La città.
Quando pensiamo la parola “città” ci vengono in mente cose molto diverse. A volte ci viene alla mente un insieme di edifici e di persone, variamente raggruppati attorno a spazi ed edifici pubblici, animato da flussi e arricchito da incontri, ben delimitato rispetto alla campagna, se non più da una cinta di rassicuranti mura, da una cerchia di ordinati sobborghi. A volte, invece, vediamo (con la mente, e anche con gli occhi) un ammasso disordinato di edifici di mille fogge e forme, spesso sgraziati e sempre male accostati, coacervo di attività confliggenti (dai bambini a passeggio alle automobili accatastate sui marciapiedi, da rumorose industrie a malati negli ospedali), una nube di esalazioni di diverso colore e spessore e veleno.
Se riflettiamo un attimo, ci rendiamo conto che la prima immagine è quella della città così come la storia l’ha consegnata alla civiltà contemporanea, la seconda è la città come la nostra civiltà l’ha resa. Tra le due immagini (e le due città) sono diverse le forme, i rumori, e anche i tempi e i rapporti. La città di ieri era il luogo degli incontri, quella di oggi è la città delle solitudini. La città di ieri era il luogo dell’integrazione tra ceti, abitudini, mestieri diversi, quella di oggi è il luogo delle segregazioni. La città di ieri viveva il tempo tranquillo del vicinato e del quartiere, quella di oggi vive il tempo frenetico dello spazio metropolitano e della motorizzazione individuale.
La città della storia non è recuperabile, se non dalla fantasia della memoria. Ma da un paio di secoli almeno gli uomini hanno cominciato a individuare i modi mediante i quali si potesse rendere la città contemporanea più amichevole, ordinata, vivibile, funzionale, imparando qualcosa dall’insegnamento della città della storia. In questo scritto cercherò di raccontare in che modo in Italia si è tentato, nell’ultimo mezzo secolo, di costruire degli attrezzi, giuridicamente fondati, per migliorare l’assetto delle città, e del territorio sul quale hanno via via esteso la loro rete di relazioni[1].
Forse il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, è nato nel 1811, in quella città delle Americhe che da New Amsterdam era diventata New York. Aveva raggiunto 60mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e fabbrichette. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori.
Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. E’ sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il Piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città. Il piano regolatore nasce insomma perché il mercato ne ha bisogno: negli USA, nel primo decennio del XIX secolo.. (Meno di mezzo secolo dopo si accorsero che la città non può essere fatta solo di edifici e strade, annullarono l’edificabilità di centocinquanta isolati e progettarono e costruirono il Central Park.)
L’economia liberista sapeva risolvere un sacco di problemi: sapeva produrre merci in grande abbondanza, sapeva promuovere lo sviluppo tecnologico in maniera mai prima sognata, sapeva dare lavoro a masse sterminate d’operai, e sapeva soddisfare (e sviluppare) le esigenze di consumo di masse altrettanto estese. Sapeva perciò ridurre le condizioni di miseria e carestia, rigettandole ai margini della società; sapeva risolvere le tensioni sociali, che incessantemente sviluppava, spostando verso i salari quote non rilevanti dei profitti e riducendo di quantità modeste le spinte espansive. Se la legge spietata della concorrenza gettava sul lastrico famiglie di produttori schiacciate dai prezzi decrescenti, altrettante famiglie erano premiate dall’arricchimento dello sviluppo.
Ma era un’economia basata su due principi. Il primo era la libertà individuale: più questa era priva di freni, più sapeva tirare, più si perseguiva, attraverso il massimo benessere individuale, il massimo benessere per la società. Il secondo era la riduzione d’ogni bene a merce, d’ogni valore a valore di scambio. Questi due principi costituivano anche due limiti pericolosissimi per quel sistema economico-sociale. Il secondo limite lo si scoprì molto più tardi: quando nacque la questione ambientale (e su questo torneremo più avanti). Il primo limite lo scoprì prestissimo: a New York, nel 1811.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la pianificazione urbanistica divenne una procedura normale per regolare le trasformazioni e, soprattutto, l’espansione delle grandi città (nelle società industrializzate come nelle terre colonizzate dal capitalismo europeo). Poco più tardi leggi specifiche generalizzarono il metodo, le tecniche e le procedure della pianificazione a tutte le realtà territoriali nelle quali si manifestavano, o si prevedevano, trasformazioni significative dell’assetto fisico o dell’organizzazione funzionale. L’Italia arrivò con un certo ritardo. Dopo un dibattito durato un decennio, nel 1942 venne approvata la legge urbanistica ancora oggi in vigore.
Una buona legge urbanistica, quella che fu approvata, nel pieno della seconda guerra mondiale. A rileggerla oggi così come allora fu approvata essa appare singolarmente snella e chiara, ragionevolmente aperta all’efficacia; certamente datata in certe formulazioni ma interpretabile dall’azione amministrativa e da quella culturale in altre parti. E’ questa legge che costituisce ancora oggi il riferimento per tutta l’attività di pianificazione urbana e territoriale e di programmazione dell’intervento nell’edilizia. Le leggi intervenute successivamente hanno aggiunto nuovi elementi, spesso hanno complicato, a volte hanno contraddetto, ma non hanno sostanzialmente mutato l’impianto originario e, in particolare, il meccanismo di pianificazione allora previsto. Ecco gli elementi essenziali della “legge madre” dell’urbanistica italiana.
Il centro della legge è il Piano regolatore generale comunale (PRG). E’ esteso a tutto il territorio del comune (prima i piani riguardavano, in Italia, o “l’ampliamento”, cioè le zone d’espansione, o il “risanamento”, cioè la città esistente). Ogni comune ha la facoltà di formarlo ma il Ministero dei lavori pubblici stabilisce periodicamente quali comuni sono obbligati a farlo: il primo elenco comprende tutti i capoluoghi di provincia e i comuni con oltre 20 mila abitanti. I comuni non dotati di PRG sono comunque tenuti a disporre di un Regolamento edilizio, corredato da un Programma di fabbricazione, che costituisce lo strumento minimo di disciplina delle trasformazioni edilizie.
