1. Il decreto 70 del 13 maggio propone, secondo le intenzioni di chi l’ha proposto e approvato, «misure diverse finalizzate allo sviluppo e al rilancio dell’economia». Secondo lei centra l’obiettivo?
Vi sono diverse “economie” possibili. Quella che domina nelle teorie e della prassi di chi governa oggi l’Italia è un’economia basata sulla privatizzazione dei beni comuni e sull’appropriazione da parte dei privati di tutte le rendite, a cominciare da quella immobiliare. É un’economia il cui obiettivo finale è arricchire i portafogli dei potenti, portando via alla collettività quello che può essere convertito in moneta nei tempi più brevi. A questo fine il decreto è veramente utile. Se invece l’obiettivo è un’economia che valorizzi il lavoro, che arricchisca le dotazioni sociali, che accresca il benessere degli abitanti (a partire dai più deboli) allora certamente gli effetti di questo decreto saranno devastanti.
2. Uno dei punti più discussi riguarda le coste, con tempi di concessione ai privati portati ai 20 dagli iniziali 90 anni, e i distretti turistico alberghieri: quali scenari si aprono?
La questione delle coste è l’esempio più limpido dell’economia perversa cui accennavo. Nella consapevolezza generale, e negli stessi istituti del diritto e delle istituzioni, le nostre coste sono un bene comune e un bene pubblico. Si è riconosciuta questa loro natura nelle stesse leggi e nello stesso assetto patrimoniale instaurato in Italia dalla borghesia capitalista e liberale. Le coste sono state inoltre riconosciute come una componente essenziale del paesaggio nazionale: una delle categorie di beni più rigorosamente tutelati, in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, e di tutta la legislazione di tutela del paesaggio nata con la legge Galasso del 1985 e delle successive stesure dei codici del paesaggio (dal testo unico della ministra Melandri al codice Urbani e Rutelli.
Tutelare le coste non significa solo rispettarne il paesaggio, ma anche garantirne la più aperta fruizione da parte di tutti. Aprirne l’uso alla cementificazione e alla privatizzazione significa quindi consentirne la distruzione per l’uno e l’altro aspetto. Un’aberrazione che avrebbe richiesto forma di protesta molto più accese di quelle che pure vi sono state, e che hanno prodotto il risultato, peraltro limitatissimo, di ridurre il periodo della loro privatizzazione. Considero del resto questo risultato del tutto irrisorio. La vicenda delle concessioni autostradali ci racconta con chiarezza una storia che certamente si ripeterà: vedremo puntualmente prorogare i termini alla scadenza dei vent’anni. Nel nostro disgraziato paese diventano definitive tutte le decisioni provvisorie, purchè siano devastanti per il pubblico e fruttuose per il privato.
Se davvero ridiventassimo un paese civile (è un’ipotesi che dopo i risultati delle recenti amministrative non mi sento di escludere) certamente impediremmo di governare alcunché a governanti che abbiano promosso, o accettato, un simile abominio: proclameremmo per loro l’interdizione perpetua a qualunque ruolo pubblico.
3. Il decreto continua a semplificare le procedure, sia autorizzative che burocratiche, in ambito edilizio per favorire l’intervento privato e lancia di fatto un nuovo Piano Casa. È deregulation o liberalizzazione?
Nel termine “liberalizzazione” è compresa una certa razionalità. Nell’ambito della produzione di merci (scarpe o panettoni, chiodi o caramelle, opere edilizie o tubi d’acciaio) è ragionevole sostenere che non è compito del settore pubblco produrli. La regolamentazione di ciò che si può fare sul territorio, e in che modi, quantità, funzioni, è certamente nelle competenze di una istituzione che rappresenti la totalità dei cittadini. Del resto la pianificazione urbanistica moderna è stata invenata dagli stati liberali e borghesi nell’età del capitalismo, proprio perché ci si è resi conto che il mercato, da solo, non sapeva né poteva risolvere alcune questioni che richiedevano una visione (e una decisione) collettiva, d’insieme, sistemica. Eppure in Italia siamo proprio nel campo della deregulation proprio in uno dei domini in cui essa è più negativa. Il carattere stupidamente reazionario di queste norme è veramente straordinario; molto più imbarazzante, per noi italiani, che il bunga bunga.
4. Il decreto modifica anche il Codice dei beni culturali, portando ad esempio a 70 anni il limite di 50 per potere apportare vincoli di tutela per i beni immobili. Quale è la sua valutazione come uomo di cultura?
Anche qui siamo in presenza di una follia. Non c’è bisogno di essere “uomo di cultura” per comprendere che cancellare storia e arte è un segno di incapacità a comprendere i principi base della civiltà. Esiste futuro solo per un popolo che conosce e rispetta il suo passato e apprende da esso. Il fatto è che gli anni di cui si vorrebbero cancellare le testimonianze architettoniche sono stati gli anni più fruttuosi della nostra storia recente. Gli anni della Resistenza, della Repubblica, della Costituzione, della speranza per dei domani che cantassero. Gli anni, per esempio, del monumento alle Fosse ardeatine, epitome di ciò che vogliono distruggere.
5. L’Italia attende ormai da molti anni una «legge di governo del territorio» che superi i provvedimenti frammentari e a volte contraddittori che, come conferma anche quest'ultimo, continuano a regolare gli interventi sul territorio. Non c'è anche una responsabilità delle troppe divisioni tra culture non solo urbanistiche?
Non basta una nuova legge urbanistica. Serve una buona legge urbanistica: che sia finalizzata a organizzare città e territori nell’interesse dei cittadini di oggi e di domani, e non nell’interesse della rebdita immpbiloiare, del suo accresciembto, della sua appropriazione da parte dei più potenti. Con questi chiari di luna…