Difficile oggi ricordare il clima nel quale l’attenzione dei lavoratori e delle loro organizzazioni economiche uscì dalla fabbrica e si estese alla città e al territorio. Accadde in anni dei quali, come numerosi storici cominciano a testimoniare, si è cancellata la memoria. Il revisionismo, guidato dalla cattiva politica, ha manipolato la memoria degli eventi che accaddero negli anni Sessanta e Settanta nel nostro paese e ne ha lasciato sopravvivere solo alcuni aspetti: quelli più truci e negativi. Tra l’altro, ribaltandone il senso. Così gli anni Settanta sono gli “anni di piombo”: gli anni del terrore e delle bombe, senza ricordare che i primi attentati, i primi morti (e le congiure avvenute nel Palazzo) furono di destra e che l’impronta antioperaia e fascista guidò a lungo il terrorismo e lo utilizzò pienamente. E così si è nascosto, e si continua a nascondere, che gli “anni di piombo” furono la risposta di destra agli anni della speranza, e si intrecciarono – opponendovisi – agli anni delle riforme.
Se vogliamo interrompere il declino dell’Italia di oggi è utile ricordare che cosa accadde allora: ciò che allora abbiamo conquistato, e oggi stiamo ci stanno togliendo. Non per piangere, ma per comprendere bene che cosa abbiamo perso e stiamo perdendo, e soprattutto per ricordare che, come fu allora, la storia non è già scritta: siamo noi che possiamo farla, se sappiamo quali sono gli obiettivi che dobbiamo assumere e quali le forze che possiamo coinvolgere nella nostra lotta.
Ricordiamo allora quali furono le grandi riforme di quegli anni (tutt’altro che il borbottìo “riformista” dei nostri anni). Si chiamavano statuto dei diritti dei lavoratori, servizio sanitario nazionale, scala mobile, libertà per le donne di interrompere la gravidanza e libertà per tutti di divorziare, istituzione degli asili nido e della scuola materna di stato e il tempo pieno nella scuola elementare, il voto ai diciottenni e l’estensione della democrazia con i consigli di quartiere e nel sindacato dei lavoratori, dei consigli di zona. E si chiamavano diritto alla casa e diritto alla città, servizi e verde in tutti i quartieri della città, abitazioni a prezzi contenuti per tutti, trasporti collettivi per rebdere più agevole la mobilità tra casa, lavoro, servizi.
In questi anni in cui si blatera di “piani casa” finalizzati a rendere più ricco il patrimonio immobiliare di chi la casa ce l’ha già (o ha il capannone, o l’albergo, o il villaggio turistico), ricordiamo che cosa si era raggiunto in quegli anni proprio in relazione alla casa, soprattutto in quelli successivi al grande sciopero nazionale per la casa, i trasporti, i servizi e il Mezzogiorno del 19 novembre 1969.
Sono gli anni in cui s’incontrano due grandi correnti che aspirano a un rinnovamento profondo della società: il movimento dei lavoratori e il movimento degli studenti, Accanto ad esse, e in qualche modo precorrendole nel tempo, concorre con esse il movimento per l’emancipazione delle ddonne. Temi come “diritto alla città” e “la casa come servizio sociale” diventano slogan popolari, che alimentano vertenze diffuse sul territorio. Con il primo termine si intende chiedere democrazia e partecipazione nelle decisioni urbanistiche, e si chiedono quartieri ricchi di tutto cià che serve a una vita nellaa quale il privato si prolunghi nel pubblico e il pubblico serva al privato: servizi, verde, luoghi d’incontro, facilità di vivere e d’incontrarsi. Con lo slogan riferito alla casa si chiede che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.
Dal punto di vista di un urbanista devo dire che in quegli anni si raggiunsero traguardi notevoli, non solo sul terreno delle conquiste legislative, in particolare a proposito della questione delle abitazioni. Con la “legge ponte” urbanistica del 1967 e con i successivi decreti del 1969 si ottenne in Italia la generalizzazione della pianificazione urbanistica, il primato delle decisioni pubbliche nelle trasformazioni del territorio, l’obbligo a vincolare determinate quantità di aree per servizi e spazi pubblici. Con le leggi per la casa del 1962 (piani per l’edilizia economica e popolare), 1967 (obbligo della pianificazione comunale, disciplina delle lottizzazioni e standard urbanistici), 1971 (programma decennale per l’edilizia abitativa e avvicinamento delle indennità d’esproprio ai valori agricoli), 1977 (programmi per il recupero dell’edilizia esistente) e 1978 (limitazioni all’affitto degli alloggi privati) si ottenne la possibilità di controllare tutti i segmenti dello stock abitativo, di realizzare quartieri residenziali dotati di tutti gli elementi che rendono civile una città, di ridurre il prezzo degli alloggi in una parte molto ampia del patrimonio edilizio.
Già l’ho accennato. Le conquiste raggiunte generarono reazioni violentissime: al movimento riformatore si oppose la “strategia della tensione”, che trovò complicità inaspettate ai piani alti del Palazzo. A leggerli con attenzione gli anni Settanta appaiono come gli anni di uno scontro continuo, quotidiano, aspro sebbene non sempre visibili a sguardi disattenti, tra una corrente riformatrice, che mirava ad conquistare tutti i cittadini diritti e condizioni idonei al piego dispiegamento dei valori della Resistenza e della Costituzione (diritti e condizioni che già erano presenti in altri paesi europei), e una corrente pesantemente reazionaria.
L’utilizzazione del territorio urbano ed extraurbano era una delle poste in gioco: città come casa della società, oppure città come macchina per produrre ricchezza alla proprietà immobiliare? L’altra grande posta era costituita dal ruolo del lavoro: diritto e dovere dell’uomo che vuole concorrere a conoscere e trasformare il mondo, oppure strumento per l’aumento della ricchezza e del potere di chi è in grado di comprarlo e impiegarlo nel processo della produzione di merci? Si può dire che la contrattazione territoriale, l’uscita del sindacato dalla fabbrica, la rivendicazione di condizioni migliori (e di un penetrante controllo) non solo nel momento della erogazione della forza lavoro ma anche in quello della sua riproduzione e formazione, furono strumenti importanti per raggiungere i risultati positivi.
Lo saranno anche domani? Ancora una volta, dipenderà dal consenso che si riuscirà a mobilitare nella società. Oltre alle nuove figure sociali che si sono rafforzate o costituite ex novo nel mondo del lavoro (i pensionati, i precari, i migranti) credo che un’attenzione particolare vada dimostrata nei confronti dei movimenti nei quali si esprimono oggi il disagio, la protesta e la volontà di cambiamento nel campo del governo della città, del territorio, dell’ambiente. I riferisco ai comitati, alle associazioni, ai gruppi di cittadini che affiorano nella società e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro attuale fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
Potrà costituirsi un nuovo blocco di forze che sappia intraprendere una strada di riforme che riprenda (certamente mutatis mutandis) la traccia delle speranze maturate pochi decenni fa? Dipende aanche, in larga misura, dalla risposta che sapranno dare – prima ancora che nuove forze della società – la cultura, nell’indicare gli obiettivi proponibili le strade percorribili, e la politica, nel rimettersi al servizio degli interessi, delle speranze, delle rivendicazioni della stragrande maggioranza della popolazione.