Il PRG ha un carattere “generale”: definisce le grandi linee dell’assetto fisico e funzionale del territorio (le reti infrastrutturali, l’articolazione del territorio in “zone” diversamente caratterizzate, gli spazi pubblici e le attrezzature collettive). La specificazione delle scelte del PRG è affidato al Piano particolareggiato d’esecuzione (PPE), il quale determina la composizione urbanistica delle parti di città cui si riferisce. Mentre il PRG ha validità a tempo indeterminato, il PPE ha validità definita per un tempo non superiore al decennio.
La legge del 1942 pone particolare attenzione all’attuazione delle scelte della pianificazione. Prevede in particolare la possibilità dei comuni di espropriare, ”entro le zone d’espansione dell’aggregato urbano” definite dal PRG. Una norma che avrebbe consentito di costituire rilevanti demani di aree e di governare davvero l’espansione delle città, ma che in pratica non fu adoperata.
Se il centro della legge è, come si è detto, il piano comunale, essa non trascura la necessità di affrontare anche problemi relativi ad ambiti più ampi del comune (“area vasta”). Nel prevedere il Piano territoriale di coordinamento e il Piano regolatore intercomunale il legislatore, e i suoi consiglieri, hanno certamente avuto presente l’esperienza dell’urbanizzazione programmata della Pianura pontina e la necessità di governare unitariamente le trasformazioni del territorio di più comuni limitrofi. Il primo, formato “allo scopo di orientare o coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale”, può essere redatto dal Ministero dei lavori pubblici, il quale determina l’ambito al quale deve essere esteso. Il Piano regolatore intercomunale è previsto nelle situazioni in cui “per le caratteristiche di sviluppo degli aggregati edilizi di due o più comuni contermini si riconosca opportuno il coordinamento delle direttive riguardanti l’assetto urbanistico dei comuni stessi”.
Se era una buona legge, come mai non si sono visti i suoi effetti? Come mai le città appaiono oggi devastate e spesso invivibili? Allora l’urbanistica, la pianificazione, non servono? Non è così. Il fatto è che, negli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione gli eventi bellici non permisero di applicarla, e poi nell’immediato dopoguerra, essa fu volutamente messa in archivio. E’ proprio negli anni del dopoguerra che si gettano le basi di quella “filosofia” dell’intervento pubblico nel settore che prevarrà nella seconda metà del secolo: la filosofia della rincorsa dell’emergenza e del privilegio dei meccanismi “spontanei” del mercato.
I danni provocati dalla guerra sono enormi, sebbene meno gravi che in altri paesi europei. Ma in molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale. In Italia è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva. Con l’alibi di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso “dispositivi agili e di emergenza”, fu accantonata la legge urbanistica e fu varata la legge sui piani di ricostruzione: uno strumento semplificato, rozzo, privo di basi analitiche, finalizzato a far presto. La logica dei PRG fu abbandonata, e sostituita con la grossolana individuazione delle aree da rendere edificabili, con grande larghezza e senza nessuna preliminare analisi.
Più sostanzialmente, la scelta che fu compiuta in Italia in quegli anni fu quella di assegnare un ruolo determinante per la ripresa economica a un’attività edilizia interamente abbandonata alle leggi del più sfrenato spontaneismo.
Negli anni del centrismo di De Gasperi ed Einaudi (nell’arco di tempo che va dalla rottura dell’alleanza antifascista, nel 1948, fino al primo governo di centro-sinistra, nel 1962) ciò che soprattutto doveva sembrare irresistibile era il ruolo insieme economico, sociale e ideologico che poteva essere svolto da un’attività edilizia finalizzata alla costruzione di alloggi in prevalenza assegnati in proprietà.
Ma proprio per quel complesso di “utilità” economiche, sociali e politiche cui era finalizzato, lo sviluppo dell’industria delle costruzioni era affidato a una particolare “formato” del settore. Un formato caratterizzato da una grande molteplicità di centri imprenditoriali, da un basso livello di attrezzatura e di qualificazione tecnica (di capitale sociale), da un intreccio - nell’ambito del medesimo soggetto, o della medesima famiglia - di rendita fondiaria, profitto capitalistico e salario: spesso era lo stesso fondo della famiglia contadina, “in transizione” verso l’industria, a costituire la prima risorsa, e gli attrezzi agricoli i primi strumenti di lavoro per avviare la formazione di una impresa edilizia.
Evidentemente, lo sviluppo di una siffatta edilizia, richiede che non si pianifichi. Infatti, dal dopoguerra fino agli anni Sessanta, la pianificazione viene sistematicamente trascurata o boicottata dagli organi più politicizzati del governo. Ma le grandi trasformazioni che erano avvenute nelle condizioni concrete dell’assetto del territorio e dell’economia cominciavano a provocare contraddizioni ed esigenze di cambiamento.
All’indomani della guerra l’Italia ha una economia essenzialmente agricola (42,2% degli occupati, contro il 22% delle attività industriali). Nel 1961 la percentuale di occupati in agricoltura scende al 30%; quella per i settori industriali tocca il 28%; il settore delle costruzioni raddoppia i propri addetti. Nel 1971 il peso dell’agricoltura, in termini di occupati, è sceso a 18,8%, quello dell’industria è salito al 43,6%. Accanto a questa trasformazione, si registra: un vistosissimo processo di spostamento della popolazione dal Sud al Nord del paese, dalle montagne e colline verso le pianure e le coste, dalle campagne alle città. Fra il 1955 e il 1971, nove milioni di italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali, e quasi altrettanti cambiano comune di residenza all’interno della stessa regione
Nel frattempo, lo sviluppo industriale del paese si consolida. I settori produttivi più avanzati raggiungono soddisfacenti livelli di concorrenzialità sul piano internazionale e si svincolano dalla subordinazione al meccanismo di accumulazione, assicurato dalla speculazione fondiaria. Viene alla luce, sia pure timidamente, la contraddizione fra il settore dell'edilizia speculativa e quelli industriali più avanzati. Questi ultimi avvertono l'esigenza di un più razionale uso del territorio che consenta di realizzare economie di scala a livelli più elevati. È per questo che, a partire dal 1960, si assiste - specialmente al Nord - alla fioritura di innumerevoli iniziative di pianificazione; ed è databile al 1960 l'apertura della battaglia per la riforma urbanistica. Una vasta campagna di iniziativa e proposta culturale e politica, promossa dagli urbanisti “militanti” nell’INU e sostenuta dalle forse politiche di sinistra, pose l’esigenza di rinnovare integralmente gli strumenti della pianificazione.
