C’è il ragazzo che indossa una maschera con la faccia del ministro degli Interni Marco Minniti versione vampiro, con i canini ben appuntiti che spuntano dalla bocca. E poi, poco più avanti, ci sono decine di ragazzi e ragazze che portano stretto alla vita o sulle spalle il telo termico color oro con cui i soccorritori coprono i migranti salvati dal mare. «Questo telo è un segno di solidarietà nei confronti di tutti gli uomini e le donne che rischiano la morte per fuggire», spiega una ragazza.
Non sono i quasi centomila che solo cinque mesi fa, a maggio, hanno riempito le strade di Milano in una grande manifestazione per l’accoglienza dei migranti, ma di questi tempi i circa ventimila (secondo gli organizzatori) che ieri hanno attraversato Roma per manifestare contro il razzismo rappresentano pur sempre un risultato di tutto rispetto. Come sa bene Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale dell’Arci, che infatti non nasconde la sua soddisfazione. «Considerato il momento che stiamo attraversando il risultato è molto buono», dice quando il corteo è già arrivato a piazza Vittorio, tappa finale della giornata. «L’iniziativa di oggi fa ben sperare per l’avvio di una stagione di mobilitazioni di cui abbiamo bisogno per dare maggiore spazio a chi non ha voce perché considerato ininfluente dal punto di vista elettorale», commenta Miraglia.
Contro il razzismo, per la giustizia e l’uguaglianza», c’è scritto sullo striscione che dà il via al corteo. Alla manifestazione indetta dall’Arci hanno aderito un centinaio di associazioni e organizzazioni, insieme al vescovo emerito di Caserta, monsignor Raffaele Nogaro, ad Andrea Camilleri, Moni Ovadia e don Luigi Ciotti: «L’immigrazione non è un reato perché non è reato la speranza», ha spiegato ancora ieri il fondatore di Libera e del Gruppo Abele. «Oggi ci troviamo invece a fare i conti con un sistema che garantisce il privilegio di pochi e toglie la speranza a tutti gli altri».
Il razzismo non è l’unico tema del corteo. Negli slogan, sugli striscioni e dagli altoparlanti montati sui camion si lanciano parole d’ordine anche sul diritto alla casa e a favore dello ius soli, la legge che permetterebbe a oltre ottocento mila ragazzi, figli di immigrati, di diventare cittadini italiani. Ma soprattutto contro gli accordi stretti dall’Italia con la Libia e che se finora hanno ridotto drasticamente gli arrivi lungo le coste del paese – come vantava ancora ieri il ministro Minniti – non sono certo serviti a rendere più umane le condizioni di vita dei migranti che si trovano ancora nel paese nordafricano, prigionieri delle milizie e rinchiusi in centri dove subiscono violenze di ogni genere. «Si parla sempre di immigrati, ma mai delle cause che la genera, che sono le politiche dell’occidente che hanno prodotto fame», dice Essane Niagne, nata in Italia ma originaria della Costa d’Avorio.
Dalla Campania sono arrivati sette pullman. Su uno di questi hanno viaggiato i giocatori della Rlc Lions Ska di Caserta, squadra che gioca in terza divisione «Rfc» sta per «Ritieniti fortemente coinvolto», e il messaggio è chiaro. Il 70% dei giocatori è composto da ragazzi immigrati, il 60% dei quali sono richiedenti asilo. Il calcio per loro è un ottimo modo per integrarsi, ma spesso può significare anche sbattere la faccia contro l’ignoranza della gente. «A una partita ci hanno gridato negri di merda», ricorda Makan, che viene dal Mali e nonostante tutto riesce ancora a sorridere. «Purtroppo sono episodi che capitano sempre più spesso. Quest’anno non c’è stata una partita senza insulti», conferma Marco Prato, cofondatore, nel 2011, della squadra.
Un razzismo che non appartiene solo alle curve degli stadi. A piazza Vittorio, da sopra il cassone di un camion trasformato in palco per l’occasione, una ragazza spiega cosa significa sentirsi italiani senza esserlo per colpa dell’ostruzionismo che blocca la riforma della cittadinanza. «Non siamo immigrati eppure non siamo nemmeno cittadini italiani. Vogliamo solo essere riconosciuti per la nostra identità».