Ciascuno dei tre temi intrecciati in questo scritto (orario di lavoro, trasporto, tempo libero) ha una propria ambivalenza: rappresenta una necessaria realizzazione dell’uomo moderno e provoca una particolare patologia. L’orario di lavoro eccessivo, o distribuito in turni malsani, determina fatica psicofisica ed è concausa di molteplici malattie e traumatismi [1]. Desoille e Le Guillant hanno riassunto già nel 1957 le numerose ricerche dimostranti una correlazione tra le assenze dal lavoro per malattia e la durata dell’orario settimanale (7% di assenze con 63 ore, 4% con 54 ore, 3% con 40 ore), un rapporto quasi costante tra fatica ed infortuni sul lavoro (che si riducono del 10-20% quando l’orario cala di un’ora al giorno), una incidenza degli orari eccessivi sulla salute mentale (astenia psico-fisica, turbe dell’umore e del carattere, disturbi del sonno, malattie psico-somatiche), un’influenza diretta della fatica sulla resistenza alle malattie infettive (dimostrata anche sperimentalmente sugli animali), e sulla propensione alle tossicomanie [2], Anche l’esposizione agli agenti nocivi fisici e chimici ed alle radiazioni è proporzionale alla durata del lavoro; vi è anzi una progressività per le noxae che si accumulano nell’organismo.
Questi fatti sono noti. Vengono meno riconosciuti, invece, altri fenomeni. Uno è che l’orario complessivo di lavoro, che è la somma delle ore contrattuali o legali (48 settimanali per l’Italia, in base alla Legge del 15 marzo 1923), delle ore straordinarie, del “doppio lavoro” e delle ore trascorse in itinere, da alcuni decenni tende alla stazionarietà o al peggioramento, dopo aver conosciuto una fase di progressiva riduzione tra la seconda metà del XIX e l’inizio del XX secolo [3]. Un secondo fenomeno è che in Italia (ma anche altrove) la durata del lavoro è paradossalmente più lunga per le occupazioni più faticose. Secondo le rilevazioni di M. Ancona [4] sui contratti di lavoro, gli operai dell’industria passano ad orari settimanali di 44, 42 e 40 ore, mentre gli impiegati statali hanno 36 ore. Gli autoferrotranvieri sono passati, dal 1954 al 1966, da 48 a 39 ore per gli impiegati (meno 9 ore) da 48 a 42 per gli operai (meno 6). All’interno della medesima amministrazione statale si ripresenta il paradosso: nelle Poste gli amministrativi hanno 36 ore, gli addetti al traffico ed ai servizi tecnici 42 ore; nella Difesa gli impiegati 36 ore, gli operai degli Arsenali e degli Stabilimenti 42 ore. Gli insegnanti delle scuole medie hanno in Italia gli orari più bassi del mondo: una media di 11 ore e mezzo alla settimana, e sono superati solo dai professori universitari [5]. Un terzo fenomeno è che l’organizzazione del lavoro industriale, saturando le pause e parcellizzando i movimenti in modo ossessivo, tende ad accrescere l’intensità delle ore lavorative, a provocare cioè una maggiore usura psico-fisica con durata del lavoro uguale o perfino inferiore.Patologia del trasporto
Il trasporto urbano e suburbano ha anch’esso la sua patologia, che fu già classificata in uno studio Delle malattie e lesioni che più spesso si osservano sulle linee delle ferrovie, pubblicato nello Stato Pontificio alla vigilia del 1870 [6]. L’autore, dopo aver osservato che la diffusione del trasporto “procura immense utilità alle scienze ed alle arti, e merita perciò di essere bene studiato, sotto il punto di vista della pubblica e della privata igiene”, elencava tre capitoli della patologia.
Il primo è quello “delle malattie che più di frequente attaccano gli impiegati” (gli addetti al trasporto) fra le quali predominavano allora “l’elemento reumatico e l’elemento palustre”. Oggi il quadro è diverso. Le ricerche sulle malattie degli autoferrotramvieri mostrano, insieme alla persistente incidenza delle forme infettive, reumatiche e artrosiche, un’incidenza sensibile di malattie degenerative e psicosomaitche. Rimando a più ampie statistiche per l’insieme della patologia [7]. Sottolineo soltanto che l’arteriosclerosi delle coronarie è altrettanto frequente nel personale viaggiante (20%0) e negli impiegati (21%0), nel primo caso per gli stress lavorativi, nel secondo per la sedentarietà, meno frequente negli operai (12%0). Le ulcere e le gastriti incidono maggiormente nel personale viaggiante (139%0), meno negli operai (81%0), meno ancora negli impiegati (20%), e le malattie nervose e mentali hanno la medesima distribuzione. È stato osservato che questa patologia neuropsichica deriva anche dal fatto che il personale viaggiante “posto di continuo a contatto con il pubblico, subisce le sue lamentele per i disservizi di orario e le scomodità di cui non è responsabile” [8]. Questa patologia professionale degli autoferrotramvieri tende oggi - quando tutti, o almeno i cittadini maschi adulti, diventano per .alcune ore giornaliere trasportatori di se stessi nelle difficoltà del traffico urbano - a divenire una patologia sociale, che colpisce l’insieme della popolazione.
