DI CHE PARLIAMO
La corruzione non è una novità
La proprietà immobiliare ha sempre condizionato, in misura maggiore o minore, le decisioni pubbliche della pianificazione urbanistica. Di più o di meno, a seconda di due variabili: l’incidenza della proprietà immobiliare nel sistema complessivo degli interessi, la maggiore o minore distanza della pubblica amministrazione dagli interessi immobiliari. In sintesi, dal peso della proprietà immobiliare nell’economia e nella politica.
Il ruolo della pianificazione urbanistica moderna (dal XIX al XX secolo) è sempre stato quello di “regolare” gli interessi immobiliari, perché in gran parte attraverso di essi che nelle economie liberali si costruisce e si trasforma materialmente la città. La pianificazione urbanistica è stata storicamente proprio il sistema di regole mediante il quale le operazioni di trasformazione immobiliare, ciascuna delle quali promossa da un singolo operatore, davano luogo a un progetto complessivo di città. Un progetto del quale facevano parte non solo gli elementi, per così dire, d’interesse immediato dei proprietari immobiliari, ma anche quelli che interessavano gli abitanti della città, i cittadini in quanto tali e i suoi fruitori e visitatori, nonché il complesso delle attività che nella città si svolgono. Un progetto che doveva raggiungere i tre requisiti della funzionalità, del benessere e della bellezza. Un progetto che non poteva traguardare solo al breve termine (quello percepito come rilevante dall’operatore economico), ma doveva riferirsi al lungo termine, peculiare alla dimensione temporale della città (che quindi era percepito come rilevante dal Buon governo).
Naturalmente, poiché il potere politico-amministrativo era determinante nell’assegnare peso economico alle proprietà immobiliari, la contrattazione delle decisioni sul territorio, e la stessa corruzione, non sono mai mancate tra gli ingredienti del sistema delle decisioni. La proprietà immobiliare ha insomma sempre esercitato una pressione più o meno forte sugli amministratori, ma sempre nell’ambito di un dispositivo complessivo nel quale era chiaro che il ruolo del progettista e decisore delle regole della città era il governo pubblico.
Ma l’urbanistica contrattata è un’altra cosa
A un certo punto della nostra storia recente questo è cambiato. La pianificazione espressiva d’una autorità pubblica, quindi rivolta a regolare a priori (secondo un piano, un disegno, un sistema di regole) l’attività degli operatori privati, è stata definita “urbanistica regolativa” e ad essa si è opposta la “urbanistica concertata”, o – più esplicitamente – “urbanistica contrattata”. Il nostro convegno si riferisce a Vent’anni di urbanistica contrattata. In realtà allungherei di un decennio il periodo, poichè è proprio all’inizio degli anni 80 del secolo scorso che collocherei quel tornante.
Prima di ragionare sugli eventi che hanno concorso a quella svolta, e sulle sue conseguenze, credo che sia utile di precisare che cosa intendo per “urbanistica contrattata".
In termini molto sintetici significa sostituire, a un sistema di regole valide erga omnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica e finalizzate alla realizzazione di un assetto della città e del territorio ordinato a un insieme di obiettivi d’interesse generale, la contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere, e in particolare di quelli che hanno un interesse economico diretto nelle utilizzazioni che saranno consentite alla sua proprietà.
Essa perciò si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, o addirittura sulla base delle proposte di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma chi ha iniziativa è la proprietà, e non il Comune.
UN PO’ DI STORIA
Il contesto della svolta
Il passaggio dall’urbanistica tradizionale all’urbanistica contrattata, avviene come dicevo, nel corso degli anni 80. Si è appena concluso un ventennio sul quale la riflessione degli storici ha gettato molta luce. A una fase nella quale si erano raggiunte grandi conquiste sul terreno dell’organizzazione della città e della società (rilancio della pianificazione urbanistica, politica della casa, standard urbanistici, e insieme istituzione del servizio sanitario nazionale, scuola per tutti, istituzioni per l’infanzia, diritti del lavoro, diritti della donna, …), aveva fatto seguito una fase in cui la pressione delle forze che alle riforme di opponevano avevano incrinato, smantellato, depotenziato i risultati raggiunti.
Nel mondo dominano ormai i tre slogan del neoliberismo: liberalizzazione, deregolazione, privatizzazione. Margaret Tatcher e Ronald Reagan sono i leader incontrastati degli orientamenti che prevalgono nel contesto della globalizzazione. Le politiche keynesiane sono sostituite dall’ideologia e dalla prassi del neoliberalismo.
In altri paesi il neoliberismo trova – almeno nel campo del governo del territorio - gli argini di una forte autorevolezza della pubblica amministrazione e di una consolidata prassi di buona pianificazione urbanistica; in Italia, nonostante le eccezioni, mancano entrambi questi requisiti. Nel Belpaese la spinta al cambiamento (lo chiamano “modernizzazione”) ha la sua forza trainante nel nuovo PSI di Bettino Craxi. Slogan quali “privato è bello”, “meno stato e più mercato”, “via i lacci e lacciuoli” risuonano al centro, a destra e a sinistra: diventano via via pensiero corrente. E alla fine degli anni 70 diviene ministro dei lavori pubblici Franco Nicolazzi, promotore dei primi provvedimenti di liberalizzazzione, deregolamentazione, condono dell’abusivismo.
