L’età del neoliberalismo è terminata
Una nuova epoca si è conclusa. Secondo i lettori più attenti del mondo in cui viviamo l’epoca del neoliberalismo è terminata. La crisi del sistema finanziario globale ha segnato la conclusione di una fase particolarmente virulenta del proteiforme capitalismo.
A partire dagli USA, ancora leader del mondo, “la fiducia su un mercato finanziario del valore di 20 volte il Prodotto interno lordo mondiale annuo (ossia vent'anni di economia reale) è crollata al primo sussurro che ‘il re è nudo!’, nonostante la retorica che accompagnava la possibilità di una sua crescita continua”[1]. Non è solo una crisi finanziaria, è il crollo di un modello economico-sociale che ha avvolto la stragrande maggioranza della popolazione della “civiltà atlantica” nella “insopportabile retorica celebrativa della libertà, intesa come diseguaglianza sociale fondata sulla santificazione della proprietà privata e dell'impresa”. Un modello culturale, prima che economico (e perciò preferisco la dizione di “neoliberale” anziché “neoliberista”).
Da questo modello gli urbanisti avrebbero potuto e dovuto prendere le distanze, a tempo debito, più che i portatori di altri saperi e mestieri. Quel modello ha infatti uno dei suoi feticci nel mercato e nelle sue magiche virtù auto-regolative. Gli urbanisti attenti alle radici e alle ragioni del loro mestiere avrebbero potuto e dovuto ricordare che esso nacque proprio per risolvere alcuni dei problemi che il mercato non era strutturalmente in grado di conoscere. Il fatto è che agli urbanisti (almeno nel nostro paese) è del tutto mancata la capacità di continuare a vedere la complessità delle condizioni che determinano la vita urbana, e quindi il terreno stesso del loro lavoro. A loro scusante occorre riconoscere che anche gli altri saperi hanno subito un consistente appiattimento. Ci sono ancora economisti che sappiano analizzare l’economia attuale senza ritenerla l’unica economia possibile? E giuristi che non si adagino nell’ermeneutica del diritto dato ridotto alla sua formale astrattezza? Eppure, anche vedere la città solo come un insieme di forme avrebbe dovuto ricordare agli urbanisti che non è il mero assemblaggio di oggetti che ha mai costituito gli spazi urbani, e che non esiste forma urbana che non sia anche forma di società.
Tant’è. Ancora oggi c’è chi si gingilla con le pratiche volte a “migliorare” la città, a renderla più “vivibile” (per chi?), più “sostenibile” (o “sopportabile”, e per chi e cosa?), affidandosi alle regole del mercato e alla loro saggia utilizzazione. Non è altro da questo, ad esempio, la “perequazione urbanistica”, grazie alla quale incrementando le rendite immobiliari (e quindi accrescendo le dimensioni dell’urbanizzazione) si ottengono i necessari vantaggi sociali (le elemosine di spazi illusoriamente utilizzabili per la collettività).
Che cos’è il mercato
Ma intendiamoci su che cosa sia il mercato. Se per mercato intendiamo il luogo fisico nel quale si scambiano i prodotti del lavoro dell’uomo, allora bisogna riconoscere che esso è una delle cause fondamentali della nascita della città e uno dei suoi luoghi eccellenti. Ed allora forse proprio riferendoci a questo mercato, al mercato come luogo dello scambio e dell’interazione tra i prodotti dell’uomo, e riflettendo su che coisa siano oggi i prodotti dell’attività umana che è opportuno e utile scambiare, è proprio a partire da qui che potremo sforzarci di riconoscere le regole necessarie per agevolare questo mercato, per configurare in funzione di esso la città di domani (a partire da quella di oggi).
