Ludovico Ariosto, nel presentare l'Ippogrifo (la mitica creatura con corpo di cavallo e ali d'uccello), così lo definisce:
"Volando, talor s'alza nelle stelle,
così quasi talor la terra rade".
Abbiamo cominciato questo convegno volando alto; con Toraldo di Francia ci siamo alzati nelle stelle. Abbiamo continuato a volare con Tiezzi e con Rullani. Adesso, nell'Ippogrifo costituiti dalla dialettica comunità dei relatori, tocca a me, tocca a un urbanista, portarvi giù: "così quasi talor la terra rade".
Ma usciamo dalla metafora, ed entriamo nell'urbanistica.
- L'urbanistica è una disciplina, e una prassi, che hanno sempre avuto a che fare con l'ambiente. Essa si occupa, quasi per definizione, dei rapporti della società con lo spazio, con il territorio: con l'ambiente dunque.
Non direi però che, in Italia, l'urbanistica abbia sempre considerato l'ambiente in modo corretto. Abbiamo esempi che testimoniano come gli urbanisti siano stati tra i primi nella concreta difesa delle qualità naturali e storiche del territorio: Giovanni Astengo e il piano di Assisi, Edoardo Detti e le colline di Firenze, Luigi Piccinato e le mura e gli orti di Siena, Armando Sarti e le colline di Bologna.
Ma abbiamo anche molti esempi di piani che hanno concorso allo sfascio del territorio. Abbiamo molti esempi di urbanisti che hanno attaccato il carro dove voleva il padrone, e hanno fornito strumenti alla speculazione che il loro statuto disciplinare avrebbe dovuto invece contrastare.
Ciò che più conta però è che gli stessi esempi positivi e d'avanguardia rivelano un'attenzione limitata ad alcuni aspetti soltanto dell'ambiente, e ad alcuni luoghi più ricchi di valenze culturali o estetiche. Talché, da qualche anno, la cultura urbanistica più avanzata ritiene che il modo in cui la pianificazione deve tener conto delle qualità dell'ambiente(e più in generale, delle esigenze sociali dell'ambientalismo e degli apporti culturali dell'ecologia) sia il punto cruciale da affrontare per rendere l'urbanistica adeguata a contribuire alla soluzione dei problemi odierni dell'assetto del territorio.
Sono state compiute, in questi ultimi anni, esperienze innovative e positive. Soprattutto quelle in attuazione della cosiddetta Legge Galasso: una legge che per la prima volta ha tentato di introdurre e generalizzare, nel nostro paese, la prassi di una "specifica considerazione", da parte degli strumenti di pianificazione, "dei valori paesaggistici e ambientali".
Le esperienze della pianificazione paesistica sono state positive sotto il profilo culturale e tecnico, molto meno sotto il profilo della convinzione politica e dell'efficacia amministrativa. Così. se la Regione Emilia-Romagna ha adempiuto con tempestività, e con una risposta di altissimo livello culturale, alla legge nazionale, e se con essa hanno marciato le Marche, la Liguria, l'Abruzzo, le altre sono quasi tutte ancora in cammino e qualcuna - come la stessa Regione Friuli-Venezia Giulia - si era addirittura chiamata fuori dall'obbligo di adempiere alla legge nazionale, finché la Corte Costituzionale non l'ha severamente richiamata alle sue responsabilità.
Si tratta, peraltro, di esperienze (come si dice nel nostro gergo) di "area vasta". Riguardano cioè intere regioni o ambiti provinciali e interprovinciali. Territori comunque costituiti prevalentemente da campagna. Territori in cui il bilancio tra "dare" e "avere" inquinamento vede prevalere le "entrate" sulle "uscite". Territori, insomma, più inquinati che inquinanti.
Se l'urbanistica vuole, come deve, fare davvero i conti con la questione ambientale, essa deve innanzitutto affrontare, in modo necessariamente nuovo, i problemi dell'ambiente urbano: i problemi delle aree dove si concentra il massimo di popolazione, di attività economiche, di relazioni, di produzione e di consumo di merci - e anche di produzione d'inquinamento e di entropia positiva. E' perciò sull'ambiente urbano che vorrei, nella mia relazione, richiamare la vostra attenzione.
2. - Abbiamo recentemente discusso, in un convegno nazionale del Pds a Venezia, un importante documento della CEE: il Libro verde per l'ambiente urbano . Vorrei partire proprio da quel documento: più precisamente, da una sua interpretazione che mi sembra legittima.
