«Dieci anni fa, il saggio del sociologo dava il nome a quello stato di costante minaccia in cui il mondo vive a causa del terrorismo globale»
La paura è tornata. Sembrava domata, resa inoffensiva dalla nostra capacità tecnico-scientifica di dominare il mondo, di prevedere tutto, o quasi. E invece eccola di nuovo. Zygmunt Bauman ci aveva avvisati dieci anni fa in Paura liquida (Laterza): questo è il nome che ha oggi la nostra incertezza, la precarietà, la mancanza di futuro. Nessuno sembra indicare cosa fare. La leadership mondiale oscilla pericolosamente sull’orlo di un cratere. Il mondo è in
subbuglio e viviamo in uno stato di paura. Meglio: di ansietà. L’ha ricordato anche Sergio Mattarella in un discorso, resuscitando la formula usata da un poeta W. H. Auden in una sua opera: L’età dell’ansia. Egloga barocca scritta nel 1947 subito dopo le due bombe atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario. Nel 1966 i Rolling Stones in Mother’s Little Helper descrivono le casalinghe britanniche che ricorrono al Valium, un ansiolitico. Lo psicoanalista Henry P. Laughlin definisce l’ansia «tensione apprensiva, irrequietezza che nasce dal sentire un pericolo imminente ma vago di origine sconosciuta».
Come possiamo definire quello che proviamo quando entrando in stazione passiamo un checkpoint con militari in tuta mimetica, o quando ci sottoponiamo alle perquisizioni delle borse all’ingresso della mostra, o quando scorgiamo una borsa sospetta sul metrò? Cosa temiamo? Un attacco terroristico, un commando suicida? Tutto questo, ma anche altro. L’ansia non ha un contenuto definito. Se la paura si focalizza su una specifica minaccia esterna, un evento presente o imminente, come scrive il neuroscienziato Joseph LeDoux in Ansia (Raffaello Cortina), l’ansia implica una minaccia non definita, meno identificabile, «qualcosa di più interno», un’aspettativa mentale che potrebbe anche essere qualcosa di solo immaginato con scarse possibilità di verificarsi.
La parola “ansia” viene dal latino anxietas, che deriva dal greco angh, radice che veniva usata per significare “oppresso” o “turbato”, ovvero “angosciato”; il suo significato iniziale si riferisce a sensazioni fisiche come tensione, costrizione, disagio. La stessa parola “angina”, che riguarda malattie cardiache con dolori al petto, viene da angh (LeDoux). Le emozioni che proviamo sono un magma, ci ricorda lo psichiatra Eugenio Borgna in
Le figure dell’ansia (Feltrinelli), perché si mescolano insieme cose diverse: stati d’animo, sentimenti, esperienze vissute. L’ansia, alla pari di altre emozioni, non è qualcosa di omogeneo o di distinto, ma di stratificato, che può essere intesa e sondata solo con molto cuore, scrive Borgna. Per quanto l’ansia sia un’emozione individuale, soggettiva, alla pari della paura si comunica.
Di sicuro l’11 settembre, evento cui ha assistito in diretta tutto il mondo davanti alla tv, ha creato un’onda di panico che con il passare dei giorni e dei mesi si è tramutata in ansia. Si tratta del disturbo da stress postraumatico tipico di chi ha sperimentato un’esperienza sconvolgente; in questo caso però non ha riguardato solo chi si trovava sotto le Twin Tower, ma anche chi, lontano da New York, ha vissuto l’accaduto come se si fosse stato davvero lì.
Oggi i social network e i telefoni cellulari moltiplicano questo effetto su scala planetaria. Gli storici hanno mostrato come nel passato la paura fosse prima di tutto un sentimento collettivo. Jean Delumeau nel suo studio sulla paura tra il XIV e il XVIII secolo ( La paura in Occidente,secoli XIV- XVIII) esamina il timore del buio, di Satana, delle streghe, della magia, delle eresie, della peste. Prima che la Riforma trasformasse il rapporto con la religione da fenomeno generale in evento vissuto individualmente, i comportamenti collettivi definivano l’atteggiamento verso la paura, lo normavano. Ora sta accadendo qualcosa di simile? L’ansia diventa un fenomeno comune e non più solo una singola esperienza emozionale?
Nel suo poema Auden sembra suggerire qualcosa del genere. Si viveva, alla fine degli anni Quaranta, sotto il timore della bomba atomica, nell’incubo dell’esplosione fine-del-mondo descritta poi da Stanley Kubrick nel suo Il dottor Stranamore.
