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Edoardo Salzano
20080419 Lezione sulla pianificazione
3 Luglio 2008
Interventi e relazioni
Il testo dell'intervento al Città Territorio Festival, Ferrara 19 aprile 2008

LE BASI DELLA PIANIFICAZIONE

Pianificazione urbanistica e pianificazione economica

Le parole sono le etichette delle idee. Sono essenziali per pensare e per comunicare. Ma le parole sono anche delle trappole, soprattutto in una società nella quale il numero delle parole che si adoperano diminuisce sempre di più e ciascuna di quelle che rimangono è costretta ad assumere significati molteplici. Così la parola pianificazione.

Parlerò di “pianificazione della città e del territorio”. E vorrei subito distinguere questa pianificazione dalla pianificazione tout court. Anzi, dalla “pianificazione economica”.

La grande differenza tra pianificazione territoriale e urbanistica e pianificazione economica sta nel diverso rapporto con il mercato. In questo diverso rapporto sta anche la ragione per cui la pianificazione della città e del territorio è nata almeno un secolo prima della pianificazione economica.

Quest’ultima è nata (in una riflessione che è partita da Walras e da Pareto e nella pratica delle economie socialiste) con l’intenzione di sostituire il mercato con dei meccanismi di determinazione teorica dei prezzi: è stata pensata e tentata come una sostituzione del mercato nell’obbiettivo di riuscire a determinare la ragione di scambio tra merci diverse indipendentemente dall’esistenza di una pluralità di operatori autonomi.

La pianificazione urbanistica è nata invece come pratica di governo adoperata per risolvere contraddizioni, malfunzionamenti, difficoltà in relazione ad aspetti che il mercato, cioè la spontaneità concorrenziale delle azioni dei singoli operatori, non riusciva ad affrontare in modo efficace, e che anzi contribuiva ad aggravare.

Pianificazione urbanistica e pianificazione territoriale

L’esigenza di pianificare la città è sempre esistita, da quando l’insediamento dell’uomo ha acquistato caratteristiche di complessità. Ma ha acquistato un ruolo del tutto particolare quando, abbattuto l’ancien régime e l’ordinamento gerarchizzato della società, hanno prevalso la concorrenza, il mercato, l’individualismo. Non parleremo perciò della pianificazione di Ippodamo da Mileto o degli agrimensori romani, ma di quella che nasce quando si afferma il sistema economico sociale capitalistico-borghese e come suo prodotto.

Anche questa pianificazione nasce per mettere ordine nelle città e per regolare, secondo un disegno unitario, la loro espansione e trasformazione. Essa nasce per affrontare problemi che la somma delle decisioni individuali non poteva risolvere. Nasce – per così dire – per costituire un contrappeso all’invadenza dell’individualismo e correggerne taluni effetti. Fin dall’inizio del suo percorso, essa è finalizzata al raggiungimento di obiettivi d’interesse generale: naturalmente, d’interesse generale dei gruppi sociali, delle “classi”, che governavano la città o ne influenzavano il governo.

Questa finalizzazione, del resto, è coerente con la natura più profonda della città. Questa infatti non è un mero aggregato di case. La città è sorta, nella storia della civiltà, come luogo strutturato e organizzato per svolgere funzioni e soddisfare esigenze cui i singoli uomini (le singole famiglie) non potevano rispondere da soli: per soddisfare esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali. La città è la casa della società.

Dalla città al territorio

La pianificazione nasce quindi, all’inizio del XIX secolo, come pianificazione urbanistica. Ma ci si accorge abbastanza presto che i fenomeni che caratterizzano la vita urbana, e quindi il disordine che consegue dal sovrapporsi di decisioni diverse e contraddittorie, richiedono un intervento regolatore e programmatore che si estenda all’insieme del territorio. Così come ci si accorge, a partire dai primi decenni del XX secolo, che anche il territorio fuori dai confini della città è impiegato per le stesse esigenze, è ordinato alle stesse funzioni, che una volta si svolgevano nella stretta cerchia delle mura urbane. È dalla fine del XIX secolo che la città comincia ad espellere sul territorio le funzioni divenute incompatibili con la vita quotidiana. Il processo si sviluppa e si estende con l’aumentare sia della specializzazione delle diverse parti del territorio sia delle esigenze sociali, e con il miglioramento della capacità del sistema delle comunicazioni.

