Fino ad alcuni anni fa parlare di val di Susa significava evocare montagne ricche di storia, celebri monasteri come l’abbazia di Novalesa o la Sacra di San Michele, rifugi molto frequentati cari agli escursionisti come il Val Gravio, il Mariannina-Levi, il Cà d’Asti e ascensioni alpine come quelle al Rocciamelone, al Niblé, al Sommeiller. E sport invernali: con il suo grande comprensorio della Via Lattea e le note stazioni invernali di Sauze d’Oulx, Cesana, Clavière, Bardonecchia, Sestrière la val di Susa è stata uno dei primi templi dello sci alpino italiano.
Qualche tempo fa, viaggiando su un treno verso Parma, mi è capitato di ascoltare una divertente conversazione tra due signore dall’inconfondibile accento emiliano, che sedevano nei sedili accanto al mio. Una diceva: «Se prendi il no-tav da Milano a Bologna ci metti un’ora e mezza» e l’altra rispondeva, «Lo so che con il no-tav si fa in fretta, però costa caro» e via così.
Neppure un mese dopo un mio studente discuteva una tesi di laurea, basata su numerose interviste, sul neo-ruralismo nell’Imperiese in cui emergeva una nuova visione dell’economia, dell’ambiente e delle relazioni sociali da parte di questi giovani ritornati alla terra. Dal tono della discussione e della tesi traspariva in modo evidente il coinvolgimento personale del candidato, che in quei valori credeva assolutamente. Al termine della discussione la commissione ha espresso pareri favorevolissimi e il giovane si è laureato con il massimo dei voti. Appena uscito, un collega mi si avvicina e mi dice sorridendo, con tono compiaciuto: «Sembra proprio un tipico valsusino!».
Fino a una ventina di anni fa essere valsusini significava essere montanari come tanti altri o forse non significava nulla di particolare, se non il fatto di abitare in quella valle che da Torino corre a ovest dritta dritta verso la Francia; oggi questo aggettivo ha assunto significati più ampi, che vanno al di là dei confini territoriali, rinchiusi tra le montagne che si affacciano sulla Dora Riparia: valsusino oggi significa no-tav e no-tav significa resistenza, come illustrano le parole di un intervistato: «Quando vai in giro e qualcuno ti chiede da dove vieni? Se dici “vicino a Torino” tutto ok, la conversazione sta sul vago, ma se dici valle di Susa, scatta l’identificazione: è un marchio e “devi” parlare! È impossibile che non ti venga chiesto un parere sul tav ».
Diventata un vero e proprio logo, la sigla no-tav, con quel treno cancellato da una croce rossa, peraltro non risponde nemmeno al vero obiettivo della lotta. Il movimento, infatti, non si oppone al treno ad alta velocità tout court, ma alla realizzazione del tunnel, voluto dalle istituzioni nazionali e respinto dagli abitanti del luogo, che chiedono di vedere tutelato il loro territorio alla luce di dati che dimostrano la presenza di amianto e uranio nelle aree di scavo. L’immagine sensazionalistica e talvolta strumentale fornita dai media, che spesso hanno indugiato sugli scontri tralasciando la parte relativa ai contenuti della resistenza, ha distorto la percezione, che generalmente si viene ad avere dal di fuori, di ciò che accade nella valle.
Secondo la logica che fa più rumore un albero che cade, di una foresta che cresce, ciò che è venuto a mancare, sul piano dell’informazione è una più corretta analisi dei profondi cambiamenti che stanno avvenendo in val di Susa, o almeno nella bassa valle, quella più coinvolta nella lotta contro il tav. Cambiamenti che, se osservati attentamente, sposterebbero l’immagine del movimento no-tav da un piano puramente antagonista (quando non addirittura terrorista) a quello di un laboratorio, dove si stanno sperimentando nuove forme di democrazia e di presa in carico di responsabilità, da parte dei cittadini, della cosa pubblica.
Voci e suoni
Il pomeriggio del 12 dicembre del 1992, nel cinema di Condove di fronte a un’assiepata assemblea di cittadini, grazie a una elaborazione effettuata al Politecnico di Torino, viene fatto ascoltare il rumore di un Tgv che passa in una valle alpina a 300 chilometri all’ora. Uno choc per i presenti: sentire un urlo che rimbomba, amplificato dai pendii montani che racchiudono la valle. Questo è uno dei tanti momenti, che hanno innescato il processo di riflessione, di presa di coscienza da parte di moltissimi abitanti della valle, che si è tradotto in un movimento, protagonista di una battaglia di opposizione contro la realizzazione della linea ad alta velocità (poi diventata ad alta capacità). A quell’urlo lanciato da un treno che corre follemente in una valle, si sono opposte da allora tante voci, sempre di più, voci diverse.
