che-fare.com, online, 14 giugno 2017 (c.m.c.)
Francesco Lenzini, Riti urbani Spazi di rappresentazione sociale (Quodlibet) 2017, pp. 144
Nella società individualizzata il bisogno insopprimibile di socialità connaturato alla natura umana si concretizza in nuove forme di aggregazione transitorie il cui scopo è quello di neutralizzare il disagio intrinseco alla condizione di isolamento. Emergono così le cosiddette comunità esplosive, che trovano nell’intensità esperienziale di un evento catalizzante il loro motivo di coesione. Questo evento catalizzante – sia esso il concerto rock, il flash mob, o l’apparizione del personaggio mediatico – diviene il fulcro di un collettivo sovra locale, che spesso si costituisce via etere prima ancora che concretamente.
Si tratta di forme di raggruppamento temporanee che raccolgono individui provenienti da diversi contesti geografici, culturali, etnici, religiosi ecc. Benché nel giudizio di alcuni sociologi queste comunità esplosive disperdano anziché condensare l’energia dei potenziali impulsi socializzanti, esse detengono un peso notevole nella costruzione di un immaginario collettivo globalizzato.
Del resto la transitorietà entro la quale queste esperienze di socialità si svolgono non corrisponde necessariamente ad una connotazione spregiativa della qualità dei rapporti interpersonali che vengono ad istituirsi. Pur trattandosi di aggregazioni provvisorie, come osserva Michel Maffesoli, queste condensazioni possono infatti innescare processi di forte compartecipazione emotiva.
«Cambiando il proprio costume di scena, secondo i suoi gusti (sessuali, culturali, amicali) ciascuno prende parte ogni giorno ai diversi giochi del theatrum mundi». Attraverso un’antropologia della performance le pratiche delle comunità esplosive riportano lo spazio pubblico ad una dimensione teatrale, in cui gli individui si muovono seguendo sequenze di gesti ritualizzati. Lo svolgimento di questi eventi si struttura secondo patterns consolidati che consentono l’interazione regolata dei partecipanti, veicolandone al contempo le reazioni emotive.
Questa formalizzazione dei comportamenti si riflette nella conformazione e nell’attrezzatura dello spazio pubblico secondo regole grammaticali comuni. Il processo di spettacolarizzazione della realtà si riflette nella crescente offerta di spazi consoni ad eventi di massa temporanei: il progetto dello spazio pubblico perde così progressivamente quelle caratteristiche di domesticità legate agli usi delle collettività locali per assecondare queste nuove forme di ritualità sempre più globalizzate.
Un numero sempre crescente di interventi si risolve nella materializzazione di grandi arene accomunabili per dimensione, geometria, orientamento, sostanziale assenza di elementi di frazionamento dello spazio e presenza di specifici complementi di arredo. In progetti quali ad esempio l’Oval Basin a Cardiff, Theatre Square a Martin, Smithfield a Dublino, Custom Square a Belfast ritroviamo tutte queste caratteristiche, che ci consentono di identificare una determinata tipologia spaziale legata ad una precisa destinazione funzionale.
In questi esempi analoghi colpisce la rilevanza dei sistemi di illuminazione, dimensionati e connotati per veicolare l’immagine di un luogo altamente spettacolare, contribuendo in modo determinante a definirne i margini. La reciprocità tra lo svolgersi di queste manifestazioni collettive e la conformazione dello spazio ci riporta così ad una tematizzazione dello spazio che possiamo a sua volta ricondurre a differenti ritualità urbane. In queste pratiche, fondate sull’estemporaneità, l’evento è vissuto come esperienza identitaria consentendo di mettere in scena una nuova rappresentazione sociale.
Gli spazi delle comunità esplosive, in costante attesa della prossima performance ci colpiscono tuttavia per l’inospitalità nel quotidiano, rientrando in definitiva nella categoria degli spazi «emici». Essi contribuiscono alla progressiva costruzione di un panorama omologato, che nondimeno costituisce un habitat naturale per l’uomo metropolitano contemporaneo. Le comunità esplosive non rappresentano certo l’unica forma di aggregazione derivata dai processi di de-strutturazione della società tradizionale. La post-modernità è costellata anche dalla presenza simultanea di micro-gruppi, il cui fine ultimo è quello di manifestare la propria socialità.
Ciò avviene attraverso il reciproco riconoscimento di canoni comportamentali in grado di identificarli come «banda a parte». Michel Maffesoli le riconduce analogamente alle tribù. Queste forme di neo-tribalismo sono basate su sistemi orizzontali che alludono alla fratellanza. Esse adottano codici comportamentali fondati su una vasta gamma di forme espressive: dal linguaggio all’abbigliamento, dalle abitudini linguistiche ai gusti musicali.
Anche in questo caso, queste convenzionalità sono riconosciute ad una scala sovralocale, muovendosi trasversalmente a sessi, etnie, geografie. Questi codici costituiscono il corrispettivo di una maschera che, coerentemente al pensiero di Georg Simmel, integra l’individuo in un quadro d’insieme rendendolo complice di un destino condiviso. Dai biker agli skater, dai punk ai clochard, questi gruppi condensano localmente tipi umani che si riconoscono globalmente. Essi sono, in altri termini espressione di una società glocale in quanto frammenti di un ideale comunitario “a parte”.