Nasce insomma la pianificazione territoriale. Essa è sostanzialmente ispirata agli stessi principi e volta a correggere gli stessi errori della pianificazione urbanistica. La mia convinzione è perciò che tra l’una e l’altra, tra la pianificazione urbanistica e quella territoriale, non ci sia nessuna differenza sostanziale; che il sistema di obiettivi sia perfettamente analogo; che quindi gran parte dei ragionamenti che si possono fare riguardano ugualmente l’una e l’altra. Perciò, d’ora in poi, parlerò esclusivamente di pianificazione urbanistica e territoriale . anzi, salva diversa precisazione, parlerò di pianificazione intendendo l’una e l’altra.

Che cos’è la pianificazione

Vediamo una prima definizione di pianificazione: la definizione di un economista, Giorgio Ruffolo, che si è misurato con i problemi del territorio:

“La pianificazione territoriale è lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico” [1].

In questa definizione vedete accentuare il contrasto tra la logica della pianificazione e la logica del mercato. La pianificazione si fa carico di aspetti che il mercato trascura: la logica qualitativa dell’armoniosa disposizione delle cose sul territorio, contro la logica quantitativa della mera accumulazione di cose.

E vedete comparire qualcosa che ha a che fare con l’estetica e con la creatività: la pianificazione è anche progettazione, inventa “nuovi modelli spazio-temporali”, che producono spazio e tempo, e “valore aggiunto estetico”.

Se dalla poesia di un economista vogliamo scendere alla prosa di un urbanista, vi darei quest’altra definizione, la mia.

Per me la pianificazione territoriale ed urbanistica è quel metodo, e quell’insieme di strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni [2].

Ma per approfondire l’argomento e chiarire il significato della pianificazione occorre ragionare su quelli che sono i suoi oggetti: da un lato il territorio, urbano o extraurbano che sia, dall’altro lato la società e i modi nei quali essa si rappresenta e si esprime.

IL TERRITORIO

Una realtà complessa

Il territorio urbano e quello extraurbano sono certamente diversi, dal punto di vista meramente fenomenologico. Nell’una la presenza dell’uomo è più intensa e nell’altro è più rada. Nell’una c’è una dose più alta di artificio (benché la città sia sempre condizionata dalla natura che la ospita), nell’altro prevale la natura (ma quasi sempre plasmata dal lavoro dell’uomo).

Nonostante le differenze tutto il territorio è una realtà complessa.

Lo è dal punto di vista della sua genesi: è il prodotto del succedersi di una serie di stratificazioni storiche, nel corso delle quali l’uomo ha interagito con la natura modificandola, addomesticandola, trasformandola più o meno profondamente, a volte rispettandola, a volte violentandola.

È una realtà complessa dal punto di vista degli usi in atto e di quelli possibili, e dei conflitti che possono nascere tra usi alternativi e tra usi antagonisti. Un campo può essere usato, alternativamente, per coltivare, o per realizzare un parco, o per costruire cento alloggi o dieci fabbriche.Una zona industriale accanto a un ospedale o un aeroporto accanto a un quartiere residenziale è certamente una utilizzazione antagonista, che reca danno alle altre.

Ed è una realtà complessa dal punto di vista delle letture che ne sono possibili, dei punti di vista sotto i quali può essere utilizzato, e quindi degli obiettivi cui la stessa analisi e individuazione dei problemi è finalizzata. Considerano il territorio e operano su di esso, secondo diversi punti di vista, il sociologo e il geografo, l’economista e il geologo, il naturalista e l’archeologo, lo storico e l’ingegnere dei trasporti e così via.

Una realtà sistemica

Di tutte questi elementi che abbiamo enumerato (vicende, usi, letture, oggetti) il territorio non è un semplice magazzino:non è un luogo in cui questi elementi sono e casualmente ammonticchiati. Questi elementi hanno ordine tra loro, sono connessi tra loro in modo che una modifica in un punto, un’azione su una di essi, modifica tutti gli altri.

