Parliamo bene, scriviamo così così. A volerla ridurre a uno slogan, spogliandola della polpa di indagini complesse, è questa la sintesi cui arriva Luca Serianni dopo un lungo ragionare sullo stato di salute dell’italiano. Serianni insegna Storia della lingua alla Sapienza di Roma (i suoi ultimi libri sono una imponente Grammatica italiana per la Utet e un’agile Prima lezione di grammatica per Laterza). È uno dei protagonisti del piccolo fenomeno cui si assiste da qualche tempo: un gran parlare e scrivere di lingua, di grammatica e di sintassi. Al Festivaletteratura di Mantova ha partecipato agli affollati incontri di "pronto soccorso" grammaticale organizzati dall’Accademia della Crusca. Da domani sarà a Pordenonelegge, dove Enzo Golino cura cinque dibattiti dedicati a "Che lingua fa?". Intanto oggi, a Modena, si apre un convegno organizzato dall’Associazione degli storici della lingua, intitolato «Storia della lingua e storia della cucina». Ma ecco anche due libri, molto diversi fra loro: L’italiano. Lezioni semiserie di Beppe Severgnini (Rizzoli) e Tra le pieghe delle parole di Gianluigi Beccaria, (Einaudi). A luglio, poi, si è conclusa la grande ricognizione sulla lingua letteraria del secondo Novecento, diretta da Tullio De Mauro (Utet). Infine fioriscono nuove edizioni di dizionari.
Perché tanta attenzione alla lingua, professor Serianni?
«In Inghilterra, dove è molto diffusa, la chiamano "fedeltà linguistica". Da noi si riteneva che l’attaccamento di solito manifestato da una comunità nei confronti della propria lingua fosse scarsissimo. E invece dobbiamo ricrederci. Qualche anno fa il libro di Bice Mortara Garavelli non sulla lingua, e neanche sulla grammatica, ma sulla punteggiatura, ha ricevuto fior di recensioni e ha venduto al di là di ogni previsione»
A cosa è dovuta questa effervescenza?
«Al fondo ci vedo un’aspirazione normativa. Si vuol sapere l’uso corretto di una forma. Poi il linguista risponde in termini storici, problematici. Generando spesso delusione».
Chissà quante volte le avranno chiesto un parere sul declino del congiuntivo.
«Lì vado sul sicuro. Il congiuntivo non è affatto morto. Un mio collega, Giuseppe Antonelli, ha adottato l’espressione "temperatura percepita". Sembra che faccia un freddo terribile e invece il termometro non va sotto lo zero. Sembra che il congiuntivo stia sparendo, ma tutte le indagini, persino quelle sulla lingua parlata, attestano, per esempio, che dopo il verbo spero il congiuntivo viene adoperato dalla quasi totalità del campione: spero che tu venga, spero che tu stia bene».
Da qui si può dedurre che l’uso dell’italiano non sia tanto sciatto quanto si dice?
«Distinguerei fra lingua parlata e lingua scritta. La prima circola ormai diffusamente. Non abbiamo mai avuto nella storia d’Italia tanti italofoni. E per ottenere questo risultato conviene pagare il prezzo di una certa semplificazione nelle strutture grammaticali. Ma tenga conto che il buon parlante non è colui che parla come un libro, ma colui che sa alternare, a seconda delle circostanze, una lingua ricca a una lingua semplificata».
E la lingua scritta?
«Il discorso è complesso. Non esiste più una lingua della letteratura, ed è la prima volta nella nostra storia. Gli scrittori tutto si propongono fuorché di essere modello. Ora occupano i diversi livelli della stratificazione linguistica e si riferiscono prevalentemente al parlato. La terza parola che compare in Come Dio comanda, il romanzo di Niccolò Ammaniti che ha vinto lo Strega, è "cazzo". È invece migliorata rispetto al passato la "lingua pubblica", la lingua della burocrazia. Le istruzioni di un medicinale, poi, sono generalmente più leggibili. Una regressione si avverte, viceversa, per la lingua scritta della scuola».
Cosa non va?
«Intanto la scrittura non è più uno dei fulcri della scuola. E poi si è allentato quel controllo che invece sarebbe necessario».
Torniamo alla matita blu?
«Sono venute meno le sanzioni. Prenda una questione apparentemente marginale: sta sparendo nella scrittura l’uso di andare a capo. I compiti in classe sono dei blocchi compatti, senza scansione. Viceversa si assiste a un recupero del passato remoto, fortemente inculcato in nome di criteri grammaticali ultratradizionali».
E per quanto riguarda la competenza linguistica, la comprensione delle parole?
«Tullio De Mauro insiste giustamente sui dati allarmanti dell’analfabetismo di ritorno: un quaranta per cento di persone in Italia fa fatica a cavarsela anche con frasi elementari. L’esperienza mi dice che molti adolescenti scolarizzati hanno problemi con dirimere, evincere, faceto, arguto. Un’attesa dubbiosa, poi, li coglie di fronte all’alternativa: legislazione o legislatura?».
La situazione peggiora?
«Se facciamo un raffronto con vent’anni fa vediamo segnali preoccupanti. Non poter capire il contenuto di un editoriale su un quotidiano impedisce di avere una visione ampia del mondo».
Qualcuno darebbe la colpa alla lingua sincopata degli sms.
«E farebbe una sciocchezza. Gli sms abituano a scrivere molto e a fare i conti con lo spazio».
Quanto resiste l’italiano ai forestierismi?
«Il francese o lo spagnolo importano meno termini stranieri. Ma questo dipende dalla storia linguistica nostra e di quei paesi. Andando nel terreno minato dell’informatica, gli spagnoli usano ratón invece di mouse. Ma in fondo in Italia continuiamo a dire memoria o allegato. Il forestierismo è come il neologismo: se occupa uno spazio vuoto resiste, altrimenti va in disuso».
Altrove si praticano interventi politici sulle lingue. In Germania è stata semplificata l’ortografia. Da noi è possibile?
«Una politica per la lingua deve tendere ad alimentare la competenza linguistica. Altra cosa è mirare a una certa igiene. Negli anni Cinquanta il linguista Arrigo Castellani scrisse al Corriere della sera invitandoli a usare sempre sopralluogo con due "l". Oggi farei una battaglia per sé stesso, che bisogna scrivere con l’accento, a differenza di quanto si prescrive anche a scuola. L’accento l’hanno sempre usato grandi firme come Oriana Fallaci o Pietro Citati. Che io sappia fra i giornali lo adotta sistematicamente solo Famiglia cristiana. Non farei una battaglia, perché non ne vale la pena, ma un qualche impegno lo metterei per imporre l’accento sui nomi propri sdruccioli. Altrimenti sbaglieremmo sempre quando dovessimo citare Àlice, un piccolo paese in Piemonte, oppure Àtena in Campania».