Il secondo capitolo della patologia del trasporto era intitolato dal Tassi “sulle varie lesioni traumatiche, cui vanno soggetti gli addetti alle vie di ferro, e quelli che le percorrono”. Egli descriveva scontri, tamponamenti e perfino lo schiacciamento con “orribile morte” che “tocca a volte a quei guarda-linee e guarda-barriere, che dovendo dare nelle ore notturne il segnale ai treni di passaggio ... sopraffatti dalla stanchezza e dal sonno, si coricano durante la notte con la testa sopra una rotaia della linea, colla fatale speranza d’essere riscossi dal rumore comunicato dal treno che giunge, onde trovarsi all’erta ...”. Con la stessa “fatale speranza , nel XX secolo si è subita l’imposizione prioritaria dell’automobile come mezzo di trasporto urbano e suburbano, ed anche gli infortuni (come la malattie) dei trasportatori professionali sono divenuti infortuni di tutti. Oggi “l’automobile, unitamente alle malattie cardiovascolari ed al cancro, rappresenta la causa più importante di morte nei paesi progrediti”, e sulle strade del mondo “l’uomo si uccide ed uccide senza scopo e senza gloria più di quanto egli non abbia fatto nella seconda guerra mondiale” [9].
Il terzo capitolo trattava dell’influenza del trasporto “sulla salute dei viaggiatori e dei vicini abitanti”: erano qui compresi “nelle grandi metropoli ... gli impiegati e le persone di scarsi mezzi che per ragioni economiche dimorano ben lungi dal centro”, gli odierni pendolari; erano comprese a danno dei viaggiatori le frequenti apoplessie per “le ripetute sorprese, gli spaventi, le corse rapide e prolungate”, ed a danno dell’ambiente naturale “le mutate condizioni telluriche, i trafori, i disterri, il disboscamento dei luoghi”. Anche in questo caso, la novità sta nella estensione del danno: a tutto l’ambiente urbano ed extraurbano, ed a tutti i cittadini. È stato calcolato a Parigi, per esempio, che il pendolarismo “colpisce ora largamente la popolazione scolastica, il cui spostamento quotidiano supera il 10% degli spostamenti complessivi nell’agglomerazione urbana” [10]. La lunga durata del trasporto, che è quasi inevitabilmente legata all’espansione delle città a macchia d’olio, riduce fra l’altro il tempo dedicato allo svago, allo studio ed al riposo.
Tab. 1: Differenze dei giorni di ferie annuali tra operai e impiegati in alcuni settori industriali, prima dei recenti contratti
Metalmeccanici: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni
Dolciari: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 16 a 30 giorni
Chimici: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni
Tessili: operai da 12 a 16 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni
Ceramisti: operai da 12 a 22 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni
Minatori: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni
Giungiamo così alla patologia del “tempo libero”, che dipende dalla sua durata e dal suo impiego. La durata del riposo è regolata, in Italia, dal medesimo paradosso che ho segnalato per la durata dell’orario: chi più fatica meno ha diritto al riposo. Nel settore industriale, prima dei recenti contratti che hanno realizzato un sensibile avvicinamento, i giorni di ferie annuali, che crescono secondo l’anzianità lavorativa, erano così distribuiti tra operai e impiegati (tab. 1). Nell’impiego pubblico, la durata delle ferie è di almeno 30 giorni. La legge sul riordinamento del parastato, in discussione attualmente alla Camera dei Deputati, prevede anzi 30 giorni più le festività del mese, cioè 35 giorni. Il paradosso si accresce: con i contributi previdenziali tratti dal lavoro degli operai, che hanno 2-3 settimane di ferie, si pagano funzionari ed impiegati che vanno in ferie per 5 settimane; e quando l’operaio chiede la pensione, questi uffici previdenziali lo fanno spesso attendere per anni. Oltre alla durata, anche l’impiego del “tempo libero” è razionato secondo criteri classisti. A Roma, quasi tutti gli impianti sportivi sono localizzati nelle zone residenziali dei quartieri ricchi (Flaminio-Parioli ed EUR), mentre sono quasi totalmente sprovviste le borgate e le zone popolari. Per ogni servizio sociale e per le aree verdi, ovunque “la prescrizione quantitativa degli standard minimi per la sistemazione di spazi per le attrezzature viene ad essere non equamente distribuita fra le parti della città, per cui il grado di accessibilità da zona a zona viene ad essere anch’esso diverso”[11]. Le tessere per un sano riposo sono perciò inegualmente distribuite; ma sono sempre più rari coloro che sfuggono a questo razionamento; residenza, trasporto e lavoro congiurano infatti per impedire a qua sì tutti i cittadini il normale svolgimento non solo delle attività culturali, ma perfino delle tre funzioni naturali dalle quali dipende il recupero psico-fisico: alimentazione, movimento, sonno.
Uno studio dei consumi alimentari in Francia in funzione dell’urbanistica[12] ha documentato la riduzione del tempo e del lavoro consacrato alla nutrizione; la “saturazione di vecchi appetiti a lungo latenti”, con la copertura del fabbisogno calorico e l’aumento dei consumi di carne, pesce, frutta; la comparsa, per contro, di tendenze alimentari predisponenti a dismetabolismi e favorenti una delle “malattie del secolo”, l’obesità.