Intanto i gruppi industriali del “capitalismo avanzato”, che negli anni precedenti avevano dichiarato di essere favorevoli a riforme urbanistiche che riducessero il peso della rendita fondiaria, avevano rapidamente cambiato di spalla al fucile: riducendo l’impegno e l’investimento nelle attività industriali, avevano accresciuto il peso delle attività immobiliari. Ciò era stato favorito dalle trasformazioni strutturali dell’economia italiana. L’accresciuto peso del terziario sulla produzione manifatturiera aveva provocato l’obsolescenza dei grandi complessi industriali, spesso collocati al centro delle città. Ai proprietari e ai gestori dei gruppi industriali che pochi anni prima si erano schierati con l’Espresso nella campagna contro il sacco di Roma e avevano plaudito a una riforma urbanistica che riducesse il peso della rendita fondiaria, parve molto più conveniente speculare sulla rendita immobiliare consentita da un’utilizzazione contrattata dei loro grandi complessi dismessi.
Il ruolo della cultura
Poiché ragioniamo nell’ambito di un’associazione culturale, credo che sia utile domandarsi quale ruolo abbia svolto la cultura in questa svolta. Benché i recinti delle discipline mi siano antipatici, parlerò del campo nel quale opero: l’urbanistica.
Nel cammino verso un’urbanistica contrattata, alle ragioni provocate dalle nuove convenienze per i “padroni del vapore” determinate dalle trasformazioni strutturali e al prevalere di una nuova ideologia a livello mondiale, ha fatto puntuale riscontro una mutazione nella cultura urbanistica. Invero molte novità avrebbero richiesto di aggiornare i metodi e gli strumenti della pianificazione: mi riferisco, oltre alle trasformazioni strutturali cui ho accennato, alla forte riduzione delle necessità d’espansione delle città e, per contro, alla necessità di intervenire nel recupero dell’esistente, all’insorgere e l’affermarsi della questione ambientale e al rafforzarsi della volontà di tutelare il paesaggio e la cultura del territorio.
E tuttavia, mentre alcuni lavoravano per affrontare le questioni nuove nell’ambito dei principi della pianificazione pubblica, altri vedevano nella forza economica delle trasformazioni immobiliari la molla da liberare al massimo grado dai lacci e lacciuoli della regolazione, o almeno da assecondare nei suoi moventi e nelle sue convenienze.
La critica all’efficacia della pianificazione
Il grimaldello attraverso il quale far passare un sistema di principi radicalmente opposto a quello della pianificazione tradizionale fu la critica all’efficacia della pianificazione tradizionale. Questa era giudicata inefficace per il lungo tempo dedicato alla formazione del piano, per le difficoltà della successiva attuazione, per la mancanza di controllo sulla forma della città. Mentre qualcuno proponeva di innovare il modo in cui modificare il sistema della pianificazione restando fedeli ai principi che la sorreggevano (primato del pubblico, carattere sistemico delle regole, coerenza della visione, trasparenza delle procedure), altri proponevano modifiche sostanziali.
Una polemica si aprì, in particolare, tra chi difendeva il piano e chi proponeva di sostituire ad esso il progetto: alla definizione di un sistema complessivo di regole, si voleva preferire interventi limitati a un’area di dimensioni discrete, nella quale il progettista poteva definire l’aspetto finale. Naturalmente, limitare l’intervento urbanistico all’architettura di una singola parte della città senza preoccuparsi della coerenza complessiva dell’organismo urbano rendeva più snelle le operazioni. Consentiva tra l’altro di avere a che fare con interlocutori noti (proprietari e imprenditori), con cui si potevano concordare gli interventi.
A mio parere il modo in cui le critiche alla pianificazione venivano formulate, le strade che si proponevano per superarle, la scarsa chiarezza sui principi, la disattenzione al contesto politico erano molto pericolosi. In un editoriale della rivista dell’INU sostenevo che le iniziative deregolatrici pesantemente avviate dal ministro Nicolazzi trovavano «complicità oggettive anche nel campo di quanti sono legati, professionalmente, culturalmente o politicamente, al tema della riforma urbanistica». Denunciavo l’esistenza di «assenze, silenzi, cedimenti immotivati, fuorvianti fughe in avanti, comportamenti di riflusso nel professional-privato, di ripiegamento sul quotidiano, di perdita di rigore, che da tempo hanno frantumato, e quasi dissolto, il fronte di quanti potevano e potrebbero battersi, ciascuno con i propri specifici strumenti, per un avanzamento del processo di riforma urbanistica». Osservavo che, all’interno stesso degli urbanisti, si consideravano quasi con compatimento e distacco e si sorrideva «degli sforzi di sistemazione tecnico-disciplinare dell'lnu anni 50, dei metodi "ingegneristici" di un Astengo o delle empiriche capacità di interpretazione e ridisegno di organismi urbani di un Piccinato, delle battaglie di un Detti per la salvaguardia delle colline fiorentine o di un Insolera per disvelare le malefatte dei reggitori della Roma di Cioccetti e Petrucci, delle aspre denunce di un Cederna e delle tenaci elaborazioni di un Ghio per dare verde alla città e servizi ai cittadini o di un Cervellati per restituire alla civiltà un centro storico».