I tentativi di ottenere una “riforma urbanistica” durarono decenni. Ancora oggi, non sono stati coronati da successo: la legge del 1942 è rimasta la struttura portante dell’attuale legislazione. Oggi, retrospettivamente, qualcuno comincia a domandarsi se all’inizio degli anni Sessanta non si sia fatto un errore, predicando la necessità di una “riforma urbanistica” senza aver prima provato ad applicare la legge del 1942.. È il parere, ad esempio, di una economista molto attenta alle vicende dell’urbanistica, Ada Becchi, la quale si domanda: perché gli urbanisti non si siano “battuti, a partire dal dopoguerra, per l’attuazione della legge urbanistica che già c’era” , e perché “all’atto di avvio del centro sinistra, nel rinfocolarsi delle speranze nei confronti dell’assunzione di effettive volontà e capacità di introdurre riforme efficaci, non si concentrarono sulla costruzione degli strumenti attuativi ed eventualmente integrativi delle norme di quella stessa legge, invece di tentare di vararne una nuova” [2].
Domanda del tutto legittima. La risposta può forse essere cercata nella cultura politica prevalente in quegli anni tra gli urbanisti militanti, e in certo loro distacco dalla concretezza della situazione reale del paese. E forse anche in una carenza di analisi sulle relazioni tra il carattere devastante delle trasformazioni avvenute nel periodo della ricostruzione postbellica e le “carenze” della legge urbanistica del 1942.
La domanda di modernità e razionalità che emergeva dalle stesse trasformazioni dell’assetto sociale ed economico dell’Italia (dai settori avanzati della produzione come dai ceti urbani i che conoscevano più benessere, più democrazia e più conoscenza) trovò altre strade per raggiungere una qualche soddisfazione: se la “riforma” si allontanava all’orizzonte, la legislazione urbanistica del 1942 si arricchiva di strumenti nuovi. Aiutava oggettivamente in questa direzione il verificarsi di effetti catastrofici del modo che si era adottato per affrontare il rapporto tra sviluppo e ambiente: un modo caratterizzato (per essere sintetici) dallo sfruttamento rapace, miope e progressivo di quella risorsa essenziale, scarsa e non riproducibile che è il territorio. Numerosi edifici crollavano a Napoli per effetto del sovraccarico edilizio su un suolo fragile e trascurato; ad Agrigento un intero quartiere franava a valle per lo stesso motivo, documentato da un’impareggiabile indagine ministeriale [3]. L’alluvione di Firenze e l’eccezionale alta marea nella laguna veneziana rivelavano le sciagure che conseguono dall’utilizzazione selvaggia, e dagli interventi meramente ingegneristici (e cementificatori) del territorio extraurbano: da quegli anni, le alluvioni e le loro conseguenze sui territori di fondo valle diventarono endemiche. Nelle città maggiori cominciava a manifestarsi la congestione del traffico, dovuta all’espansione irrazionale che era stata provocata alla produzione e al consumo di automobili.
La “riforma” si ridusse via via a uno sbiadito vessillo. Ma il tronco della legge urbanistica del 1942 si arricchì di nuovi strumenti, potenzialmente suscettibili di conferire razionalità e qualità funzionale all’assetto delle città. Nel 1967 la “legge ponte”, firmata da Giacomo Mancini (un grande ministro dei Lavori pubblici), oltre a stimolare i comuni a pianificare e a disciplinare lo lottizzazioni edilizie (che erano state lo strumento principale del dissesto del territorio) introdusse anche in Italia gli “standard urbanistici”. Si stabilì che in tutti i piani urbanistici, generali e attuativi, si doveva prevedere la presenza di adeguati spazi per le esigenze collettive: il verde e lo sport, le scuole, le attrezzature per la vita civile, la sanità, il commercio, il culto, i parchi urbani. I parcheggi. Almeno sul terreno quantitativo, i luoghi del consumo comune, che erano stati i fuochi ordinatori della forma e delle funzioni della città medioevale, assumevano di nuovo centralità.
Per effetto della legge ponte le città si dotarono di piani regolatori in modo diffuso. Nelle regioni del centro , soprattutto, del nord in modo più massiccio, ma anche altrove. La qualità era però ben differente da luogo a luogo. In alcuni comuni (soprattutto in Emilia Romagna, dove una “cultura della pianificazione” aveva preceduto, e in qualche misura stimolato e orientato la stessa legge ponte, ma anche in Lombardia, nel Veneto, in Piemonte) i piani erano basati su un accurato dimensionamento. Quest’ultimo consiste nel basare la quantità di aree urbanizzabili (e in generale le nuove superfici edilizie previste dai piani) su una ragionevole previsione della domanda dovuta alla crescita della popolazione e delle attività produttive, all’esigenza di migliorare la qualità delle abitazioni e così via. In altre aree del paese (e non solo nelle regioni meridionali) i fabbisogni di aree urbanizzabili era gonfiato a dismisura, oppure il dimensionamento veniva del tutto trascurato, oppure ancora ai calcoli esibiti nelle mendaci relazioni illustrative corrispondevano, nelle tavole del piano e nelle sue norme, quantità del tutto difformi (e sempre molto maggiori.
In realtà, lo strumento preteso a New York all’inizio del XIX secolo per razionalizzare l’espansione urbana, veniva impiegato per un altro dei suoi possibili effetti: valorizzare le aree attorno alle città. Come è abbastanza noto, il valore di un terreno che da agricolo diventa potenzialmente edificabile aumenta molte volte. E così aumenta il valore di un terreno nel quale, invece di un edificio di modeste dimensioni, se ne può costruire uno più grande, oppure adibibile a utilizzazioni più pregiate. Il paradosso è che questo aumento di valore è del tutto indipendente dal fatto che, su quel terreno edificabile, un nuovo edificio nasca davvero: è la virtualità edificatoria impressa dal piano con il colore o il retino che genera il valore.
