Cosa è e cosa non dovrebbe mai essere. Illuminante puntualizzazione sulla rigenerazione urbana che dovrebbe essere tenuta a mente nelle revisioni delle attuali leggi urbanistiche regionali. La città conquistatrice, 11 aprile 2017 (p. d.)
Si sottolinea spesso che se il terzo millennio presenta la sfida dell’urbanizzazione planetaria, al suo interno esistono tante altre sfide per nulla minori, prima fra tutte quel che si intende dire quando se ne parla. È il famigerato gioco delle «parole della città», su cui si impegnano folte schiere di azzeccagarbugli più o meno prezzolati (a volte solo altezzosamente ignoranti), per rigirare concetti come frittate, di solito azzerando o quasi gli sforzi di chi si impegna a studiare fenomeni ed escogitare politiche. Non sfugge al rischio ideologico e speculativo anche la «rigenerazione urbana», termine che nasce in sostanza nel quadro della deindustrializzazione delle città britanniche nella seconda metà del ‘900, e che apparentemente si caratterizzava in modo saldo e univoco. Che avrebbe dovuto significare, coerentemente? Facile: linee di intervento pubblico per riattivare la vitalità socioeconomica di aree cittadine fortemente colpite dalla disoccupazione, dalla dismissione, dal degrado complessivo da mancanza di investimenti, restituendo almeno in parte fiducia e prospettive agli abitanti. Questo doveva essere, la rigenerazione urbana, che in sé e per sé poteva anche comporsi di quote molto variabili, di quegli interventi a «riattivare la vitalità», ovvero certamente in qualche modo intrecciandosi con la riqualificazione edilizia e urbanistica, ma non per forza consistendo prevalentemente di quello.
Rigenerazione, riqualificazione, ricostruzione …
Del resto, perché mai qualcuno avrebbe dovuto prendersi la briga di coniare un termine nuovo, per descrivere una cosa vecchia e banale come le manutenzioni straordinarie, o nei casi più gravi la demolizione e ricostruzione edilizia? Per quello c’erano già consolidate denominazioni, dal restauro, al cosiddetto diradamento, fino al radicale urban renewal inventato dagli americani. Invece il termine nuovo stava nelle intenzioni a dire che nessuno voleva far passare necessariamente ruspe o imbianchini, idraulici e serramentisti nei quartieri, salvo all’interno di un programma nel quale la loro opera contribuisse al raggiungimento di quegli obiettivi: restituire vitalità locale, e magari innescare virtuosi processi di sviluppo. Ma non si erano fatti i conti con l’antica fede nell’edilizia come volano onnicomprensivo, nonché con l’idea piuttosto reazionaria (quella sì derivata dallo urban renewal pratico) che in fondo quelli non erano investimenti, ma spese di contenimento per una pressione sociale che si voleva in via di esaurimento. Chiudere la gente dentro qualche casetta un po’ risistemata, aspettando che la smettesse di pretendere altro, e magari lasciar speculare un po’ i privati interessati all’affare. È così che via via la «rigenerazione» ha cominciato a non rigenerare alcunché, riversando tutte le proprie risorse nelle trasformazioni edilizie e urbane, a volte addirittura nella sostituzione sociale detta propriamente gentrification. Che fare? Qui rispunta una idea «di sinistra» piuttosto ovvia, che però pareva essere sfuggita: ribadire i termini iniziali, manco fossimo in un Dizionario.
Tema, svolgimento
Ovvero che parlando di «rigenerazione» bisogna far riferimento a un marchio registrato, e che questa registrazione deve essere garantita, per esempio da chi eroga fondi e concede deroghe o facilitazioni. Cosa c’è di meglio, se non un vero e proprio «Manuale per avvicinarsi alla Rigenerazione dei Quartieri mettendo al centro i loro Abitanti»? Ci ha pensato l’amministrazione progressista della Grande Londra, specificando da subito che il vero processo Doc è quello applicato in modo circoscritto ai complessi di edilizia sovvenzionata per famiglie bisognose (ergo da rivitalizzare o garantire): lì dentro anche una relativa centralità dell’intervento edilizio, spesso giustificatissima per pregressa mancanza di investimenti in manutenzioni e adeguamenti, pare abbastanza ovvio metta al centro gli abitanti, le loro relazioni, e probabilmente anche la società urbana nel suo complesso. Gli obiettivi, molto tecnicamente parlando, sono qui riassumibili in tre grandi categorie: garantire abitazioni di qualità decorosa, magari anche sperimentando soluzioni innovative da vari punti di vista; rispondere alle nuove e vecchie domande residenziali e di composizione funzionale-sociale dei quartieri, dei servizi, degli equilibri con il contesto; migliorare complessivamente intere zone dal punto di vista socioeconomico e fisico, in modo diverso dal processo di valorizzazione immobiliare classico della «riqualificazione» privata. E fare tutto questo con più di un occhio di riguardo a grandi strategie di evoluzione metropolitana (per esempio dal punto di vista della mobilità sostenibile attraverso gli standard) e degli strumenti di programmazione del territorio. Con buona pace delle «visioni» di qualche riqualificatore a senso unico, in realtà mandato da chi vede un solo futuro per la città: farci molti soldi. Una visione poco progressista quest’ultima, no?