Il cedimento del PCI
All’interno stesso della sinistra politica era avvenuta una mutazione dello stesso segno. L’ideologia craxiana aveva portato il PSI su posizioni molto distanti da quelle della sinistra lombardiana, e aveva trovato aveva trovato echi significativi nel PCI: da un lato, nelle posizioni di chi sosteneva che la pianificazione delle amministrazioni pubbliche era inefficace e che occorreva sostituirla con una gestione intelligente, flessibile e – naturalmente – concordata con le forze del mercato[1]; dall’altro lato, in quelle di chi difendeva l’abusivismo, soprattutto nelle regioni meridionali, addebitandolo alla rigidezza della pianificazione che conculcava il sano desiderio di possedere un’abitazione[2].
Lo scontro tra gli urbanisti rappresentati dall’INU raggiunse livelli acuti, sia dentro che fuori il Pci. Il responsabile del settore nel PCI, Lucio Libertini, scrive che “si è manifestata nell’opinione pubblica, anche di sinistra, una reazione di rigetto verso la pianificazione urbanistica, identificata in forme perverse di oppressione burocratica”[3]. In una lettera al segretario generale del Pci (Alessandro Natta), e ai capigruppo della Camera (Giorgio Napolitano) e del Senato (Gerardo Chiaromonte) quaranta urbanisti esprimono le loro critiche. Alla lettera non ricevemmo risposta da parte dei destinatari; ci rispose invece, su loro mandato, Libertini, dichiarando che il PCI voleva superare il “giacobinismo illuminista”, colpevole del distacco tra movimento riformatore e masse popolari.
La polemica divampò. Ricordo gli articoli fortemente critici di Antonio Cederna, Giovanni Russo, Cesare De Seta, Fabrizio Giovenale, Vezio De Lucia, Pierluigi Cervellati, Carlo Melograni. A quell’epoca la cultura reagiva tempestivamente alle cattive proposte sul governo del territorio, anche quando provenivano da molto vicino[4].
Il caso Fiat-Fondiaria
Il caso fiorentino dell’area FIAT-Fondiaria, fece balzare all’attenzione dell’opinione pubblica il tema dell’urbanistica contrattata nel 1988, a causa della telefonata di Achille Occhetto, allora segretario del PCI, che aveva impedito l’approvazione, da parte della federazione di quel partito, allora al governo di Firenze, di procedere nell’approvazione di una variante urbanistica relativa a quell’area. L’operazione era partita diversi anni prima, tra il 1980 e il 1983, con la proposta di un intelligente intellettuale italo-argentino, Thomas Maldonado, elaborata d’intesa con la società assicuratrice Fondiaria e i locali dirigenti del PCI. Riguardava l’urbanizzazione dell’area tra Firenze e Sesto Fiorentino, con la localizzazione di oltre 3 milioni di metricubi di costruzioni. Nel 1984 l'Agip, la FIAT e la Fondiaria, proprietarie di aree e impianti in quell’ambito, manifestano al comune l'intenzione di avviare operazioni immobiliari. Nel 1985 la giunta centrista avvia una variante del piano regolatore per il settore nord-ovest. Si prevede tra Novoli e Castello un sistema di aree terziario-direzionali. Quattro milioni di metri cubi 3.000 miliardi di investimenti.
Iniziano subito le proteste contro l’intervento. Un primo appello è firmato a Firenze da 90 intellettuali (tra cui Pietro Annigoni, Eugenio Garin e Alessandro Parronchi). L’elaborazione della variante procede, mentre parallelamente iniziano i lavori per il nuovo Prg. Ma le proteste aumentano. Italia Nostra è al centro della protesta, che coinvolge moltissime associazioni, comitati, gruppi. Le ragioni dell’opposizione sono ben sintetizzate da Antonio Cederna: «Saldatura a macchia d’olio della squallida periferia occidentale ed eliminazione dell’ultima area libera;disastrose conseguenza sul centro storico; premessa per la creazione di un ininterrotto agglomerato tra Firenze e Prato»[5].
Giovanni Losavio organizza la pubblicazione di un fascicolo speciale del bollettino di Italia Nostra (n. 255/1998), in cui s’impegna particolarmente Antonio Iannello. Manlio Marchetta, da Firenze, cura un numero speciale della rivista Edilizia popolare (n. 204/1988). Si riesce a coinvolgere la segreteria del PCI. Nella sede fiorentina del PCI è intanto in corso un animato dibattito, che la telefonata di Achille Occhetto interrompe. Il PCI ritira il suo appoggio alla variante.
A distanza di tanti anni l’intuizione appare felice. L’intervento dal centro era essenziale, poiché l’operazione FIAT-Fondiaria aveva un significato nazionale. Avallare quel contratto tra proprietà immobiliare e amministrazione avrebbe significato avallare una prassi che sarebbe stata seguita in tutto il paese. L’intervento da Roma era necessario, ma come oggi sappiamo non bastò.
Lacerazioni nell’INU
Il caso FIAT-Fondiaria fu il primo sul quale discutemmo a lungo nell’INU, ma non il solo. Nel 1990 ci apprestavamo a svolgere il XIX congresso dell’istituto. Avevamo deciso di organizzarlo “a tesi”, per agevolare l’emergere delle diverse posizioni che si erano manifestate tra gli urbanisti italiani. C’era molta esitazione a esprimere posizioni nette su alcuni avvenimenti secondo me cruciali: tra questi, proprio sulla questione del rapporto tra pubblico e privato nel governo del territorio. Operazioni di urbanistica contrattata erano progettate anche in altre città.
