Sosteneva Eugenio Turri che la bellezza dei centri storici della nostra regione è derivata dalla loro funzione di vetrine nelle quali la nobiltà spendeva i redditi ricavati dalle campagne, esibendoli nei nobili palazzi che fiancheggiano le principali vie cittadine, a partire da Canal Grande a Venezia sino a corso Palladio a Vicenza, corso Cavour a Verona, via XX Settembre a Conegliano e così via. “Ma alla bellezza delle città – scrive sempre Eugenio Turri – corrispondeva allo stesso modo quella delle campagne, perché lo spirito che muoveva la cultura dei signori, anche se non tutti impegnati nello stesso modo, era quella di far produrre i campi attraverso un uso sapiente delle conoscenze agrarie alla cui crescita attendevano esperti prestigiosi e molti degli stessi nobili, appassionati e attenti gestori delle loro possessioni” (E. Turri, La megalopoli padana, 2004).
A testimonianza di quanto fosse ben disegnato il paesaggio agrario veneto dei secoli passati, Turri cita una annotazione dello scrittore settecentesco Charles De Brosse, che affermava non esistere scena più bella o meglio ornata di quella offerta dalla campagna che si estende tra Vicenza e Padova, una terra che “vale forse da sola tutto il viaggio in Italia”.
Di questo paesaggio, patrimonio storico culturale di inestimabile valore ed imprescindibile elemento costitutivo dell’identità veneta, rimangono oggi solo frammenti sparsi, isole circondate e progressivamente sommerse da una inarrestabile alluvione di cemento. “La chiesa romanica – osserva ancora Eugenio Turri – accanto al capannone, il paesaggio dolcissimo dei colli con le ville venete straordinarie testimonianze del passato, offeso dai residences banali, da architetture che nulla hanno attinto dalle meravigliose scuole degli architetti ed artisti veneti”.
In un graffiante articolo pubblicato dal Corriere della Sera del 18 settembre 2004, Gian Antonio Stella, riportando i dati presentati ad un convegno organizzato a Montecchio dall’Accademia Olimpica, denunciava con molta efficacia l’inverosimile consumo di territorio agricolo e la sistematica distruzione di paesaggio e risorse agrarie causati – in particolare nell’area vicentina – dall’allora tanto celebrato modello di sviluppo economico veneto. Nella provincia di Vicenza tra il 1991 ed il 2001 si era registrato un incremento di 52.mila abitanti (dei quali 37.140 stranieri immigrati), a cui era corrisposta una crescita di edilizia residenziale di 56 milioni di metri cubi: per ogni nuovo abitante si erano costruiti oltre 1.070 mc di nuovi fabbricati ed un numero di abitazioni quattro volte superiore a quelle necessarie rispetto all’incremento del numero delle famiglie. Una volumetria complessiva che si può tradurre nell’immagine di un capannone largo 10 metri, alto 10 e lungo 560 chilometri.
In quel decennio la provincia di Vicenza registrava la perdita di oltre 18.mila ettari di terreno agricolo. Una distruzione di risorse dovuta all’entità delle nuove volumetrie residenziali e non, ma anche alla caotica dispersione dei nuovi insediamenti nel territorio periurbano e rurale: in 50 anni, dal 1950 al 2000, a fronte di un incremento del 32 % della popolazione provinciale (da 608.mila a 807.mila abitanti), la superficie urbanizzata era aumentata del 342 %, ovvero di dieci volte tanto (da 8.674 ettari a 28.137 ettari). L’occupazione e impermeabilizzazione dei suoli, un’edilizia incurante dei problemi energetici, il boom dell’auto e del trasporto privato, l’inquinamento indotto, un’economia fondata sulla crescita illimitata dei consumi e sulle logiche dell'usa e getta, facevano sì che l’impronta ecologica di ogni vicentino risultasse pari a 3,9 ettari, ovvero undici volte superiore alla quantità di terreno biologicamente attivo effettivamente disponibile nella provincia di Vicenza (pari a circa 0,33 ettari/abitante).