Questa, a sua volta, è uno dei quadri clinici (gli altri sono a carico dell’apparato cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, dell’equilibrio neuro-vegetativo ed ormonale, ed ovviamente dell’apparato locomotore) che hanno come concausa la riduzione del moto corporeo o ipocinesi[13]. È interessante la ricerca, che propone il Cerquiligni, delle “ragioni storico-culturali che hanno indotto l’umanità a cadere nell’errore di credere che “in fatto di lavoro il fa ancora meglio, e che in fatto di alimentazione sia vero il contrario”, ed è anche interessante l’ipotesi che ciò sia dovuto al fatto che “l’umanità ha sin troppo sofferto e tuttora in gran parte continua a soffrire la più dura necessità di diuturne ed estenuanti attività fisiche per procacciarsi un nutrimento che, per la maggior parte delle genti e ancora al giorno d’oggi, risulta impari non solo a ripagare il dispendio energetico corrispondente al lavoro richiesto dal suo stesso ottenimento, ma addirittura ad assicurare un ottimale processo di sviluppo ed un mantenimento al minimo regime motorio che un’esistenza umana possa comportare”. La propensione al poco movimento ed al molto cibo, non appena la tecnologia lo consente sarebbe perciò una scelta reattiva, un desiderio di riequilibrio storico spinto all’opposto eccesso. Vediamo però come è organizzato il lavoro industriale: “le macchine sono affiancate da cronometristi **[14]** millesimi di secondo) il movimento di alcuni gruppi muscolari e di immobilizzare gli altri gruppi superflui”[15]; i quadri di comando degli impianti meccanizzati sovraccaricano di stimoli e chiedono risposte rapidissime ad alcuni organi sensoriali, mentre neutralizzano altri sensi “distraenti”; la divisione del lavoro frantuma l’integrità psicofisica dell’operaio e lo spinge alla passività. Vediamo anche come è organizzata la scuola: la lunga immobilità corporea nei banchi e la supina permeabilità ad accogliere cumuli acritici di nozioni sono stati i due pilastri che hanno retto per secoli tutta l’impalcatura educativa, mentre l’attività nei laboratori, la ricerca sul campo, le ore ginnico-sportive, la pedagogia dell’apprendimento, la collaborazione didattica, la democrazia faticano ad affermarsi nelle istituzioni scolastiche. Vediamo infine come è organizzata la città; le distanze fra edifici sono inferiori ai minimi requisiti igienici, il verde at **** vengono ristretti e poi aboliti per far posto alle automobili, le piazze e i cortili diventano parcheggi. L’infarto del traffico, con le auto come corpuscoli circolanti che rompono le arterie stradali ed invadono il tessuto urbano, blocca ogni flusso vitale nella città.
Propensione al poco movimento? Certamente: ma è favorita, organizzata, utilizzata per trarre il massimo profitto dal lavoro salariato, la massima acquiescenza della scuola, la massima rendita dalla proprietà fondiaria, il massimo guadagno dalle automobili e dal petrolio.
Turbe dell’alimentazione, del movimento, ed infine del sonno. Dopo le ricerche di Begoin sulle telefoniste[16], nelle quali riscontrò ipersonnia diurna (34% dei casi), insonnia notturna (difficoltà di addormentarsi prima delle 1-2 del mattino, oppure risveglio dopo tre o quattro ore di sonno), sonno agitato e poco riposante (53% dei casi) con sogni ed a volte incubi “professionali”, molti hanno constatato che le ore di sonno vanno riducendosi di quantità e peggiorando di qualità reintegrative, per molte categorie di lavoratori e per gran parte della popolazione urbana[17], anche a causa dei rumori, dell’eccesso di illuminazione artificiale e del difetto di isolamento delle abitazioni.
Se otto ore vi sembran poche ...
Alla ricerca del silenzio e del riposo nella domenica o nelle ferie estive i cittadini si spostano verso il mare, i monti, le campagne. Ma qui subentra le bruit dans de loisir: “È paradossale - scrivono studiosi francesi del rumore urbano - pensare che il cittadino, logorato da una vita troppo attiva, depresso da troppe preoccupazioni, traumatizzato psicologicamente dai troppi rumori che incontra nella vita, consacra il suo svago ad attività frastornanti”[18]. La colpa, tuttavia, non può essere attribuita alla musica jazz che impera nei luoghi di vacanza (orchestre che superano, secondo Mounier, Kuhn e Morgon, i 95 decibel, raggiungendo fra 125 e i 2.000 hertz 122 decibel). Il Detti nota giustamente che “le condizioni della casa, del quartiere, e della città, e la maggiore mobilità dovuta prevalentemente al mezzo privato accrescono il senso di rifiuto per la città e quindi la naturale tendenza ad usufruire del riposo settimanale, dei ponti e delle ferie fuori delle città ... gli effetti provocano i grandi esodi, la congestione dei servizi di trasporto, del sistema viario e le alte perdite umane per incidenti”. Gli effetti consistono anche “nella crescita greggia ed abnorme dei luoghi di villeggiatura balneare e montana che ormai costituiscono dei veri e propri sistemi urbani ... in questi ambienti si stanno riproducendo gli stessi difetti di congestione che ha la città dalla quale si sfugge, e qui il prodotto ha aspetti speculativi e consumistici a scapito di quelli che dovrebbero interessare il riposo, la salute, le forme di vita e di svago per compensare i difetti della residenza stabile e del lavoro”[19].
