All’importanza politica del cibo ci richiamano le parole di Frances Moore-Lappe, in una bella intervista rilasciata all’ Espresso. La studiosa britannica sostiene, con argomentazioni che mi sembrano fondate, che un circolo perverso lega l’obesità progredente tra gli USA (e, sembra, ormai anche tra gli europei), la denutrizione e la morte nei continenti poveri, la produzione di cibi geneticamente modificati e l’inquinamento da additivi chimici per l’agricoltura. La cosa singolare è che questo circolo perverso è scaturito da un’emergenza economica che ha provocato una radicale modificazione delle diete prevalenti nei paesi sviluppati. In sostanza, poiché negli anni 50 “il prezzo delle granaglie era al di sopra delle capacità d’acquisto di gran parte della popolazione mondiale” e di conseguenza “il mercato registrava una situazione di intasamento”, per stabilizzare i prezzi “i produttori decisero di dare da mangiare il surplus agli animali d’allevamento”. Da allora le quantità di cereali “date in pasto agli animali da macello superano di gran lunga quelle che vengono consumate dalla popolazione mondiale".
La Moore-Lappe illustra le conseguenze di questa decisione economica: “Gli effetti di questa scelta sulla salute mondiale si vedono e sono deleteri: l’obesità e tutte le malattie legate a questo tipo di dieta ricca di grassi animali dilagano. Interi continenti sono stati costretti ad abbandonare coltivazioni autoctone per dedicarsi alla crescita di cibi per l’esportazione. Il numero di aziende agricole a conduzione familiare è diminuito drasticamente come pure la varietà dei cibi coltivati. Il potere agricolo si e concentrato nelle mani di un pugno di società multinazionali e in molti casi, vedi l’Africa, i Caraibi e l’Asia, questo ha avuto un effetto frenante sullo sviluppo del sistema politico-economico del paese. Oggi, più che nel passato, nutrirsi non è solo un atto di sopravvivenza, è un atto politico. Riprendersi il controllo della propria alimentazione significa anche riprendersi il controllo del proprio destino politico".
La dieta mediterranea, o un’analoga dieta “nella quale ci siano cereali non raffinati coltivati quanto più possibile localmente e senza pesticidi o fertilizzanti chimici”, nella quale per integrare “le verdure, il grano e la frutta si usano legumi, noci e semi” e, se si vuole, “vi si aggiungono carne e prodotti di animali che però non siano stati stati alimentati con granaglie e siano cresciuti nei pascoli aperti”. Questa, secondo l’autrice, “non solo è la dieta più salutare, ma anche quella che pesa di meno sulle risorse della Terra”.
Questa tesi è nota da tempo alla cultura ambientalista e “No global” mondiale. Se l’ho richiamata ai frequentatori del mio sito è, oltre che per la suggestione della tesi, per due circostanze, l’una urbanistica l’altra personale.
La prima. Un’agricoltura basata sulla utilizzazione locale delle risorse, sulla qualità dei prodotti anziché sull’efficienza quantitativa della loro produzione, sull’accurata ricognizione e protezione di tutte le infinite nicchie di produzione naturale e storica sfuggita all’omologazione, è certamente quella più adatta a governare il territorio coerentemente con le esigenze di sostenibilità (sulle distorsioni di questo termine occorrerà ritornare), di tutela del paesaggio e delle risorse naturali e storiche, di promozione della qualità della vita e di difesa sociale del suolo.
La seconda. Nel curare l’edizione inglese delle mie ricette mi sono reso conto che quelle a base di cereali, verdure, legumi e prodotti del mare costituiscono la stragrande maggioranza di quelle ospitate in eddyburg, e quindi utilizzate da me e dai miei amici. Non mi dispiace scoprirmi, nella mia vita quotidiana, in sintonia con l tendenze più sagge della politica planetaria.