Il centro ideale del documento sta in una consapevolezza che lo pervade: nella consapevolezza che senza tutela e valorizzazione dell'ambiente non c'é sviluppo della società e della città.
"La protezione delle risorse ambientali sarà la precondizione di base per una sana crescita economica", afferma esplicitamente il Libro verde. Questa impostazione costituisce un ribaltamento completo non solo della prassi finora praticata, ma anche delle concezioni e delle logiche che ancora restano molto largamente presenti all'interno stesso della cultura della sinistra, anche di quella più radicale.Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento dell'ambiente.
Fa parte della nostra esperienza quotidiana. Tutti abbiamo sentito e sentiamo di progetti e programmi che promettono parchi, metropolitane, recuperi ambientali "a condizione che" preliminarmente si autorizzino, magari addirittura in deroga ai già permissivi piani urbanistici vigenti, volumi edificatori da destinare alla tecnologia e alla scienza, o ai centri direzionali o commerciali, o alla ricettività turistica. "Consentite alla Finsepol di costruire mezzo milione di metri cubi di alberghi e di seconde case nella Baia di Sistiana - si predica da anni sui giornali triestini - e il buon padrone abbellirà l'ambiente piantando centinaia di alberi nuovi"
3. - Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, nella concezione che è ancora dominante, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità dell'ambiente. A questa affermazione si può forse benevolmente riconoscere una certa parziale verità in un passato che oramai è sepolto. Oggi essa è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che la qualità dell'ambiente è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico.
Molte ragioni concorrono a formulare quest'ultima affermazione. Non voglio insistere su quelle di carattere più strettamente ambientalistico. Non voglio insistere quindi sul rilevante contributo che la città, e in particolare quella del Nord e dell'Ovest del mondo, fornisce al dramma planetario della degradazione e dissipazione delle risorse naturali, alla distruzione dell'equilibrio vitale cui è affidata la nostra vita biologica: e se non c'è vita, non può evidentemente esistere sviluppo!
Voglio invece soffermarmi, sia pur brevemente, su un punto anch'esso toccato nel Libro verde, là dove si afferma che "la qualità della città é stata riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale" e che perciò "l'ambiente e la qualità della vita dovrebbero diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico".
Le vicende di ciascuna delle nostre città lo dimostrano nei fatti: ogni anno di più, la capacità di attrarre iniziative economiche, flussi d'interessi e di visita, la capacità di essere oggetto di una domanda d'insediamento da parte di aziende, è in proporzione diretta con la qualità urbana.
E intendo per qualità urbana la compresenza di più elementi: un ambiente naturale piacevole e interessante; una varietà di occasioni d'interesse culturale, consolidate nella presenza fisica di luoghi storici ben conservati e civilmente godibili e nella presenza organizzativa di istituzioni culturali ben funzionanti: la possibilità di fruire dei servizi collettivi, pubblici e privati, tipici di una società evoluta.
E' la maggiore o minore qualità urbana che consente oggi (e sempre più consentirà) all'una o all'altra delle città europee di più consentirà) alle città d'Europa di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere a una gara in cui è in gioco una posta molto concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza.
Il governo del territorio deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. E' allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana.
Perseguire questi obiettivi, e tentar di raggiungerli, non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il sovrappiù di risorse che eventualmente fosse disponibile: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.
4. - Quando parliamo di qualità, quando parliamo di sviluppo ci rendiamo conto di adoperare termini che cessano di essere ambigui solo se chi li adopera ne qualifica il significato.
Ho già precisato in che senso propongo di adoperare qui il termine qualità urbana. In sostanza, come qualcosa che esprime il valore che un luogo, una città, assume per il modo in cui storia e natura, nel passato e nel presente, hanno concorso e concorrono nel connotarlo, nel configurarne l'assetto fisico e nell' organizzarne l'assetto funzionale, per costruire infine - e mantenere, e sviluppare - ciò che la città è, deve essere.
E la città indubbiamente è, deve essere, una realtà caratterizzata da una precisa identità e da una ricchezza di funzioni e occasioni, dove abitare, lavorare, conoscere, incontrare, amare, giocare, riposare, dove tutto ciò (e quindi vivere) è piacevole e comodo, è interessante e stimolante: strumento per il bene-essere e per lo sviluppo interiore delle persone e delle comunità.
Non ho la pretesa di aggiungere alcunché al dibattito che da tempo è in corso sulla impegnativa parola sviluppo. Vorrei limitarmi a ricordare che se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobbiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita".
Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti.