Aprire un supermercato in una parte periferica della città provoca un grande aumento del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi ecc. Al tempo stesso,per il fatto che quella parte del territorio viene visitato da molti clienti stimola l’apertura di altri negozi, servizi e funzioni che guadagnano dalla presenza di numerosi passanti.

Allargare una strada e rendere più fluido il traffico in una parte della città provoca un afflusso di automobili generalmente maggiore dell’aumento della capacità della rete stradale che si è manifestato, e quindi richiede nuovi interventi che a loro volta generano maggior traffico. L’apertura di un parcheggio interrato in una parte della città: in genere a questo evento corrisponde l’afflusso di automobili maggiore della capacità del parcheggio, e allora si crea in quella zona un aumento del traffico anziché una sua diminuzione.

Realizzare una serie di capannoni industriali e di abitazioni in un’area che per le sue caratteristiche geologiche è permeabile rispetto alla falda idrica provoca un progressivo inquinamento della sottostante riserva d’acqua e quindi un aumento del rischio di malattie oppure la necessità di cancellare una risorsa essenziale per la vita delle popolazioni insediata a valle.

Il territorio, insomma, è un sistema, nel quale le opere di trasformazione dell’uomo e il loro impatto sulle preesistenti caratteristiche, sia naturali che artificiali, genera nuovi equilibri e provoca nuovi eventi, anche in parti distanti e apparentemente non connesse con il luogo della trasformazione.

Il territorio è un bene comune

Ho detto che la città è finalizzata e organizzata costitutivamente agli interessi comuni: che essa è la casa della società. Si può dire lo stesso del territorio. Il suo assetto attuale è determinato da una serie di eventi che sono maturati in un arco lunghissimo di tempo. La collocazione delle attuali città è originato spesso dall’incrocio di due itinerari percorsi da mercanti moltissimi secoli fa. La trasformazione di primitivi villaggi in città e il consolidamento e l’accrescimento di queste è avvenuto per effetto di una somma di iniziative, moltissime delle quali operate dalla collettività,le altre dalle singole famiglie e imprese nell’ambito di decisioni e investimenti pubblici, pagati dalla collettività. L’organizzazione del territorio, il suo assetto fisico e funzionale, sono largamente determinati dagli elementi di urbanizzazione (le città e i paesi, le vie di comunicazione, gli impianti extraurbani, la stessa organizzazione degli elementi naturali utilizzati per la ricreazione, lo sport, la visita, lo studio).

Nessuno realizzerebbe una fabbrica se non ci fosse un sistema di strade e di ferrovie che consente alle merci di entrare e di uscire dalla fabbrica, agli operai di arrivarci, se non esistessero reti di comunicazioni per collegare quella fabbrica a tutti i mercati, se non esistessero scuole nelle quali il personale si forma e così via. Nessuno costruirebbe una casa se non ci fossero strade, scuole, parchi, ferrovie, tram e autobus e così via.

Questa e altre considerazioni spingono a dire che non solo la città, ma anche il territorio sono un bene comune, di cui si può fruire individualmente ma che nel suo insieme è un bene creato dall’apporto di tutti (quindi della società), in un lungo percorso storico. Sono beni comuni e pubblici molte sue parti (le strade e le piazze, le scuole e gli ospedali, gli aeroporti e le ferrovie, i parchi e le riserve idriche e così via), ed è un bene comune nel suo insieme.

Gli interessi che agiscono sul territorio

Città e territorio costituiscono il luogo nel quale interagiscono, e spesso sono in conflitto tra loro, interessi diversi. Vorrei accennarne a uno fondamentale, che è certamente noto, ma di cui si tiene scarsamente conto quando si ragiona su città e territorio, sui loro problemi e sul che fare per risolverli.

Se un’area da agricola diventa urbana il suo valore aumenta moltissimo. Ancora di più aumenta se è vicina a una stazione della metropolitana, o a un parco pubblico, oppure se è in una zona ben servita da buoni servizi pubblici. Ancora di più aumenta se su quell’area si possono realizzare sedi di attività pregiate, oppure un numero maggiore di volumi o di superfici utili.

