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Carla Maria Carlini
Edward Hopper: alienazione fra sprawl e grattacieli
19 Giugno 2010
Immagini
L’«urbanista in trincea» ha visitato per eddyburg l’esposizione milanese delle opere dell’artista statunitense

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Si è conclusa da poco la prima retrospettiva italiana, a cura di Carter E. Foster, di Edward Hopper, testimone chiave di un nuovo rapporto tra l’uomo moderno e i luoghi e del cambiamento sociale dell’abitare .

I suoi paesaggi rurali e urbani popolati da personaggi isolati comunicano solitudine distacco , nostalgia e si oppongono ai contemporanei modelli di progresso. L’America che occupa i suoi quadri, e che si intravede come attraverso una porta socchiusa, può quindi essere intesa come la rappresentazione dei miti infranti e della incomunicabilità degli abitanti di una grande società industriale e commerciale associata alla Grande Depressione seguita al crollo di Wall Street nel ‘29.

Hopper elimina dalla visione qualsiasi elemento di distrazione o orpello, superando il reale, trasformando il processo pittorico in un processo psicoanalitico teso a svelare il decadimento e la confusione che la società moderna ha inflitto agli archetipi umani e abitativi. Infatti Hopper è consapevole di vivere in un’epoca in cui i valori tradizionali dell’immagine sono entrati in profonda crisi. Si interroga incessantemente sull’arte nel rapporto con la realtà portando sulla tela un confronto diretto con la condizione umana del proprio tempo, affrontando i conflitti, il vuoto, la solitudine che appartengono alla vita di ogni uomo nella società contemporanea. Utilizza perciò oggetti comuni e luoghi familiari; distributori di benzina, caffè, drugstore, negozi con le vetrine illuminate, uffici, stanze di albergo in cui appaiono una o due figure che diventano finestre aperte sulla nostra parte silente e oscura.

Lo stesso Hopper scrisse che se fosse stato capace di servirsi delle parole per esprimere quel che vedeva non avrebbe avuto bisogno di dipingere. Non era quello che era apparente e che avrebbe potuto ritrarre come illustratore ed interessargli, bensì ciò che si presentava ai suoi occhi interiori.

Nelle sue immagini la casa è il luogo dove si esiste, ma dove si avverte un 'incapacità di vivere e di abitare. La sua è una pittura di negazione, negazione dell’uomo e dei luoghi; le relazioni vengono eliminate o ci portano altrove; le case di Hopper ci trasportano nella nostra realtà, alle nostre problematiche di relazione sebbene l’ America della prima metà del ‘900 sia distante nel tempo e nello spazio da noi.

In tempi in cui l'apatia e l'alienazione nelle relazioni sociali hanno sostituito il momento della sosta concessa al pensiero dell'altro, lo straniamento delle nuovissime tecnologie di comunicazione a distanza e l'amplificazione che l'industria dell'immagine detta, si riflettono su una gettonatissima architettura «da suburbia», sfavillante nella progettazione extraurbana dei grandi centri commerciali, dei parchi a tema e degli edifici pubblici ultra-funzionali , nascono i non-luoghi, spazi in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione, sospinti o dal desiderio frenetico di consumare o di accelerare le operazioni quotidiane, che assieme alla bruttezza e il cattivo gusto delle casette a schiera e dei condomini pieni di timpani e colonnati postmoderni, emblema di un recente benessere, stringono d'assedio le antiche città e i borghi, uccidendo ciò che resta della campagna, e costituiscono l'indice inquietante della nostra alienazione, la misura dell'incuria culturale di cui è impregnata l’era contemporanea.

Prende forma nei suoi quadri un’America non letteraria e senza mitologia, che porta i segni di un’età contemporanea anche se vagamente fuori moda: niente grattacieli, automobili, fabbriche, ma binari della ferrovia, case coloniche di legno bianco con i loro tetti a triangolo, mansarde vittoriane ormai decadute, periferie anonime incentrate sul possesso e sul consumo e non sulla comunità. L'eccessiva dispersione degli insediamenti, la città che si sparpaglia sul territorio causando il cosiddetto sprawl, e intensificazione in verticali dei grattacieli, sono la conseguenza del medesimo fenomeno economico- sociale che causa estraniamento e alienazione e non produce relazioni urbane e collettive.

L'indifferenza per i grattacieli salta all’occhio per un pittore che descrive l’architettura di new York. L’avversione di Hopper per le alte torri della sua città è evidente in molti dei suoi dipinti. Quando le include, le fa apparire come intruse sgradevoli, fuori posto. In questo l’artista è partecipe del clima a cui diedero voce anche critici come Mumford che pubblicò articoli intitolati” possiamo tollerare i grattacieli?” e “Città rafforzate”. Ai suoi occhi i grattacieli rappresentavano tutto ciò che disapprova dell’America urbana, della superficialità dei valori materiali alla crescente standardizzazione degli stili di vita.

Il percorso di Hopper non è certamente di carattere urbanistico, egli si collega alle immagini dell' inconscio collettivo e attraverso queste ci offre la possibilità di comprendere al di là delle parole come l'attuale trasformazione delle città e del territorio produca squilibri nel rapporto pubblico -privato e individuale – collettivo . Collegandosi con queste immagini archetipe primordiali possiamo ricapire chi siamo, riacquistare la nostra identità e la forza per sopravvivere “anche alle notti più lunghe”.

Se parlando di case si parla anche di individui, esemplare è un acquerello del 1925 intitolato Skyline near Washington Square. Quando venne esposto la prima volta l’acquerello era intitolato Self-portrait, con un riferimento scherzoso all’altezza dell’autore, ma che può indicare una consapevolezza di Hopper del naturale processo di identificazione uomo-casa. Nell’acquerello è raffigurato un tetto semplice e austero dietro il quale si erge un unico edificio stretto e lungo che domina il cielo. Il palazzo ritratto che sorgeva vicino alla sua casa newyorkese si eleva al di sopra delle altre case. Nell’osservazione capiamo subito che si tratta di un palazzo slanciato, ma la natura verticale di questo edificio è negata; in realtà Hopper ci mostra un cubo: la parte bassa dell’edificio, l’ingresso, e gli elementi che comunicano direttamente con la vita cittadina vengono tralasciati per mostrarci la solitudine dell’attico al di sopra di ogni cosa, come un picco sospeso sopra un mare di nuvole. Del palazzo possiamo vedere due lati, una facciata spoglia e liscia, completamente esposta al sole che si contrappone alla pesantezza della facciata di rappresentanza, dove finestroni appesantiti dalle lesene di primo novecento si negano protetti dall’ombra. Si potrebbe dire che un lato riflette, l’altro assorbe. Il paragone con la personalità dell’artista viene spontaneamente, in realtà Hopper non ci offre soltanto un’analisi introspettiva di sè stesso ma amplia il raggio di identificazione fermando sulla tela condizioni psicologiche in cui tutti possono immedesimarsi.

"Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l'inquilino" suggerisce con una certa brutalità Victor Hugo: analogamente si può aggiungere : dalla città la società.

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