Nel corso della mia ricerca sul terreno, per indagare le trasformazioni indotte nella valle in seguito al movimento no-tav, ho raccolto molte di queste voci, ognuna delle quali raccontava una storia, che andava ben al di là della questione del treno, così come ogni storia era la storia di una vita e di memorie vissute prima del tav e che forse sopravvivranno al tav. Potrà forse colpire il numero di racconti riportati, a volta anche discordanti tra di loro, ma è stato necessario proprio per restituire l’idea del pluralismo che caratterizza il movimento no-tav, una delle sue caratteristiche principali e forse una delle chiavi principali della sua durata.
In compenso nel libro non si troveranno molti dati tecnici. Non era, infatti, mia intenzione discutere la questione del tunnel per l’alta velocità dal punto di vista tecnico – il problema è già stato ampiamente affrontato da persone competenti – ho voluto invece indagare sulle ricadute socio-culturali che oltre vent’anni di lotta hanno provocato in valle di Susa. Per esempio, il formarsi in bassa valle di una comunità di intenti e di saperi, che prima non esisteva o almeno non era animata da legami e relazioni forti né da una conoscenza condivisa come ora.
Non è semplice fare ricerca in un contesto conflittuale come quello della val di Susa, senza simpatizzare per una delle parti in causa. Questo potrebbe compromettere una certa oggettività, virtù peraltro messa in discussione dagli antropologi post-moderni. Ogni resoconto etnografico in fondo è più simile a una narrazione che a un trattato scientifico, come ebbe già a dire Edmund Leach e ogni narrazione presuppone un narratore identificabile, che porta con sé il suo bagaglio di esperienze e di convinzioni. A una visione presuntamente oggettiva ho cercato perciò di contrapporre una lettura “emica” degli eventi e delle reazioni a essi collegati.
Racchiudere quel flusso incessante di racconti, aneddoti, emozioni in categorie e in una forma di narrazione troppo schematiche sarebbe risultato penalizzante. Ogni forma di scrittura è una traduzione e ogni traduzione comporta un piccolo, necessario tradimento. Non solo perché il passaggio dalla narrazione, dall’immagine, dall’episodio vissuto alla parola scritta comporta un cambiamento di linguaggio, ma anche e soprattutto perché di mezzo c’è l’inevitabile opera di interpretazione che l’autore compie rispetto ai fatti. Fatti che in taluni casi sono già stati interpretati da chi all’autore li ha raccontati. Dopo che Clifford Geertz ci ha dimostrato come la personalità dell’autore emerga dal testo, indipendentemente dalla sua volontà, tanto vale evitare di nascondere la propria soggettività ed esplicitarla chiaramente.
Essere comprensibili è un dovere irrinunciabile e un linguaggio narrativo facilita l’operazione, in quanto sistema primario. Infatti noi impariamo a gestire un sistema narrativo prima ancora di imparare a parlare. Un tono eccessivamente tecnico e una scansione dei temi trattati troppo rigida contribuiscono a rendere elitario, per non dire settario il sapere antropologico (che troppo spesso appare come l’espressione di una comunità che dialoga solo con se stessa, al proprio interno, con i propri membri), ma soprattutto disumanizza al massimo l’esperienza sul campo che viene condivisa invece con gente normale che poco o nulla sa dell’accademia e dell’antropologia.
Il genere letterario-etnografico si adatta alla rappresentazione della vicenda antropologica, grazie alla sua capacità di connettere eventi, tempi e spazi diversi attraverso una trama costante e continua. La narrazione, quasi paradossalmente, diventa così meno metaforica e più realistica. L’assenza, o almeno l’ampiezza, di confini della narrativa permettono quindi di mostrare una realtà nelle sue molteplici sfaccettature, inclusa quella di chi scrive.
Forse nessuna forma di scrittura riuscirà mai a restituire interamente il vissuto dei racconti, ma forse almeno un po’ dell’anima delle persone che ho incontrato, spero sia rimasta impigliata tra le righe.