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Edoardo Salzano
20050127 Una proposta di Italia Nostra per la tutela del territorio non urbanizzato
3 Luglio 2008
Interventi e relazioni
Intervento al convegno "Italia da salvare, Il paesaggio tra storia e natura", Roma 27-28 gennaio 2005. In allegato il testo della proposta

Obiettivo: proteggere le residue aree non urbanizzate, e in particolare quelle che conservano vistosi segni del rapporto tra lavoro e natura – i paesaggi rurali, i paesaggi forestali, i lacerti di natura intatta – dall’invasione immotivata e ingiustificata delle trasformazioni che quei segni hanno cancellato da gran parte del territorio del Belpaese. Un vincolo di immodificabilità del residuo paesaggio rurale: un vincolo di salvaguardia di una specie in via di estinzione.

Obiettivo forte, ma essenziale per conservare alle generazioni future la nostra civiltà. Occorreva trovare un ancoraggio giuridico altrettanto forte: l’abbiamo trovato nel decreto Galasso, poi tradotto nella legge 431/1985, infine inserito nel Codice Urbani (d. lgs 42/2004).

Nel decreto Galasso, poi nella legge 431, oggi nel 1° primo comma dell’articolo 142 del decreto legislativo del 2004, la collettività nazionale ha inserito - fin dal 1985 - l’elenco dei beni (anzi, delle categorie di beni) che si ritiene debbano essere sottoposti a tutela: i corsi d’acqua e le coste, i monti e i boschi, i ghiacciai e le aree archeologiche.

Noi proponiamo che in questa lista di categorie venga inserito anche “il territorio non urbanizzato sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agrosilvopastorale”. Per questo territorio “ il piano paesaggistico prevede obiettivi e strumenti per la conservazione e il restauro del paesaggio agrario e non urbanizzato": queste sono le trasformazioni primarie cui la tutela è finalizzata

La legge (un testo snello, costituito da due soli articoli) stabilisce che l’individuazione specifica del territorio non urbanizzato sia effettuata dai “comuni, d'intesa con la competente soprintendenza, […] nell'ambito dei rispettivi strumenti di pianificazione”. E fino all’individuazione sono considerati soggette al vincolo tutte le zone agricole definite dagli strumenti di pianificazione vigenti.

Poichè la proposta non vuole essere estremistica ma realistica, si prevede che i nuovi strumenti urbanistici possano prevedere l’utilizzazione del territorio così individuato “per nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali”, ma ciò solo a due condizioni: che ci sia l’intesa con la competente soprintendenza, e che “ non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture o attrezzature esistenti”.

Il secondo articolo della proposta definisce i “principi fondamentali in materia di governo del territorio con riferimento al territorio non urbanizzato” che la legislazione regionale deve applicare. Tra questi voglio sottolineare i seguenti:

- “gli strumenti di pianificazione non consentano nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, o consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali”

- “la demolizione dei manufatti edilizi già utilizzati come annessi rustici, qualora perdano la destinazione originaria”, norma già applicata dalla Regione Toscana,

- la possibilità di stabilire “ulteriori limitazioni, fino alla totale intrasformabilità, relativamente al territorio non urbanizzato, o a sue definite articolazioni, per ragioni di fragilità del territorio, ovvero per finalità di tutela del paesaggio, dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali e dell’interesse storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale, del patrimonio edilizio esistente”

Per comprendere la legge, e in particolare l’essenzialità dell’ancoraggio alla lista delle “categorie di beni”, occorre ricordare il percorso culturale e politico che ha condotto al Codice del paesaggio.

Nel 1968 due sentenze costituzionali turbarono la coscienza degli urbanisti e dell’opinione pubblica, in quegli anni ben più vigile di oggi: la 55 e la 56. La prima dichiarava l’incostituzionalità dei vincoli urbanistici preordinati agli espropri (e quindi dei vincoli posti dai piani per gli spazi pubblici e d’uso pubblico), perché discrezionali e di incerta indennizzabilità. La seconda dichiarava la costituzionalità di una legge della provincia di Bolzano che attribuiva particolari limitazioni all’insieme dei beni vincolati dalla legge del 1939i.

La Corte costituzionale precisò, nelle sentenze e in sue successive letture interpretative, la portata della decisione e inviò al legislatore un messaggio chiaro ed esplicito: è legittimo vincolare le utilizzazioni, e la stessa appartenenza, di determinate categorie di beni, a condizione – appunto – che non si tratti di singoli beni, ma di intere categorie di beni, che svolgano una funzione riconosciuta d’interesse generale e che il legislatore definisca ope legis vincolate. In questo caso l’azione di individuazione del singolo bene a quella determinata categoria, e quindi l’apposizione del vincolo sul singolo bene, è un atto meramente amministrativo ed esecutivo d’una volontà chiaramente espresso dal legislatore.