A Napoli, dove grandi interessi economici raggruppati sotto la sigla del "Regno del possibile" proponevano al Comune di delegare ad una società per azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione del recupero di quasi 70mila alloggi nel centro storico. A Roma, dove l'Italstat, sulla base del possesso di una parte consistente delle aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale, si proponeva come capofila di un pool di imprese che vorrebbe pianificare, progettare e realizzare un sistema strategico per la trasformazione della città. Infine a Milano, dove la subordinazione agli interessi dei proprietari di aree era divenuta, a partire dagli inizi degli anni 80, prassi corrente, attraverso un intenso processo di sostituzione funzionale. Con una rapidissima sequenza di varianti puntuali si erano infatti autorizzati, oltre 12 milioni di nuove strutture edilizie per il terziario.
La tesi che proponevamo partiva dall’affermazione che il principio della titolarità pubblica della pianificazione territoriale e urbana su cui tutti, in teoria, si dichiarano d'accordo «è pesantemente contraddetto nella prassi corrente, ad opera sia dei maggiori gruppi del potere economico, sia di parti e spezzoni dello stesso potere pubblico». Affermavamo che si contraddice quel principio «quando si delega, o si propone di delegare, ad aggregazioni di interessi economici privati la formulazione di scelte che incidono sull'organizzazione territoriale e urbana, riducendo il ruolo dell'ente pubblico elettivo alla mera copertura formale mediante atti di pianificazione redatti e adottati ex post di scelte compiute da altri poteri». E proseguivamo citando e illustrando i casi che ho appena enunciato
Il consiglio direttivo dell’INU respinse la nostra tesi. Sull’argomento occorreva studiare, approfondire, riflettere: non ci si poteva ancora esprimere. Altri, per fortuna, studiavano, approfondivano, riflettevano: la magistratura. Se la cultura esitava, la giustizia agiva. Esplose lo scandalo di Tangentopoli e si conobbero gli esiti dell’indagine Mani pulite.
Mani Pulite
Fu con l’indagine della Procura della Repubblica di Milano (dal pool composto dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, dal suo vice Gerardo D'Ambrosio e da Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo, Ilda Boccassini) che si comprese ciò che la contrattazione delle decisioni sull’uso del territorio aveva provocato all’insieme dei rapporti sociali, economici e politici. Nel commentare i risultati delle indagini scrivevamo, con Piero Della Seta, che «lo smantellamento delle regole, degli strumenti e delle strutture del governo del territorio sono stati i passaggi obbligati che il sistema politico-affaristico ha dovuto superare per poter perseguire i suoi obiettivi di potenza e di ricchezza». Non a caso, «circa i tre quarti dei fatti svelati riguardano interventi compiuti (o minacciati) sul territorio e sull'ambiente»[6].
Grazie al lavoro compiuto negli anni dalla rivista Urbanistica informazioni potemmo raccontare i principali casi di urbanistica contrattata che si erano registrati, e che emergevano nella loro natura di incubatori del sistema di corruzione. Oltre al caso della Fiat-Fondiaria balzava in primo piano Milano, dove già il bravo sindaco Pietro Bucalossi, molti anni prima, aveva scoperto esterrefatto il rito ambrosiano. A Milano era successo di peggio oltre alle varianti che avevamo denunciato nell’INU. Commentano alla vigilia di Mani pulite Barbacetto e Veltri: «In mancanza di una legge nazionale sul regime dei suoli e una più larga autonomia finanziaria degli enti locali, gli amministratori scelgono la via della contrattazione. Io amministratore pubblico ti lascio costruire, concedendo varianti al piano regolatore; tu operatore privato mi offri in cambio delle contropartite (opere di urbanizzazione, strutture pubbliche, abitazioni popolari, aree a parco)» contropartite garantite da lettere private, tenute accuratamente segrete.
Difficile credere che, oltre a queste contropartite, l’opacità della contrattazione non ne celi altre[7]. E infatti il ritrovamento casuale di una di queste lettere da parte dell'assessore Carlo Radice Fossati fece esplodere uno scandalo, il cui rumore fu però oscurato da quello provocato dalle successive azioni della magistratura.
Profetica ci apparve dopo l’esplosione di Tangentopoli una frase di Piero Bassetti, presidente della Camera di commercio. Nel 1986, intervistato da La Repubblica durante la discussione allora in corso sul futuro urbanistico di Milano, aveva detto: «Ho l'impressione che tutto questo dibattito sulle aree testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca» [8]. Così era, a Milano, e non solo a Milano.
