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In realtà, anziché venir appropriato dal signore, il sovrappiù può rimanere nelle mani del produttore, può restare in possesso dell’unità produttiva, del nucleo familiare che l’ha prodotto; esso può, insomma, esser sottratto allo sfruttamento signorile ed entrare a far parte del patrimonio amministrato e gestito dal pater familias. Una simile destinazione proprietaria del sovrappiù è ben visibile nell’economia contadina, che sarebbe del tutto approssimativo definire come un’economia riducibile esclusivamente all’autoconsumo. Il contadino, infatti, quando il suo lavoro è giunto - come si è detto - a un determinato livello di produttività, produce un sovrappiù e, in quanto rimanga un libero contadino, un libero proprietario produttore (in quanto, cioè, riesca a non subire lo sfruttamento signorile e a non divenire servo), indubbiamente possiede il proprio sovrappiù, è padrone di tutto il prodotto del proprio lavoro. E nella misura in cui il contadino riesce a liberarsi dall’ideologia dell’autoconsumo, nella ,misura in cui riesce a distinguere il sovrappiù dall’insieme del prodotto e a separarlo dai beni impiegati per la soddisfazione delle necessità del proprio consumo di produttore, nella misura, insomma, in cui il contadino giunge a definirsi come il detentore di un vero sovrappiù, egli è condotto inevitabilmente a uscire dal suo particolarissimo originario. Egli esce dal chiuso della sua famiglia e della sua gens, esce dall’ambiente singolarizzato, localizzato e incomunicabile costituito da quell’unità produttiva e da quell’organismo sociale che sono stati gli unici storicamente capaci di sussistere nel quadro di un’economia di autoconsumo, e diviene simile a ogni altro contadino, a ogni altro libero produttore, a ogni altro pater familias che sia rimasto detentore del sovrappiù.

Il possesso del sovrappiù rende i produttori simili, uguali, comuni: li costituisce in una comunità. Comune, infatti, è la ragion d’essere della loro nuova figura sociale, del loro nuovo posto nella società; comune è il loro avversario, il signore; comune il loro interesse: scambiare il sovrappiù per arricchire, per incrementare le proprie possibilità di produzione, per accrescere quindi il reddito, e la capacità di consumo delle proprie unità produttive, delle proprie famiglie. Sorge così una comunità di liberi e uguali, nel cui ambito le uniche differenze socialmente avvertibili sono quelle, meramente quantitative, costituite dall’ammontare del sovrappiù posseduto da ciascun produttore. Ma sorge allora, organicamente, un luogo, una sede comune in cui i liberi produttori si raccolgono per commerciare il loro sovrappiù, per difendere la loro libertà dalla minaccia dello sfruttamento signorile, per celebrare insieme le ragioni ancestrali, storiche e attuali della loro nuova comunità. Sorge così il borgo, il luogo in cui il contadino esce dal suo particolarismo, si riconosce membro di una comunità, diviene eguale tra eguali, diviene borghese.

