Non è vero che per riparare i danni dei terremoti si possa intervenire soltanto dopo. Se chi comanda sapesse vedere appena un po' più in la del suo naso (e della crescita del Pil, e degli affari). L'analisi sconvolgente di un esperto, un grave atto d'accusa.
Dopo i terremoti devastanti, superato il primo drammatico impatto, i governi di ogni stagione hanno dovuto sempre recuperare una condizione penalizzante: l’esito troppo severo, un lutto immenso, la penosa desolazione dell’impotenza manifesta nel dare protezione. Si cerca di rendere accettabile ciò che non lo è, le giustificazioni sono espresse al superlativo: il disastro è sempre enorme, l’evento di inaudita potenza, l’esito assolutamente imprevedibile. Un attimo dopo interviene l’impegno perentorio: il governo si mobiliterà affinché queste cose non capitino più. Anzi si promette qualcosa anche di più ambizioso: la messa in sicurezza del territorio, espressione priva di senso compiuto, senza forse rendersi conto dell’irraggiungibilità di quell’obiettivo nel paese dei tanti rischi.
E’ l’impegno del giorno dopo, mosso da un bel po’ di coscienza opaca per avere già tradito quello della penultima volta; è la reiterata promessa che vuol avere un’azione tranquillizzante, sedativa nei confronti delle reazioni, delle polemiche montanti sulle macerie. Si cerca di chi è la colpa, si denuncia la lentezza dei soccorsi, il collasso inaspettato di edifici che non dovrebbero subirlo: di scuole, di ospedali, di caserme, dei luoghi da cui dovrebbe muoversi chi soccorre piuttosto di esser loro stessi soccorsi. Il mancato allarme, il “si poteva prevedere”, spunta quasi sempre, e qualche volta anche a ragione, soprattutto se il segno sulle carte del rischio aveva un colore rosso scuro e se un raro terremoto ha lanciato qualche segnale premonitore del suo arrivo che non si è voluto riconoscere.
Tutto è consentito per rassicurare quando il terremoto, nella consapevolezza collettiva, nella percezione delle dimensioni del rischio incombente, diviene un evento minaccioso il cui effetto distruttivo sembra non poter essere contrastato. Proprio come sta accadendo in quest’inizio di secolo, cominciato piuttosto male: nel 2002 a San Giuliano di Puglia, un piccolo terremoto che fa cadere una scuola su una scolaresca; ancora nel 2009, centouno anni dopo Messina e Reggio Calabria, un altro capoluogo, di regione, L’Aquila, viene sconquassata da un terremoto che non è nemmeno il suo massimo storico. Passano altri quattro anni, nel 2012 una scossa molto violenta colpisce l’Emilia mettendo a terra intere filiere produttive tanto ricche quanto incredibilmente fragili. Poi, nel 2016 accade che Amatrice, sulla quale la protezione della normativa sismica operava da quasi un secolo, viene polverizzata da una scossa di magnitudo 6.0, e deve piangere 298 vittime.
Poco dopo, invece, Norcia, con una magnitudo superiore di 6.5 non ha nessuna vittima e solo danni relativamente consistenti. Ma Norcia era stata già ricostruita due volte nel ‘79 e nel ‘97 del secolo scorso dopo altrettanti terremoti, e quindi una considerazione raggelante: essere stati rassicurati a lungo dalla nostra prevenzione, come ad Amatrice, non serve; piuttosto è necessario essere sopravvissuti a due terremoti distruttivi ed esser stati poi gratificati da altrettante ricostruzioni oneste e qualificate come a Norcia. Ulteriore riscontro, quindi, alla conclamata insufficienza dell’azione di prevenzione durata più di un secolo, attraverso il lentissimo procedere della classificazione sismica del territorio e l’applicazione, nei comuni via via classificati, della normativa tecnica ma solo per le nuove costruzioni.
