foto f. bottini |
Mio nonno già sul finire del XIX secolo ne combinava di tutti i colori per scappare da quei campi nella grande pianura alla confluenza dei due fiumi. Aveva una innata abilità manuale, e invece di rovinarsele, le mani, con gli attrezzi agricoli, preferiva cose un po’ più industriali: la carpenteria ad esempio. Il legno poi se lo portò via lontano, a costruire aeroplani, che la campagna al massimo la guardavano da molto lontano, o la usavano come pista da atterraggio.
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Così anche mio padre, che di aeronautico costruiva solo modellini di balsa con “motore” a elastico, se ne è stato a rigorosa distanza da campi, fossi, filari e compagnia bella, allevando pure il sottoscritto nella totale indifferenza a quello che pure, nelle varie case suburbane dell’infanzia e dell’adolescenza, mi stava giusto davanti a gli occhi o sotto i piedi.
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In definitiva, ad essere onesti, tutto questo ritrovato entusiasmo per le campagne mi puzza un po’ di bufala. Ecco, esattamente: puzza, e fango che si appiccica sotto i piedi, e canicola d’estate con quella botta ai polmoni se il vento gira dalla parte sbagliata rispetto alle stalle, o nebbia che ti stronca morale e articolazioni in certe mattine giù in valle, quando dai rami gocciola il gelo della notte e del sole sopra la testa non si vede ancora traccia. E però.
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Però c’è anche l’aspetto, per così dire, postmoderno della questione, quello che il vecchio tricheco baffuto Ebenezer Howard chiamava già “ town-country” giusto mentre mio nonno, ignaro di queste riflessioni, se ne scappava dalle poco amate campagne a una pensioncina giusto nella periferia industriale dipinta da Boccioni. Una town-country metropolitana che nel bene e nel male oggi è il nostro spazio di vita quotidiano, dove tutto si mescola ed è difficile da distinguere. Forse anche impossibile da distinguere. E probabilmente anche sbagliato distinguere: cose come la città e la campagna in senso tradizionale, nella regione metropolitana sono concetti privi di senso. Lì tutto interagisce, deve farlo, e chi ci sta in mezzo deve cercare di capirlo. Tutti quanti, intendo.
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Sono sicuro che in qualche modo l’ha capito Giovanni Gronda, che giovedì (ore 17, Cassinetta di Lugagnano, Palazzo Comunale) presenta il suo progetto di percorso ciclabile metropolitano Grande Gronda. Basta provare, idealmente o meno, a seguire con un dito su una mappa i nomi delle località elencate, per tracciare uno schema storico-geografico di straordinario interesse, e infatti si osserva come il percorso “potrebbe favorire la nascita di un turismo eco-compatibile che contribuisca allo sviluppo sostenibile dei territori attraversati”. Però credo che ci sia di più, e di meglio. Opinione personale naturalmente, ma le mie idee istintive sulla campagna e relativi miti le ho già spiegate prima e non posso farne a meno: che certi fumosi sottopassi tra Gaggiano e il Ticinese, o il patchwork di prefabbricati e granturco di Inzago, possano diventare l’idillio pastorale del terzo millennio, pare ipotesi abbastanza remota.
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Per fortuna. E anche, all’opposto, addomesticare troppo certi cuori di tenebra palustri nelle anse dell’Adda a nord di Brivio, tirare a lucido i boschi di Coarezza nel tratto a monte del Ticino, con la campagna e la natura non pare azzeccarci molto, no?
Credo che, indipendentemente dai pur auspicabili risultati pratici dell’idea GrandeGronda, un suo portato ideale e immediato sia quello di mettere le basi di una nuova coscienza. C’è una recente canzonetta da cabaret che recita più o meno “diamoci un’aria metropolitana, in questa provincia italiana, diamoci un’aria metropolitana, da Baggio alla Martesana”. Molto seria e profonda la riflessione, nonostante il tono scanzonato. Dice in sostanza, non prendiamoci troppo sul serio, ma ricordiamoci sempre che certi localismi e ansie di ritorno al passato fanno solo ridere, e fanno solo il gioco di chi sfrutta queste nostre confuse aspirazioni a proprio vantaggio.
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Che altro è, ad esempio, l’arcaica pensata centrodestra ciellina e milanocentrica del capoluogo da due milioni, e contemporaneamente la strategia local-leghista dei sindaci nel Parco Sud che rivendicano un proprio “sviluppo del territorio” a colpi di nuove lottizzazioni di dubbia utilità? Uno dei risultati di Grande Gronda è appunto quello di proporre una prospettiva di osservazione della realtà territoriale ad altezza d’occhio umano, stavolta senza né i morsi della fame contadina, né il mito della velocità futurista stroncato negli ingorghi della Tangenziale, presente e futura.
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Iniziare insomma a riflettere davvero e sul serio sulla metropolitan community locale, e farlo dal basso, visto che chi pretende di guidarci si dimostra a ogni passaggio sempre più inadeguato. O magari crede di rappresentare qualcun altro, chissà.
Comunque, forse lo pensava anche il vecchio tricheco Ebenezer Howard contemplando la sua bella pensata di town-country: hai voluto la bicicletta? E adesso pedala!