La Corte costituzionale ha ribadito questa sua dottrina in tutte le successive sentenze che ha emesso in relazione a un infinità di casi. Non solo, ma ha ulteriormente precisato che la tutela dei beni culturali non si esaurisce nell’azione a livello nazionale, ma deve completarsi in un’opera di “assidua ricognizione”, che si sviluppa a tutte le scale da parte delle diverse componenti del sistema del potere pubblico democratico. Poteri elettivi nazionali, regionali, provinciali e comunali sono tutti articolazioni di un unico Stato, strumenti di un’unica nazione, tutti ugualmente impegnati all’individuazione e alla tutela dei beni appartenenti alle categorie stabilite dalla legislazione.

La 431 del 1985 s’inserisce pienamente in questa linea della giurisprudenza costituzionale. Giuseppe Galasso (di cui stamattina la Presidente ha giustamente ricordato i meriti) già nel suo decreto che apre la strada alla legge sviluppa l’intuizione di Benedetto Croce, e vincola le categorie di beni che esprimono l’identità del paesaggio italiano, i suoi lineamenti percepibili a scala dell’intero paese.

La legge 431 introduce un’ulteriore rilevante innovazione: supera la separazione tra tutela e pianificazione ordinaria (che il legislatore del 1939/1942 non era riuscito a superare), invitando a conferire “specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali” a tutti gli strumenti di pianificazione ordinaria”. Mi sembra che si possa dire che con la 431/1985 si introduce la tutela del paesaggio tra gli obiettivi di un lavoro congiunto tra sistema delle autonomie (la pianificazione ordinaria) e organi nazionali preposti alla tutela nazionale d’un interesse di rilevanza nazionale.

È in questa linea culturale che si inserisce dunque la proposta che il gruppo di lavoro di Italia Nostra presenta oggi, e che vi ho sinteticamente descritta. Qualcuno stamattina mi ha chiesto se sono ottimista o pessimista sulla possibilità che questa proposta diventi legge.

Se guardo alle tendenze generali in atto nel nostro paese dovrei dire che nutro il pessimismo implicito in ogni azione che sia controcorrente.

Noi infatti proponiamo di tutelare, nell’interesse pubblico un bene che è certamente interesse di tutte le donne e gli uomini, di oggi e di domani, conservare e migliorare nella sua qualità. Proponiamo quindi di allargare l’area dei beni, dei servizi, delle condizioni di godimento soggetti al primato dell’interesse pubblico. Proponiamo di subordinare a questo interesse quello economico dello sfruttamento immediato. Proponiamo di guardare ai beni, non alle merci. E “in un mondo che fa della cultura una merce”, come ha scritto Desideria Pasolini, questa nostra volontà è certamente controcorrente.

Basta pensare alle dismissioni dei patrimoni pubblici, ai condoni edilizi e urbanistici, all’indebolimento del ruolo degli organismi di tutela.

Basta pensare alla finanziaria che ha eliminato la finalizzazione degli oneri di urbanizzazione alla realizzazione delle opere essenziali alla vita civile delle comunità.

Basta pensare – voglio qui sollevare un preoccupato allarme – alla legge per il governo del territorio, oggi in lento e sicuro cammino alla Camera dei deputati, secondo un percorso reso agevole dalla complicità di fatto degli stessi partiti d’opposizione.

È una legge – se vedesse la luce – che cancellerebbe molti decenni di riforme sostanziali.

Cancellerebbe quella saldatura tra tutela del paesaggio e dei beni culturali e pianificazione del territorio, di cui ho dianzi parlato.

Cancellerebbe (l’ha scritto l’altro giorno, plaudendo,Il Sole – 24 ore) gli standard urbanistici; cancellerebbe quell’obbligo di riservare determinate quantità di spazi pubblici per il verde, le scuole, la sanità, la ricreazione, lo sport e le altre esigenze sociali. Quegli standard urbanistici che furono il prodotto della collaborazione e della fatica comune di intellettuali (ricordo il contributo di Mario Ghio e Vittoria Calzolari), di organizzazioni sindacali, del movimento associativo e di quello femminile, delle associazioni culturali, di forze politiche una volta aperte ai problemi e alle speranze della società.

Cancellerebbe infine il primato del pubblico nel governo del territorio, affidando al motore dell’interesse privato – e diciamolo, degli interessi immobiliari – le stesse decisioni della pianificazioni, contraddicendo così un principio che non la rivoluzione d’ottobre ha introdotto nella prassi delle collettività moderne, ma l’esigenza del sistema economico-sociale basato sui principi delle rivoluzioni borghesi e dell’economia capitalistica di conferire ordine, funzionalità e bellezza ad aspetti della vita collettiva che il mercato, da solo, si era rivelato incapace di soddisfare.

Se guardo a quanto sta accadendo nell’Italia ufficiale dovrei quindi essere pessimista. Ma se ascolto i segnali che ci vengono dal paese credo di poter nutrire un ragionevole ottimismo. Voglio assumere come simboli della speranza, e stimoli a un ragionevole ottimismo, due messaggi che ho udito qui: il messaggio del presidente Carlo Azeglio Ciampi, che ci ha ricordato il valore innovativo della conservazione, e l’invito del progetto MACRICO, che ci sollecita a impegnarci anche personalmente per la salvaguardia di valori comuni.

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