la Repubblica
Recentemente è apparso un libro bellissimo, Popolocrazia, di Ilvo Diamanti e Marc Lazar, che mi augurerei fosse letto dal numero più ampio di italiani, e in modo particolare di politici italiani, per la natura precisa e circostanziata delle analisi. La mia opinione è che il termine-concetto “ populismo” sia inappropriato alla materia che pretenderebbe di descrivere: e che perciò, usato a sproposito (non è certo il caso di Diamanti e Lazar), possa produrre qualche equivoco. Perché “inappropriato”? Perché il termine-concetto, da cui esso prende ovviamente origine, è a sua volta desueto e inappropriato alla materia da descrivere. In che senso? Nel senso che il “popolo” - non più in questo caso termine-concetto, ma realtà politico-sociale attivamente presente sul piano storico - sta uscendo di scena da diversi decenni. Dove accade questo? In tutte - io penso - le forme di democrazia rappresentativa esistenti e funzionanti nel mondo occidentale, ma soprattutto qui in Italia.
Il “popolo”, storicamente inteso, è un organismo estremamente complesso, fatto di classi, ceti sociali, orientamenti culturali e ideali, categorie professionali, ecc. spesso in lotta fra loro, ma al tempo stesso sempre, o quasi sempre, riunificati alla fine sotto il segno di un interesse comune (non a caso il concetto di “popolo” è storicamente connesso con quello di Nazione). È ciò di cui si trattava, quando io scrissi Scrittori e popolo nel 1965: in cui rampognavo il Pci di aver optato per la complessità e al tempo stesso unitarietà (nazionale) del popolo invece di rappresentare strategicamente la diversità antagonistica della classe operaia. Non negavo che ci fosse “ il popolo”, e neanche ne attaccavo la radice storico- sociale (capirai, aveva fatto la Resistenza!): negavo che il “ popolo”, proprio in ragione di quella complessità e di quella finale unitarietà, potesse diventare il protagonista di una lotta seriamente rivoluzionaria.
Ora di quella complessità, e al tempo stesso di quella finale unitarietà, non esiste quasi più nulla. Sarebbe da studiare in che misura la crisi politica ha messo in crisi la sfera sociale; e in che misura la crisi sociale ha messo in crisi la sfera politica. È indubbio peraltro che l’uscita di scena dei due grandi partiti (italiani, s’intende, in questo caso), il Pci e la Dc, abbia contribuito alla rapida disgregazione di quel sistema e all’altrettanto rapido e inesorabile affermarsi di questo.
Se non c’è più il “popolo”, cosa c’è? Io dico - l’ho già detto altrove - che c’è la “massa”. La “massa” è il vero protagonista dell’attuale momento storico nel mondo occidentale, ma con virulenza particolare in Italia. Il concetto di “massa”, cui io penso e di cui mi servo, sta a significare quella realtà umano-sociale in cui caratteri e funzioni delle principali forme associative e identitarie sono sempre meno visibili e sempre meno rilevanti (dai sindacati ai partiti): mentre prevale una caratterizzazione individuale in senso stretto, di singolo individuo accanto a singolo individuo. Però questi singoli individui tendono sempre di più ad assomigliarsi fra loro, diversamente dal passato, a riconoscersi e, appunto, a “far massa”. Non hanno altro modo, la società e la politica oggi non offrono altro modo per riconoscere che ci sono.
Quello che si costituisce è perciò un agglomerato confuso e oscillante, peraltro non contraddittorio, o meno contraddittorio che in passato, al proprio interno; quindi, in un certo senso, particolarmente coeso e uniforme, che risponde soltanto a quei messaggi che corrispondono di più ai suoi fondamentali modi di essere, e che consistono essenzialmente in un atteggiamento di esaltazione e gratificazione dei suoi fondamentali modi di essere. Il sociale diventa ipso facto l’ideale. La proposta politica e ideale (se tale si può definire) consiste essenzialmente nel garantire alla “massa” che si costituiranno le condizioni (monetarie, economiche, sociali e istituzionali) perché le sia consentito di restare, sostanzialmente, quello che è (la predicazione di Beppe Grillo e Matteo Salvini è da questo punto di vista anche retoricamente esemplare; il programma del Reddito di cittadinanza va risolutamente in questa direzione).
Esiste una vasta ed estremamente autorevole bibliografia di studi e interpretazioni della “massa”, quasi tutta però concentrata nella fase storica che va dagli inizi agli anni ‘30 del secolo scorso. Come mai? Ma perché in quella fase veniva maturando quell’estesa, profonda e drammatica crisi della democrazia rappresentativa che avrebbe portato in Italia e in Germania all’avvento del fascismo e del nazismo, movimenti come pochi altri di “ massa”. Non voglio tentare paragoni azzardati, anzi, non li penso neanche. Però non c’è dubbio che in ogni manifestazione di “massa” ci sia una componente mentale totalitaria: essere per sé quel che si è, e basta. Oggi infatti predominano - anche a livello di “massa”, sì, di “massa”, - il disprezzo sostanziale per la democrazia rappresentativa e il rifiuto, anzi, di più, l’ignoranza di qualsiasi elemento storico (Resistenza, Costituzione, organizzazione visibile ed esplicita degli interessi, ecc.) abbia costituito finora la concreta manifestazione di un’identità italiana sopra le parti (non caso, insieme al termine-concetto di “popolo”, tramonta ancor più decisamente quello di Nazione).
Siamo di fronte, dunque, al compito sovrumano che consiste non nel combattere il “populismo” ma nel tentare di ricostituire e rimettere in piedi un “ popolo”, sottraendolo alla dissoluzione nella “massa” (se sono la stessa cosa, tanto meglio). Affrontare questo compito tuttavia non si può, almeno dal nostro punto di vista, senza chiederci e chiarire perché la Sinistra in tutte le sue forme non ha impedito la retrocessione e l’inabissamento del “popolo” nella “massa”, anzi ha favorito il formarsi e l’emergere della “massa” come elemento costitutivo fondamentale del nostro (italiano) modo di pensare, progettare e fare politica. Cioè ha operato il proprio suicidio.