Firenze, Milano, Napoli, Roma. Ma in tantissimi luoghi, a Duino Aurisina e a Trieste come a Palermo, al nord come al sud. In molte città grandi e piccole, la polpa degli affari e della contrattazione discreta sono le aree dismesse dalle industrie, dai militari, dalle ferrovie. Grandi occasioni per riorganizzare le città a vantaggio di tutti i cittadini, per restituire verse, spazi pubblici, attrezzature sociali, aria, verde, salute. Trattate una per una, in un rapporto esclusivo col possessore e con l’obiettivo della “valorizzazione economica” (di cui la collettività otterrà una briciola[9] e l’amministratore, o il suo partito, una tangente) si perde in quegli anni la grande opportunità di ridisegnare le città nell’interesse dei cittadini, anziché dei proprietari immobiliari. di
Mani Pulite riesce a determinare uno scossone nell’opinione pubblica, che conduce alla liquidazione dei gruppi politici più direttamente implicati nelle conseguenze aventi rilevanza penale dell’urbanistica contrattata: nella corruzione. Ma non scalfisce la concezione del rapporto tra pubblico e privato che è alla base di quel modo di gestire le trasformazioni del territorio.
ANCORA PEGGIO
Roma e i “diritti edificatori”
Due capitoli della storia dell’urbanistica italiana, che qualcuno dovrà scrivere, testimoniano una svolta preoccupante: l’uno a Roma, l’altro a Milano. Due capitoli già trattati stamattina, da Paolo Berdini e da Giuseppe Boatti, di cui vorrei riprendere alcuni elementi.
A Roma, mentre lo slogan dl “pianificar facendo” può essere benevolmente considerato un cedimento intellettuale al linguaggio e alle prassi neoliberiste, che ha aperto ulteriormente spianato la strada all’urbanistica cotrattata, l’invenzione dei “diritti edificatori” ha significato conferire alla proprietà immobiliare un potere contro le decisioni pubbliche che nessuno si era mai sognato di dar loro. Conoscete la tesi, propugnata da un urbanista che è stato maestro di molti di noi. É alla base delle scelte devastanti del PRG del 2003.
Secondo quella tesi, una volta che un piano urbanistico abbia assegnato l’edificabilità a un’area, questa diventa un titolo che al proprietario non può venir tolto senza indennizzarlo adeguatamente. Era stata inventata l’espressione “diritti edificatori”, mai adoperata prima nello jure italiano. Italia Nostra organizzò un convegno a Roma, per discutere il PRG. Preparai una relazione; colsi l’occasione per comprendere come la giurisprudenza aveva trattato la questione. Scoprii che le cose erano radicalmente diverse da quanto gli autori del Prg di Roma sostenessero. Era giurisprudenza costante che il comune potesse, con un piano successivo, modificare ampiamente le previsioni di un piano precedente. Non soltanto nel caso di un piano generale (come il Prg) ma anche di un piano di lottizzazione privata per il quale sia già stata stipulata con i proprietari una convenzione a norma di legge. In questo caso, ovviamente, è necessario indennizzare il proprietario per le spese che ha legittimamente sostenuto, e che è in grado di documentare, relative all’attivazione dl piano.
La presidenza di Italia nostra chiese un parere pro veritate al prof. Vincenzo Cerulli Irelli, illustre esperto di diritto amministrativo e forse massimo conoscitore italiano del diritto urbanistico. Le nostre convinzioni furono presentate al sindaco Veltroni, il quale andò avanti per la sua strada. Ma l’azione di Italia nostra e di chi, come eddyburg, aveva sollevato la questione e dimostrato le devastazioni che il Prg avrebbe provocato stimolarono il sorgere o il rafforzarsi di decine e decine di comitati, associazioni, gruppi di cittadini, che costituiscono una delle non molte speranze per una Roma migliore.
I piani anomali
La presunta impossibilità di cambiare le decisioni passate aveva fornito un ulteriore decisivo sostegno a favore di un modo nuovo di pianificare, basato esclusivamente, o principalmente, sulla contrattazione con la proprietà privata. Strumento di questo modo, ed effetto amministrativo della querelle del “progetto” contro il “piano”, fu l’invenzione di piani “anomali”, derogatori della classica pianificazione urbanistica, elaborati e messi a punto negli anni di Tangentopoli e approvati a getto continuo negli anni immediatamente successivi. Ciò che accomuna la quasi totalità di questi “piani anomali” è che “enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione “anomali” è quello di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare dalle regole comuni della pianificazione “ordinaria”. Di derogare cioè dalle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini).
Milano e la flessibilità per i potenti
L’episodio romano era stato preceduto da una iniziativa del comune di Milano, tesa a superare in modo ancora più esplicito i principi e il metodo della pianificazione pubblica mediante l’accordo preliminare con la proprietà immobiliare, teorizzandolo con chiarezza.
Un colto e intelligente urbanista, Luigi Mazza, consulente del comune di Milano, aveva proposto agli amministratori un modello alternativo alla pianificazione “tradizionale” consistente nel decidere le trasformazioni urbane accogliendo le proposte dei promotori immobiliari, inquadrate in un documento “strategico” a maglie larghissime, poco più di un ideogramma. Il comune aveva seguito il suggerimento e approvato un documento, "Costruire la grande Milano”, sul quale si aprì subito una vivace polemica. Svolsi una relazione in un convegno dell’associazione Polis, poi intervenni in un seminario alla facoltà di architettura di Roma Tre, in cui Mazza, nel giugno 2001, illustrò il documento. Lo criticai, sostenendo che il nuovo modello proposto “si propone di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato” e che ciò avrebbe provocato una giungla nella quale solo gli interessi forti sarebbero stati premiati a danno dell’interesse generale. Precisai il mio punto di vista in un ampio articolo sulla rivista “Urbanistica”, in contraddittorio con Mazza[10]. Pochi intervennero criticamente: l’innovazione milanese incontrava lo spirito dei tempi, cui l’accademia era sensibile.