Se in alcune parti d’Italia gli strumenti dell’urbanistica di quegli anni furono impiegati per rendere le città più efficienti e più belle (se il dimensionamento fu più rigoroso, le analisi sulla struttura del suolo più accurate, gli spazi per le utilità pubbliche e collettive dimensionati in modo più generoso e localizzati con maggiore attenzione), e se in altre parti invece ciò che soprattutto contava era la quantità delle aree per l’edificazione privata rese urbanizzabili ed edificabili, ciò fu causato dal peso che, nelle differenti realtà, avevano gli interessi della speculazione fondiaria e dell’investimento immobiliare. Peso oggettivo, rispetto ai comparti moderni della vita economica, e peso nelle decisioni politiche degli amministratori. Ma questo ci conduce a ragionare della rendita fondiaria, che era appunto il tema politico sotteso al dibattito per la riforma urbanistica.
Di chi è la terra su cui sorge la città? A che fine, e da chi, deve essere utilizzata? Questa è la grande questione. Il suolo urbano era (alcuni secoli fa, in moltissime città europee) di proprietà comune: della città, o del Signore, o del Vescovo, che ne cedevano l’uso per costruirvi le case e le botteghe. Con l’avvento della borghesia la proprietà del suolo fu frammentata e privatizzata. Il suo ruolo principale non fu più quello di costituire la base e, in qualche modo, la materia prima per la costruzione della città, ma divenne sempre più quello di consentire l’arricchimento, con poca fatica, di quanti via via ne venivano in possesso [4].
Da allora, la città è come percorsa da due armate che hanno obiettivi diversi, strumenti diversi, poteri volta a volta diversi. L’una è quella costituita da quanti hanno interesse alla funzionalità della città, alla sua bellezza, alla sua vivibilità: sono quanti usano la città per abitare, per lavorare (siano essi operai o industriali, impiegati o padroni), per conoscere e divertirsi. L’altra armata è costituita da quanti usano la città per arricchirsi mediante il gioco dei valori delle aree fabbricabili. Si tratta di armate a confini variabili: l’industriale è anche proprietario di terreni e di edifici, l’operaio è anche proprietario di una casetta il cui valore aumenterebbe a dismisura se fosse possibile costruirvi un grattacielo. Se non tutti, la grande parte dei soggetti che si muovono sullo scenario della città sono spinti a militare verso l’una e l’altra delle armate a seconda del peso che assegnano alla loro funzione di utenti della città, o di suoi sfruttatori. E purtroppo, mentre l’interesse venale appare con chiarezza ed evidenza, quello alla vivibilità urbana (e a come questa sia ridotta o minacciata o addirittura annullata dal gioco della speculazione) appare più difficilmente, e meno immediatamente comprensibile.
Così, la legge ponte che ridusse l’edificabilità ed estese la pianificazione urbanistica, il decreto sugli standard che ampliò le aree da utilizzare per il verde e le attrezzature collettive (e che perciò riduceva le prospettive di arricchimento dei proprietari) furono certamente vittorie di chi si sentiva in primo luogo utente della città. Ma furono vissute come dure sconfitte dagli altri. La Corte costituzionale intervenne, nel 1968, oggettivamente a vantaggio di questi ultimi: decretò l’illegittimità costituzionale delle norme delle leggi urbanistiche che consentivano di espropriare, a un valore sostanzialmente agricolo, le aree ad alcuni proprietari (quelli interessati da previsioni di spazi pubblici, strade e così via), mentre consentiva ad altri di arricchirsi.
Da allora a oggi, si sono susseguite proposte di riforma mai approvate dal Parlamento, leggine che tentavano di prorogare o tamponare gli effetti della sentenza costituzionale, e reiterate denunce di quest’ultima. Ma l’ingiustizia rilevata dalla Corte costituzionale rimane, i cambiamenti nelle utilizzazioni del suolo decise dai piani regolatori determinano aumenti o diminuzioni dei valori fondiari, e la mano degli interessi immobiliari continua a premere sulla matita con cui gli urbanisti e gli amministratori disegnano il futuro della città.
La legge urbanistica del 1942 prevedeva, come ho ricordato, uno strumento che avrebbe potuto contenere gli effetti dell’appropriazione privata dei suoli urbani, almeno nelle aree di nuova urbanizzazione, impedendo che l’incremento di valore, derivante dalle decisioni della collettività, si traducesse in un aumento dei costi degli alloggi e delle urbanizzazioni. Si tratta di quell’articolo (il 18) che consentiva ai comuni di espropriare le aree nelle quali il piano prevedesse cospicue trasformazioni (come quelle nelle quali all’utilizzazione agricola il piano prevede di sostituire quella edilizia). Solo due comuni, in Italia, tentarono di applicare quello strumento, ma i tentativi di allargarne l’incidenza furono frustrati dai ricorsi dei privati e dall’appoggio che ad essi diede la magistratura amministrativa.
Il tentativo di costituire demani comunali di aree edificabili fu ripreso nel 1962. Quasi come un sottoprodotto del dibattito sulla riforma urbanistica (che in quegli anni divampava più acceso) il ministro democristiano Sullo fece approvare al Parlamento una legge la quale, per “favorire l’acquisizione di aree da destinare all’edilizia economica e popolare”, consentiva ai comuni di espropriare aree in misura consistente (si poteva giungere al 70% dell’intero fabbisogno di nuove aree edificabili),. Le aree così acquisite dal Comune vengono urbanizzate e cedute agli utilizzatori (con priorità a quanti realizzano edilizia destinata ai ceti meno abbienti).
La legge fu usata anch’essa (come quasi tutti gli strumenti positivi dell’urbanistica) in modo molto differenziato, nello spazio e nel tempo. In alcune parti del paese si trascurò del tutto la possibilità di utilizzarla come strumento di una politica di crescita razionale della città; in alcune fasi della nostra vita politica si indebolì la portata della legge, e addirittura la su utilizzò a vantaggio della proprietà fondiaria. Ma nei comuni in cui si era consolidata una “cultura della pianificazione” l’impiego congiunto delle potenzialità di questa legge e delle nuove regole prescritte in materia di standard urbanistici consentirono di realizzare parti di città dove è più gradevole vivere, le abitazioni costano meno, gli spazi verdi e le attrezzature pubbliche sono più abbondanti, meglio distribuiti, più facilmente utilizzabili dalle cittadine e i cittadini.