D’altronde nessuno può far finta di non sapere da sempre che l’azione di prevenzione inaugurata dal terremoto di Reggio e Messina nel 1908, ad un secolo di distanza non ha dato quello che per altro non aveva mai potuto promettere: la protezione del patrimonio edilizio più antico e nemmeno di quello recente dove la classificazione era arrivata tardi. Insomma, che la prevenzione fosse una coperta corta era cosa nota, ma forse si è a lungo sperato che fosse almeno un po’ più pesante. Il patrimonio edilizio più antico così è diventato lo zoccolo duro del problema, mentre nuove fragilità si sono aggiunte. Come a Casamicciola, già rasa al suolo nel 1883, dove l’ultimo terremoto del ’17 ha riproposto il tema dell’abusivismo, dell’impressionante quantità di edilizia illegale che ha devastato l’isola verde, come veniva chiamata Ischia, determinando nuove tragiche vulnerabilità.
Inizio secolo, quindi, preoccupante nei numeri: circa 650 vittime, un cinquantina di miliardi il costo dei terremoti, delle ricostruzioni. Impegni di spesa che si protrarranno sul bilancio per i prossimi vent’anni, sommandosi al mutuo contratto per cinquantuno anni per la riparazione del Belice colpito nel ‘68; per quarantatre anni, fino al 2023, per l’Irpinia; fino al 2024 per il terremoto del ’97 in Umbria e Marche. Per la ricostruzione di L’Aquila si finirà invece di pagare nel 2034. E così via. Ogni anno lo Stato è chiamato a impegnare 3-4 miliardi per le rate dei tanti debiti contratti. Più di 200 miliardi spesi in 70 anni nelle ricostruzioni post terremoto, quasi quattro volte quelli necessari per intervenire sulle alluvioni di questo paese; il numero di vittime poi è inconfrontabile.
In questa contabilità, è inaccettabile la distanza tra quanto speso per ripristinare, per ricostruire e quanto destinato alla difesa dai terremoti. La prevenzione fondata sulla classificazione sismica del territorio, durata per tutto lo scorso secolo e ancora in esercizio, è stata a costo zero, tutta a carico dei cittadini. Poi, in questi ultimi decenni, avare politiche di piccolo cabotaggio, varate, come si è detto, subito dopo l’ultimo terremoto. Un esempio per tutti, nel 2009, la legge n.77, con cui il Governo avviava la tribolata ricostruzione di L’Aquila, prendeva un impegno ambizioso già nel titolo dell’art.11: “Piano nazionale di riduzione del Rischio sismico”. Fu ancora una volta un provvedimento tampone, il tentativo imbarazzante di riparare all’evidente sottovalutazione del rischio a cui era esposta una città. Quell’articolo contemplava un finanziamento per l’intero paese di 965 milioni di Euro, spalmato in sette annualità. A conti fatti, a ciascuno dei 2893 comuni individuati come a maggior rischio -se questi fossero stati scelti come destinatari dei finanziamenti- sarebbero toccati complessivamente 330mila Euro, l’incredibile cifra di 43mila Euro l’anno.
Nonostante la sua obiettiva inconsistenza, quell’intervento legislativo venne fortemente propagandato come l’avvio di un nuovo corso. D’altronde si annaspava allora tra le macerie non rimosse di L’Aquila e il Governo per più di una ragione si trovava sotto pressione per la gestione dell’immediato dopo terremoto ed in particolare per la scelta delle 19 new town, alternative all’idea di dar luogo ad una celere e determinata azione di ricostruzione della città. Di quel Piano non si è saputo più nulla, nessun documento, nessun atto, nessun seguito. Otto anni dopo ad Amatrice di quell’ambizioso impegno di ridurre il rischio sismico non se ne è ricordato più nessuno, nemmeno al Dipartimento di protezione civile presso cui era incardinato, così il Presidente del Consiglio ne ha proposto uno tutto nuovo, dentro un più complicato impianto di problemi di varia natura. Nel progetto del Presidente Renzi, illustrato in un’intervista all’agenzia Askanews il 29.08.’16, veniva esplicitato l’intento di dar corso all’ “adeguamento antisismico ma anche gli investimenti sulle scuole, sulle periferie, sul dissesto idrogeologico, sulle bonifiche e sui depuratori, sulle strade e sulle ferrovie, sulle dighe, sulle case popolari, sugli impianti sportivi e la banda larga, sull'efficientamento energetico, sulle manutenzioni, sui beni culturali e sui simboli della nostra comunità”.