La produzione dell’uomo ha sempre dato luogo a beni che appartenevano a diverse categorie. Beni finalizzati alla sussistenza, alle esigenze materiali della vita, e in gran parte costituiti da elementi appartenenti al mondo materiale. E beni finalizzati ad altre esigenze della vita: la conoscenza, i sentimenti, il godimento estetico. L’economia (capitalistica) si è formata in relazione alla prima categoria di beni. Ha inventato meccanismi tecnici, sociali, culturali (la loro importanza è in ordine inverso rispetto all’elencazione) capaci di aumentarne al massimo la produzione, fino a farla trascendere dal regno della necessità a quello dell’abbondanza, della ridondanza, dell’opulenza. Per farlo, ha dovuto ridurre in merce ogni realtà coinvolta nel processo produttivo. Ha dovuto alienare il lavoro: finalizzarlo ad altro da sé, trasformarlo, da strumento per la crescita dell’uomo a strumento per la crescita della quantità di merci.
Possiamo dire che la città ha preso forma, si è affermata in quanto tale nel percorso della civiltà assumendo come propri principi ordinatori i luoghi ordinati allo scambio dei beni: sia nella loro forma di merci (i prodotti orientati alla sussistenza) sia nella loro forma di beni (quelli della conoscenza, dei sentimenti, del godimento estetico).
La divinità imperscrutabile del neoliberalismo
Dobbiamo però, prima ancora di tentare qualsiasi operazione tendente a ricostituire a rivivere alcuni elementi di quel mercato (ossia di promuovere spazi dedicato all’ scambio di beni), sbarazzarci definitivamente d’ogni sudditanza all’altro mercato: quello delle merci del lavoro capitalistico (del lavoro alienato). Perché se invece per mercato intendiamo quella divinità imperscrutabile del neoliberalismo cui tutto è sottomesso, allora esso della città è la morte.
Riflettiamo sulle parole d’un economista vivo, cioè capace di ragionare in termini di utilità sociale (e non aziendale) dell’economia possibile; un economista, tra l’altro, che ha scritto parole lucide sul mestiere dell’urbanista e della sua pianificazione: Giorgio Ruffolo.
Secondo Ruffolo oggi viviamo “una nuova vulgata neoliberista [che] si afferma sotto forma di quello che potremmo chiamare un determinismo mercatistico”[2]. Abbandonando ogni senso critico e dimenticando la lezione liberista sui limiti del mercato, questo è insomma divenuto la misura non solo del valore di scambio delle merci, ma anche di ogni valore, di ogni azione, di ogni attività dell’uomo e della società.
Questa vulgata non è innocente. Dietro di essa si nasconde una pratica di classe che è stata acutamente indagata. Si tratta del neoliberalismo, che non è una forma ammodernata della vecchia concezione dell’economia e della società tipica della società borghese e della sua ideologia, ma qualcosa del tutto nuovo. Per dirla con uno dei suoi più acuti studiosi, David Harley “il neoliberalismo è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio”. Esso è un progetto di ricostruzione del potere delle élite economiche. Lo studioso americano apertamente sostiene che si tratta di lotta di classe, perché “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe”, e quindi come tale occorre trattarla[3].
È a questo scenario che occorre riferirsi quando si sente parlare oggi della necessità di “tener conto del mercato”. Dimenticare che la pianificazione urbanistica è una delle pratiche inventata (dalla società borghese) per risolvere problemi che lo spontaneismo del mercato era incapace di affrontare non è solo grave errore intellettuale. È anche subalternità a un disegno politico che è forse il rischio più grave che corre oggi la democrazia.
Che succede in Italia
Eppure, è quello che succede in Italia a proposito del territorio e del suo governo. Succede ovviamente a Milano, nelle modalità di “governo del territorio” esplicitamente subalterno alle scelte delle grandi società immobiliari, teorizzata da intellettuali provenienti dalla sinistra (Luigi Mazza, Stefano Moroni) e praticata dal ceto politico più omogeneo al neoliberismo. Succede in Toscana, dove l’autorevole ispiratore della politica del territorio della giunta di centrosinistra, Massimo Morisi, ha esplicitamente sostenuto che bisogna fare entrare a pieno titolo il mercato nei processi di piano, non come fenomeno da governare, ma come protagonista, alla pari della mano pubblica, e che la pianificazione deve svolgersi su due “gambe”, tenendo conto delle finalità e delle regolazioni del pubblico e delle finalità e del dinamismo del mercato, poiché solo in tal modo si può garantire sviluppo, modernizzazione e capacità competitive. E succede nel Parlamento nazionale, dove si accetta pressoché unanimemente che le localizzazioni industriali possano avvenire (proposta di legge Capezzone e altri) senza alcuna di quelle verifiche di necessità, di adeguatezza e di coerenza territoriale che solo una corretta pianificazione del territorio può assicurare.