Accanto a quella sul regime dei suoli, un’altra grande questione si affacciò negli anni Sessanta e non è stata risolta (ma, semmai, si è progressivamente aggravata): la questione del traffico. Mentre in altri paesi europei, alla costruzione di una rete autostradale e all’espansione del parco automobili si accompagnavano intelligenti ed efficaci politiche di ampliamento della rete del ferro (ferrovie regionali, linee metropolitane, tramvie in sede propria o promiscua), di utilizzazione delle vie d’acqua per il trasporto delle merci, di promozione del trasporto meccanico leggero (biciclette), in Italia tutti gli sforzi erano indirizzati alla costruzione della rete autostradale e alla promozione, con ogni mezzo, del trasporto individuale. Gli anni Sessanta sono stati gli anni dell’automobile: questa è diventata la regina del trasporto e, contemporaneamente, la distruttrice della città.
Nell’orizzonte urbano si è manifestato insomma quello che definisco "il paradosso del traffico". Nelle grandi e medie città, nelle ore di punta (cioè nei momenti in cui i cittadini hanno più bisogno di spostarsi) le strade diventano ingorghi di dimensioni maggiori o minori. I marciapiedi sono sottratti alla loro originaria destinazione, e il pedone è ostacolato dalle automobili disordinatamente in sosta. Le piazze, i luoghi nati per l’incontro e la sosta degli abitanti, sono diventate immensi parcheggi. E muoversi, spostarsi è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.
Dietro a questo disagio, dietro al “paradosso del traffico”, ci sono certamente ragioni di politica generale (e di miopia nazionale). Ma è giusto sottolineare che ci sono anche colpe ed errori degli urbanisti. L’urbanistica del Novecento ha indotto infatti a progettare le città applicando una “zonizzazione funzionale” rigidamente e ottusamente applicata: distinguendo cioè nettamente la parti della città destinate pressoché integralmente alla residenza, quelle adibite all’industria, all’artigianato, alle attività direzionali. In tal modo non solo si è contraddetto il carattere complesso della città, si è dimenticato che la sua ricchezza e la sua vitalità sono determinate dalla vicinanza di funzioni, ruoli, attività, ceti sociali diversi. Ciò ha provocato e provoca ancora, nelle ore di punta, giganteschi esodi delle automobili dalla zone residenziali a quelle dell’industria e delle altre attività lavorative, spesso localizzate sui lati opposti del centro storico.
Fino alla fine degli anni Sessanta l’urbanistica italiana era indirizzata al tentativo (a volte riuscito, altre meno) di governare l’espansione della città. Le grandi trasformazioni territoriali, l’incremento della popolazione, l’ancor più accentuato incremento delle aree urbanizzate derivante dalle iniziative di valorizzazione economica dei terreni avevano fatto sì che le città fossero in continua espansione: si calcola che in negli anni successivi al dopoguerra le superfici urbanizzate siano aumentate del 1000 per 100 (mille per cento): in pochi decenni si è radicalmente trasformata (coprendola di strade, palazzi, piazzali, capannoni, ville e villette ecc.) una quantità di terreno pari a dieci volte quella che si è urbanizzata in alcuni millenni. Sulla base di un’analisi della realtà e delle tendenze si proclamò in quegli anni che “l’età dell’espansione è terminata”. Il problema al quale volgere l’attenzione diveniva sempre di più quello del risanamento, della riqualificazione, del recupero e riuso, della gestione e manutenzione dell’enorme stock di edifici e urbanizzazioni realizzato nei decenni precedenti. In questo quadro, alcuni problemi assunsero rilievo sociale e provocarono il formarsi di alcuni nuovi strumenti.
In primo luogo, il problema della casa. Non era più, se non marginalmente, un problema quantitativo. Si trattava di razionalizzare l’uso dello stock edilizio esistente, di avviare politiche di recupero, di ridurre le paradossali differenze che si erano sedimentate nei livelli degli affitti (dove si andava dai fitti “bloccati” ai valori dell’anteguerra, fino ai fitti “liberi” il cui livello era in molti casi diventato insopportabile per i redditi delle famiglie medie). Si comprese poi, più generalmente, che la politica urbanistica non era sufficiente a governare le trasformazioni urbane se non era integrata da politiche attive, in grado di condizionare o promuovere, anche con strumenti finanziari, i comportamenti degli operatori privati, e di vincolare alle scelte urbanistiche la politica di bilancio dei comuni.
Vennero così introdotti alcuni utili strumenti. L’ equo canone, tendente a stabilire una sorta di “prezzo amministrato” delle abitazioni, tale da compensare l’investimento e il risparmio ma da non incidere eccessivamente sui redditi familiari. La programmazione dell’intervento pubblico nell’edilizia abitativa, nel cui ambito trovava finalmente posto il recupero degli edifici inutilizzati o degradati, che avrebbe dovuto assumere importanza crescente. La programmazione dell’attuazione dei piani regolatori mediante il programma pluriennale d’attuazione, che avrebbe dovuto consentire (e in molte zone d’Italia effettivamente consentì) di far convergere le risorse pubbliche e private nel processo di costruzione e trasformazione della città governandole nel tempo anziché solo nello spazio, e consentendo così che le strade e le fogne, le scuole e il verde, venissero programmati, progettati e realizzati in modo coordinato. Si stabiliva che gli oneri dell’urbanizzazione (e cioè le spese necessarie per realizzare effettivamente le attrezzature e i servizi previsti dalla normativa sugli standard urbanistici) venissero poste a carico dei realizzatori delle iniziative edilizie.
E’ nel corso degli anni Settanta che è esploso, in Italia, l’interesse e la preoccupazione per l’ambiente. Preoccupazioni di carattere planetario e consapevolezza della limitatezza e irriproducibilità delle risorse territoriali si sono legate alle esigenze di maggiore qualità, di difesa di quelle (naturali e storiche) presenti nel nostro paese e nei suoi differenziati siti. Poiché la pianificazione urbanistica ha a che fare con il territorio, e questo è una delle componenti essenziali dell’ambiente, lo sviluppo dell’ambientalismo doveva incontrare l’urbanistica. In realtà, ambientalismo e urbanistica sono apparsi per un certo periodo due dimensioni diverse, a volta in opposizione tra loro. E d’altra parte bisogna riconoscere che l’urbanistica moderna si è foggiata, e ha formato i propri strumenti, in relazione alle esigenze di razionalizzazione in una fase di espansione. Ha avuto qualche difficoltà a riconvertire la propria “ideologia”, e i propri attrezzi, in una fase in cui l’esigenza dominante non era più quella della crescita delle grandezze fisiche, ma quella della tutela dell’ambiente e della riqualificazione delle urbanizzazioni consolidate.