Così, non è detto che un aumento della popolazione, del numero di alloggi, dell'attività edilizia e del reddito da essa derivante, della stessa occupazione, del reddito complessivo, siano di per sé un obiettivo dello sviluppo e, ove raggiunti, siano di per sé un segno positivo del suo manifestarsi.
5. - In effetti, quanto parlano di sviluppo molti di noi si riferiscono a una categoria che Gro Harlem Brundtland, nel rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo che è noto appunto con il suo nome, ha definito "sviluppo sostenibile". Dove per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" ( Il futuro di noi tutti, Bompiani, 1989).
Per conto mio, preferisco questa definizione a quella proposta nel 1980 dal World Conservation Strategy: "affinché uno sviluppo sia sostenibile esso non deve interferire con il funzionamento dei processi ecologici e con i sistemi che sostengono la vita" (cfr.E.Goldsmith e N.Hildyard, Rapporto Terra, Gremese, 1989). La definizione del Rapporto Brundtland mi sembra, tra l'altro, molto più calzante a una realtà, quale quella europea, nella quale la natura è sempre fortemente intrecciata con la storia, e i processi ecologici sono indissolubilmente legati al lavoro umano. Quale che sia comunque l'accezione sotto la quale si voglia adoperare l'espressione di "sviluppo sostenibile", un fatto mi sembra certo. Lo "sviluppo sostenibile" è l'opposto dello sviluppo attuale, il quale avviene consumando risorse non sostituibili, o sostituibili a costi elevatissimi, per soddisfare (spesso malamente) i bisogni (spesso falsi) del presente.
Ma se vogliamo applicare la definizione del Rapporto Brundtland all'ambiente urbano, e se vogliamo dunque parlare di città sostenibile, dobbiamo introdurre nella definizione una correzione, non poco significativa. Credo infatti che non possiamo proporci soltanto di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni" urbani. Non possiamo cioè limitarci a non peggiorare le attuali qualità urbane; dobbiamo decisamente proporci di migliorarle.
Dico questo non solo per una ragione teorica e di principio, ma anche per una ragione storica e pratica. Non lo dico solo perché ogni civiltà ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. Lo dico anche perché la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in modo assolutamente controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua qualità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone.
Per evitare che la città di oggi diventi, per dirla con Carlo Cattaneo, una di "quelle pompose Babilonie", "città senza ordine municipale, senza diritto, senza dignità". Quelle città che sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo" (Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane; in: Carlo Cattaneo, "La città come principio", a cura di M.Brusatin, Marsilio, 1972).
Su alcuni rilevanti aspetti del trend di "babilonizzazione", e sugli indirizzi da seguire per invertire la tendenza, il Libro verde fornisce indicazioni stimolanti e utili anche per la loro semplicità. A questi aspetti della odierna crisi della città vorrei adesso brevemente riferirmi, illustrando in tal modo anche i temi centrali per un'urbanistica che voglia rinnovarsi facendo compiutamente i conti con la questione ambientale.
6. - La crisi della mobilità è forse l'aspetto più drammatico della crisi della città. Se la osserviamo ripensando alla storia ci rendiamo conto che essa costituisce un vero paradosso. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell' isolamento, delle difficoltà di comunicazione. Il modo in cui, nelle città e nel territorio, è organizzato il sistema della mobilità concorre pesantemente a questo risultato; muoversi, spostarsi, è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un'ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento.
Ebbene, sappiamo tutti che la crisi della mobilità urbana deriva in modo sostanziale e immediato dal fatto che il trasporto è pressoché interamente affidato alla motorizzazione individuale, mentre il trasporto collettivo - di gran lunga il più conveniente in termini di spesa, di spazio, di energia, d'igiene - è da sempre la cenerentola dei modi del trasporto.
Ma l'abnorme espansione della motorizzazione individuale ha tra le sue cause anche quella di un cattivo governo del territorio. La disseminazione delle abitazione e dei luoghi di lavoro, la mancata programmazione delle espansioni urbane, la rigida zonizzazione delle funzioni, la mancanza di controllo sui cambiamenti di destinazione d'uso, sono tutte scelte che aumentano parossisticamente la "domanda di mobilità", e in particolare di quella mobilità che è più facilmente soddisfacibile con uno strumento costoso ma flessibile come l'automobile.
Quale che sia comunque la miscela di cause che determina l'attuale assetto del sistema dei trasporti e l'egemonia del mezzo individuale, un fatto è certo: non servono, e sono anzi spesso controproducenti, le politiche dell'emergenza e della rincorsa degli effetti, che dominano nel nostro paese ma che sono evidentemente presenti anche altrove.