Venivano così elencati i numerosi e disomogenei obiettivi dell’iniziativa di governo, messi tutt’insieme per essere spalmati in un arco temporale lunghissimo, durante il quale tre o quattro generazioni si sarebbero dovute impegnare per risolverli; più o meno un secolo per spendere una quantità enorme anche se indefinita di risorse mai individuate.
Così il Governo Gentiloni ha trovato nella legge di stabilità 2017 un posto per la prevenzione del millennio appena iniziato, ha ipotizzato una soluzione per il gigantesco problema sismico del paese, il “sisma bonus”. Tutto molto semplice: il cittadino virtuoso che percepisce il rischio di vivere in una casa non protetta chiede allo Stato un contributo per migliorarne la resistenza al sisma. Nulla di nuovo in realtà; dalla seconda metà degli anni ’90, con qualche discontinuità, si concedono bonus per ridurre il rischio sismico, senza tuttavia aver riscosso un grande successo. Ma questa volta l’impegno finanziario è smisurato e si è deciso di regolare solo minimamente il processo. Per farlo due sole cose: delle Linee guida di natura tecnica predisposte dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici ed un decreto approvativo del Ministro delle infrastrutture. Così il mandato della legge di stabilità prende direttamente il via.
Una straordinaria facilità di accesso al bonus, un brevissimo percorso tra la Stato dispensatore delle risorse ed il cittadino, nessun filtro e nessuna verifica. Ci si aspettava, invece, che quanto messo in campo fosse davvero “un progetto”, che la sua applicazione fosse regolata, pianificata. Le Linee guida riguardano esclusivamente le modalità con cui ciascun edificio potrà essere valutato all’inizio in termini di rischio e verificato, alla fine dell’intervento, all’interno in un apposita graduatoria articolata tra la lettera A+ e la lettera G. Allo scopo si riempiono due schede di valutazione e le Linee guida spiegano anche come si procede nell’istruttoria fino al raggiungimento del risultato finale che consta nel miglioramento sismico della strutture. Se si riesce a far muovere l’edificio di due lettere di quella graduatoria si può ottenere il massimo contributo al costo dei lavori di ogni tipo necessari, l’80 percento. Ma se anche non si riesce a ottenere un incremento di sicurezza, o anche solo per il fatto di aver operato una verifica sismica dell’edificio, si ottiene un contributo del 50% della spesa sostenuta.
In qualsiasi prospettiva si operi è fissato comunque un tetto di 96mila Euro per ciascuna unità immobiliare. Il contributo viene erogato sotto forma di credito d’imposta, spalmato su cinque anni, a chi abbia un qualche titolo, anche non di proprietà, su prime o seconde case. Enorme è l’estensione del progetto, la platea di potenziali adesioni all’iniziativa, circa il 60% del territorio nazionale. In tale dimensione sono racchiusi i 706 comuni in Zona A (alta sismicità), i 2187 comuni in Zona B (media sismicità) e, davvero sorprendentemente, i 2866 comuni in Zona C a bassa sismicità. In tutto 5.759 comuni nei quali i titolari di qualsiasi diritto sull’immobile, proprietari ma anche affittuari, potranno rivolgere le richieste del contributo al Ministero dell’economia e finanze. La durata è stata prudentemente prevista in cinque anni, ma l’iniziativa si prefigura come un intervento strutturale al quale affidare il compito di portare a compimento la tante volte richiamata ma indefinita “messa in sicurezza del territorio”, in un tempo anch’esso indefinito ma certamente secolare.
Insomma, in un ambito dove lo squilibrio esistente tra le risorse disponibili e quelle necessarie per fare prevenzione è gigantesco, si rinuncia a qualsiasi distinzione, a ogni considerazione fondata su un esame di priorità, mettendo insieme territori ad alto rischio, dove sistematicamente gli ultimi terremoti hanno compiuto enormi disastri, con quelli a bassa sismicità dove la probabilità di collasso di un edificio, obiettivo perseguito dall’azione di prevenzione, è estremamente limitata. Insomma gli abitanti di Amatrice o della Calabria tutta ad alto rischio, avranno le stesse possibilità di accesso alle risorse di prevenzione di quelli di Roma o Trento. Le macroscopiche differenze tra diversi contesti, la necessità di attribuire ovvie priorità, non conta nell’astratta atmosfera in cui sembra muoversi l’accesso al bonus senza distinzioni.