La situazione di Vicenza non era certo un’eccezione nel panorama della nostra regione ed in particolare nella sua area centrale: un’area che, occupando il 25,7 % del territorio, accoglie il 50,7 % della popolazione ed il 47,2 % della abitazioni (930.mila al censimento del 2001, delle quali ben 80.mila non occupate). Una vera e propria nebulosa insediativa, una metropoli sorta spontaneamente senza alcun disegno ordinatore e senza i servizi e le infrastrutture di una metropoli, caratterizzata dalla ingombrante presenza di capannoni, centri commerciali, lottizzazioni residenziali disseminati senza alcuna logica apparente se non quella del profitto immediato dei proprietari delle aree e con l’avvallo di amministrazioni locali compiacenti, sempre pronte ad approvare varianti e variatine di piano regolatore illudendosi di poter rimpinguare i propri bilanci con le entrate dell’ICI.
Un consumo di territorio talmente abnorme da far sì che lo stesso presidente della Regione, Giancarlo Galan, si sentì in dovere di proclamare alla stampa nella primavera del 2003 : “Basta capannoni!”. Un proclama che, purtroppo, venne smentito dallo stesso Galan un anno e mezzo dopo in un convegno di Forza Italia tenutosi a Cortina.
Nell’aprile 2004 il Consiglio Regionale approva la nuova legge urbanistica, che riprende molte delle novità e degli indirizzi legislativi già in vigore in altre regioni del centro e nord Italia. E’ significativo rileggere le ragioni ed i criteri che – secondo la Relazione al Consiglio presentata dall’allora Presidente della 2.a Commissione, Raffaele Buzzoni – ispiravano i contenuti della nuova legge. Tra questi la necessità di promuovere uno sviluppo sostenibile e durevole, la volontà di tutelare il paesaggio e la qualità degli insediamenti e la presa d’atto che, pur in presenza di un “territorio completamente pianificato”, si era verificata una “sostanziale incapacità di governare e controllare in modo adeguato la pianificazione territoriale” e che si erano “assecondati processi di spontaneismo insediativi, sia residenziale che produttivo” che hanno prodotto “un sistema disordinato che rischia di pregiudicare ogni ulteriore crescita economica”, un processo di disordinata urbanizzazione del territorio riproposto dai vigenti PRG, che “evidenziano una crescita esponenziale di nuove zone residenziali e produttive non accompagnata da una seria e adeguata valutazione del reale fabbisogno e da una attenta verifica dello stato di attuazione delle aree già esistenti”, il tutto connesso all’intenzione dei Comuni di ricavar “maggiori introiti dall’ICI e dagli oneri di urbanizzazione”.
Pur non essendo la migliore delle leggi possibili, la nuova legge urbanistica del Veneto indica alcune importanti finalità prioritarie, in una logica di governance in grado di combinare progetti e programmi con l’effettiva gestione nel tempo delle trasformazioni territoriali, ed introduce nuovi strumenti di piano quali l’articolazione del vecchio PRG in PAT (piano strutturale) e Piani d’intervento, i PATI (piani intercomunali di assetto territoriale), la perequazione, la compensazione urbanistica ed i crediti edilizi, l’obbligatorietà della VAS – Valutazione ambientale strategica. C’era dunque da sperare che la nuova legge urbanistica favorisse l’affermarsi di una svolta radicale nella pianificazione territoriale, condizionando e modificando in positivo lo stesso modello di sviluppo economico e sociale veneto. Purtroppo così non è stato.
L’annuncio della nuova legge e poi le molte proroghe e deroghe concesse prima della sua effettiva entrata in vigore hanno determinato una corsa generalizzata alla presentazione da parte dei Comuni di nuove varianti di PRG, di nuove lottizzazioni e urbanizzazioni. Il nuovo PTRC – Piano Territoriale Regionale di Coordinamento, i cui studi vennero avviati con la “Carta di Asiago” del febbraio 2004 e che dovrebbe recepire le indicazioni della Convenzione Europea del Paesaggio, pur preannunciato nei contenuti da molti documenti preliminari, deve ancora vedere la luce mentre i piani territoriali provinciali ed i PATI, quand’anche orientati ad una maggiore tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e naturale, quasi mai si traducono in una normativa prescrittiva e vincolante e/o in strumenti in grado di conferire effettiva operatività alle previsioni di piano, lasciando troppo ampi margini di discrezionalità ai Comuni, legittimati a continuare – soprattutto sul versante dell’edilizia residenziale – il gioco perverso del sovradimensionamento volumetrico dei propri PAT in funzione di fabbisogni abitativi tanto generici quanto spesso del tutto fantasiosi (anche perché attualmente l’unico vero fabbisogno è quello di case in affitto a canone sociale per le classi economicamente più deboli e per gli immigrati, una domanda abitativa che non trova certo risposta nelle iniziative edilizie della grande speculazione immobiliare).