Si riproduce, quindi, nel “tempo libero” la stessa patologia professionale ed urbana, la stessa carica di violenza sull’uomo che esiste nel lavoro e nella città[20]. Si giunge quindi ad una nuova fase, nella quale la lotta per la salute non può essere più condotta su fronti separati, ma richiede un’azione integrata nel lavoro, nella residenza, nel trasporto, nel “tempo libero”. Se riflettiamo alla storia dell’intreccio di fattori morbosi e di misure sanitarie collegate a questi molteplici aspetti della vita umana[21], possiamo dire probabilmente che nell’ultimo secolo si sono susseguite tre fasi. Nella prima, descritta in Francia da Villermé ed in Inghilterra da Engels[22], agiva una costellazione di fattori lavorativi, nutritivi, e abitativi sinergicamente patogeni. Villermé scrive che i tessitori cominciavano il lavoro all’alba per terminarlo alle 10 di sera, e vi erano “bambini di 4 anni che facevano questo mestiere”; i ragazzi “abitavano a volte due leghe dalla fabbrica e vi giungevano in inverno tra il freddo e la neve”; il riposo non raggiungeva 6 ore; l’alimentazione era insufficiente: gli operai “portavano in mano o nascondevano sotto la veste il pezzo di pane che doveva bastar loro fino al rientro in casa”; gli alloggi erano cantine, granai o case sovraffollate ove i proprietari “come in rue du Guet, facevano inchiodare le finestre per impedire che aprendole o chiudendole si rompessero i vetri”. La speranza di vita ad 1 anno (superata cioè l’altissima mortalità infantile) era allora 43 anni per gli industriali, 37 per i domestici, 20 per gli operai qualificati e 11 anni per i manovali delle filande. Il movimento operaio e l’opinione pubblica progressista lottarono per decenni sul triplice terreno della riduzione degli orari, del risanamento delle abitazioni e del fabbisogno alimentare. Le mondine del vercellese cantavano Se otto ore vi sembran poche j provate voi a lavorar, e troverete la differenza tra lavorare e comandar. I proletari di tutti i paesi intonavano la canzone delle 8 ore[23] di J.G. Blanchard: Noi vogliamo cambiare le cose - siamo stanchi di lavorare senza scopo - Noi vogliamo gioire del sole e dei fiori - 8 ore per lavorare - 8 ore per riposare - 8 ore per vivere e sognare.
In Italia, lo SFI (sindacato ferrovieri italiani) distribuiva gli orologi da tasca con sovraimpresso nel quadrante otto ore di lavoro, otto ore di riposo, otto ore di studio. Si giunse così, tra molte resistenze e dure lotte, alla seconda fase, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, nella quale gli orari furono ridotti, molte abitazioni vennero risanate, e nuovi quartieri più salubri costruiti, l’istruzione fu resa obbligatoria, e la durata media del taylorismo - fordismo nell’industria -, con la trasformazione delle città in metropoli, con l’esasperazione della motorizzazione privata si è entrati in una terza fase, in una nuova costellazione sinergica di fattori patogeni: lavoro legalmente ridotto nell’orario, ma più intenso e prolungato di fatto; fabbisogno calorico soddisfatto ma disordini orari e qualitativi della nutrizione; appartamento più o meno salubre in agglomerati urbani malsani; trasporto lungo e rischioso; e nuovi fattori psico-sociali di malattia. Scrive Le Guillant che oggi, per il lavoratore “è tutta l’esistenza ad essere coinvolta nella fatica: la sua posizione verso i problemi del lavoro e dell’ordine sociale, le sue difficoltà personali, materiali e morali, la distanza che deve percorrere per andare in fabbrica o in ufficio, il modo come abita, come sono i rapporti con la moglie, i figli, gli amici, ciò che mangia e ciò che beve, come sono il suo svago e le sue attività sindacali e politiche ... Tutto ciò entra in gioco, in maniera talvolta decisiva, nel suo adattamento agli sforzi che gli vengono richiesti. Incessantemente questi aspetti individuali intervengono a spiegare una rottura del suo equilibrio, l’abbandono di un posto, un infortunio, una malattia”[24].
In questa terza fase, in sostanza, si ripropone con una nuova patologia del lavoro, del trasporto e del “tempo libero”, una nuova subordinazione dell’intero ciclo della vita umana alle esigenze di valorizzazione del capitale. Chi visita ora la grande azienda petrolchimica SIR, nata in questi anni a Porto Torres, viene condotto nel piazzale interno, tra i tubi e gli impianti, tra i fumi ed i rumori, ad ammirare un elegante edificio residenziale con 600 posti-letto, al quale si è dato il nome poetico-dialettale Sa domo (la casa), costruito con l’intento di alloggiare in azienda i tecnici e gli operai (soprattutto i crumiri, in occasione di scioperi): purezza dell’aria, riposo distensivo, rapporti familiari, vita democratica, relazioni sociali, attività culturali, tutto sacrificato agli interessi aziendali. Ma questa aberrante eccezione conferma una regola che è comune agli insediamenti “normali”, al rapporto lavoro-residenza che si è configurato con lo sviluppo “della città come città-territorio. come sistema sociale globale dove si salda, dentro il processo complessivo di produzione, momento lavorativo e tempo libero, produzione e consumo”[25]. Sul piano economico, l’intreccio fra profitto e rendita condiziona oggi la fabbrica come la città; sul piano sanitario, il lungo e disagevole trasporto e la “malaria urbana” rendono difficile il ripristino della capacità lavorativa. e d’altra parte lo sfruttamento proietta la sua ombra patogena sulla intera giornata del lavoratore.