Le parole chiare di Maurizio Lupi
Il coronamento della linea di privatizzazione e mercificazione delle scelte sulla città e il territorio è costituito dalla proposta di legge per il governo del territorio dell’on. Maurizio Lupi, di Forza Italia. Quella proposta chiariva definitivamente il senso dell’urbanistica contrattata. Proponeva il ribaltamento dei principi che da sempre avevano retto la pianificazione urbanistica con la seguente affermazione, semplice e chiara. Proponeva di stabilire che le funzioni amministrative delle istituzioni pubbliche, tra cui la pianificazione urbanistica, «sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l'adozione di atti paritetici in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti istituzionali e fra questi e i soggetti interessati, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti» (articolo 3, comma 3). Naturalmente i “soggetti interessati” sono i padroni della città, la proprietà immobiliare.
Il successivo dibattito parlamentare condusse a un testo unificato, su cui si era manifestato un consenso ampio (che comprendeva l’INU), e al quale si oppose un fronte che conobbe al convegno di Italia nostra (Roma 28 gennaio 2005) un suo momento rilevante. In quella sede fu presentato e approvatoun appello, sul quale si raccolsero successivamente moltissime adesioni. Nel documento si protestava perché la proposta di legge «sopprime il principio stesso del governo pubblico del territorio, che rappresenta una della principali conquiste del pensiero liberale e accomuna tutti i paesi sviluppati, e cancella i risultati di importanti conquiste per la civiltà e la vivibilità della condizione urbana e la tutela del territorio ottenute nell’ultimo mezzo secolo dalle forze sociali e politiche e dalla cultura italiana. Nella legge – prosegue l’appello - si sostituiscono gli “atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “atti negoziali con i soggetti interessati”. La relazione di accompagnamento della legge specifica che i soggetti interessati non si identificano – come sarebbe auspicabile - con la pluralità dei cittadini che hanno diritto ad avere una ambiente urbano vivibile e salubre, ma si identificano invece con la ristretta cerchia degli operatori economici. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. I luoghi della vita comune, le città e il territorio vengono affidati alle convenienze del mercato».
Grazie all’intelligente azione di filibustering promosso da una minoranza attiva, di cui Italia nostra fece parte a pieno titolo, la legge non fu approvata (grande merito va in particolare a Sauro Turroni, allora senatore del gruppo dei Verdi). Ma l’obiettivo che denunciavamo è ancora dominante. Gli eventi successivi sono andati tutti nella direzione predicata dai più schietti difensori dell’urbanistica contrattata: un diritto collettivo viene sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. E i luoghi della vita comune, le città e il territorio, vengono affidati alle convenienze del mercato.
PER CONCLUDERE
Il trionfo della rendita
Ho solo accennato alla questione della rendita. Parlarne di più avrebbe reso ancora più pletorica questo intervento. Non posso però, per chiudere il quadro, trascurare di riferirmi alle lucide osservazioni svolte da uno dei pochi che oggi dedicano attenzione a questo argomento, Walter Tocci, nel ssuo saggio ascesa della rendita urbana.
Per una lunga fase della nostra storia avevamo vissuto nella convinzione che, essendo la rendita la componente parassitaria del reddito, era possibile, nel corso di una modernizzazione sana dell’economia italiana, ridurne pesantemente il peso ricorrendo alla comune convenienze delle classi produttrici: i possessori del lavoro e quelli del capitale. Tocci ci rivela che le cose sono radicalmente mutate. Oggi la rendita immobiliare è diventata un elemento essenziale, e trainante, dell’intero sistema economico: un sistema economico ormai totalmente artificializzato, reso cartaceo e virtuale, legato al gioco della finanza e non a quello della produzione di beni e servizi.
E’ dagli anni 70 che si parla dei rapporti mutevoli tra profitti e rendita, e io stesso ne ho accennato proprio a proposito dell’atteggiamento della Fiat in quegli anni. Ma adesso non solo c’è un’integrazione piena, c’è addirittura – per esprimermi col massimo di sintesi – un dominio della rendita sul profitto (e di entrambe sul salario, ma questo è un altro discorso).
Sono convinto che questo non debba far mutare il nostro giudizio negativo sul peso della rendita nelle trasformazione della città e del territorio, ma deve anzi richiederci un di più di attenzione, di rigore, di capacità di analisi, di critica, di contrasto nei mille episodi in cui la forza della rendita minaccia i valori nei quali crediamo.
Le due città
Vorrei precisare che quanto parlo di città dell’habitat dell’uomo, il quale comprende sia la tradizionale “città” sia la tradizionale “campagna”, sia il territorio urbano che quello rurale. Credo che oggi si debba parlare di due città, o se volete due progetti di città antitetici, dei quali bisogna assumere consapevolezza per poter agire con efficacia. Le definirei la città della rendita e la città dei cittadini.
Conosciamo bene la città della rendita. É quella alla quale si applicano le pratiche dell’urbanistica contrattata, e che è stata ampiamente formata da essa. É quella che denunciamo e soffriamo ogni giorno, in tutti gli episodi di distruzione, di degrado, di bruttificazione e disfunzione. É quella che vediamo svilupparsi come un orribile blob: più o meno caotica, più o meno disordinata, più o meno inefficiente, ma sempre divoratrice di risorse, distruttrice di patrimoni, dissipatrice di energia e di terra, guastatrice di acqua e di aria. Una città che logora i legami sociali e accentua le diseguaglianze.