Nel 2004, l’anno della nuova legge urbanistica, i Comuni del Veneto autorizzano 38 milioni di mc di nuovi capannoni commerciali e 18 milioni di mc di volumetrie residenziali (Benedetta Castiglioni e Viviana Ferrario, ARS n. 114, 2007), superando la media di 40 milioni di mc di nuovi fabbricati realizzati annualmente nel Veneto dal 2001 ad oggi. Un boom edilizio, sorretto soprattutto dalla bolla speculativa che ha caratterizzato la finanza nazionale ed internazionale di questi ultimi anni. Un boom che non ha eguali nel passato e che fa sì che la nostra regione si collochi al primo posto in Italia per l’entità dei volumi di edilizia residenziale e non residenziale annualmente autorizzati con concessione edilizia dai Comuni. Un quadro d’insieme decisamente preoccupante, ben descritto da Tiziano Tempesta dell’Università di Padova, che osserva come le nuove abitazioni costruite dal 2000 al 2004 sono potenzialmente in grado di dare alloggio a circa 600.mila nuovi abitanti: se anche rimanessero costanti gli elevati tassi d’incremento demografico registrati negli ultimi anni per effetto dei nuovi fenomeni migratori, ci vorranno circa 15 anni per utilizzare tutte le case messe in cantiere (Tiziano Tempesta, Agripolis – Legnaro, 2007).
Tutti sembrano convenire sulla necessità di porre un freno alle disastrose conseguenze sociali ed ambientali dei meccanismi della rendita fondiaria e della speculazione immobiliare, meccanismi che non sembrano avere più alcuna diretta relazione con l’effettivo fabbisogno espresso dalla domanda abitativa e dalla produzione industriale. Eppure non c’è amministrazione comunale che non rivendichi la possibilità di consumare quota parte dei residui terreni agricoli ed ambiti naturalistici del proprio territorio per realizzare nuove infrastrutture e consentire nuove urbanizzazioni e lottizzazioni. Una rivendicazione motivata anche dal fatto che – data la sempre maggiore scarsità di risorse finanziarie – non vi sarebbe oggi altro modo di realizzare gli standard urbanistici previsti dai piani regolatori (verde, scuole, nuove strade, centri civici, servizi in generale,…) se non concedendo nuove cubature edificabili ai proprietari dei terreni. E’ la via della cosiddetta “perequazione urbanistica”, ultimo provvidenziale rimedio per i Comuni che – anche negli anni di vacche grasse – si sono limitati a disegnare il verde pubblico sulle carte di piano senza procedere all’acquisizione delle aree e che oggi – dopo le sentenze della Corte Costituzionale che impongono la corresponsione di una indennità per i vincoli finalizzati all’esproprio e che hanno elevato il valore dell’esproprio al valore di mercato – non ritengono che la creazione di nuovi parchi e spazi verdi debba essere una priorità di bilancio.