Negli ultimi anni, per reagire a questo sinergismo di noxae patogene e per affermare il diritto alla salute, al riposo, allo studio, vi sono state esperienze di lotte popolari senza precedenti, di cui alcuni circoli scientifici (per esempio, la Società Italiana di Medicina del Lavoro e l’ Associazione per l’Igiene e la Sanità Pubblica) hanno colto e approfondito il valore pratico e conoscitivo. Tali esperienze riguardano l’orario, il trasporto, il “tempo libero”, ed in qualche caso l’integrazione di questi tre temi. Sull’orario di lavoro, M. Ancona sottolinea la novità delle seguenti rivendicazioni sindacali: la durata del lavoro, “deve considerare tempi di lavoro anche i tempi esterni alla fabbrica, tuttavia connessi al lavoro, cioè il trasporto; la valutazione dell’orario di lavoro deve essere fatta in base ad un rapporto non tanto estensivo quanto intensivo (ritmi ambiente-salute)”[26]. S. Garavini sottolinea[27] il valore di un’altra richiesta: “la non obbligatorietà degli straordinari, o almeno la fissazione di limiti molto ristretti, è una conquista sindacale formale molto recente in Italia, già in Italia non generale, e quasi sconosciuta in altri paesi capitalistici sviluppati (è stata peraltro una delle rivendicazioni delle lotte contrattuali degli operai dell’auto in USA)”. G. Marri riprende questo accenno e riassume in quattro punti le linee sindacali volte a limitare la durata estensiva e intensiva del lavoro:
1) una spinta generale per la riduzione della settimana a cinque giorni lavorativi, spinta accompagnata dal rifiuto, che si va allargando a settori sempre più importanti della classe operaia, a compiere lavoro straordinario;
2) un rifiuto sempre più deciso a lavorare di notte, cioè un rifiuto ad ammettere la necessità sociale del lavoro a ciclo continuo;
3) l’applicazione sempre più diffusa del principio della non delega e della validazione consensuale nella determinazione dei tempi, dei ritmi di lavoro e delle pause, come mezzo per contenere e ridurre la durata intensiva della giornata lavorativa;
4) una spinta generale all’ aumento delle ferie annuali[28].
Queste tendenze ad attenuare la fatica operaia riducendo l’orario reale (somma delle ore contrattuali più ore straordinarie più trasporto, moltiplicata per l’intensità del lavoro e per i cicli malsani, cioè notturni o alterni) hanno un duplice significato, biologico e sociale, che tramuta gli interessi di una classe - i lavoratori salariati - in valori generali.
Sul piano biologico, mi pare che le rivendicazioni e le parziali conquiste ottenute tendano a recuperare il ritmo vivente della specie Homo Sapiens e dei singoli individui che la compongono, violentato dal ritmo imposto dal lavoro morto (il capitale, secondo la definizione marxiana) e che quindi, tra tanto parlare e assai meno realizzare nel campo della protezione della natura, rappresentino una delle poche esperienze di recupero della naturalità a noi più cara e più vicina, quella dell’uomo stesso [29].
Sul piano sociale, mi pare che le rivendicazioni e le parziali conquiste ottenute tendano ad affrontare una delle principali distorsioni che ha subito in questo secolo, e particolarmente negli ultimi venti anni, l’economia italiana: la riduzione della popolazione attiva, che alla data dei vari censimenti [30] risultava la seguente:
anno 1911: 48,2%; anno 1931: 45,3%; anno 1951: 43,5%; anno 1961: 39,8%; anno 1971: 34,7%.
La riduzione della durata e dell’intensità degli orari implica necessariamente maggiore occupazione nelle attività produttive. Si aggiunga che le Confederazioni Sindacali hanno ottenuti in numerosi accordi aziendali (p. es. FIAT, Alfa Romeo) l’impegno di investimenti nel Sud, e che per favorire lo sviluppo della occupazione nel mezzogiorno si sono dichiarate disponibili ad esaminare la temporanea sospensione della “settimana corta” e una diversa organizzazione dei turni, purché l’orario venga ridotto a 36 ore e siano migliorati i trasporti ed i servizi sociali.
Su questo terreno le tendenze sindacali dei lavoratori dell’industria realizzano una prima saldatura con il riequilibrio degli insediamenti territoriali, condizione per il decongestionamento delle aree metropolitane, e con lo sviluppo dei trasporti pubblici, condizione per alleviare la fatica e gli infortuni del traffico urbano e suburbano. Questo medesimo risultato non può essere ottenuto puntando in modo esclusivo o prevalente sul “fattore umano negli incidenti del traffico”. Lo psicologo che introdusse in Italia questa tendenza, padre Gemelli [31] ricordava in un Convegno del 1959 che negli Stati Uniti “l’azione esercitata per prevenire gli infortuni automobilistici è posta sotto il segno di tre E: Engineering, ossia misure di ordine tecnico; Enforcement, ossia misure d’ordine repressivo; Education, ossia misure d’ordine psicologico”. I risultati sono noti: la somma delle tre E dà oltre cinquantamila morti all’anno. Padre Gemelli restringeva il “fattore umano” al piano individualistico, anziché allargarne la dimensione alle scelte sociali dell’uno o dell’altro mezzo di trasporto, dell’uno o dell’altro insediamento lavorativo e residenziale. Considerava che l’incidente è “precipuamente dovuto al comportamento del conducente del veicolo”, che nella guida “il fattore fondamentale è dato dalle caratteristiche dell’intelligenza”, e che perciò “la psicotecnica ci permette di selezionare coloro che hanno le qualità attitudinali per diventare buoni conducenti”. Il limite di questa impostazione, che pure ha qualche validità, è emerso subito anche sul piano scientifico. Già nel medesimo Convegno il Mitolo, oltre ad analizzare la costituzione infortunistica come “complesso psico-somatico congenito e caratteristico della personalità individuale che si manifesta con una specifica tendenza ad incorrere nell’infortunio” [32], dimostrava l’influenza (tutt’altro che congenita) sugli infortuni della fatica alla guida, delle intossicazioni “volontarie”, degli inquinamenti ambientali, dell’orario lavorativo. Ma il limite è emerso soprattutto sul piano sociale: quando chiunque lavora compie la scelta coatta di avere un proprio autoveicolo, la selezione psicotecnica dei conducenti ideali ha ben poco senso; e come misura preventiva, è certamente più efficace la riduzione del volume del traffico privato incentivando e rendendo più celere il trasporto pubblico.
