nelle Stateway Gardens, e si ricorda ancora benissimo la sera dell’ottobre 2000 in cui i funzionari le hanno detto che insieme ai suoi quattro ragazzi avrebbe dovuto uscire immediatamente. “Arrivarono quel lunedì con un camion da traslochi e dissero: Signora Campbell, lei deve andarsene”. “Mettono semplicemente la gente fuori, senza che sappia cosa l’aspetta”.
I funzionari CHA riconoscono che ci sono stati problemi nei primi tempi delle demolizioni. Dopo una costante raffica di critiche e minacce di causa, molti riconoscono che il comportamento dell’agenzia è migliorato.
La prima destinazione della signora Campbell è stata la casa di sua madre, all’isolato 5900 di South Wabash. Aveva paura, perché sua madre aveva altri problemi, e lei non voleva interferire. Restò lì fino al dicembre 2000, quando trovarono un appartamento in un edificio di pietra a tre piani fra la Sessantatreesima e Drexel.
Le cose stavano migliorando nel nuovo posto, pensò Campbell. “Mi piaceva” dice. “Poi nell’aprile 2001 scoprii che l’edificio era in fase di sgombero”.
Nel dicembre 2002 “vennero qui e misero tutti fuori sul marciapiede. Le cose furono rubate”.
Il suo nuovo spostamento fu a Roseland, fra la 117° e la State, dove vive ora.
”È un quartiere abbastanza dignitoso. L’unica cosa è che i trasporti sono scarsi e i negozi chiudono presto” dice. Anche la signora Campbell ha in programma di traslocare di nuovo quest’estate. Il figlio di 19 anni si è trasferito, e lei ora non ha più diritto a un’abitazione a quattro stanze. Dovrà trovarsene una da tre.
*** Nonostante il travaglio dell’affrontare il mercato privato della casa per la prima volta, c’è felicità fuori dai quartieri popolari. Provate a chiederlo a Donna Wade.
Wade, che ora ha 37 anni, era una bambina alle Stateway. Anche se ha dei bei ricordi dei suoi primi giorni nel quartiere, negli ultimi tempi l’edificio era diventato sempre più pericoloso per via degli occupanti abusivi e degli spacciatori. Wade iniziò a preparare il trasloco mesi prima che i camion arrivassero a portarla in un edifico a due piani all’isolato 6100 della Drexel. Compilò i moduli necessari e si presentò agli incontri con i consulenti, ma per la maggior parte si organizzò da sola la strategia di caccia alla casa.
Anche se lo spazio era abbastanza per lei e la figlia adolescente, l’intraprendente Wade guardava avanti. Circa quattro mesi fa, si è trasferita in una casa singola fra la 117° e Yale.
”Amo la mia casa” ci dice, “Ho sempre desiderato un giardino, una sala da pranzo e una cantina”.