Il borgo è dunque una nuova forma di insediamento umano, nata dalla libera associazione degli abitanti delle case e dei villaggi rimasti pienamente padroni di se stessi. Esso si presenta indubbiamente con le caratteristiche peculiari di un insediamento concentrato, ma non si contrappone ancora (come più tardi avverrà), non deforma né distorce né tantomeno elimina l’insediamento sparso, tipico della società contadina: lo protegge anzi, lo completa, si pone al suo servizio. La sua posizione nel territorio, dove si erge sui punti dominanti e centrali o si raccoglie a presidio dei luoghi di transito e d’incontro, le sue fortificazioni ancora rozze ed embrionali (le rustiche torri; le mura impastate di argilla o innalzate in pietra, filare per filare, tra la stagione del raccolto e quella della semina; le rocche erette sommariamente e avaramente dove la natura lo consente e lo rende più agevole), sono determinate e realizzate in funzione della difesa del contado. Il suo mercato ha senso e ragione solo come sbocco del sovrappiù prodotto dal contado; è infatti al servizio dell’eccedenza contadina, ne permette e ne favorisce lo scambio, rende effettuale e concreta la rottura dell’autosufficienza peculiare all’economia dell’autoconsumo, rottura già pretesa dalla natura stessa del sovrappiù. E i suoi fondatori e frequentatori, coloro che godono di uguali diritti al suo interno, infine diciamo pure - ma anticipando la storia - i suoi cittadini, non per tutte le stagioni, né tutti, né in maggioranza vi risiedono; essi vi giungono dal contado e vi soggiornano per operarvi i propri scambi e per celebrarvi le proprie feste; per realizzare e per manifestare dunque, entro le mura del borgo, la propria comunità di interessi e la propria comunità di destini. Dal borgo riprenderanno poi la via del contado, dove inizieranno di nuovo a produrre per la propria sussistenza e per il proprio sovrappiù. Il borgo, indubbiamente, non è ancora la città; esso ne è il segno premonitore, l’incunabolo. Ma per ciò stesso e in tal senso appunto, il borgo comincia a essere la città. Esso è la città che non si è ancora compiutamente distinta dal contado, è il contado che si riconosce e che vive come una comunità.

2. Dal borgo alla città: uno sviluppo decisivo

Per comprendere meglio il significato di questa affermazione, per vedere più chiaramente come, perché e in che senso e misura il borgo costituisca il discrimine e, a un tempo, il punto di passaggio tra l’insediamento sparso - caratteristico dell’economia dell’autoconsumo - e la città, occorre ancora soffermarsi brevemente sulla ragione economica che è senza dubbio alla base dell’origine del borgo, e che ne determina, per così dire, la duplice natura: quella natura, appunto, che, da un lato, deriva dal nascere del borgo, direttamente e spontaneamente, da una economia governata in sostanza dall’autoconsumo, e che, dall’altro lato, pone i1 borgo come luogo nel quale avviene una prima rottura, un primo superamento di una tale economia. In realtà, per un suo verso, il borgo si presenta certamente come il prolungamento naturale e organico, come il necessario completamento di un’economia e di un’organizzazione della residenza, che hanno ancora nell’autoconsumo (e comunque nel mondo contadino), e di conseguenza nell’insediamento disperso, un loro momento fondamentale. Le pagine della classica opera del Mommsen costituiscono indubbiamente una efficace illustrazione di un simile aspetto, colto in una particolare situazione storica; crediamo di aver già sottolineato a sufficienza come le unità produttive in funzione delle quali il borgo si afferma siano ancora sostanzialmente sottoposte alla legge di una produzione per il consumo del produttore, e come quindi l’eccedenza che in quelle si manifesta sia il residuo di un’operazione produttiva volta ancora essenzialmente a soddisfare i bisogni del produttore.

Per un altro verso, tuttavia, il borgo nasce indubbiamente - e anche questo lo si è già detto - sulla base della formazione del sovrappiù, e anzi proprio come il luogo direttamente ordinato alla difesa e allo scambio del sovrappiù liberamente posseduto dai produttori (in tal senso si può senz’altro affermare che il borgo, come il castello, è il luogo del sovrappiù). Ma poiché un siffatto sovrappiù non è più ordinato al consumo del produttore né utilizzato per il consumo di un puro consumatore, di un signore, ed è invece diretto essenzialmente e decisivamente allo scambio, è facile riconoscere altresì la seconda natura, il nuovo carattere, la peculiare svolta costituita dal borgo; la rottura ed il superamento, insomma, che esso comincia a rappresentare nell’economia dell’autoconsumo. Il borgo infatti, nella misura in cui è possibile distinguerlo dal contado, dalle unità produttive, dai nuclei familiari, e considerarlo in sé e per sé, è certamente il luogo dove nasce un’economia che non ha più il suo fine immediato, fisico, esclusivo, nel consumo individuale di un consumatore determinato. Non a caso, né senza ragione, gli urbanisti e gli storici della città hanno potuto rilevare spesso che il borgo è essenzialmente un luogo di transito. Il sovrappiù prodotto dal contado non vi giunge infatti allo scopo di rimanervi e di venirvi consumato, né, com’è ovvio, per tornare al contado: ma per essere esportato, per muovere verso tutti gli orizzonti del mondo, alla ricerca dei suoi sbocchi, dei suoi mercati.