L’ambientalismo, per conto suo, ha oscillato tra due tensioni estreme: da un lato, l’aspirazione a disegnare un sistema di valori radicalmente diverso da quelli precedenti, a partire dalla interpretazione del rapporto tra uomo e natura (uomo e creazione del mondo), e dalla lettura dei destini del sistema planetario; dall’altro lato, la difesa della singola realtà naturalistica, o ecologica, o culturale, in questo o in quell’altro luogo. Il movimento ambientalistico ha coniato lo slogan “pensare globalmente, agire localmente” per tentare una sintesi tra queste due visioni - la planetaria e la localistica - delle proprie tensioni. Gli è spesso sfuggito che la pianificazione si pone oggettivamente come il terreno più propizio per compiere tale sintesi.
Un primo passo per introdurre nella pianificazione urbanistica l’obiettivo della tutela dell’ambiente è avvenuto con la cosiddetta “Legge Galasso”, la 431 del 1985. Con questa legge si sono introdotti due rilevanti principi, gravidi di portata pratica. In primo luogo si è stabilito che erano meritevoli di tutela non solo singoli paesaggi eccezionali, ma l’insieme degli elementi caratterizzanti la “forma del paese”: la grande orditura del paesaggio Italiano, costituita dai monti e dalle coste, dai corsi d’acqua e dai boschi, dai vulcani e dai ghiacciai. In secondo luogo si è stabilito che sia questi elementi (rilevanti a livello dell’intero paese), ma anche quelli più minuti e circoscritti e locali (individuabili ai livelli regionale e comunale) dovevano essere tutelati attraverso la pianificazione ordinaria: inserendo, cioè, nei piani d’ogni livello, a partire da quelli regionali una “specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”.
Di più, il legislatore non poté o non volle dire. Del resto, dal 1970 erano state istituite le regioni a statuto ordinario, previste dalla Costituzione e cui questa affida le competenze legislative in materia di urbanistica, nell’ambito dei principi fissati dalla legislazione nazionale. Era alle regioni, quindi, che spettava il compito di arricchire, implementare e tradurre nel sistema della pianificazione i principi stabiliti dalla legge Galasso. Come al solito, alcune lo fecero, altre no. Tra quelle che lo fecero alcune si comportarono correttamente (e introdussero, nei loro piani e nella loro legislazione, elementi di effettiva difesa e valorizzazione delle qualità dell’ambiente) altre meno. Salvo poche lodevoli eccezioni, lo Stato non intervenne per sostituire le regioni inadempienti, come pure avrebbe potuto.
Ugualmente lo Stato non è intervenuto per stimolare l’attuazione di un’atra legge rilevante approvata in quegli anni, dopo alcuni decenni di lavoro di commissioni di studio: la legge per la difesa del suolo, approvata nel 1989. Con quella legge si è finalmente operata una sintesi tra due aspetti della questione ambientale, tra loro strettamente legati ma fino allora visti in modo settoriale: la difesa dei suoli dalle acque, e la difesa delle acque, risorsa indispensabile la cui qualità tende a deteriorarsi. I “piani di bacino” dovrebbero definire sia le condizioni che l’esigenza di tutelare la terra e l’acqua pongono alle trasformazioni urbanistiche (e quindi sono un input decisivo per la pianificazione ordinaria delle regioni, le province e i comuni), sia gli specifici interventi e opere che è necessario attuare per porre riparo alle situazioni di rischio e di degrado. La redazione dei piani di bacino procede però con lentezza esasperante.
Fin dall’Ottocento, e per tutto il Novecento, la città ha cominciato ad espandersi sul territorio, coinvolgendolo nella propria rete di comunicazioni e relazioni ed esportandovi ciò che diveniva ingombrante. Le strade e le ferrovie, i sistemi di trasporto delle persone e delle merci avvicinavano sempre più paesi e città una volta separate da ore di percorso. Prima le fabbriche, poi gli ospedali e le carceri, i grandi centri commerciali e quelli di ricreazione e divertimento, le discariche e i depuratori, tutto ciò è venuto via via a occupare territorio. L’espansione delle città e dei paesi è avvenuta lungo le strade che li collegavano, e si è via via infittita: spesso si è trasformata in una continuità edilizia ha travalicato i confini comunali in quei luoghi in cui la città si è trasformata in metropoli. Oggi, ciascun cittadino soddisfa le proprie esigenze (dalla scuola alla salute, dal tempo libero al lavoro) in. ambiti spaziali che non coincidono più con il paese o il quartiere. Dal concetto di città siamo passati a quello di territorio urbanizzato.
Questa trasformazione oggettiva del modo in cui la società vive il territorio ha provocato il nascere di esigenze nuove, e della necessità di nuovi strumenti, per la pianificazione. Si è aperto così, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, il dibattito sulla pianificazione di “area vasta”. Si trattava in primo luogo di istituire le regioni, ma anche di individuare ambiti territoriali più ampi di quelli comunali ai quali applicare la pianificazione: ambiti caratterizzati soprattutto dal fatto che al loro interno i cittadini, per le loro esigenze quotidiane di spostamento dalla casa al lavoro o ai servizi gravitassero sugli stessi poli. E si trattava anche di individuare la dimensione territoriale e la soglia di popolazione nell’ambito delle quali determinati servizi potessero essere convenientemente organizzati. Per esemplificare, non è possibile organizzare gli insediamenti, il servizio di trasporto pubblico e la gestione dei rifiuti a Milano o a Napoli senza governare un ambito molto più vasto di quello del comune capoluogo. Così come non è possibile localizzare adeguatamente una scuola media o un inceneritore in un territorio che comprende molti comuni piccolissimi senza un coordinamento delle politiche urbanistiche che vincoli tutti alle medesime scelte.