Certo la “perequazione urbanistica” (consistente di fatto nella concessione di nuove volumetrie edificabili ai proprietari privati in cambio della cessione al Comune di quota parte dei terreni di proprietà) può risultare, a determinate condizioni, uno strumento utile per l’attuazione delle previsioni di piano. Nella visione e nella pratica urbanistica di molti amministratori sembra però prevalere una interpretazione dei meccanismi perequativi quale soluzione taumaturgica di tutti i problemi della pianificazione urbanistica. Non solo. Subordinando l’attuazione degli indirizzi di piano all’iniziativa dei privati, questa interpretazione della perequazione costituisce di fatto un implicito riconoscimento di uno “jus aedificandi” connaturato alla proprietà dei suoli, un diritto che l’ente pubblico potrebbe solo regolamentare ma non negare (anche se in realtà nessuna legge dello stato italiano lo ha mai esplicitamente riconosciuto). E’ quanto ad esempio avvenuto a Padova dove – anticipando la stessa legislazione regionale – con una Variante di PRG (approvata con i voti sia dal centrodestra che dal centrosinistra) si sono trasformati oltre 4,7 milioni di mq di aree destinate a verde pubblico in aree di perequazione, sia pure con indici differenziati, delegando ai privati il progetto delle nuove lottizzazioni ed ottenendone in cambio uno spezzatino di aree di verde pubblico in mezzo o ai margini dei nuovi caseggiati. In realtà la perequazione è un’arma a doppio taglio, destinata a generare il fallimento di ogni politica urbana se il Comune non si pone come soggetto attivo, come protagonista diretto della progettazione e della gestione delle trasformazioni urbane, non limitando la propria funzione a quella di certificatore delle iniziative dei privati. La perequazione non può essere considerata il fine della pianificazione urbanistica, bensì solo come uno tra i possibili strumenti operativi del piano, da applicarsi a specifici comparti urbani e non indiscriminatamente a tutto il territorio, per l’attuazione di un chiaro e condiviso progetto di città pubblica e di infrastrutture ecologiche, così come ad esempio è avvenuto per la formazione di una cintura verde periurbana a Ravenna o per realizzazione di un organico sistema del verde urbano a Jesi e Vercelli. Prioritario deve sempre essere un disegno urbano che ponga l’accento sugli spazi aperti ed i servizi destinati alla vita comunitaria, sulla costruzione di una rete ecologica urbana connessa alle risorse naturalistiche del territorio, ed è in funzione di questo disegno che – situazione per situazione – può essere giudicato utile un accordo perequativo con i privati. Un accordo che, in generale, preveda la salvaguardia integrale degli spazi a più elevata valenza ambientale ed il trasferimento dei “diritti edificatori” concessi in altro ambito urbano (“perequazione ad arcipelago” o compensazione urbanistica), preferibilmente in aree dimesse e/o degradate ove effettuare interventi di recupero e riqualificazione urbanistica ed ambientale.
Purtroppo nella maggior parte delle amministrazioni locali sembra ancora prevalere una logica del giorno per giorno ed una prassi di pura e semplice “ragioneria urbanistica”. Una prassi sganciata da ogni visione strategica a cui continua a corrispondere una sostanziale incapacità di pianificazione e di governo a più ampia scala da parte degli enti sovraordinati. Una prassi che – con processi di tipo molecolare, ma non per questo meno dirompenti – prosegue imperturbabile nell’opera di sistematica distruzione del paesaggio.
“Un paesaggio, per usare ancora una volta le parole di Eugenio Turri, che più che brutto è noioso, irritante nella sua ripetitività, senza sorprese, con il suo traffico intasato sulle sue strade principali, la macchina come elemento onnipresente, onnivoro, insopportabile”. Le uniche iniziative di più ampio respiro a scala territoriale che sembrano destinate al successo – in sintonia spesso con le nuove complanari, tangenziali, raccordi anulari e camionabili finanziate dalle società autostradali per veder rinnovate le loro concessioni – risultano essere quelle della grande speculazione immobiliare, finalizzate alla realizzazione – in luoghi sensibili del territorio regionale – di mega centri commerciali e per il tempo libero. I casi più clamorosi – di seguito riportati – sono quelli del faraonico progetto di “Euroworld” nel delta del Po, della “Città dei motori” , tra Verona e Mantova, di “Veneto City”, tra Venezia e Padova nelle vicinanze della Riviera del Brenta. Progetti che spesso trovano convinti sostenitori tra gli amministratori regionali e che già oggi determinano tutta una serie di attese ed operazioni speculative sulle aree interessate o limitrofe e la progettazione di nuove infrastrutture di supporto, quali la camionabile prevista sul tracciato (o a lato) della mai completata idrovia Padova-Mare.
Che fare? Senza dubbio uno dei compiti fondamentali delle associazioni ambientaliste continua ad essere quello della battaglia in difesa dei beni storici e paesaggistici del nostro territorio, di quanto ancora si conserva del passato, della denuncia di una prassi urbanistica miope e dello smascheramento di operazioni immobiliari che – in nome di un preteso quanto spesso fantomatico sviluppo economico – rispondono solo agli interessi di alcune società private distruggendo beni comuni e luoghi identitari della nostra collettività.