Esplicito e chiaro è in proposito il Libro verde. In esso si afferma che "il moltiplicarsi di strade, tunnel, ecc. per far fronte al traffico crescente produce l'effetto perverso di rallentare il traffico nella fase di costruzione e di aumentare l'inquinamento e il rumore". E si prosegue: "Dopo che l'infrastruttura è completata, il traffico aumenterà rapidamente e si giungerà così ai livelli di saturazione che avevano portato alla costruzione di nuove strade".
Quali vie percorrere allora per uscire da questa crisi? Anche su questo punto, le indicazioni proposte sembrano del tutto condivisibili. "Il divieto puro e semplice dell' automobile non costituisce una risposta adeguata", afferma il Libro verde. "L'obiettivo deve invece consistere nel rendere l'automobile un'opzione e non una necessità".
"Rendere l'automobile un'opzione e non una necessità": indicazione davvero rivoluzionaria, quella della Commissione della Cee, se riflettiamo a qual'é oggi l'organizzazione del sistema della mobilità (e la condizione delle nostre aree urbane) e a come dovrebbero essere per rendere la città vivibile e funzionante. Non credo di aver bisogno di commentarla!
7. - Tra i contenuti della qualità urbana ho indicato la bellezza e piacevolezza del sito, la presenza di monumenti, testimonianze e luoghi storici. Non mi viene in mente nessuna città d'Italia (grande, piccola o media che sia) nella quale non siano presenti l'uno o l'altro di questi elementi, e più spesso tutti.
Ecco allora qui, in Italia, un punto di partenza invidiabile per costruire una nuova, e più compiuta e completa, qualità urbana. Ecco la nostra risorsa. A differenza che in altre regioni europee non abbiamo città geometricamente organizzate secondo rigorosi piani e diligentemente attuati. Non abbiamo sistemi di trasporto integrati e funzionali, basati sulla scelta, segmento per segmento, del mezzo più conveniente. Non abbiamo ricchezza di parchi e boschi né efficienza di servizi collettivi. Non abbiamo amministrazioni locali efficaci e disponibili, al servizio dell'utente.
Non abbiamo, in Italia, tutto questo. Ma abbiamo, in compenso, l'immenso patrimonio che le precedenti generazioni, le precedenti civiltà, ci hanno lasciato. E a differenza della risorsa costituita dalla buona organizzazione urbana, la nostra risorsa non è riproducibile: chi non ce l'ha, non può darsela.
E' allora veramente un folle paradosso, ancor prima che uno scandalo, il destino al quale ancora oggi, al declinare del XX secolo, abbandoniamo l'unico patrimonio di cui disponiamo. Abbiamo imparato che non solo i monumenti, ma anche i quartieri e le città antiche, anche le minori testimonianze storiche, non si distruggono. E cominciamo a comprendere che non solo i paesaggi più illustri, ma anche i residui brandelli di natura, anche gli alberi e i cespugli vanno tutelati, e possono essere distrutti solo là dove possono essere ricostituiti.
Ma in Italia non si è ancora capito che per tutelare il patrimonio culturale bisogna metterlo in salvo anche dalla degradazione e distruzione provocate dall'uso indiscriminato e massiccio, e spesso dall'abuso, determinato dagli sregolati e sproporzionati flussi di visita. E' sotto questa pressione che i nostri centri storici maggiori, le nostre "città d'arte", stanno perdendo la loro individualità, il loro carattere.
Come del resto sta accadendo, nel Bel Paese, in tutti i siti di maggior pregio paesaggistico e naturalistico, dalle isole mediterranee alle vallate dolomitiche, dove chi si oppone alla degradazione deve combattere oggi gli stessi avversari che aggrediscono le città d'arte.
Non so se saremo capaci oggi di difenderci da questa distruzione e degradazione, così come siamo riusciti ieri a difenderci (sia pure con perdite) dallo scempio del piccone demolitore. Sono indotto a sperarlo, quando ascolto le proteste che di tanto in tanto si manifestano e riescono a porre la questione dell'"abuso turistico" all'attenzione dell'opinione pubblica. Sono indotto a sperarlo, quando sulla necessità culturale e politica, e soprattutto sulla possibilità tecnica, di governare i flussi di visita commisurandoli alle capacità dei beni visitandi, promuovendo quello che Luigi Scano definisce il "razionamento programmato della fruizione".
