«L». la Repubblica, 15 giugno 2017 (c.m.c.)
È davvero difficile “orientarsi nel disordine del mondo”, come recita il titolo della Repubblica delle Idee di quest’anno. Perché il disordine, agli occhi dei cittadini, regna sovrano. Complicato dall’incertezza che avvolge il futuro, ma anche il presente, delle persone. Non ci sarebbe bisogno di statistiche per dimostrarlo. Basterebbero gli indicatori del senso comune. Tracciati dalle nostre percezioni. Ricavati dai discorsi della gente. Tuttavia, in questo caso, le statistiche, per una volta, danno fondamento al senso comune.
Per questo mi limito a riproporre dati e indici ricavati da sondaggi condotti da Demos (per Unipolis e per Repubblica) negli ultimi sei mesi. E dunque in tempi recenti. Il 76% degli italiani — dunque: oltre 3 persone su 4 — si sentono gravati da un senso di “insicurezza globale”. Temono, cioè, le minacce che vengono da lontano ma risuonano forte nella loro vita quotidiana, scandite e riprodotte dai media. In primo luogo, il terrorismo che compie i suoi massacri dovunque, in Europa, con attenzione e competenza mediatica. Ma poi, l’impatto della crisi economica, finanziaria, che si riflette sui nostri risparmi e sulla nostra condizione personale e familiare. Minacce lontane e dunque vicine. Che spaventano di più proprio perché non hanno volto e nome.
Ricordo mio padre, anni fa, quando, molto anziano e malato, mi chiedeva, angustiato, preoccupato per i propri risparmi, frutto del lavoro di una vita, e, quindi, della pensione: «Ilvo, ma chi è questo Spread? Che faccia ha? E dove abita? Perché ce l’ha con me? Con i miei risparmi?». Naturalmente non era facile rispondergli. E non lo è neppure oggi. Anzi, lo è sempre di meno. Perché le fonti dell’incertezza si sono moltiplicate. Perché non abbiamo più il privilegio dell’ignoranza. Il significato della globalizzazione è questo, ben evocato da Giddens.
Tutto ciò che avviene dovunque, nel mondo, si ripercuote su di noi. In modo im-mediato. Perché lo vediamo e lo sappiamo subito. Perché i nuovi media, il digitale, ci permettono di re-agire in modo im-mediato. Subito. In modo “digitale”. Con il nostro smartphone. Protagonisti e al tempo stesso bersagli di ogni messaggio. Di ogni informazione, circa ogni evento che avviene ovunque. Tanto più e tanto meglio se ansiogeno. Così e per questo l’incertezza si riproduce. E il mondo ci sembra sempre più largo. Al tempo stesso, più im-mediato e più incontrollabile. Anche perché l’im-mediato ci priva del futuro. Perché, se il futuro è adesso, allora è già passato. Nel momento stesso in cui lo evochiamo e lo sperimentiamo. Il futuro.Immaginarlo, se non prevederlo, sarebbe necessario per ridurre il disordine del mondo. Perché se hai un progetto, allora è più facile saper cosa fare, dove — e verso dove — muoversi.
Ma se il futuro si riduce, fino a venire riassorbito nel “quotidiano”, nell’immediato, allora il disordine prende il sopravvento. D’altra parte il nostro futuro è affidato ai giovani. Ai nostri figli. Ma noi siamo una società vecchia. Sempre più vecchia. Dove si fanno sempre meno figli. Le stesse famiglie di nuovi italiani, gli immigrati, quando si stabilizzano in Italia, assumono i nostri modelli e stili di vita. E fanno sempre meno figli. D’altronde, 3 italiani su 4 ritengono che i giovani nel nostro Paese avranno, nel prossimo futuro, una posizione sociale e professionale peggiore rispetto ai loro genitori.
Per la stessa ragione, una percentuale simile di persone ritiene che i giovani, se ambiscono a fare carriera, debbano lasciare l’Italia. Ed è ciò che effettivamente avviene, visto che da tre anni siamo in declino demografico. Peraltro, i nostri “emigranti” sono, soprattutto, i giovani con maggiori competenze e livello di istruzione più elevato. Per questo rischiamo di divenire sempre più pessimisti. Per ragioni “realiste”. Infatti, se lasciamo partire i più giovani e i più preparati, compromettiamo il nostro futuro. E allora: perché dovremmo essere ottimisti? Peraltro, l’ottimismo declina con l’età. I (più) vecchi difficilmente sono più ottimisti dei (più) giovani.
Eppure, quando chiediamo agli italiani se si sentano “felici”, circa 8 su 10 rispondono in modo affermativo (Demos). Sì: ci sentiamo “abbastanza” felici. E ciò potrebbe sorprendere. Apparire contraddittorio. Come fanno gli italiani ad essere pessimisti e insicuri, ma, al tempo stesso, abbastanza felici? Dipende dalle nostre risorse sociali. E di socialità. Perché l’incertezza si riduce in misura coerente con il nostro “capitale sociale”.
Noi, cioè, resistiamo all’insicurezza ricorrendo alle relazioni sociali. E, in primo luogo, alla famiglia. L’incertezza e le preoccupazione verso il futuro, infatti, si riducono tanto più quanto maggiore è il livello di partecipazione sociale. Ma anche quanto più forti sono i nostri legami di vicinato. La nostra vita associativa. Allora la fiducia negli altri, che da anni tende a calare, riprende a crescere. E il futuro ritorna. Dopo essersi perduto nel passato.
Così, per “orientarsi nel disordine del mondo”, occorre (in)seguire un percorso obbligato. Coltivare la fiducia negli altri. E, dunque, rafforzare i legami con gli altri. Partecipare. Perché “con gli altri” si sta meglio che “da soli”. E la partecipazione aiuta. A stare in mezzo agli altri. A camminare insieme. Verso una meta comune.