Ma l'azione di denuncia non è sufficiente. Distruzione e degrado del paesaggio e del territorio possono essere efficacemente contrastati solo avendo la capacità di proporre strategie e progetti alternativi, fondati su una lettura del territorio quale ecosistema complesso che può essere riqualificato e rigenerato con un insieme integrato di interventi finalizzati alla formazione di una rete continua di siti e corridoi ecologici in grado di assicurare la biodiversità, di contribuire al disinquinamento dell'aria e dei suoli e di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, al potenziamento del sistema della mobilità e dei trasporti collettivi (in particolare su ferro) pianificando in relazione a detto sistema una più equilibrata distribuzione dell'edificato e dei servizi a scala metropolitana, all'affermazione della cultura e dell'innovazione tecnologica connessa all'ecologia quali motori del rinnovamento urbano. Strategie di lungo periodo e progetti concreti per la tutela dei paesaggi storici e dei beni naturalistici, ma anche per la costruzione di nuovi, più sostenibili e gradevoli paesaggi urbani e periurbani, riconoscendo – come fa la Convenzione Europea del Paesaggio – che il paesaggio, se pianificato e gestito in modo adeguato, può divenire un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni, svolgendo fondamentali funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituendo una risorsa favorevole allo stesso sviluppo economico.
E' essenziale sottolineare come, ai fini della formazione di paesaggi di più elevata qualità estetica ed ecologica anche in ambito periurbano oltre che in aperta campagna, un ruolo decisivo deve essere attribuito alle tecniche ed all'organizzazione delle attività agricole. Ricordavamo all'inizio come il paesaggio veneto – in particolare quello agrario – sia stato, con quello toscano, uno dei più prestigiosi a livello nazionale ed europeo. Va però anche ricordato che il paesaggio agrario è il frutto di un processo di antropizzazione della natura e dell'evolversi delle culture e delle tecniche di coltivazione; è, come scriveva Emilio Sereni, “... quella forma che l'uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale” (E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano). Si può, in altri termini, affermare che il paesaggio – quello agrario in particolare – deriva da un progetto di civilizzazione, è l'espressione di una civiltà e di una cultura. La bellezza, il valore estetico di un paesaggio derivano soprattutto dalla sua capacità di rendere leggibile il senso, l'ordine, le relazioni intercorrenti, il significato culturale delle sue componenti. Non è sufficiente salvaguardare una villa veneta od una casa rurale tipologicamente ed architettonicamente significativa, se nel contempo se ne distrugge il contesto, il rapporto un tempo esistente con l'organizzazione del territorio. Nella percezione di un paesaggio, oltre alla dimensione ecologica (espressa dal rispetto delle leggi che regolano la biodiversità e l'evoluzione naturale, la riproducibilità dei componenti), sono fondamentali la dimensione culturale e simbolica. “Il paesaggio – afferma il sociologo Georg Simmel – non è ancora dato quando cose di ogni specie si estendono, l'una accanto all'altra, su un pezzo di terra e vengono viste immediatamente insieme... così come una quantità di libri accatastati non è una biblioteca, ma lo diventa quando un concetto unificante li ordina secondo il proprio criterio formale”.
Fondamentale è dunque salvaguardare le colture ed i terreni agricoli anche nell'area centrale della nebulosa metropolitana veneta ovvero nei luoghi oggi soggetti ad una più intensa attività di infrastrutturazione ed urbanizzazione. Senza tutela del mondo rurale – ha scritto di recente Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food – sia per quanto riguarda la sua produttività, sia per quanto riguarda la sua bellezza, non può esserci tutela dell'ambiente e del paesaggio (La Repubblica, 5 ottobre 2008). Negli ultimi quindici anni, se si fa un confronto tra i censimenti agricoli del 1990 e del 2005, in Italia sono spariti più di 3 milioni di ettari di superfici libere da costruzioni e infrastrutture, un'area più grande del Lazio e dell'Abruzzo messi insieme. Di questi 3 milioni poco meno di 2 milioni di ettari erano superfici agrarie. “E' uno dei più grandi mutamenti, afferma sempre Carlo Petrini, che il nostro Paese ha subito nel secondo dopoguerra e non accenna a diminuire: sparisce la campagna, insieme ai contadini, si perdono spesso i terreni più fertili in pianura e in prima collina. Gli appezzamenti che resistono sembra che stiano lì, in attesa che qualcuno ci speculi su. Il suolo, se non muore a colpi di fertilizzanti o pesticidi, sparisce... E' uno scempio senza fine, che pregiudica la qualità delle nostre vite in termini ecologici e anche gastronomici. Sì: gastronomici, perché ne va anche del nostro cibo, della sua qualità, della sua varietà e della possibilità di poterlo comprare senza che provenga da un altro continente, con tutti gli enormi problemi che ne conseguono”.