Le prospettive, quindi, per un’operazione a pioggia che sembra indirizzata ad ottenere il più largo consenso popolare, sono molto incerte. Per il momento ha riscosso il plauso incondizionato delle professioni coinvolte, delle imprese, degli amministratori pubblici, tutti terminali di un intervento di Stato che semplicemente promette risorse. Ma il tema da affrontare era quello di alleviare la drammatica pressione del rischio sismico sulla popolazione, o piuttosto contribuire a rilanciare l’edilizia in periodo di crisi? Niente di male se così fosse, ma è essenziale la chiarezza d’intenti. Proprio per far chiarezza, allora, è bene proporre alcune considerazioni sulle dimensioni finanziarie dell’iniziativa, sulle difficoltà concrete che i virtuosi cittadini dovranno affrontare, ma soprattutto sugli effetti collaterali che potrà avere sul territorio.
Il “sisma bonus”, come tutti i progetti fondati sulla spontanea adesione degli aventi diritto, ha un campo di variabilità compreso tra zero e il 100%. Quest’ultima ipotesi, o comunque un’altissima adesione, non è nemmeno ipotizzabile per l’impegno di risorse che determinerebbe. E’ necessario allora attestarsi su una dimensione plausibile; fare l’ipotesi, per esempio, che solo il 30% degli aventi diritto presenti nei 2893 comuni a rischio sismico più elevato -escludendone così poco meno della metà, quei 2866 della Zona 3 a bassa sismicità- vogliano aderire all’iniziativa e che ottengano solo il 50% dell’agevolazione massima concedibile, cioè 43.000 Euro. Sotto queste condizioni estremamente conservative il fabbisogno sarebbe di circa 176 miliardi di Euro[1].
Quindi circa 1.8 miliardi l’anno per un secolo o poco meno di 6 miliardi l’anno per 30 anni. Tanti soldi da investire dove nessuna risorsa significativa è stata mai messa, troppa generosità per essere credibile di questi tempi. Ma comunque nessuna paura di tracollo finanziario, il rubinetto è nelle mani del Ministero economia e finanze che attraverso ogni la legge di stabilità potrà decidere quante risorse rendere disponibili ogni anno. Per esempio pare ci siano appena 300 milioni di Euro per il 2017.
Comunque, si tratta forse di cent’anni e oltre 176 miliardi per proteggere nella migliore delle ipotesi il 30% di ciò che è vulnerabile, che non è davvero tutto ciò che incide sull’obiettivo “messa in sicurezza del territorio”, che è cosa ben diversa. Interventi sparsi chissà dove in più di mezza Italia, senza alcuna priorità davvero dettata dalla ricorrenza e severità degli eventi, né dalla vulnerabilità del contesto. Insomma, non una strategia ma piuttosto un’iniziativa poco mirata, affatto selettiva, sulla quale è stata riversata la minima quantità immaginabile di scienza e conoscenza, del cui poco uso proprio in prevenzione, da sempre, ci si lamenta. Si stabilisce semplicemente un canale diretto tra Stato che rende disponibili risorse e il cittadino che tende la mano; nessun livello intermedio di controllo, di verifica, nessun elemento di pianificazione; salta qualsiasi livello di sussidiarietà, qualsiasi possibilità di guardare dalla prossimità gli aspetti salienti della questione, di fare sintesi tra la sicurezza sismica ed i tanti altri problemi di qualità, tutela e precauzione che affliggono il territorio.
La promessa di tante risorse da spargere come capita, da spendere sulla base dell’inerzia di un volano regolato solo dalla quantità di soldi che si fanno cadere nei suoi ingranaggi. E’ previsto un monitoraggio -che vuol dire che forse a posteriori si saprà dove quei soldi sono caduti- ma nessuno strumento per determinare a priori dove potranno andare a cadere. Altro che riqualificazione delle aree urbane, altro che ricucitura delle periferie, altro che battaglie per la “messa in sicurezza del territorio dai vari rischi che lo affliggono”, piuttosto un intervento a pioggia in cui è messo al centro del problema solo l’edificio, alcuni edifici.