Insomma,per effetto di decisioni e investimenti pubblici il valore economico di un’area può aumentare di moltissimo. Il prezzo di quell’area, ivi compreso il sovrapprezzo derivante dalle scelte e dagli investimenti della collettività, viene incassato dal proprietario, senza che esso abbia compiuto nessun lavoro e nessun investimento. Ma esso ricade su chi ha bisogno di quell’area per costruire una fabbrica o un edificio di abitazioni, il quale a sua volta si rivale su chi compra le merci prodotte da quella fabbrica o prende in affitto un alloggio in quell’edificio.

È la questione della rendita immobiliare, sulla quale tornerò più avanti.

LA SOCIETA'

Città e società: un legame inestricabile

Parlare di territorio come luogo del conflitto d’interessi diversi e contrapposti, ci conduce subito a parlare della società. Infatti il conflitti nascono dal fatto che il territorio è la sede della vita, delle attività, della storia e delle storie, delle passioni e delle emozioni della società.

Dico della società e non dell’ uomo per la stessa ragione per la quale ho detto prima che il territorio è, nel suo insieme, un bene comune. Non viviamo più in una realtà della quale Robinson Crusoe e la sua isola possano costituire un modello. Viviamo invece in una realtà in cui l’intero territorio à diventato città, è diventato l’ambiente della vita dell’uomo associato in comunità più o meno vaste: comunità scalari, dal villaggio e dal quartiere fino all’intero pianeta.

È la società, quindi, l’altro grande soggetto della pianificazione. Anzi, potremmo dire che la pianificazione è la cerniera tra territorio e società. Dimenticare, nella riflessione o nell’azione sulla città e sul territorio, questa duplice natura dell’oggetto della pianificazione è errore grave, che conduce a gravi distorsioni.

La pianificazione non può essere indifferente alla società, nè possono esserlo quelli che ne sono gli “esperti” e – dal punto di vista tecnico – gli artefici, cioè gli urbanisti, i planners.

Del resto, le difficoltà nelle quali si svolge oggi, in Italia, l’attività di pianificazione della città e del territorio deriva, in misura larghissima, proprio dalle caratteristiche che ha assunto negli ultimi decenni la società italiana: la sua cultura, la sua politica e le sue istituzioni, la sua economia. È a questi aspetti che voglio adesso riferirmi.

La cultura

Richard Sennet sostiene che si è dissolto l’indispensabile equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata dell’uomo moderno, e che questo si sia completamente appiattito sull’intimismo. Il disagio contemporaneo ha la sua causa nell’impoverirsi della vita pubblica [3]. In effetti l’individualismo caratterizza sempre di più i pensieri, le emozioni, i comportamenti dell’uomo di oggi, la sua cultura.

La condivisione di obiettivi comuni, la ricerca comune della soluzione dei problemi di tutti non sono più di moda. La solidarietà si riduce a pratiche vicine all’elemosina. I nuovi “valori” sono tutti riconducibili all’affermazione individuale. Lo stesso concetto di sussidiarietà, inventato per distinguere le competenze dei diversi livelli di governo pubblico, è stato tradotto nella pratica “tutto il possibile potere al privato”.

Parole (e concetti) come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati sinonimi di peso, obbligazione, vincolo, impaccio. Il ”mercato”, istituzione inventata dalla storia dello sviluppo economico per determinare il prezzo delle merci, è diventato perno di una ideologia che appiattisce ogni qualità, ogni differenza, ogni dimensione.

La politica

Su questa cultura si è adagiata la politica. Celebrando la fine delle ideologie, non ci si è accorti d’aver accettato quella determinata ideologia per la quale privato è sempre meglio che pubblico, individuale meglio che comune, spontaneità meglio che governo.

Ma appiattirsi sull’individuale, sul privato, sullo spontaneo significa anche privilegiare l’immediato sul remoto, il vicino sul lontano, la breve scadenza sul lungo termine, il presente sul futuro, il dato sul possibile. Significa perciò rinunciare alla capacitò di formulare un progetto: un progetto di società e un progetto di città.