Ma dispero, francamente, quando vedo i fatti. Quando vedo le colonne di pullman turistici parcheggiate ai margini delle aree monumentali di Pisa o Firenze, quando vedo prospettare metropolitane nel centro storico di Venezia, quando vedo i Fori imperiali o la Piazza San Marco ridotte a scenografie per imbecilli spettacoli di varietà.
Il modo in cui le testimonianze del passato sono considerate e tutelate è un rivelatore significativo del livello di civiltà d'una società. I nostri ragionamenti partono tutti dal presupposto che la nostra sia una società nella quale la civiltà è viva. Ma a volte mi domando se non ci inganniamo. Forse è già morta, è già tramutata in barbarie.
8. - I destini della città sono sempre stati legati a filo doppio a quelli del sistema economico. Leggere la città e i suoi problemi, lavorare per risolverli, praticare insomma l'urbanistica, pretende perciò una contaminazione con le categorie del ragionamento economico. Decisiva, tra queste, è stata storicamente ed è oggi quella del mercato.
Il mercato, nella sua originaria funzione di luogo ove le merci vengono scambiate, ha avuto una funzione fondativa per la città. E innumerevoli sono gli intrecci che si sono determinati negli ultimi secoli tra la forma assunta dal mercato - come luogo ideale nel quale si determina il prezzo delle merci - nell'economia moderna e le vicende della città. Oggi, a livello del sistema economico mondiale, il mercato trionfa.
Ma oggi, mentre il mercato trionfa, esso manifesta anche il suo limite di fondo. Strumento rivelatosi storicamente non sostituibile per misurare l'efficienza della produzione dei beni producibili con il lavoro dell'uomo e fungibili, il mercato è invece incapace di misurare i beni non riproducibili e quelli comunque caratterizzati da una spiccata individualità. E' incapace, cioè, di misurare i beni ambientali, sia naturali che culturali.
Strumento insuperabile (e comunque storicamente insuperato) per valutare il valore di scambio, il mercato è incapace di valutare, di riconoscere, di misurare il valor d'uso (quel valore, cioè, che non deriva dalla capacità di un bene di produrre reddito nello scambio con un altro bene, ma dall'uso che il soggetto fa di quel bene).
Rivelatore e misuratore del valore di tutti i beni prodotti in quanto merci, il mercato non è insomma di per sé capace di far fronte al compito di valutare e misurare i beni ambientali. Come integrarlo, o correggerlo, o addirittura superarlo? E' un tema che sta dispiegatamente aperto davanti a tutti noi, e sul quale non ho la pretesa di soffermarmi.
9. - A una questione che con il mercato ha a che fare mi tocca peraltro accennare, per la grande e specifica rilevanza che essa ha nei confronti della capacità di costruire una città sostenibile, o qualunque altra ipotesi di razionale assetto urbano. Mi riferisco alla questione del regime degli immobili.
Voglio prescindere da qualunque valutazione di carattere economico. Voglio prescindere dalla maggiore o minore legittimità della rendita immobiliare urbana in una economia e una società moderne. A maggior ragione voglio prescindere dall'accettabilità morale dell'appropriazione privata di un prodotto dell'impegno collettivo. Su un punto solo voglio brevemente soffermarmi, per affermare una sola tesi.
Non sarà possibile tutelare e valorizzare in modo efficace le qualità naturali e storiche dell'ambiente, non sarà possibile ricondurre a funzionalità ed efficienza l'assetto dell'organismo urbano, non sarà possibile attribuire pienezza di soddisfacimento ai proclamati diritti di cittadinanza delle categorie più deboli (e quindi a tutti i cittadini) se e finché non esisterà una regola certa, chiara e univoca che definisca l'appartenenza dei valori differenziali derivanti dall'urbanizzazione.
Su questa affermazione tutti si dicono d'accordo. Le opinioni divergono invece, anche nell'ambito della sinistra, quando discutiamo su quali debbano essere le nuove regole del rapporto tra collettività e proprietà. Per conto mio, continuo a restar convinto che per essere davvero strumento per la soluzione dei problemi di oggi una riforma seria del regime degli immobili debba poggiare sulla premessa che la facoltà di edificare (e, più propriamente, di operare trasformazioni urbanisticamente rilevanti) non è un attributo della proprietà ma appartiene all'ente pubblico elettivo, il quale ne concede l'esercizio sulla base delle regole certe e chiare costituite dagli strumenti della pianificazione urbanistica.