L’ansia, come altre emozioni, è contagiosa. Viviamo tutti in un atteggiamento d’attesa, d’anticipazione. Mentre nella paura l’anticipazione riguarda, «se e come una minaccia attuale causerà danni», scrive Le-Doux; nell’ansia «l’anticipazione coinvolge l’incertezza sulle conseguenze di una minaccia che è presente e che può non verificarsi ». Questo è lo stato d’animo collettivo in cui ci troviamo oggi: ci preoccupiamo di minacce future che possono nuocerci come collettività e come singoli, ma non sappiamo bene quali, e se poi ci riguarderanno davvero. Riformulando un’espressione di Kierkegaard, Louis Menand ha affermato che «l’ansia è il cartellino del prezzo della libertà umana».
CHE FANNO DEI NOSTRI SENTIMENTI
UNO STRUMENTO DI POTERE»
Intervista di Giulio Azzolini a Zygmunt Bauman
«Succede che i legami si frantumano che lo spirito di solidarietà si indebolisce, che la separazione e l’isolamento prendono il posto di dialogo e cooperazione -I leader: Non vedevano l’ora di trasformare le calamità in vantaggi. Le guerre distolgono dalle disuguaglianze- Il Papa: Ascoltiamo troppo poco Francesco ma la sua strategia, benché a lungo termine, è l’unica vera soluzione»
Professor Bauman, sono passati dieci anni da quando scrisse Paura liquida (Laterza). Che cos’è cambiato da allora?
«La paura è ancora il sentimento prevalente del nostro tempo. Ma bisogna innanzitutto intendersi su quale tipo di paura sia. Molto simile all’ansia, a un’incessante e pervasiva sensazione di allarme, è una paura multiforme, esasperante nella sua vaghezza. È una paura difficile da afferrare e perciò difficile da combattere, che può scalfire anche i momenti più insignificanti della vita quotidiana e intacca quasi ogni strato della convivenza».
Per il filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag, la nostra è l’epoca delle “passioni tristi”. Che cosa succede quando la paura abbraccia la sfiducia?
«Succede che i legami umani si frantumano, che lo spirito di solidarietà si indebolisce, che la separazione e l’isolamento prendono il posto del dialogo e della cooperazione. Dalla famiglia al vicinato, dal luogo di lavoro alla città, non c’è ambiente che rimanga ospitale. Si instaura un’atmosfera cupa, in cui ciascuno nutre sospetti su chi gli sta accanto ed è a sua volta vittima dei sospetti altrui. In questo clima di esasperata diffidenza basta poco perché l’altro sia percepito come un potenziale nemico: sarà ritenuto colpevole fino a prova contraria».
Eppure l’Europa ha già conosciuto e sconfitto l’ostilità e il terrore: quello politico delle Br in Italia e della Raf in Germania, quello etnico-nazionalistico dell’Eta in Spagna e dell’Ira in Irlanda. Il nostro passato può insegnarci ancora qualcosa o il pericolo di oggi è incomparabile?
«I precedenti sicuramente esistono, tuttavia pochi ma decisivi aspetti rendono le attuali forme di terrorismo assai differenti dai casi che lei ricordava. Questi ultimi erano prossimi ad una rivoluzione (mirando, come le Br o la Raf, ad una sovversione del regime politico) o ad una guerra civile (puntando, come l’Eta o l’Ira, all’autonomia etnica o alla liberazione nazionale), ma si trattava pur sempre di fenomeni essenzialmente domestici. Ebbene, gli atti terroristici odierni non appartengono a nessuna delle due fattispecie: la loro matrice, infatti, è completamente diversa».
Qual è la peculiarità del terrorismo attuale?
«La sua forza deriva dalla capacità di corrispondere alle nuove tendenze della società contemporanea: la globalizzazione, da un lato, e l’individualizzazione, dall’altro. Per un verso, le strutture che promuovono il terrorismo si globalizzano ben al di là delle facoltà di controllo degli Stati territoriali. Per altro verso, il commercio delle armi e il principio di emulazione alimentato dai media globali fanno sì che ad intraprendere azioni di natura terroristica siano anche individui isolati, mossi magari da vendette personali o disperati per un destino infausto. La situazione che scaturisce dalla combinazione di questi due fattori rende quasi del tutto invincibile la guerra contro il terrorismo. Ed è assai improbabile che esso abdichi a dinamiche ormai autopropulsive. Insomma, si ripropone, sotto nuove forme, il mitico problema del nodo gordiano, quello che nessuno sa sciogliere: e sono molti i sedicenti eredi di Alessandro Magno che, ingannando, giurano che le loro spade riuscirebbero a reciderlo».