Non sempre la politica è stata così. Pochi decenni sono trascorsi da quando lo scontro politico era la competizione tra progetti di società alternativi, ciascuno riferito agli interessi di determinate classi sociali, ciascuna delle quali però aspirava a soddisfare l’interesse generale. A seconda del potere conquistato dai portatori dell’uno o dell’altro progetto di società, il compromesso che via via si raggiungeva nella concreta attività di governo era più vicino all’uno o all’altro.

L’obiettivo che le formazioni politiche perseguivano (e che era fatto proprio dagli appartenenti alle diverse formazioni, dai politici) era un obiettivo di ampio respiro. Esso si realizzava concretamente con piccole azioni e piccole trasformazioni, ma queste erano viste come parti di una costruzione complessiva, che si sarebbe concretata interamente solo in un futuro lontano. Si lavorava oggi per domani, e magari per dopodomani.

E poiché per poter realizzare il proprio progetto di società era necessario il consenso, l’azione politica di arricchiva di una forte componente didattica: occorreva spiegare il proprio progetto di società, illustrarne le ragioni, le possibilità, le conseguenze. Per conquistare i voti occorreva prima formare le coscienze. Partendo dagli interessi specifici delle diverse categorie di soggetti, ma cercando di farli convergere verso un interesse più ampio: tendenzialmente, verso un interesse generale.

Oggi l’attenzione è tutta schiacciata sul breve periodo, sull’immediato, su ciò che si può raggiungere oggi, prima che inizi la prossima campagna elettorale. E poiché ciò che conta è conservare (o conquistare) il potere, ecco che lo sforzo non è rivolto a formare le coscienze e a costruire il futuro, ma a guadagnare il consenso, con una doppia operazione:da una parte, calibrando la propria proposta politica sul consenso che si può guadagnare nell’immediato, sugli interessi già presenti oggi e in grado oggi di essere soddisfatti; dall’altra parte, impiegando tutte le tecniche capaci di modellare la coscienza di strati vasti di popolazione [4].

La democrazia rappresentativa

La politica si esercita attraverso i partiti: organizzazioni che esprimono parti della società. Per tradurre la volontà di queste parti in un’attività di governo la civiltà occidentale ha elaborato principi e strumenti che si chiamano “democrazia rappresentativa”. Questa è costituita da un insieme di istituzioni, che nascono dalla volontà popolare stimolata e organizzata dai partiti. Le istituzioni rappresentano la società ed esercitano le attività necessarie a concretare gli interessi comuni – così come questi sono espressi dalla maggioranza degli elettori.

Le istituzioni della democrazia sono particolarmente rilevanti per la pianificazione. È ad esse che è attribuito,nei sistemi politico-istituzionali europei, la potestà di assumere le scelte della pianificazione. Se è il tecnico, l’esperto, l’urbanista che prepara i materiali e delinea le opzioni possibili e i costi e i benefici per ciascuna di esse, è all’eletto che spetta la decisione.

Il nesso tra la pianificazione e le istituzioni democratiche (e la politica) è davvero strettissimo. E allora dobbiamo ricordare che la democrazia che conosciamo non è l’unica esistita, né è l’unica possibile. Si dà il fatto che, come diceva Winston Churchill, “è un sistema pieno di difetti, ma tutti gli altri che sono stati inventati ne hanno di più”. Quindi difendiamola, ma assumiamo piena consapevolezza dei suoi limiti e degli errori della sua attuale applicazione: della sua crisi.

Ricordiamo soprattutto che la sua è stata determinata da alcune cause precise, che Luciano Canfora sintetizza così:

“impoverimento dell'efficacia legislativa dei parlamenti, accresciuto potere degli organismi tecnici e finanziari, diffusione capillare della cultura della ricchezza, o meglio del mito e della idolatria della ricchezza attraverso un sistema mediatico totalmente pervasivo” [5].

Solo se siamo consapevoli dei limiti ed errori della democrazia – e delle cause della sua crisi – potremo raggiungere contemporaneamente due obiettivi: tentar di migliorarla nell’applicazione, non interrompere la ricerca di un sistema migliore.