Verrebbe da dire che siamo alle frutta con il nostro Belpaese. Anche perché il “mercato” al quale ci si riferisce quando si parla di governo del territorio non è, in Italia, quello delle imprese, ma quello delle società immobiliari. Non è quello del profitto, ma è quello della rendita. Non è quello della dinamica capitalista, ma è quello del parassitismo proprietario. Ed è un mercato il cui predominio sulla città produce (lo ha dimostrato la storia) segregazione di gruppi sociali, spreco di risorse comuni, disagio delle persone e delle famiglie, penalità al sistema produttivo e infine (tanto per adoperare un altro concetto divenuto idolo delle piazze) ulteriore motivo di “perdita di competitività” di un sistema già pesantemente degradato e inefficiente.
Le regole: quali? Come?
Liberarsi dell’illusione che il mercato possa riuscire a imprimere alla realtà della città e del territorio un ordine diverso da quello della trasformazione del cittadino in cliente, dell’uomo in consumatore di merci sempre più inutili, della persona umana a strumento cieco della produzione di merci opulente è il primo passo. E un passo necessario anche perché questo modo di orientare il processo economico restringe sempre di più l’area degli obesi e allarga sempre di più quella dei miserabili: mentre la bilancia della ricchezza pende sempre di più dalla parte del Nord mondo quella della moltitudine pende sempre più sul versante dei Sud del mondo.
Ma un secondo passo è necessario: quali regole sostituire al mercato? O più precisamente, come costruire un sistema di convenienze e penalità, di sollecitazioni e di divieti, di incentivi e di disincentivi che consentano di migliorare l’ambiente della vita dell’uomo? Anche qui, la premessa a ogni decisione tecnica è nell’assumere consapevolezza di alcuni principi, sulla cui base misurare l’adeguatezza o meno delle tecniche, dei metodi, degli strumenti, degli obiettivi specifici scelti. Naturalmente siamo in un campo in cui le opinioni possono essere molto differenti: tuttavia è necessario cimentarvisi, salvo poi a calibrare i principi in relazione a quelli proposti da altri[4].
Alcuni princìpi
In un mondo in cui concorrenza e competizione sono il modo in cui gli attori agiscono per trasformare la realtà, e in cui la vittoria la guadagna non chi ha più ragione ma chi ha più forza, occorre proporsi invece di difendere chi, oltre ad avere ragione, ha meno forza degli altri soggetti. Allora scendono subito in campo due realtà che posseggono entrambe queste caratteristiche: il territorio e i posteri.
La terra. Del territorio vorrei mettere in evidenza un primo elemento: il valore della terra non urbanizzata. Credo che la consapevolezza del valore della terra non urbanizzata, non coperta da cemento e asfalto, lasciata libera allo svolgimento del ciclo naturale debba costituire un principio essenziale. La terra, come componente naturale del pianeta, è un bene. La sua struttura fisica è una risorsa fondamentale, oggi e domani. L’azione che compiono le forme elementari della fauna e della flora è decisiva. Occorre conoscere, amare, rispettare la terra in quanto tale: a partire dall’oscuro lavorìo che fanno gli organismi primordiali che la lavorano, digeriscono, rendono porosa, permeabile, suscettibile di ospitare i germi della vita vegetale.
Certo, non è un principio che non abbia margini di negoziabilità, di calibratura rispetto ad altri principi anch’essi ragionevoli. Ci sono esigenze della società che possono richiedere che qualche ulteriore pezzo di terra venga occupato dalla città: ma occorre dimostrare inoppugnabilmente che quelle esigenze intanto hanno la stessa durata e necessità di quella di conservare la terra, e poi che non possono essere soddisfatte altrimenti.
