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Alessandro Franceschini
20100400 L'urbanistica come passione civile
23 Maggio 2010
Articoli e saggi
Intervista a Edoardo Salzano, per la rivista Sentieri urbani, anno 2° n. 3, aprile 2010, in occasione della pubblicazione di Memorie di un urbanista

«L’urbanistica è in crisi perché è in crisi la politica. Un tempo i sindaci avevano una prospettiva di lavoro di lunga durata e le loro azioni erano dettate delle strategie progettuali. Il piano regolatore era l’’azione massima e principale che un sindaco poteva offrire ai propri concittadini e su questa era poi giudicato dagli elettori. Oggi non è più così. I politici ragionano con tempi molto stretti e lo fanno assecondando le richieste delle lobby e dei privati. Non c’’è visione né strategia nel loro operare e per questo gli urbanisti non servono più. Ma non è detto che questo sistema sia di lunga durata e forse il futuro può offrire ancora una chance all’’urbanistica. Non si può mai dire: la storia inventa».

Sono parole di Edoardo Salzano, urbanista, amministratore pubblico, docente universitario e giornalista che commenta così il ruolo dell’’urbanistica nella società moderna. Un ruolo fortemente in crisi ma che potrebbe riservare, in futuro, nuove occasioni di rivincita. Salzano ha pubblicato recentemente un interessante volume che raccoglie tutta la sua esperienza biografica di urbanista militante: “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto”. Si tratta di un libro in bilico tra l’esperienza professionale e la storia d’’Italia vista dalla prospettiva privilegiata della politica urbanistica. In occasione di questa uscita abbiamo rivolto a Salzano alcune domande per i lettori di Sentieri Urbani.

Professor Salzano, come è cambiata la disciplina nel corso di questi cinquant’’anni? «È cambiata radicalmente. Durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta l’’urbanistica è una cultura dotata di una grande identità che si esprime con grande forza propositiva nei confronti della società civile. È un punto di riferimento chiaro per la politica che vede nell’’urbanista l’’interlocutore privilegiato per decidere le sorti del territorio e delle città. Non a caso in quegli anni nascono delle leggi fondamentali –– nate grazie anche alla imprescindibile forza propulsiva dell’’Inu –– di cui oggi anche gli storici iniziano a riconoscerne l’’importanza. Con l’’inizio degli anni Ottanta, in concomitanza con la fortuna dell’’urbanistica accademica inaugurata dalla Scuola di Milano, l’’urbanistica abdica al suo ruolo di pianificazione per approdare a quello del progetto. Dietro questa parola, però, si cela una vittoria degli interessi economici ed immobiliari dei privati sull’’interesse pubblico».

Sono gli anni del “riflusso”, del “craxismo”, del consumismo selvaggio. La crisi dell’’urbanistica è coincisa con una crisi della cultura? «La cultura viene sempre prima di ogni altra cosa. È lei che guida i cambiamenti nella società. È lei che può contrastare le derive o gettare le premesse per i grandi progressi. Per l’’urbanista la cosa si fa complessa. La sua inevitabile dipendenza dal committente lo rende una figura fragile in balia della cultura imperante. Invece è necessario che l’’urbanista si faccia promotore di cultura per essere, nei confronti del committente, non solo un consulente tecnico ma un riferimento tout-court».

Questo a prescindere dall’orientamento politico della politica? «Credo sia un problema di sensibilità. Ricordo un’esperienza fatta a Foggia, nella redazione del Piano regolatore comunale. L’’interlocutore era una giunta di sinistra che non aveva mai il coraggio di arrivare in fondo. Poi ci fu un “ribaltone” e ci trovammo con una giunta di destra con un assessore fascista. Per me, comunista, questo sembrava significare la fine dell’’esperienza di Piano. Invece il nuovo assessore ci ascoltò attentamente e poi fece sue le argomentazioni del nuovo piano che fu approvato in tempi rapidissimi».

Lei ha avuto una carriera da amministratore e da urbanista davvero invidiabile. Qual è stata la soddisfazione più grande? «Ho avuto moltissime soddisfazioni. Ieri la più grande fu quella di vedere, a Giulianova dopo quindici anni dall’’approvazione del Piano regolatore, la realizzazione del disegno urbanistico pensato vent’’anni prima. Oggi di aver collaborato con una rete di comitati e associazioni a fermare le devastazioni territoriali previste dal Piano Territoriale Regionale del Veneto grazie a 15000 osservazioni prodotte con l’’aiuto di 150 gruppi di cittadini in tutto il territorio veneto».

L’urbanistica oggi è in crisi? «L’urbanistica è in crisi perché non sventola più le proprie bandiere. Anche sull’’ultimo Piano-casa varato dal Governo Berlusconi: è stato abbracciato da tutti gli urbanisti e da tutte le giunte italiane, a prescindere dal colore politico. Non c’è stata nessuna voce di dissenso, di indignazione per questa legge che penalizza l’’interesse comune per favorire quello di una parte dei privati».

Cosa si dovrebbe fare? «Alla base del nostro agire c’’è sempre una opzione morale che noi, consciamente o inconsciamente facciamo. Anche oggi l’’urbanista può scegliere di praticare un’urbanistica corretta. Andando a guardare quello che realmente si muove sul territorio. Paradossalmente chi oggi si batte per il territorio (sia esso un parco urbano, una scuola, l’accesso all’’acqua potabile) sono i comitati, i gruppi spontanei di cittadini che si riuniscono per condurre una battaglia in difesa del territorio. Si tratta di volontari che non hanno, spesso, delle capacità tecniche. Ecco, l’urbanista può servire il territorio offrendo le sue conoscenze a questi comitati».

Nel libro lei si scaglia contro la perequazione. Ci può spiegare perché? «Possiamo declinare il termine perequazione in due modi: il primo è quello della legge 765 del ’67 che disciplina l’’uso di meccanismi di scambio tra pubblico e privato nei piani attuativi. Si tratta di un modo sano di intendere la perequazione e che potrebbe essere esteso anche dove è già edificato. Altra cosa è l’’accezione contemporanea che viene data a questo termine per giustificare una incapacità espropriativa dell’’ente pubblico. Quando si tratta di dotare le città di servizi si ricorre alla perequazione dando ai privati terreni nuovi in cambio di aree edificate collocate in punti strategici. Il risultato è solo un inutile consumo di suolo».

Lei ha lavorato molto con il progetto ma soprattutto con la scrittura. «Ho sempre creduto nella forza della parola. Il nostro mestiere ha come unica arma quella del convincimento. E la parola è uno strumento indispensabile per far capire a cittadini, agli amministratori e ai politici le conseguenze delle scelte urbanistiche. Il territorio va governato come fosse un sistema complesso. E l’urbanista deve essere un supporto per far comprendere la complessità di questo sistema. In fondo questo dovrebbe essere il nostro orgoglio e la nostra missione».

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