L’economia

La città, nel suo sorgere e nel suo affermarsi, è sempre stata strettamente connessa all’economia: il modo in cui l’economia si è conformata ha pesantemente inciso, nel bene e nel male, sulla natura della città, sui suoi problemi, sulle sue potenzialità.

Nella fase attuale della nostra vita sociale si sono manifestate due novità che hanno provocato effetti molto pesanti sul territorio: sulle sue trasformazioni e sulla capacità di governarle mediante la pianificazione.

In primo luogo, l’economia e divenuta la dimensione dominante nell’intero sistema di principi e valori (e di pratiche sociali) del nostro tempo. Il valore d’uso (quello cioè derivante dall’utilità del bene per la vita dell’uomo) è stato interamente soppiantato dal valore di scambio (quello derivante dalla possibilità di scambiare la merce contro denaro).

Lo sviluppo cui l’intera società è chiamata a tendere non ha più alcuna connessione con il miglioramento delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa oggi unicamente crescita quantitativa delle merci, ossia dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più per non morire.

In secondo luogo, ha assunto un peso dominante quella componente parassitaria del reddito – la rendita immobiliare – la cui appropriazione privata ha causato, e continua a causare, la maggioranza dei conflitti che insorgono nelle decisioni delle trasformazioni urbane. Dove la città chiederebbe parchi e scuole, campi aperti e zone sportive, spazi pubblici e paesaggi, la possibilità dei proprietari di lucrare ingentissime somme ottenendo l’edificabilità costituisce una pressione fortissima sui decisori, i quali nella maggior parte dei casi soccombono alle aspettative della proprietà immobiliare.

Il peso massiccio che ha assunto la rendita immobiliare affonda certamente le sue radici nel modo nel quale è avvenuta l’unificazione dell’Italia e nell’incompiutezza della rivoluzione capitalistico-borghese a Sud delle Alpi. Ma è stato fortemente accentuato negli ultimi decenni per le stesse ragioni per le quali la politica si è rassegnata a seguire gli eventi anziché indirizzarli, ad accodarsi alla spontaneità degli animal spirits dell’economia italiana anziché concorrere a trasformarla.

LA PIANIFICAZIONE OGGI

Riepilogo

Nel nostro rapido excursus abbiamo visto come la pianificazione della città e del territorio si è formata quando l’affermazione del sistema capitalistico-borghese ha comportato il nascere di problemi che il mercato, sommo regolatore dell’economia, non riusciva a risolvere ma anzi aggravava. Abbiamo visto come sia possibile ricondurre a un unico ragionamento la pianificazione della città e quella del territorio, e come questa (la pianificazione urbanistica e territoriale) sia diversa, e diversamente finalizzata, rispetto alla pianificazione economica. Abbiamo visto come la pianificazione di cui ci siamo occupati costituisca la cerniera tra il territorio (la sua struttura, i suoi usi, le sue condizioni e trasformazioni) e la società (la politica che ne esprime i diversi interessi, le istituzioni mediante le quali essa diventa governo, l’economia che ne determina i meccanismi). Abbiamo accennato al rapporto, nella pianificazione, tra due attori-chiave: l’urbanista e il politico, il tecnico della pianificazione e il responsabile delle sue scelte.

È da questo punto che vorrei riprendere il filo, per proporre alcune riflessioni sulla pianificazione oggi.

L'URBANISTA E IL POLITICO

Due mestieri, due ruoli, diversamente carichi di responsabilità.

Il politico (o forse più precisamente la politica, nella dialettica tra le sue diverse componenti) deve essere capace di interpretare la società nei diversi interessi delle fomazioni sociali (delle classi) nelle quali si articola. Deve saper comprendere in quali direzioni conducano le tendenze in atto, quale sia il loro esito, se vadano incoraggiate o contrastate o comunque indirizzate. Deve saper formulare, in relazione a ciò che nella realtà esiste e alle sue potenzialità, un futuro desiderabile: un progetto di società. E in relazione a questo progetto di società deve saper dettare alla pianificazione gli obiettivi da assumere, e in relazione dei quali definire un “progetto di territorio”.

L’urbanistaè capace (deve essere capace) di esprimere la città e il territorio.