Sul principio opposto a questo è invece fondata la proposta di legge che sciaguratamente la Camera sta per approvare, attraverso la Commissione cui è stato affidato il potere legislativo.
10. - "Affrontare i problemi dell'ambiente urbano comporta necessariamente il superamento d'ogni approccio settoriale". E' con queste parole che si apre il Libro verde. Esso è interamente percorso dalla convinzione della necessità di un approccio globale, della necessità di superare radicalmente i settorialismi imperanti, che hanno provocato e ancora provocano danni crescenti.
Dall'Europa, insomma, giunge all'Italia una dichiarazione di fiducia, prima ancora che di necessità, nella pianificazione urbanistica. Ma ciò che è oggi divenuto necessario è una pianificazione largamente rinnovata.
Una pianificazione che superi la prassi, tutta italiana, dei piani meramenti cartacei, monumenti sussiegosi di buone intenzioni o sciatti fardelli di improbabili e devastanti progetti. E una pianificazione che non abbia più come suo scenario il governo dell'espansione e la soddisfazione dei fabbisogni quantitativi, ma che assuma i bisogni del presente nella loro nuova configurazione, e che soprattutto non neghi i bisogni del futuro.
Alla pianificazione che oggi è necessaria è allora necessario porre obiettivi sociali e culturali definiti e nuovi, e dettare indirizzi con essi coerenti. E a me sembra indubbio che, se si vuole costruire la città sostenibile, un obiettivo sia assolutamente prioritario: il massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e costi elevati.
Tra le risorse territoriali sono ovviamente essenziali e primarie, ai fini dell'obiettivo enunciato, quelle costituite dai residui elementi di naturalità: ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degradato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggibilità.
Indirizzo essenziale della pianificazione, che alle Regioni (ove mai si svegliassero non per rivendicare nuovi poteri, ma per esercitare quelli che già hanno) spetterebbe di stabilire, dovrebbe essere perciò quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" quale l'ho or ora definita, e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità".
E questo "vincolo" dovrebbe esser rimosso solo dove e quando sia dimostrato, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che una sottrazione di aree al ciclo naturale è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie altrimenti non soddisfacibili
Ma sono certamente di uguale rilievo le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'intreccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali.
Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia rappresenta parte sostanziale della civiltà alla quale apparteniamo: siano i segni nei quali essa si esprime più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltraggio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua; siano essi più o meno concentrati, come nelle città antiche e nei centri storici, oppure diffusi, come nel territorio e nel paesaggio agrario.
Altro indirizzo altrettanto essenziale per una pianificazione coerente con la costruzione della città sostenibile deve essere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garantire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le caratteristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.
11. - "Le città continueranno a rappresentare un elemento cruciale per lo sviluppo economico e sociale dell'Europa", si afferma nel Libro verde. Ma la centralità del ruolo delle città per la vita economica, sociale e culturale dell'Europa (che costituisce l'ispirazione di fondo del documento della Cee) non è solo un retaggio della storia, su cui si possa vivere di rendita: è una scommessa per il futuro.
Sconfiggere i rischi (e la realtà) del degrado ambientale e della crescente entropia urbana non è una certezza. E' una possibilità: anzi, una speranza. Il realizzarsi di questa speranza è legato anche alla capacità di guardare al futuro: di sapersi "contentare" di creare oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo nel tempo.
Significa insomma preferire la gallina domani all'uovo oggi. Significa tutelare le qualità esistenti, e quindi applicare una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, scegliere: anteporre ciò che va nella direzione di quel determinato sviluppo che si è scelto, a ciò che può apparire più utile nell'immediato ma che è contraddittorio con l'obiettivo.
Lo afferma del resto con chiarezza il Libro verde europeo: "la maturità politica di una società è dimostrata dalla capacità di pensare a lungo termine". Ma nel concludere questa relazione devo allora prospettare un quesito, che continua a inquietarmi.
E' capace la nostra società, nei ceti dirigenti che essa esprime e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in modo siffatto? Oppure è inevitabile, oppure è ormai un dato permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, l'attuale prassi del giorno per giorno, dell'affannosa rincorsa dell'emergenza (o addirittura della creazione di false emergenze), della produzione di leggi riformatrici e rinnovatrici che nessuno attua (come la 431 nel 1985, come la 142 nel 1990)?
E ancora: é davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui, con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, né elettoralmente né socialmente, perché ancora non esistono? E' capace insomma la democrazia di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno?
Consentitemi di chiudere così, affidandovi una domanda per la quale, personalmente, non ho risposte, ma solo speranze.