Non è solo le terra come mera naturalità il bene che deve essere prioritariamente protetto: è anche il territorio in quanto deposito di ricchezze che il plurimillenario lavoro dell’uomo ha prodotto e che è un patrimonio per l’intera umanità. E non credo di dover argomentare sulla rivista di questo Dipartimento universitario questioni e definizioni per le quali proprio da qui sono nate riflessioni e azioni che sono entrate nel bagaglio culturale di tutti. Il territorio come natura, il patrimonio come patrimonio: questo è il primo soggetto che va difeso. C’è un altro soggetto, altrettanto rilevante, tanto ce l’elencazione avrebbe potuto cominciare da lui: è l’umanità, e in primo luogo la sua componente più debole perché solo virtuale: i posteri.
Non credo di dovermi dilungare sull’argomentazione della necessità di questo soggetto, e del principio della sua difesa. Del resto, la parte sana del dibattito sulla sostenibilità costituisce proprio la rivendicazione della necessità di salvaguardare patrimoni e risorse per le “generazioni future”; almeno fino a quando il termine “sostenibilità” non è stato assimilato a “sopportabilità”, da assoluto è diventato relativo e ha cominciato a essere non contrapposto, ma mediato con termini alternativi e sopraffattori, come sviluppo economico (di questa economia)
L’uomo. Nel campo dell’uomo, oltre al principio della tutela degli interessi dei posteri che n’è un altro che merita grande attenzione, poiché è anch’esso in gran parte sopraffatto: l’equità tra gli uomini. Un’analisi critica dell’impiego concreto di termini correnti nelle pratiche urbanistiche rivela che a questo proposito di commettono grandi e nefaste mistificazioni. Di continuo vengono proposti obiettivi apparentemente condivisibili da tutti, quali vivibilità, riqualificazione, rigenerazione. Come si fa a non ritenere unanimemente condivisibile l’obiettivo di rendere più vivibile una quartiere o una città, di aggiungergli qualità, di rigenerarne il funzionamento e l’aspetto? Eppure basterebbe porsi la domanda chiave per chi persegue l’obiettivo dell’equità: per chi? Per quali soggetti sono concretamente predisposte, finanziate e attuate quelle operazioni mirate a raggiungere vivibilità e sostenibilità attraverso la riqualificazione e rigenerazione della città? E allora si scoprirebbe che quei termini così gradevoli e accattivanti, in realtà servono a costruire quartieri e città dai quali i deboli, i privi di redditi sufficienti, e via via fasce più estese degli abitanti, vengono esclusi, allontanati, sfrattati.
La società. La storia ha cambiato il rapporto tra la terra e l’uomo. Oggi si sa che il rapporto tra uomo e terra (e territorio) non più essere gestito dal singolo abitante della terra: il partner di ciò che c’è nel territorio è la società. È alla società che spetta quel complesso di attività che si chiama governo del territorio. Attraverso quali strumenti? Attraverso quali istituzioni?
Storia e ragione hanno concorso a dimostrare che, essendo il territorio un sistema, il governo del territorio deve essere anch’esso sistemico. Il territorio pretende metodi di governo per i quali il tutto sia più importante delle sue parti. Ecco perché lo strumento principe è la pianificazione: la pianificazione vera, quella che interpreta, valuta, decide tenendo conto dell’insieme dei problemi e degli interessi; non quella che insegue gli eeventi e decide pezzo oper pezzo. E se gli interessi sono in conflitto tra loro? Ciò è inevitabile in una società divisa, quale è quella che storicamente conosciamo. Ecco allora la grande parola: democrazia. Parola ambigua, utilizzata per coprire modi molto diversi di assicurare il rapporto tra amministratori e amministrati. Forse una parola che esprime una tensione, rispetto alla quale le istituzioni sono sempre inadeguate a esprimere compiutamente.
