Le elezioni incombenti a New York sono occasione per riflettere sia sul ruolo trainante della grande città oggi, sia su una idea di composizione funzionale e culturale inedita. Corriere della Sera, 29 marzo 2013 (f.b.)
I repubblicani schierano il proprietario dei supermercati Gristedes, un finanziere, il presidente della Subway, la metropolitana, un paio di politici locali. Forse anche il capo della polizia Raymond Kelly. I democratici, dopo la rinuncia di Hillary Clinton, puntano su una pattuglia di politici di professione con Christine Quinn, la speaker del consiglio comunale, la donna simbolo della comunità gay, data per favorita.
Primarie a settembre, elezione del nuovo sindaco di New York a novembre, ma molti, più che appassionarsi alla contesa, si chiedono che ne sarà della rinascita economica della città senza la guida di Michael Bloomberg che, dopo un regno durato tre mandati, 12 anni, non può più essere rieletto. Capitale dell'arte, del teatro, del turismo, della politica internazionale con l'Onu, New York doveva gran parte della sua ricchezza alla finanza di Wall Street e alle grandi banche di Manhattan: un mondo travolto e ridimensionato dalla crisi esplosa nel 2008. Da vero sindaco-manager, Bloomberg ha favorito lo sviluppo di nuove vocazioni di una città che, un tempo grande porto e centro tessile, ha già vissuto varie trasformazioni.
Il sindaco ha puntato sulla «città verde» dell'edilizia ecosostenibile e degli otto milioni di alberi da piantare, ma soprattutto su «Silicon Alley»: quelle aziende dell'economia digitale che, cresciute nell'area di Chelsea, ma anche a Brooklyn (software e produttori di stampanti 3D) e perfino nel Bronx, ormai compete ad armi pari con la Silicon Valley californiana. Molti scoprono con sorpresa che nomi noti dell'economia digitale come Foursquare, Kickstarter, Zynga, DoubleClick, Tumblr, hanno le loro radici a New York e non in California. O che Google, fuori da Mountain View, ha una seconda «testa pensante», forte di oltre tremila cervelli, proprio a Manhattan.
La trasformazione di un'area di macellerie industriali, fabbriche di abiti e di biscotti in polo tecnologico d'avanguardia è il cuore del racconto di Tech and the City, un libro appena pubblicato da Maria Teresa Cometto e Alessandro Piol. Raccontando la storia delle start up newyorchesi la giornalista del Corriere e il venture capitalist fanno ben più che indicare una strada per i ragazzi italiani di talento che vogliono provare a costruire — in Europa o a New York — la loro start up. Il libro, pubblicato anche negli Stati Uniti, racconta l'avventura professionale e umana di tanti geni tecnologici spesso arrivati all'economia digitale nei modi più strani (Chris Dixon di Hunch alla Columbia University aveva studiato filosofia, Kevin Ryan di DoubleClick racconta di essere stato accettato a Yale solo perché in Italia aveva imparato a giocare bene a calcio), ed esplora perfino fenomeni curiosi come quello dei giovani che «si inventano una start up per rimorchiare al venerdì sera».
Ma nel libro c'è soprattutto una lezione per la politica nella descrizione di come il sindaco-manager ha saputo tenere insieme interesse pubblico e sostegno dell'imprenditorialità sviluppando un ecosistema fatto di nuova istruzione scientifica, creazione di forme di apprendistato digitale e infrastrutture tecnologiche.