I lavoratori autoferrotramvieri (ed i ferrovieri per gli spostamenti a lunga distanza), dopo esser stati vittime passive delle distorsioni della città e del trasporto, ed aver a volte perfino sollecitato, per maggiori compensi, prolungamenti straordinari di orario, sono divenuti cavie ribelli. Hanno chiesto orari ridotti, ed insieme ad alcune amministrazioni comunali hanno ottenuto la chiusura dei centri storici al traffico privato, corsie e strade preferenziali per i mezzi pubblici, acquisto di nuovi autobus, maggiore velocità commerciale, provvedimenti che alcuni anni fa rischiavano l’impopolarità ma che la crisi energetica e la congestione urbana hanno poi dimostrato, agli occhi di tutti, essere indispensabili. Vi è da augurarsi che le esperienze dell’ austerity automobilistica, di cui nel ’73-‘74 l’Italia ha più subito le improvvisate stranezze e i danni economici, che goduto i potenziali vantaggi, siano utilizzate per invertire almeno questo aspetto del “modello di sviluppo”: i trasporti e gli insediamenti.
Anche per la ripartizione e per l’uso del “tempo libero” vi sono recenti acquisizioni pratiche e concettuali del movimento dei lavoratori e delle amministrazioni locali. Nell’accordo aziendale firmato il 9 aprile di quest’anno alla FIAT per gli stabilimenti del gruppo veicoli industriali, per esempio, è stato concordato un interessante esperimento di scaglionamento delle ferie, in cinque turni di tre settimane ciascuno, dal 17 giugno al 29 settembre, con un giorno di ferie in più per chi usufruisce del primo o dell’ultimo turno: continuità produttiva, maggiore occupazione, decongestionamento della rete turistica diventano così, anziché brandelli di un incomprensibile puzzle, obiettivi raggiungibili. Nell’accordo che ha chiuso il 12 aprile la vertenza Italsider vi è un intreccio di misure che riguardano sia il lavoro che il “tempo libero”, sia la fabbrica che l’ambiente esterno: adeguamento degli organici evitando il ricorso allo straordinario; miglioramenti ecologici (trattamento delle acque di scarico, recupero dei fumi, rifacimento di alcuni impianti partecipazione dei lavoratori alle rilevazioni ambientali con addestramento e dotazione delle necessarie apparecchiature; erogazione da parte dell’azienda dello 0,8% delle retribuzioni a favore degli Enti locali che si impegnano in programmi sociali (case e trasporti). Parallelamente si sono affermati, per ora più nei programmi che nella realtà, principi nuovi di riassetto del territorio sulla base di due priorità agricoltura e mezzogiorno) che potrebbero decongestionare le aree metropolitane; si è sviluppato il movimento per lo sport come servizio sociale; si sono rivalutati il verde urbano, l’attività motoria, il trasporto pubblico; si sono estese nuove forme dì partecipazione democratica come i comitati di quartiere e di circoscrizione che possono saldare il Comune alla popolazione, come i Consigli sindacali di zona che possono saldare la fabbrica al territorio.
Ho ricordato queste esperienze pur conoscendone i limiti geografici, là precarietà, l’insufficienza, rispetto a opposte tendenze che aggravano anziché attenuare, il sinergismo dei fattori patogeni che agiscono nel lavoro, nel trasporto, nel “tempo libero”. Sono esperienze, però, che indicano una strada necessaria, anche se difficile e contrastata [33]. Per estenderle e per consolidarle, vorrei sottolineare i seguenti orientamenti:
1)Sul piano politico, molto dipende dall’attività dello Stato sia per le scelte produttive e sociali, sia per l’organizzazione deI servizi ( trasporti, sanità, scuola, sport). Basta pensare a! ruolo che potrebbero avere le Unità Sanitarie Locali sia nell’individuazione dei “sinergismi patogeni” che nella mobilitazione di capacità tecniche di forze popolari per l’attuazione di adeguate misure preventive.
2)Sul piano amministrativo, è stato sottolineato il valore della pianificazione urbanistica per attenuare fattori morbosi quali “l’inquinamento atmosferico, l’inquinamento delle acque e del suolo, il rumore, la disritmia e l’incoordinazione delle attività comunitarie, il sovraffollamento e la promiscuità, la difficoltà dei rapporti sociali, la potenzialità lesiva della motorizzazione” [34].