Pianificazione democratica, insieme a consapevolezza del valore della terra e ricerca dell’equitàsociale, sono quindi tre principi fondamentali da assumere.
Elementi di metodo
Questi non sono ovviamente tutti i principi basilari sulla cui base tentar di individuare quali regole possano guidare, al posto della cecità interessata del mercato, ma sono sufficienti a delineare alcuni primi elementi. Li elenco rapidamente.
La pianificazione del territorio consiste, in ultima analisi, nel costruire un bilancio tra la domanda di trasformazione di spazio e l’offerta di spazio trasformabile. Credo che si debba continuamente tener presente questa caratteristica della pianificazione. Analizziamone brevemente i termini.
Domanda. Le esigenze della società provocano la necessità di trasformazioni del territorio: per realizzare abitazioni, fabbriche, attrezzature, infrastrutture e cos+ via ho bisogno di intervenire su singole componenti dello spazio e di operare in esse trasformazioni orientate alle nuove utilizzazioni. La prima domanda è da porsi è la seguente: quali trasformazioni sono socialmente necessarie, cioè sono motivate dall’esigenza di migliorare la condizione della società sul territorio? Una cosa è, per esmpio, migliorare l’accessibilità all’istruzione o dotare di unì’abitazione conveniente chi ne ha bisogno, altra cosa è l’esigenza di migliorare il valore d’una determinata proprietà o di un determinato comparto della produzione di merci. La valutazione della domanda di trasformazione è parte del primo passo di una pianificazione corretta: ad esso alludeva la pratica, quasi totalmente abbandonata, di basare le scelte della pianificazione su un rigoroso e trasparente calcolo dei fabbisogni..
Offerta. Il territorio, nel suo insieme (sistema) e nelle parti che lo compongono, presenta diverse esigenze di conservazione. Anche la valutazione delle diverse esigenze di conservazione (e, corrispettivamente, delle diverse possibilità di trasformazione) costituisce l’altra parte del primo passo d’una pianificazione corretta. È perciò prioritaria una lettura attenta, rigorosa, completa, libera da qualsiasi preconcetto che non sia quelli di individuare le caratteristiche proprie del territorio, che ne determinano la qualità e il valore sociale per l’umanità nel suo complesso. Una lettura prioritaria rispetto a qualsiasi altra considerazione o valutazione riferita specificamente al territorio. E altrettanto prioritarie devono essere, a mio parere, le concrete decisioni che ne derivano.
Cominciammo a ragionare su questa tesi quando, con alcuni colleghi, lavorammo da una parte al nuovo piano della città storica di Venezia e, dall’altra parte, all’attuazione della “legge Galasso”, in particolare per il piano paesaggistico dell’Emilia-Romagna. Fu allora, tra il 1980 e il 1985, che cominciammo a valutare e sperimentare la possibilità di ogni atto di pianificazione. Una prima componente, che definivamo “strutturale”, abbastanza rigida e ferma nelle sue determinazioni, costruita con un iter “lento” che coinvolgesse la responsabilità di diversi attori espressivi degli interessi generali, doveva avere tra i suoi contenuti essenziali proprio quello di definire le regole che l’esigenza di tutelare l’integrità fisica e l’identità culturale del territorio pongono a qualunque trasformazione. Una seconda componente, che definivamo “programmatica”, avrebbe dovuto decidere - nell’ambito e nel rispetto delle regole stabilite dalla componente strutturale – quali delle trasformazioni ammesse fosse da praticare nel breve periodo in relazione alle esigenze sociali, alle opportunità economiche, alle scelte politiche dell’amministrazione.
Il racconto del modo in cui eravamo approdati a questa proposta, e qualche cenno sul modo limitato, deformato, pasticciato fino alla perversione con cui quel metodo è stato applicato è stato più ampiamente descritto in un ampio contributo pubblicato in una pubblicazione del Centro Osvaldo Piacentini[5].