Per fare i conti con il carattere complesso del territorio e delle forze che agiscono su di esso, deve saper utilizzare le numerose altre discipline che concorrono alla conoscenza, guidarne e comprenderne gli apporti, finalizzarle agli scopi della sua azione. Nel proporre i diversi “progetti di territorio” compatibili con gli obiettivi sociali proposti, l’urbanista deve saper individuare le condizioni non negoziabili delle trasformazioni territoriali: deve saper riconoscere i patrimoni meritevoli di essere tramandati alle generazioni future; deve saper individuare le risorse utilizzabili, e le regole per una loro lungimirante utilizzazione.

Naturalmente, per il suo stesso ruolo di interprete del territorio, deve esser capace di valutare e far valutare la durata delle trasformazioni, i tempi con i quali il territorio reagisce, le connessioni spaziali e temporali tra i diversi interventi progettati.

I mutamenti degli obiettivi sociali della pianificazione

Gli obiettivi sociali della pianificazione sono mutevoli nel tempo. Nella storia che sta alle nostre spalle possiamo riconoscere alcuni momenti significativi.

All’inizio della sua vicenda la società ha chiesto ai suoi tecnici – oltre che di rendere più efficiente il funzionamento cinematica della macchina urbana – di risolvere due problemi: migliorare le condizioni igieniche, e regolare i valori immobiliari in modo da dare certezza di lucro agli investimenti patrimoniali. Entrambi questi obiettivi erano perseguiti in modi differenziati nelle diverse parti della città, con una vera “zonizzazione sociale”: qui i ricchi e i potenti, là i benestanti, altrove gli operai e l’”esercito di riserva”.

I risultati delle lotte sociali e i margini di ricchezza consentiti dallo sfruttamento (in patria e nelle colonie) condussero al manifestarsi di altri obiettivi. A partire dalle proposte degli utopisti sul finire del XIX secolo fino alle realizzazioni dei governi e dei municipi della socialdemocrazia, diventarono obiettivi della pianificazione i diversi elementi del welfare state: l’edilizia civile a basso costo, le attrezzature sociali e sportive, quelle assistenziali e scolastiche, i collegamenti efficienti casa-lavoro.

In questo quadro in Italia, riprendendo nel secondo dopoguerra alcuni dei germi gettati nel primi decenni del secolo XX e sviluppandone altri, si giunse a porre al centro della pianificazione urbana le grandi questioni del diritto alla casa come servizio sociale e delle adeguate dotazioni di aree da destinare a spazi e attrezzature pubbliche, gli standard urbanistici.

Negli anni a noi più vicini si è manifestato, come nuovo obiettivo sociale, quello della tutela del territorio nelle sue caratteristiche fisiche e culturali e nei suoi equilibri ecologici. Ciò ha dato luogo a un accentuato interesse sia al funzionamento della città sia, e soprattutto, alle condizioni dei territori extraurbani. Non è facile però verificare la risposta che a questi nuovi aspetti ha dato la pianificazione, sia per il carattere spesso settoriale della “domanda di ambiente” sia per il contemporaneo appannarsi dell’idea stessa di pianificazione. Ma è su questo punto che devo soffermarmi ora, e concludere questo intervento.

Un punto di svolta

Se c’interroghiamo su come si ponga oggi, nel concreto, la questione della pianificazione nel nostro paese, se ci domandiamo quale sia lo stato di salute della pianificazione quale l’abbiamo conosciuta, ci rendiamo conto che siamo giunti a un punto di svolta.

Secondo alcuni la pianificazione, intesa come governo pubblico, trasparente e democratico, delle trasformazioni territoriali in grado di assicurare a priori una coerenza all’assetto derivante dal succedersi di tali trasformazioni, questa pianificazione è morta. Essa è diventata inutile, deve essere abbandonata e sostituita da meccanismi che consentano a chi vuole operare trasformazioni di intervenire qui ed ora, sulla base dei suoi interessi e delle sue disponibilità immediate [6].