La presenza di queste comunità tribali si manifesta in forma evidente attraverso una occupazione contingente dello spazio pubblico. Raramente questa arriva a concretizzarsi materialmente in una tematizzazione. Si tratta perlopiù di prese di possesso non convenzionali di luoghi (e attrezzature) altrimenti pensati, organizzati e normati. Le pratiche neo-tribali, analogamente alle tattiche indicate da De Certeau, costituiscono spesso una forma di appropriazione o riappropriazione alternativa a quelle «istituzionalizzate».
Dai podisti che occupano le carreggiate delle strade correndo, agli artisti di strada che fanno dei marciapiedi luoghi di produzione e compravendita, fino ai clochard che vivono all’aperto utilizzando gli elementi di arredo urbano per trovare riparo. Queste “prese di possesso” rivelano ancora oggi la natura eminentemente conflittuale dello spazio pubblico. Essa si manifesta attraverso azioni diversificate in misura più o meno esplicita: dalla clandestinità all’aperto contrasto.
Tuttavia nell’indeterminatezza dei programmi politici sugli spazi pubblici e nella progressiva disgregazione dei modelli tradizionali di collettività sociale, queste pratiche alternative si vanno silenziosamente affermando quali nuovi usi convenzionali. E possiamo ancora una volta trovarne riscontro concreto nell’ambiente materiale, prendendo in esame alcuni progetti di interni urbani contemporanei.
Rileviamo così un nuovo fenomeno emergente: alcuni complementi di conformazione e arredo dello spazio legati a specifiche attività di comunità tribali stanno progressivamente divenendo elementi ricorrenti nell’organizzazione dello spazio pubblico. Esemplificativa in tal senso è la sempre più frequente presenza delle attrezzature caratteristiche della «tribù» degli skater: rampe, scivoli, piani inclinati o controcurvati. Nato in California intorno agli anni Cinquanta lo skateboarding si è progressivamente diffuso in tutto il mondo divenendo il fulcro di una cultura metropolitana.
Questa cultura comprende un complesso sistema di codici espressivo-comunicativi che spaziano dal linguaggio alla musica, dal look alla tecnica di evoluzione. La pratica dello skateboarding nello spazio pubblico è stata fin dal principio oggetto di molte controversie. Essa è ancora oggi ritenuta potenzialmente dannosa per l’incolumità di persone ed arredi urbani. In alcune nazioni lo skateboarding è addirittura oggetto di regolamentazione a norma di legge al fine di evitare situazioni di potenziale disagio.
Gli skate-park nascono con l’intenzionalità di circoscrivere questa pratica in ambiti ad esso dedicati. Qui vengono simulate comuni situazioni urbane in cui vengono poste rampe e scivoli per consentire un maggior numero di evoluzioni. Posti in periferia, spesso addirittura recintati, gli skate-park sono stati per lungo tempo oggetto della diffidenza di molti, in quanto espressione di quella che veniva considerata una «sottocultura» sovversiva.
Nella post-modernità contemporanea assistiamo viceversa ad un riscatto di questa, come di altre, comunità tribali che forniscono un appiglio nel vuoto di socialità venutosi a creare. Alla luce di questo riscatto lo skateboarding diviene una pratica di interazione con lo spazio che travalica i vincolanti confini dell’ambito dedicato (e recintato) per espandersi progressivamente nella città. In molti esempi quali Micropolis a Helsinki o A8ernA a Zaanstad questa estensione si concretizza tramutando aree degradate o sottoutilizzate in skate-park.
In altri casi le attrezzature specifiche dello skateboarding operano una presa di possesso dello spazio pubblico senza necessariamente vincolarlo a questa sola pratica. In progetti come Ursulinenplain a Bruxelles e Westblaak a Rotterdam le rampe, gli scivoli, i piani inclinati finiscono in- fatti per trascendere dalla loro specifica funzione per generare quello spazio stimolante che si alimenta di elementi ludici performativi.
Può costituire un esempio limite il caso del progetto della nuova piazza di Thermi nell’hinterland metropolitano di Salonicco dove l’intero invaso non solo si deforma divenendo esso stesso rampa e piano inclinato ma accoglie una pluralità di elementi spettacolari e dissonanti. La presenza di fontane, luci colorate, superfici matericamente molto differenti tra loro, agisce in sinergia con l’anamorfosi del piano di calpestio. In generale l’ibridazione delle forme e dei mezzi che le pratiche neo-tribali introducono nello spazio pubblico è indicativa di una progressiva affermazione di codici semantici condivisi.
Il loro rendersi convenzionali e offrirsi come elementi grammaticali per un nuovo processo di tematizzazione deve far riflettere circa il loro reale contributo nella costruzione di un mondo intelligibile. O meglio di mondi intelligibili.
La natura fluida della realtà post-moderna presuppone l’accettazione di una pluralità di linguaggi meta-comunicativi che agiscono simultaneamente.
La tensione del mondo glocalizzato produce infatti una molteplicità di discorsi, codici e pratiche. Ciò non significa necessariamente che essi non siano ugualmente riconoscibili e comprensibili.
In questo senso i processi di tematizzazione sottesi alle pratiche contemporanee costituiscono un buon esempio. Essi si pongono nella città come neologismi, prodotti di un confronto sempre più vasto e complesso.