Per capire di che si tratta basta immaginare il paesaggio del degrado infinito di molte periferie, case e palazzotti fatti di blocchetti, senza intonaco e con i ferri d’attesa sempre protesi verso il cielo, dove magari l’iniziativa del Governo andrà benissimo. E Casamicciola di agosto 2017, e la crudezza della vista dal cielo di Ischia con la sua urbanizzazione selvaggia, con i suoi 28.000 condoni? In che modo si relazionano questi scenari con il “sisma bonus” nei termini della qualità delle soluzioni praticabili? Il deprecato abusivismo dalle dimensioni enormi che affligge il paese, magari legalizzato ma che è rimasto certamente insicuro, potrà avere l’agevolazione promessa. E poi c‘è da considerare che per 1000 metri quadri fatti di 10 abitazioni da 80 metri quadri e 200 di parti comuni si può arrivare ad un contributo di oltre un milione di Euro. In certi contesti ci si costruisce il nuovo. Si stenta a credere davvero che questa sia la soluzione senza conoscenza, senza guida che si propone per quasi l’intero meridione.
Ma ci si spinge anche oltre il degradato, guardando in giro si intravedono alberghi che sbarrano valli montane dove, se nevica moltissimo, può succedere che viene giù anche una valanga mostruosa. E poi ancora, in qualche posto si cova la speranza che magari, prima o poi, almeno qualche migliaio di metri cubi da un’area esondabile, da una golena potrà essere delocalizzato; che un po’ di urbanizzato, a suo tempo magari abusivo, lo si possa un giorno riqualificare non dal solo punto di vista edilizio e della sicurezza. Tutto questo, invece, in assenza di una valutazione di prossimità, potrà essere per sempre asseverato; perderà la possibilità di venire per altre ragioni sanato, diventerà forse meno vulnerabile ai terremoti ma resterà per altre mille cause a rischio.
Così, il “sisma bonus” crea l’incredibile imbarazzo di fornire riflessioni sufficienti per sperare che un’iniziativa indirizzata alla prevenzione, ma così discutibilmente confezionata, non abbia nemmeno il modesto successo a cui può aspirare. Nel tempo secolare di attesa che l’iniziativa abbia un successo limitato ed affatto mirato, un'altra decina di terremoti distruttivi avrà colpito il paese nei medesimi posti dove ripetutamente si era già proposto con forza. Dopo cento anni alle spalle di risultati modestissimi, dominati dal binomio classificazione/normativa, sul piano della prevenzione si propone un altro strumento inefficace accompagnato da tante controindicazioni, da tanti effetti collaterali. Certo non si può pensare di poter raccontare, alle nuove vittime e superstiti dei terremoti che verranno, che null’altro si sarebbe potuto fare di meglio di un non progetto lungo cent’anni, molto costoso, distribuito sul territorio di mezz’Italia con la visione strategica del “si salvi chi può”.
[1] Calcolo effettuato in base ai dati desunti dal rapporto ANCE/CRESME – 2012 “Lo stato del territorio italiano” relativamente ai soli 2.893 comuni a maggior rischio (non temendo conto dei 2003 comuni a basso rischio sismico pur inclusi nell’iniziativa) nei quali sono presenti 11.700.000 abitazioni, 395.000 edifici non residenziali, 95.000 capannoni industriali, 79.000 edifici commerciali. Ciascuno di essi è stato ritenuto soggetto abilitato (abitazioni e edifici produttivi) a richiedere l’agevolazione per un totale di 12.270.000 unità. L’adesione è stata ridotta al 30%, quindi 4.090.000 unità per le quali è stato cautelativamente stimato un importo dell’agevolazione concessa al 50% del massimo erogabile, pari a € 43.000. Il fabbisogno necessario ad esaudire tale ipotesi è di circa 176 miliardi di Euro.