Numerosi furono i tentativi compiuti. Si arenarono tutti su di un conflitto: quello tra l’organismo sovracomunale di pianificazione e i singoli comuni che ne facevano parte. Si comprese che il primo non avrebbe avuto autorità sufficiente se i suoi rappresentanti non fossero stati eletti direttamente. Che fare, allora? Aggiungere un ulteriore livello elettivo a quelli già previsti dalla Costituzione? Si scelse un’altra strada. Con la legge 142 del 1990, che ha definito il nuovo ordinamento degli enti locali, si è attribuita la competenza della pianificazione subregionale (e sovracomunale) alle province, e si è stabilità inoltre che, nelle aree nelle quali i flussi pendolari siano più intensi, le connessioni tra i comuni più ricche, la continuità urbana più accentuata, le province assumessero particolari poteri di gestione urbana (sottraendoli ai comuni), costituendo, in luogo della Provincia, la Città metropolitana.
Le città metropolitane non sono state costituite. Il farlo avrebbe comportato lo spostamento di equilibri di potere che le forze politiche non si sono dimostrate disponibili a governare. Le province, invece, hanno avviato (dove più, dove meno) un’attività di pianificazione molto difforme da regione a regione (essa infatti deve essere disciplinata con leggi regionali). E’ troppo presto per stenderne un bilancio. Anche perché, proprio negli anni in cui si ridefiniva l’impalcatura del sistema della pianificazione, il concetto stesso di pianificazione della città e del territorio veniva messo in crisi.
Parallelamente al formarsi di nuovi strumenti positivamente utilizzabili, si è sviluppata (a partire dagli anni Settanta, ma con un’esplosione nel decennio successivo) una tendenza di segno esattamente opposto: una vera e propria controriforma urbanistica che culminò con Tangentopoli. La pianificazione urbanistica fu screditata. Trionfò l’abusivismo. Una visione premoderna più che liberista cominciò a indebolire il potere pubblico; al primato dell’interesse collettivo si venne sostituendo quello dell’interesse di gruppi e di individui. Alla visione complessiva e strategica della città (propria del piano regolatore) furono preferite le decisioni caso per caso, progetto per progetto, proprietario per proprietario. Alla trasparenza delle procedure previste dalla legislazione urbanistica si preferì l’accordo diretto, la contrattazione, il do ut des (humus fertile per la corruzione). Senza modificare il quadro legislativo vigente, vi si introdussero strumenti con esso contraddittori: gli accordi di programma, i progetti urbani integrati ecc., il cui scopo era quello di scavalcare le procedure normali.
Il conflitto tra interessi proprietari e interessi generali della cittadinanza (il conflitto centrale nel governo della città) fu affrontato in termini esattamente capovolti rispetto a quelli tradizionali. L’urbanistica non fu più considerata come un insieme di tecniche e procedure finalizzate a disegnare il miglior possibile assetto nell’interesse collettivo, a definire quindi le regole alle quali (appunto nell’interesse della collettività) gli interventi dei singoli operatori dovevano subordinarsi. Essa divenne il terreno di contrattazione dell’amministratore (e del politico) con gli interessi forti: quelli della rendita, più che quelli del profitto.
Nacque così quella che venne definita (non sempre con un’accentuazione critica) urbanistica contrattata. Essa in ultima analisi può essere definita come la sostituzione, a un sistema di regole valide nei confronti di tutti, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità. Essa di fatto si manifesta (e si è manifestata e continua a manifestarsi numerosissime circostanze) ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune [5].
Il danno provocato dall’estendersi dell’urbanistica contrattata (e, più in generale, dalla ricerca di scorciatoie rispetto alle regole della pianificazione urbanistica) è enorme. Ma della sua portata potremo renderci conto solo quando i suoi effetti si saranno manifestati nella realtà: come si sa, i tempi che separano le decisioni sul territorio dal manifestarsi dei loro effetti sulle concrete condizioni di vita dei cittadini sono molto lunghi. Gli errori dei padri li pagano i figli e i nipoti.
Prima ancora che i fautori di un’urbanistica contrattata con i poteri forti si adoperassero per esautorare la pianificazione, nell’ambito stesso della cultura urbanistica era avviato un processo di critica e di revisione degli strumenti dell’urbanistica. Le critiche alla pianificazione tradizionale (quella, cioè foggiata e praticata in Italia sul ceppo della legge del 1942) toccavano diversi profili della questione.
Sotto un primo profilo si criticava (e si critica) la pianificazione per la sua scarsa capacità di rappresentare, mobilitare, governare la società. La si trovava, a questo fine inefficiente e confusa, poco convincente e poco esplicita come rappresentazione degli interessi vincenti. Per le medesime ragioni la si trovava incapace di mobilitare gli interessi che vorrebbe promuovere, e assolutamente inefficiente al fine di governare la società, nel senso di tradursi effettivamente in una serie di azioni che conducano alla realizzazione dell'assetto desiderato e promesso.
Sotto un secondo profilo si chiedeva alla pianificazione efficienza e tempestività nel dare le risposte necessarie ai problemi che essa intenderebbe risolvere. La lunghezza dei tempi che intercorrono dal momento in cui l'esigenza viene posta a quello nel quale essa viene avviata a soluzione sono tali che fuoriescono da qualunque schema di ragionamento economico. Per di più, è altamente improbabile che le previsioni della pianificazione si realizzino effettivamente, oppure si realizzino nei modi e nei tempi promessi.
Sotto un terzo profilo si chiedeva alla pianificazione di essere uno strumento di tutela dell'ambiente naturale e storico. La circostanza che la pianificazione tradizionale abbia a volte promosso, spesso tollerato e consentito, devastazioni delle qualità ambientali ha generato una comprensibile sfiducia nella sua capacità di essere utile a una politica ambientalista. Del resto, la scarsa efficacia del piano lo rende uno strumento poco affidabile anche quando di per sé (nelle scelte delle sue "carte") risponde positivamente all'esigenza ambientalista.
Le critiche avevano certamente un loro fondamento. Non tutte, però, potevano postulare soluzioni all’interno della disciplina dell’urbanistica. Così, il crescente divario tra urbanistica e società (sotteso al primo dei profili critici cui mi sono riferito) non era che un aspetto della più generale crisi della politica. Politica e urbanistica sono due discipline strettamente legate: c’è chi arriva a dire, non senza ragione che “l’urbanistica è una parte della politica” [6], e c’è chi lucidamente definisce il piano urbanistico “una scelta politica tecnicamente assistita” [7]. E se la politica ha smesso di proporre progetti alternativi di società, prospettive concorrenti per il suo futuro, e si è ridotta al mero esercizio del potere, quale ruolo di rappresentanza della società può mai svolgere la pianificazione urbanistica?