Due condizioni
Riferirsi a principi e a metodi per individuare le regole necessarie a fare ciò che il mercato non sa e non può fare è certamente necessario. Ma è bene aver presenti anche alcune condizioni che sarebbero necessarie perché le regole abbiano efficacia, e che invece nella nostra società sono presenti solo limitatamente. Vi accennerò soltanto, perché trattarle con una certa sufficienza richiederebbe spazi e tempi di maggiore ampiezza.
La prima condizione cui mi riferisco è la piena disponibilità, da parte della collettività, del suolo urbano, cioè della base materiale delle decisioni della pianificazione. Piena disponibilità non significa necessariamente proprietà pubblica, anche se questa sarebbe molto utile e, laddove è esistita, ha consentito di organizzare le città in modo soddisfacente. Piena disponibilità significa avere il potere pieno di decidere dove si fa che cosa, senza essere costretti, per fare, a scendere a patti con chi detiene la proprietà.
Molti modi sono stati studiati e applicati, anche in Italia, per raggiungere questo risultato: dall’acquisizione generalizzata alla mano pubblica di tutte le aree dove indirizzare le trasformazioni del territorio, al riconoscimento ai proprietari del solo valore dipendente dal costo delle opere da loro stessi realizzate. Tutte queste modalità hanno però una necessaria premessa: la società, nelle sue espressioni di potere (la politica) deveo stabilire che la rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), cioè il maggior valore derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, non appartiene al proprietario ma alla collettività.
Questa premessa era molto viva nella consapevolezza della cultutra e della politica dei veri liberali e della sinistra, qualche decennio fa: ora sembra scomparsa: la rendita, anzichè una componente parassitaria del reddito, è stata considerata il “motore dello sviluppo”. Un vizio che occorrerebbe rimuovere: finché non lo sarà, occorrerà far ricorso a una forte volontà politica e rigore professionale e culturale, per non riconoscere alla proprietà diritti e guadagni che le pure imperfette leggi consentono di negare.
La seconda condizione, per fortuna meglio raggiunta in molte situazioni, è la presenza, nelle amministrazioni pubbliche, di uffici affidati a persone capaci, motivate, autorevoli, capaci di esprimere al meglio una seria e rigorosa cultura della pianificazione pubblica. Chi mi aiutato a rafforzare questa convinzione è stato un mio maestro amatissimo, ben noto nell’ambito(nel contesto) dal quale questa rivista nasce: Edoardo Detti, Daddo. Uno dei miei vanti è che non ci sia, in nessuna città o provincia d’Italia, un piano che venga definito “piano Salzano”. Fin dalle prime esperienze professionali ho sempre preteso, per collaborare con un’amministrazione, che vi fosse, o che fosse rapidamente costituito, un ufficio adibito alla pianificazione.
Perché questa non si esaurisce nel disegno, e neppure nell’adozione e nell’approvazione di un documento tecnico, di un “piano”. Essa è un’attività continua e sistematica, è il metodo permanente di lavoro dell’amministrazione pubblica. Non può essere tale se non è basata su un ufficio che sia, appunto, capace, motivato, autorevole, che sappia collaborare con intelligenza e rigore culturale e professionale con i politici. Nella speranza che questi comprendano il ruolo della pianificazione, l’ampiezza del suo respiro, la responsabilità che comporta. Sarebbe molto utile, quindi, che gli urbanisti pubblici abbiano anche, tra le loro capacità, quella di essere buoni maestri per i loro amministratori.
[1] Ugo Mattei, “Beni a perdere”, il manifesto, 2 dcembre 2008
[2] Giorgio Ruffolo, “La società non può essere sacrificata al dio mercato”, la Repubblica, 14 agosto 2001
[3]David Harvey, Breve storia del Neoliberismo, Il Saggiatore, 2007.
[4] Per la distinzione tra “valoori” e “principi” si veda Gustavo Zagrebelsky, "Valori e conflitti della politica", la Repubblica, 22 febbraio 2008
[5] E. Salzano, “L’articolazione dei piani urbanistici in due componenti: come la volevamo, come è diventata, come sarebbe utile”, Notiziario dell’archivio Osvaldo Piacentini, n.11-12, anno 10, aprile 2008, tomo 2.