Per molti politici e molti commentatori, le radici del terrorismo vanno rintracciate nell’aumento incontrollato dei flussi migratori. Quali sono, a suo giudizio, le principali ragioni della violenza contemporanea?
«Com’è evidente, i profitti elettorali che si ottengono stabilendo un nesso di causa-effetto tra immigrazione e terrorismo sono troppo allettanti perché i concorrenti al gioco del potere vi rinuncino. Per chi decide è facile e conveniente partecipare ad un’asta sul mezzo più efficace per abolire la piaga della precarietà esistenziale, proponendo soluzioni fasulle come fortificare i confini, fermare le ondate migratorie, essere inflessibili con i richiedenti asilo… E per i media è altrettanto facile dare visibilità alla polizia che assalta i campi profughi oppure diffondere le immagini fisse e dettagliate di uno o due kamikaze in azione. La verità è che è maledettamente complicato toccare con mano le radici autentiche di una violenza che cresce in tutto il mondo, per volume e per intensità. E giorno dopo giorno diventa ancora più arduo, se non proprio impossibile, dimostrare che i governi abbiano individuato quelle radici e stiano lavorando davvero per sradicarle».
Vuole dire che anche i politici occidentali utilizzano la paura come strumento politico?
«Esattamente. Come le leggi del marketing impongono ai commercianti di proclamare senza sosta che il loro scopo è il soddisfacimento dei bisogni dei consumatori, pur essendo loro pienamente consapevoli che è al contrario l’insoddisfazione il vero motore dell’economia consumistica, così gli imprenditori politici dei nostri giorni dichiarano sì che il loro obiettivo è garantire la sicurezza della popolazione, ma al contempo fanno tutto il possibile, e anche di più, per fomentare il senso di pericolo imminente. Il nucleo dell’attuale strategia di dominio, dunque, consiste nell’accendere e tenere viva la miccia dell’insicurezza…».
E quale sarebbe lo scopo di questa strategia?
«Se c’è qualcosa che tanti leader politici non vedevano l’ora di apprendere, è lo stratagemma di trasformare le calamità in vantaggi: rinfocolare la fiamma della guerra è una ricetta infallibile per spostare l’attenzione dai problemi sociali, come la disuguaglianza, l’ingiustizia, il degrado e l’esclusione, e rinsaldare il patto di comando-obbedienza tra i governanti e la loro nazione. La nuova strategia di dominio, fondata sulla deliberata spinta verso l’ansia, permette alle autorità stabilite di venire meno alla promessa di garantire collettivamente la sicurezza esistenziale. Ci si dovrà accontentare di una sicurezza privata, personale, fisica».
Crede che in tal modo le istituzioni rischino di smarrire il carattere democratico?
«Di sicuro la costante sensazione di allerta incide sull’idea di cittadinanza, nonché sui compiti ad essa legati, che finiscono per essere liquidati o rimodellati. La paura è una risorsa molto invitante per sostituire la demagogia all’argomentazione e la politica autoritaria alla democrazia. E i richiami sempre più insistiti alla necessità di uno stato di eccezione vanno in questa direzione».
Papa Francesco appare l’unico leader intenzionato a sfatare quello che lei altrove ha chiamato “il demone della paura”.
«Il paradosso è che sia proprio colui che i cattolici riconoscono come il portavoce di Dio in terra a dirci che il destino di salvezza è nelle nostre mani. La strada è un dialogo volto a una migliore comprensione reciproca, in un’atmosfera di mutuo rispetto, in cui si sia disposti ad imparare gli uni dagli altri. Ascoltiamo troppo poco Francesco, ma la sua strategia, benché a lungo termine, è l’unica in grado di risolvere una situazione che somiglia sempre di più a un campo minato, saturo di esplosivi materiali e spirituali, salvaguardati dai governi per mantenere alta la tensione. Finché le relazioni umane non imboccheranno la via indicata da Francesco, è minima la speranza di bonificare un terreno che produrrà nuove esplosioni, anche se non sappiamo prevedere con esattezza le coordinate».