3)Sul piano legislativo, oltre all’urgenza del Servizio sanitario nazionale (che ha subito ora, nei programmi governativi, un ulteriore slittamento per studiare e per “verificare modalità e tempi di applicazione”), va ripresa la proposta di regolare con nuove norme l’orario di lavoro ed il riposo settimanale e annuale dei lavoratori, per generalizzare nell’industria le conquiste delle categorie sindacalmente più forti, per riequilibrare il rapporto operai-impiegati, per scoraggiare e colpire i frequenti abusi, per affrontare questioni mature come quella delle festività infrasettimanali e dello scaglionamento delle ferie.
4)Sul piano concettuale, infine, ricerche interdisciplinari e azioni coordinate dovrebbero tendere a colmare la separazione fra le conoscenze che abbiamo accumulato sui singoli brandelli dell’attività dell’uomo (il lavoro, il riposo, il trasporto, la residenza, il sonno, lo studio, le relazioni familiari e sociali), senza riuscite finora ad inquadrarli in una visione unitaria [35]. Anche per questo aspetto, esperienze degli ultimi anni come il recupero del tempo di studio nel lavoro operaio, come la spinta verso relazioni comunitarie nei quartieri dormitorio, come la partecipazione popolare alla vita della scuola, come l’apertura del microcosmo familiare verso la società, come lo sviluppo delle associazioni culturali di base, forniscono interessanti basi per la ricerca e stimoli crescenti al rinnovamento della città.
[1]Carozzo S., La fatica quale fattore e concausa di malattia, Istituto di Medicina Sociale, Roma 1964, pp. 117-126.
[2]Desoille H., Le Cuillant L., Effects de la fatigue sur la santé des travailleurs, Conference internationale sur l'influence des conditions de vie et de travail sur la Santé, Cannes, 27-29 settembre 1957.
[3]Sabatucci F., La durata del lavoro nei principali paesi industrializzati, Quaderni di Rassegna sindacale, n. 26. L’orario di lavoro, giugno 1970, pp. 80-98.
[4]Ancona M., Orario di lavoro, settimana corta, ferie,Bulzoni, Roma 1974.
[5]Legalmente, è vero che per essi l’anno è di sei mesi, la settimana di tre giorni, il giorno di un’ora e l’ora di quarantacinque minuti. La proposta del tempo pieno fu respinta nel 1967 con bizzarre argomentazioni: l’on. D’Amato, DC, sostenne: “non credo che Archimede, per esempio, dovesse essere impiegato full time. Come altrimenti avrebbe potuto gioiosamente gridare eureka? All’immagine di Archimede che faceva il bagno quando scoprì la famosa legge si associa il ricordo di Newton cui la caduta di una mela propiziò la scoperta della legge di gravità. E così per Galileo ecc.” (cfr. F. Froio: Università: mafia e potere, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 56-65). La proposta del tempo pieno è stata respinta dalla maggioranza (DC, PSI, PSDI, PRI) anche in occasione del D.L. 1° ottobre 1973, Provvedimenti urgenti per l’Università.
[6]Tassi E., Delle malattie e lesioni che più spesso si osservano sulle linee delle ferrovie, ed in ispecie delle romane, con alcune riflessioni circa la necessità di un regolare servizio sanitario proprio delle medesime, Tipografia Belle Arti, Roma 1869.
[7]Berlinguer G., Malattie e igiene del lavoro degli autoferrotramvieri, Istituto di Medicina Sociale, Roma 1962, pp. 208, cfr. la bibliografia alle pp. 195-199.
[8]Saginario M., Sugli aspetti neuropsichici, nella Tavola rotonda Il problema delle malattie professionali degli autoferrotramvieri, Patronato INCA, Parma, 13 dicembre 1964. gi Cfr. anche la relazione di A.C. Dettori, Le malattie cardiovascolari.
[9]Tizzano A., La statistica negli infortuni stradali sotto il riflesso sociale, clinico e medico-legale, nel vol. L’aspetto medico dell’incidente stradale, Atti del Symposium di Salsomaggiore, 8-9 maggio 1959, pp. 15-16.
[10]Relazione ciclostilata per gli Etats generaux des trasports et de la circulation dans la regione parisienne, Salle de la mutalité, 16 giugno 1973.
[11]Ancona M., cit., pp. 75-78.
[12]E. Detti, Relazione urbanistica al Convegno, Orario di lavoro e tempo libero, ARCI-UISP, Roma, 15-16 novembre 1973, in corso di stampa.
[13]Claudian J., Vinit F. e altri, Evolution de la consommation alimentaire en fonction de l’urbanisation, nel vol. Maladies de la vie urbaine, Masson, Paris 1973, p. 67 e segg.
[14]Cerquiglini S., Le basi fisiologiche e Dagianti A., Fisiopatologia della malattia ipocinetica, nel quaderno n. 115 dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale, L’ipochinesi malattia sociale, 25 novembre 1971.
[15]Nella relazione di Wyss V., del Servizio sanitario FIAT su L’attività sportiva del lavoratore: aspetti fisiologici (nel Quaderno n. 88 dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale, Lo sport dei lavoratori, 27 marzo 1969) si afferma che l’attuale fatica nell’industria rende impossibile la pratica sportiva per i lavoratori.
[16]Begoin J., Le travail et la fatigue, La Raison, nn. 20-21, l° trimestre 1958, pp. 53-54.