Secondo altri la pianificazione deve essere modificata più o meno sostanzialmente nei suoi procedimenti tecnici, nelle sue modalità e attrezzature operative, e nel modo in cui il decisore investe in essa. Si tratta di modificare, aggiornare, rendere più efficaci ed efficienti i suoi meccanismi, le procedure, le modalità tecniche, e bisogna che i decisori facciano più affidamento su di essa e sui suoi “esperti”

Io sono convinto che nel ragionare sulla pianificazione si debba preliminarmente convenire su due affermazioni, che in qualche modo costituiscono la conclusione del mio discorso.

1.La pianificazione è oggi più che mai necessaria. Più il mondo diventa complesso, più vasti sono gli orizzonti che si aprono all’attività degli uomini, più ricche diventano le interrelazioni tra esigenze, strutture, possibilità, luoghi, più è necessario svolgere uno sforzo ordinatore. La pianificazione è nata per vincere il caos in città di poche decine di migliaia di abitanti: oggi è diventata urbana una realtà composta da miliardi di persone.

2.La posta in gioco oggi è a chi spetti il potere di pianificare. Ciò tra cui bisogna scegliere è se la pianificazione è lo strumento di una democrazia rinnovata e partecipata, con le sue rinnovate istituzioni, capaci di esprimere e rappresentare davvero gli interessi comuni della società, oppure se la pianificazione è lo strumento do quei poteri forti – nazionali, transnazionali e globali – che in modo sempre più evidente e penetrante esercitano l’egemonia sulle dinamiche globali. Sto parlando evidentemente del neoliberismo, delle corporations, di un mondo sempre più appiattito su un’economia dominata dalla rendita finanziaria (e immobiliare)

Io credo che prendere atto della prima affermazione (necessità attuale della pianificazione) e scegliere decisamente il carattere pubblicistico della pianificazione, sia preliminare a qualsivoglia successivo ragionamento sui caratteri, metodi, strumenti della pianificazione, sul modo in cui i diversi saperi e mestieri debbano concorrere a foggiarla e utilizzarla.

Si potrà allora anche discutere se sia possibile assumere, quale orizzonte per la società e quadro di riferimento per gli obiettivi sociali della pianificazione, quello di una cultura, un’economia, una politica quali quelle che ho descritto: quelle di un “neoliberismo”nel quale l’uomo privato abbia soppiantato l’uomo pubblico. Oppure se – come io sono convinto – sia necessario condurre in primo luogo una azione per superare il sistema di valori e di pratiche sociali che attualmente sembra prevalere: a partire dalla difesa e dalla promozione di tutto quello di pubblico, di sociale, di comune è stato conquistato nella storia.

Se insomma sia inevitabile accettare l’attuale società così come si è configurata nei suoi “valori” (crescita, individualismo, cieca fiducia nel mercato e nelle tecnologie), nelle sue pulsioni e nella sua dinamica - così come ieri hanno sostenuto alcuni autorevoli oratori [7] – magari addolcendone alcune asprezze e volgarità e tagliandone qualche punta di durezza, oppure se – come molti di noi ritengono – non sia possibile, oltre che necessario, attrezzarsi per contribuire alla costruzioni di una società radicalmente diversa.

[1]G. Ruffolo, Il carro degli indios, in “Micromega”, n. 3/1986.

[2] L’argomento è approfondito in E. Salzano, Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma, Editori Laterza, Roma-Bari 1998-2007

[3] R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Paravia Bruno Mondatori editore, Milano 2006

[4] “La politica non è più lo strumento attraverso il quale si dirige un paese in base ad un'idea forte delle sue prospettive future, ma un navigare sulle sue debolezze, lusingandole e cercando di volgerle a proprio vantaggio, rispecchiandole ed accentuandole”. F. Cassano, Homo civicus, Edizioni Dedalo, Roma 2004

[5] L. Canfora, La democrazia. Storia di un´ideologia, Laterza, Roma-Bari, 2004

[6] Si vedano in particolare la discussione con Luigi Mazza sul documento programmatico per Milano, quella con Stefano Moroni a proposito del suo libro La città del liberalismo attivo e la vicenda della legge Lupi.

[7] Mi riferisco alle conferenze svolte da Bernardo Secchi e da Massimo Cacciari.

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