Per i promotori, produttori e facilitatori di questa città il territorio è considerato e utilizzato come lo strumento mediante il quale accrescere la ricchezza personale dei proprietari: di quella classe il cui ruolo sociale e il cui contributo allo sviluppo della civiltà sono costituiti esclusivamente dal privilegio proprietario; dal fatto di possedere un bene che può essere utile ad altri.
In esplicita antitesi della città della rendita si è affacciata sulla scena una città alternativa: quella che definirei “la città dei cittadini. É quella che emerge dalla miriade di vertenze che si aprono in ogni regione e città d’Italia, in moltissimi paesi e quartieri, per rivendicare qualcosa he si è perduto o minaccia di esserlo, o qualcosa di cui si sente la necessità per vivere in modo soddisfacente. Mi riferisco al fiorire di comitati, gruppi di cittadinanza attiva, associazioni e altre iniziative che caratterizzano la vita sociale in questi anni.
Quando protestano contro l’inquinamento e i rischi alla salute determinati da una cattiva politica dei rifiuti, contro la chiusura di un presidio sanitario o la privatizzazione di un altro, contro la trasformazione di uno spazio verde in un nuovo “sviluppo” a base di asfalto e cemento, contro l’abbattimento di un albero antico minacciato da una strada inutile, contro il prezzo e le condizioni del trasporto pubblico, contro la trasformazione delle campagne periurbane in ulteriori espansioni della “città infinita” … Quando protestano per gli effetti della dilatazione della “città della rendita”, al tempo stesso i mille comitati esprimono un’idea alternativa di città.
Non sono chiari i lineamenti della “città dei cittadini”, ma cominciano forse a precisarsi i principi che dovrebbero alimentarne la costruzione.
Un diverso rapporto tra città e campagna, tra urbanizzato e non urbanizzato, (bellezza, storia, identità, alimentazione sana e filiere corte, aria luce sole, ricreazione e distensione, …)
Una più ricca dotazione di utilities e commodities, agevolmente raggiungibili mediante modalità amichevoli, risparmiatrici d’energia, utilizzabili da tutti, … (welfare urbano ma non solo, socialità, condivisione…)
La possibilità di accedere all’uso di un’abitazione, collocata e servita nel modo giusto, a un prezzo commisurato al reddito.
Il diritto da parte di tutti i cittadini di partecipare alla costruzione/trasformazione della città, di conoscere in anticipo i progetti di trasformazione, di comprenderne le conseguenze, di concorrere alle scelte
La mia tesi (o se volete la mia speranza) è che dai movimenti generati dalla protesta per il trionfo della “città della rendita” stia nascendo una nuova domanda di pianificazione del territorio urbano e rurale, che ha certo numerosi ostacoli al suo pieno dispiegarsi, ma che è l’unico elemento positivo cui possono fare affidamento quanti non vogliono ridursi alla protesta e alla mera lamentazione per le condizioni ecc.
Il ruolo della cultura, oggi
La cultura e le sue istituzioni svolgono un ruolo rilevante nella formazione degli eventi. Ricordiamo tutti gli episodi degli anni 50 e 60, lo stimolo critico e la capacità propositiva delle istituzioni della cultura urbanistica e quelle neonate del protezionismo. Anche in quegli anni, molto più per l’iniziativa volontaria di persone dallo spirito indipendente che per quella dell’accademia.
Ho accennato al ruolo che questo stesso mondo ha svolto negli anni in cui si è conformato il modello d’intervento sul territorio che è riassunto dell’espressione urbanistica contrattata. Un ruolo non sempre positivo. O meglio, negativo per alcuni (l’Inu è arrivato a difendere la legge ispirata da Lupi), positivo per altri. In particolare, per Italia Nostra.
Mi riferisco, in particolare, alle esperienze nelle quali ho più direttamente collaborato con gli organi nazionali di Italia Nostra per svelare e contrastare lo stravolgimento delle regole della buona pianificazione e per proporre le regole giuste. Ho ricordato la partecipazione di Italia Nostra alla denuncia dello scandalo dell’area Castello di Firenze, giustamente interpretato come il prodromo di una pratica, la “urbanistica contrattata”, pericolosissima per la città e il territorio. Ho ricordato l’iniziativa che Italia Nostra ha assunto sul PRG di Roma – un PRG che aveva autori politici e professionali vicini all’associazione, e che perciò è stato ancora più meritorio criticare - individuato come deleterio non solo per le vaste distruzioni dell’Agro romano che consentiva, ma per l’aberrante principio (l’esistenza di i “diritti edificatori”) che introduceva. E ho ricordato il tenace contributo che Italia Nostra ha dato alle iniziative per contrastare la legge Lupi e i suo successivo travestimento nel formato Lupi-Mantini, largamente condiviso anche nell’ambito dell’ambientalismo. Voglio ricordare ancora il lavoro svolto da Italia Nostra per contrastare il consumo di suolo promuovendo la tutela dell’agricoltura e, più generalmente, del territorio rurale, che condusse alla proposta di legge che elaborammo insieme e alla quale Luigi Scano, proprio in ambito Italia Nostra, collaborò con la geniale proposta di introdurre il territorio rurale tra le categorie di beni tutelati ope legis ieri dalla legge Galasso, oggi dal Codice del paesaggio.
