la Repubblica, 20 maggio 2017 (c.m.c.)
In origine non esistevano “professioni giuridiche”. Quella che noi chiamiamo “giurisprudenza” non esisteva come entità o funzione autonoma. Un passo determinante verso il diritto come dimensione autonoma della vita sociale è raccontato da Eschilo nella terza parte della saga di Oreste, le Eumenidi, un testo teatrale messo in scena nel 458 a.C.. Vi si racconta la conversione delle Furie o Erinni, forze che avvolgono gli esseri umani e le loro famiglie nella spirale di violenza distruttiva che non si estingue mai e, anzi, si estende di generazione in generazione: conversione in figure benevolenti che giudicano con parole definitive e mettono fine a quella che sarebbe stata, altrimenti, la catena infinita delle vendette.
La dea Atena, protettrice della città, fonda l’Areopago, istituzione perenne e luogo protetto dove si celebrano i riti della giustizia ateniese: «Insensibile al denaro, degno di venerazione, rigido d’animo, desto a vegliare i dormienti, presidio del paese: ecco il consesso che istituisco». Oreste, perseguitato per il matricidio, vi trova il giudizio definitivo che mette fine alla vendetta. Eschilo descrive, dunque, l’inizio di un processo d’individuazione della funzione della giustizia. Ma non è ancora il tempo dei giuristi e della loro scienza.
Il diritto, la giurisprudenza e i giuristi vengono dopo, da Roma. Roma li ha creati e creandoli ha cercato di farne un mondo a parte, con suoi rituali esclusivi, la sua scienza e la coscienza di ceto dei suoi adepti: insomma, ne ha fatto una professione. Come addetti a una professione che oggi definiamo “liberale”, nel senso della sovrana neutralità e superiorità spirituale rispetto alle bassure della vita, ci identifichiamo volentieri con Themis, la dea garante dell’ordine universale che abbraccia tanto gli dei quanto gli uomini o, più spesso, con Dike, sua figlia, la dea garante dell’ordine divino incarnato nelle istituzioni umane.
Dike è raffigurata come vergine saggia, figlia del pudore, nemica della menzogna (Platone, Leggi), pensosa e bella in tutti i sensi. Che i giuristi si considerino adepti di quella divinità, cioè della giustizia ch’essa rappresenta, è forse un atto d’orgoglio ma non è una arbitraria sostituzione o identificazione: tra il diritto e la giustizia c’è un legame intimo, essenziale. Potremmo concepire una sentenza o a una memoria difensiva che non si richiamassero a una qualche concezione della giustizia?
Il diritto, insomma, tende a identificarsi con la giustizia e la giustizia, a sua volta, vuole rappresentarsi per mezzo d’una immagine intramontabile: quella giovane donna che si presenta di solito con gli occhi bendati perché “non guarda in faccia nessuno”, con in una mano la bilancia, come segno d’imparzialità, e con l’altra che brandisce la spada, simbolo della separazione del giusto dall’ingiusto o forse anche della protezione ch’essa offre a chiunque le si rivolge per scampare ai prepotenti. Innanzitutto, colpisce che la giustizia appartenga al mondo femminile. La politica, luogo del potere, è stata per secoli pensata come dominio prevalentemente maschile.
Il Leviatano, l’animale marino scelto da Thomas Hobbes come simbolo del potere sovrano, è rappresentato da una figura imponente che brandisce spada e scettro, i cui elementi semplici sono piccolissimi lillipuziani che, insieme, concorrono a formare il corpo di quell’immane “uomo in grande”. In Il buon Governo di Ambrogio Lorenzetti a Siena, per fare soltanto un altro esempio, sulla destra campeggia la figura del principe governante e, sulla sinistra, la figura della giustizia. Ancora una volta troviamo l’identificazione del potere con il sesso maschile e l’identificazione del diritto e della giustizia con quello femminile.
La separazione dei sessi nell’iconografia politica è rigorosa. D’altro canto, non risultano uomini bendati, con bilancia e spada, e anche in altre culture troviamo sempre figure di donne, come la dea egiziana della giustizia cosmica, Ma’at.
La troviamo perfino nella cultura atzeca, dove la giustizia è rappresentata dalla donna-serpente, collocata subito sotto il re imperatore. La giustizia, nell’immaginazione sociale è dunque dominio femminile, ma la sua “amministrazione” lungo i secoli e dappertutto è stata riservata agli uomini. Come possiamo considerare questa contraddizione? Forse qui possiamo già cogliere un’ambiguità e un primo segno d’ipocrisia. Non di giustizia si tratta realmente, ma di potere (maschile) dissimulato. Perché la dissimulazione? Forse perché ogni società ha bisogno di confidare in una sfera di relazioni scevre dal potere, cioè dalla legge del più forte.
Forse l’archetipo è la vergine dea armata del mito, Pallade Atena. Si deve, tuttavia, fare attenzione agli attributi di quella fanciulla. Ai loro significati immediati – la spada che divide i torti e le ragioni, una volta che la bilancia li ha pesati, e la benda che assicura l’imparzialità tanto della pesa che della divisione – se ne possono accostare altri meno scontati che inducono a pensieri meno consolanti. La spada, infatti, fa pensare anche ad Alessandro Magno che, non riuscendo a sciogliere il nodo da cui sarebbe dipesa la conquista dell’Asia minore – il nodo di Gordio – lo taglia brutalmente.
Altro che le sottigliezze del diritto e l’intrico dei suoi argomenti da dipanare: qui, la spada è un atto di forza che rappresenta l’arroganza di chi non ha tempo da perdere e vuole procedere sulla sua strada. Potrebbe però anche essere rovesciata in simbolo difensivo. Ma potrebbe interpretarsi anche nel senso della pretesa arrogante d’essere riconosciuta come una forza che svolge un compito di natura sovrumana, quasi divina, a somiglianza dell’Arcangelo Michele che impugna la spada in nome di Dio per annientare Satana. Infine, ricordando l’Atena nell’Areopago, potrebbe anche trattarsi dell’arma che protegge il reo dalla furia vendicatrice della folla che punta a entrare nel tribunale per fare giustizia sommaria.
La dea bendata tiene nell’altra mano la bilancia. Un primo elemento di riflessione è che non si tratta della stadera, cioè dello strumento a un piatto solo. La giustizia non si avvale di questo strumento di pesatura che darebbe un responso, per così dire, assoluto alla domanda: quanto pesa? Il responso della bilancia, invece, è relativo: la domanda alla quale risponde è: quali ragioni pesano più o meno delle altre, non essendo escluso il caso che si equivalgano. In ogni caso, la bilancia ci dice, realisticamente, che la giustizia possibile nelle aule dei tribunali sta in un rapporto concreto, non in una verità astratta.
In più: dice che anche il piatto della bilancia che pesa meno dell’altro, ciò non di meno, può avere ragioni dalla sua parte: non sufficienti a vincere la causa ma, non per questo indegne d’essere considerate da una “giustizia giusta”. La differenza può stare anche solo nell’inezia d’una piuma, come nella figura della dea Ma’at.
La pesa è l’atto finale di un percorso guidato dalla virtù dell’equilibrio. Si può allora dire che il giudice è un equilibrista? Forse sì. Di sicuro, però, è colui che, volterrianamente, fa suo il motto écraser l’infâme, dove l’infamia è il pregiudizio e il fanatismo, fosse pure il fanatismo della giustizia.