[17]Sulla fisiologia del sonno e del suo ritmo biologico cfr. M. Jouvet, Veglia, sonno, sogno: l’approccio biologico, nel vol. a cura di tu R. Venturini, I livelli di vigilanza: coma, sonno, ipnosi, attenzione, Bulzoni, Roma 1973, p. 75 e segg. Sulla patologia del riposo in rapporto al lavoro cfr. W. Menzel, Il ritmo diurno e notturno dell’uomo e il lavoro a turni alterni, Benno Schwabe und Co., Bale, 1962, pp. 189 (con 811 riferimenti bibliografici).
[18]Mounier P., Kuhn, Morgon A., Le bruit dans la ville, nel cit. vol. Maladies de la vie urbaine, p. 14.
[19]E. Detti, Rel. cit. È da osservare che anche in questo caso silenzio, spazio e riposo del hanno un gradiente classista: i contadini, per esempio, vengono espulsi dalle campagne e inurbati, e le loro case sono vendute e trasforma te in residenze per week end e per l’estate. Vi è chi perde la tranquillità e chi la compra.
[20]I giornali italiani del 10 aprile 1974 hanno riferito statistiche sugli omicidi nelle città americane, elaborate da A. Barnett, del MIT, secondo il quale “un neonato che nasca oggi in una delle cinquanta grandi città degli USA ha più probabilità di venire ucciso di quanta non ne avesse avuto un soldato americano durante la seconda guerra mondiale”; egli ha riscontrato che “su 79 persone nate quest’anno a Boston almeno una dovrebbe venir assassinata nel corso della sua vita. Il rapporto si riduce ulteriormente a New York (una su 67) e tocca un livello allarmante a Washington (una su 40) e Detroit (una su 35)”.
[21]Sull’intreccio fra lavoro e riposo, cfr. Berlinguer G., La macchina uomo, Editori Riuniti, Roma 1960, ed il più recente Orario di lavoro e tempo libero, La critica sociologica, n. 28, inverno 1973-1974, pp. 8-30.
[22]Villermé L.R., Tableau de l’état physique et moral des ouvriers employés dans les manufactures de coton, de laine et de soie, 2 voll., Parigi 1840; Engels F., Die lege der arbeitenden Klasse in England, Leipzig 1845.
[23]Per una storia di queste lotte, ed anche per un’efficace interpretazione marxista del rapporto lavoro-riposo, cfr. Toti G., Il tempo libero, Editori Riuniti, Roma 1961, pp. 19-108.
[24]Le Guillant L., prefazione al cit. vol. di Begoin D.P., Le travail et la fatigue pag. l2.
[25]Delle Donne M., Città e società civile, Ed. dell’Ateneo-Officina, Roma 1973, p. 9.
[26]Ancona M., cit., pp. 8-9.
[27] Garavini S., Relazione sindacale al Convegno Orario di lavoro e tempo libero, cit.
[28] Marri G., La salute,nel cit. Quaderno di “Rassegna Sindacale” L’orario di lavoro, pp. 123-126.
[29]Gli aspetti sociali del ritmo biologico umano sono totalmente ignorati nel vol. di Gedda L., Breuci G., Cronogenetica. L’eredità del tempo biologico, Mondadori, Milano 1974. Gli autori ricordano che la natura vivente conosce ritmi circadiani (da dies), ritmi catameniali (da mensis), e ritmi annuali. Mentre i vegetali sono soprattutto soggetti a questi ultimi, l’uomo ha alcuni ritmi catameniali (mestruazioni della donna, e relative fasi ormonali) ed un forte ritmo circadiale, che condiziona sia la fisiologia (sonno, temperatura corporea, flusso espiratorio massimo, globuli bianchi nel sangue, tasso circolante ed escrezione urinaria dei corticosteroidi, sodio, potassio, aldosterone ecc.), sia la patologia (crisi parossistiche dell’asma notturno, ritmi delle allergie agli antibiotici, afflusso sanguigno nel polpaccio nella claudicazione intermittente, microfilarie dell’oncocercosi nel sangue periferico ecc.). Ricondurre il lavoro umano al tempo diurno, e consentire nelle ore lavorative l’equilibrio fra dispendio e recupero, rappresenta una conquista culturale che integra nella razionalità sociale degli uomini il substrato biologico della nostra esistenza.
[30]Annuario statistico italiano, 1973, Istituto centrale di statistica, Roma, p. 21.
[31]Gemelli A., Il fattore umano negli incidenti del traffico, nel cit. Symposium L’aspetto medico dell’incidente stradale, pp. 7-11.
[32]Mitolo M., Il problema della fatica e gli incidenti stradali, ivi, p. 268.
[33]Per l’orario, per es., nella cit. relazione di S. Garavini si ricorda che “il costo del lavoro, a parità di tempo complessivo di lavoro delle maestranze di un’impresa, tende a crescere con il numero di lavoratori occupati entro quel tempo complessivo di lavoro”; ciò spiega la resistenza padronale alle riduzioni di orario, ed il frequente ricorso agli straordinari.
[34]La programmazione urbanistica come metodica di medicina preventiva, Quaderno n. 4 dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale, 18 dicembre 68, relazioni di T, Martelli, P. Montelli, M. Cosa, G. Vecchioni, M. Nicoli.
[35]Anche per le varie età della vita sorge analoga esigenza: non mi pare più accettabile, infatti, l’idea che un terzo della vita umana sia dedicata nell’età giovanile alla preparazione, un terzo al lavoro e l’altro terzo al riposo. Sarebbe più giusto parlare di preminenza della formazione, del lavoro e del riposo nelle varie età.