Più vicini al dominio dell’urbanistica sono gli altri due profili critici. Di essi si è tenuto conto, negli ultimi lustri, proponendo e sperimentando innovazioni consistenti al modo di definire e adoperare gli strumenti della pianificazione. Due sono, a mio parere, le direzioni più innovative e promettenti.
La prima innovazione ha a che fare soprattutto con il rapporto tra il piano urbanistico e il tempo. Essa si propone di risolvere la questione della eccessiva rigidità degli strumenti urbanistici (che rende il sistema delle scelte pubbliche incapace di seguire con la necessaria adattabilità i cambiamenti delle esigenze sociali, delle disponibilità economiche, delle opportunità politiche), e dell’assoluto disordine provocato dal tentare di raggiungere un’adeguata flessibilità con l’impiego di strumenti episodici e casuali (le varianti, le deroghe e gli altri espedienti via via inventati nel corso degli anni di Tangentopoli). In termini molto sintetici si può dire che la soluzione è stata proposta (a partire dagli anni Ottanta), e introdotta in alcune legislazioni regionali, basandosi sul presupposto che la pianificazione è ormai un’attività costante e sistematica delle pubbliche amministrazioni. Non si tratta insomma di fare, una volta ogni dieci o vent’anni, un Piano, ma di governare le trasformazioni territoriali con una pianificazione caratterizzata da continuità e sistematicità.
In questa logica, è possibile distinguere due tipi di scelte: quelle che hanno un carattere permanente, o comunque devono essere considerate valide in relazione a periodi lunghi (per esempi, le scelte relative alla tutela degli elementi fragili del territorio, alla salvaguardia delle qualità naturali e storiche, alle grandi decisioni di carattere strategico), e scelte che, viceversa, devono essere assunte in relazione ad esigenze e opportunità che possono variare notevolmente nel tempo. Ed è possibile definire e modificare le previsioni di piano relative al secondo ordine di scelte con procedure molto più snelle di quelle attuali. La distinzione tra il “piano strategico” o “strutturale”, e il “piano operativo” o “piano del sindaco”, che si è diffusa nella pubblicistica recente e in alcune legislazioni regionali, è espressione appunto di questa innovazione.
Una seconda innovazione rilevante riguarda, in qualche modo, il rapporto tra la pianificazione e lo spazio fisico. Quest’ultimo è stato generalmente considerato, nella pianificazione tradizionale, come un supporto generico e sostanzialmente omogeneo per l’urbanizzazione. Al territorio non era riconosciuta (se non in alcune esperienze significative perché eccezionali) una personalità propria: non era considerato come un insieme di valori e di risorse, di opportunità differenziate e di dissimulati rischi, che occorreva valutare con attenzione prima di qualunque previsione di trasformazione.
L’emergere delle preoccupazioni e delle esigenze dell’ambientalismo e dell’ecologismo ha contribuito ad attirare l’attenzione degli urbanisti su questo versante. Un impulso notevole all’introduzione, all’interno stesso dei procedimenti della pianificazione, di una nuova attenzione all’ambiente naturale e storico è stato dato con la legge 431 del 1985 (la cosiddetta Legge Galasso). Questa ha sostanzialmente orientato la pianificazione regionale (e, attraverso essa, anche quella dei livelli sottordinati, il provinciale e il comunale) ad attribuire agli strumenti della pianificazione ordinaria “specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”. Da allora, dove più e dove meno, a volte in modo rigoroso altre volte in modo fittizio, badando più al contenuto dei piani o più alle loro denominazioni, si sono sperimentate soluzioni diverse, ma generalmente confluenti, per ispirare la pianificazione delle città e del territorio a un nuovo principio: le qualità naturali e storiche del territorio sono una ricchezza per questa e per le future generazioni; il territorio è sede di risorse limitate e non riproducibili, essenziali per la vita dell’umanità; trascurare questi caratteri del territorio provoca non solo sprechi e impoverimento, ma anche rischi gravi per l’economia e per la stessa vita degli uomini. Questa consapevolezza deve essere alla base di quelle scelte le quali, come la pianificazione, hanno l’obiettivo di governare le trasformazioni del territorio e renderle funzionali al sistema di obiettivi che la collettività si è data [8].
Sul modo in cui queste innovazioni stanno effettivamente cambiando il quadro degli strumenti utilizzati dall’urbanistica, sulle modificazioni che in tal modo possono manifestarsi nel quadro fisico e funzionale della vita dell’uomo e della società (la città e il territorio), occorrerebbe aprire un nuovo capitolo, la cui ampiezza non sarebbe conciliabile né con gli spazi né con i tempi assegnati a questo contributo.
Edoardo Salzano
[1] Per un racconto più ampio di ciò che è successo in Italia nell’ultimo mezzo secolo suggerisco la lettura del libro: Vezio De Lucia, Se questa è una città. Editori Riuniti, Roma 1992.
[2] Ada Becchi, La legge Sullo sui suoli, in: “Meridiana - La decisione politica in Italia” n. 29, 1998, p.52.
[3] Ministero dei lavori pubblici, Commissione d’indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, Relazione al Ministra, on. Giacomo Mancini, Roma, 1966
[4] Una splendida descrizione del processo di privatizzazione del suolo urbano è costituita da: Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano, Vallardi, Milano 1951
[5] Un’analisi anche urbanistica di Tangentopoli à contenuta nel libro: P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco: Come e perché, Editori Riuniti, Roma 1995 .
[6] Leonardo Benevolo, , Le origini dell’urbanistica moderna, Bari, Laterza 199111
[7] Francesco Indovina, La città diffusa, in Aa.vv, “La città diffusa”, Daest, Venezia 1990.
[8] Ho trattato più ampiamente questo argomento, e altri contenuti in questo scritto, in: Edoardo Salzano, Fondamenti di Urbanistica, Giuseppe Laterza Editori, Bari-Roma 1998.