Non sempre le battaglie culturali di Italia nostra hanno avuto riscontro immediato nell’opinione pubblica, neppure in quella “colta” e in quella “ambientalmente orientata”. Ricordo il caso emblematico dell’auditorium di Ravello, nel quale Italia nostra difendeva, quasi sola, il paesaggio e la legalità urbanistica contro il potere di un satrapo e l’immagine di una Grande Firma. Ma per chi pensa che la cultura sia un lievito, e non un miscuglio di acqua e farina con cui formare una pizza, questo appare come un prezzo da pagare per la verità. Un prezzo che verrà rimborsato a usura dalla storia, se si avrà il coraggio di sottoporre in ogni momento a discussione i propri principi, ma di conservarsi fedeli a essi con rigore e con chiarezza finché principi diversi non saranno stati elaborati e condivisi. E la cultura ha il compito – quando ne ha gli strumenti – di diffondere questa sua conoscanza, i frutti della propria capacità critica.
Il nostro compito
Compito essenziale della cultura è quello di scrutare ciò che accade, cercar di intravedere ciò che gli eventi dell’oggi preparano, valutare criticamente la realtà di oggi e quella che si prepara, comprendere chi e che cosa, dalle trasformazioni che avvengono o avverranno, guadagna, e chi e cosa ci rimette, perde. Non c’è trasformazione in cui non ci sia qualcuno che guadagna e qualcuno che perde.
Se si accetta l’assunzione della legge del mercato come unica legge valida per decidere sulla trasformazioni del territorio – se si accetta l’urbanistica contrattata – è chiaro che è sconfitta la città dei cittadini. E allora non si possono avere esitazioni, incertezze, ambiguità nel giudicare. Con i portatori di tesi diverse si può discutere, anche perché questo conduce spesso ad affinare i propri argomenti e a rendere più convincenti le proprie idee, ma non si può derogare, o transigere, sui principi – finchè questi non sono sostituiti da altri, esplicitamente formulati e condivisi.
E a mio parere è sul rigore nell’affermazione dei principi che condivide che un’istituzione culturale (e un intellettuale) deve esprimersi con chiarezza.
Io credo che tra i principi, a proposito del territorio – dell’habitat dell’uomo e nel deposito della sua storia – il primo principio che debba essere stabilito è che l’uso del territorio, e le sue trasformazioni, devono essere ordinati al maggior benessere di tutti gli abitanti del pianeta, presenti e futuri: la città dei cittadini, e non la città della rendita.
Il secondo principio che a mio parere va ribadito riguarda il metodo e l’insieme di strumenti che, in una civiltà complessa quale la nostra: la pianificazione urbanistica come operazione d’interesse collettivo, quindi necessariamente affidata alla mano pubblica. Assumerei senza esitazioni la definizione che ne dava Antonio Cederna: «La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica». Certo, il termine “coercitivo” può sembrare un po’ forte. Ma oggi la coercizione è esercitata chi ha ridotto la città, e ogni sua componente, a merce, sottraendola ai suoi legittimi proprietari, i cittadini e degradandone le qualità naturali, storiche, sociali.
Non ho detto nulla della vicenda che ha portato gli eredi di Antonio Cederna a ottenere il ritiro del libro pubblicato dalla sezione lombarda di Italia Nostra, né di quella che ha portato alle dimissioni di Vezio De Lucia. E nulla di più credo necessario aggiungere dopo le molte parole che pronunciato. Se non riprendere la speranza, che Vezio esprimeva, che l’intera vicenda, e questo stesso convegno, servano ad aprire una discussione autentica, dentro e fuori l’associazione. Perché se ci si chiude si è inevitabilmente condannati alla sterilità e alla sconfitta.
Grazie
[1]Ricordo la discussione che si aprì sulle pagine de l’Unità, nell’agosto 1983 tra Maurizio Mottini, assessore a Milano, fautore del mercato e Raffaele Radicioni, assessore a Torino, fautore della pianificazione.
[2]Principale interprete di questa linea fu Lucio Libertini, che divenne responsabile del settore che comprendeva lurbanistica nella direzione del PCI.
[3]L. Libertini, Nicolazzi non passerà, “Urbanistica informazioni”, n. 75, maggio-giugno 1984
[4]Questi episodi sono raccontati con maggiore ampiezza nel mio libro Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Corte del Fontego, venezia 2010
[5]Vezio De Lucia, Le mie città, Diabasis, Reggio Emilia 2010, p. 65.
[6]P. Della Seta, E. Salzano, l’Italia a sacco. Come negli incredibili anni 80 nacque e si diffuse Tangentopoli, Editori Riuniti, Roma 1993
[7]Gianni Barbacetto, Elio Veltri, Milano degli scandali, prefazione di Stefano Rodotà, Laterza, Bari, 1991, p.55.
[8]Ibidem, p.51.
[9]Vedi i lavori di Roberto Camagni e Cristina Gibelli.
[10]E. Salzano, Il modello flessibile a Milano in "Urbanistica", n. 118, (gennaio-giugno 2002).