Con l'entrata in vigore della nuova legge urbanistica regionale, Regione, Province e Comuni hanno avviato un processo di revisione e ridisegno dei propri strumenti urbanistici. E' dunque questo il momento di intervenire, evitando che in attesa dei nuovi piani continui l'aggressione al territorio e richiedendo che a tutti i livelli della pianificazione – in stretta connessione con la programmazione economica e sociale e con l'allocazione delle risorse di bilancio – divenga centrale non solo il tema della formazione di una rete ecologica in grado di compenetrare gli stessi ambiti urbani, ma anche specificamente quello della riconversione biologica delle attività agricole. Significativo è, da questo punto di vista, l'esempio della Germania dove governo federale e Länder promuovono e finanziano per l'attuazione dei piani paesaggistici specifici progetti di ricomposizione fondiaria e riordino territoriale, coinvolgendo direttamente nell'elaborazione dei piani agricoltori, allevatori, proprietari dei boschi, cittadini e associazioni ambientaliste. Progetti che prevedono specifici contributi o sgravi fiscali per chi rinuncia all'uso di fertilizzanti chimici e provvede alla manutenzione di vigneti, frutteti storici e strade alberate, al ripristino di muri a secco e terrazzamenti, siepi di confine e recinzioni tradizionali ed al restauro degli edifici rurali.
Vige in Germania, nell'ambito delle procedure pianificatorie, il “principio di cooperazione”, in quanto si ritiene che la salvaguardia del patrimonio naturale ed il controllo della pressione antropica sull'ambiente siano difficilmente realizzabili senza la collaborazione attiva dei cittadini. L'obbligatorietà del coinvolgimento e della partecipazione dei cittadini – sia pure ancora con molti limiti ed ambiguità – viene affermata anche dalla nuova legislazione urbanistica delle nostre Regioni e dalle procedure indicate dalla Comunità Europea per la formulazione della VAS – Valutazione Ambientale Strategica prevista per la pianificazione urbanistica e territoriale. E' un principio di cui, come associazioni ambientaliste, dobbiamo rivendicare la più ampia applicazione, proponendo regole chiare e procedure obbligatorie, che non possono certo esaurirsi nel meccanismo tradizionale delle “Osservazioni” a giochi conclusi e delle “Controdeduzioni” (che nel 99 per cento dei casi respingono la Osservazioni presentate da cittadini e associazioni, in quanto ritenute “non congruenti” con l'impostazione del piano adottato dall'amministrazione).
L'elaborazione dei piani territoriali ed urbanistici, a partire dall'impostazione degli studi preliminari sino alla fase delle fondamentali scelte strategiche e della definizione delle priorità d'intervento, deve divenire un'importante occasione per attivare un processo di”apprendimento collettivo”, un processo di crescita del “capitale sociale” che – come sostiene l'urbanista Roberto Camagni – deve avvenire attraverso la promozione della comunicazione, della partecipazione, della fiducia e della cooperazione, ovvero attraverso la mobilitazione di tutta la società civile”. Un processo partecipativo e cooperativo che deve operare ai diversi livelli istituzionali, ma anche attraverso il dialogo costante con i cittadini e l'associazionismo economico, sociale, culturale ed ambientalista, finalizzato alla costruzione di una visione condivisa del futuro delle comunità locali, condizione essenziale per assicurare efficacia agli stessi strumenti di piano.
Novembre 2008
Il testo in formato .pdf è scaricabile qui.