Sebbene, dunque, il consumo venga ancora concepito (come sarà d’altronde fino ai giorni nostri) entro la sua forma individuale, pur tuttavia il sovrappiù esce, col borgo, dal suo ordinamento a un consumatore determinato. Sconosciuto, lontano, assente, è infatti, per il produttore, l’uomo che consumerà il sovrappiù; egli appartiene ormai a quell’umanità generica e forestiera che costituisce il mercato, che è dispersa nelle regioni di tutto il mondo, e che è collegata alle unità produttive solo dalla nuova figura sociale del mercante. E la popolazione stabile del borgo è appunto - ormai ne è ben chiara la ragione - quella dei mercanti. Gli amministratori, i soldati, i sacerdoti sono ancora al servizio della libera comunità contadina in quanto tale, sono i depositari, i tutelatori, i celebratori della “rustica virtù del comune”. I mercanti, invece, essendo esclusivamente i funzionari del sovrappiù, sono l’anima economica del borgo. La loro residenza è nel borgo, il loro lavoro è nel mondo. Essi costituiscono quel ceto mobile e girovago, e tuttavia tenacemente attaccato alla propria famiglia, alla propria casa, al proprio luogo, che sempre più verrà a fondare e a consolidare 1’autonomia del borgo dal contado (l’autonomia del sovrappiù dalla sua origine familiare e contadina), e che dunque governerà e presiederà alla transizione dal borgo alla città: al luogo in cui appunto l’economia sarà divenuta puramente economia del sovrappiù, economia in funzione esclusiva del sovrappiù, della sua accumulazione e della sua crescita: economia capitalistica.

La città, difatti, può acquistare tutta la propria autonomia, può nascere e dispiegarsi pienamente solo quando il vincolo che legava il borgo al contado sarà spezzato e capovolto; quando, cioè, sarà scomparso - senza possibilità di ritorno - ogni rapporto, ogni finalizzazione dell’attività produttiva al libero consumo individuale di un consumatore determinato; quando, in definitiva, ogni consumo non direttamente e immediatamente funzionale alla produzione sarà divenuto generico. Evidentemente - e le conseguenze di ciò diverranno subito palesi - perché questo abbia potuto avvenire, perché insomma la duplice natura del borgo abbia potuto risolversi e ridursi, nella città, all’unico aspetto del sovrappiù, non è stato storicamente sufficiente che il sovrappiù abbia potuto formarsi e abbia potuto rimanere nelle mani dei suoi produttori; è stato altresì storicamente necessario che il sovrappiù divenisse non più soltanto un risultato dell’attività produttiva (e cioè il residuo di un prodotto destinato in primo luogo al libero consumo del produttore), ma divenisse invece l’unico fine dell’intero processo economico.

Il valore, il significato, la consistenza medesima del passaggio dal borgo alla città sono, però, incomprensibili nell’ambito di tutte quelle posizioni che, per un verso o per l’altro, patiscono il limite sociologico e si riducono quindi, di fatto, ad una mera descrizione del “fenomeno urbano”. Assolutamente superficiali ed epidermiche, o al massimo inconsapevolmente allusive alla verità, sono quelle definizioni - quelle descrizioni - della città, che individuano la ragione immediata della genesi di quest’ultima nella necessità e negli interessi della difesa, o in quelle del culto, o del commercio, o nell’insieme di questi aspetti variamente intrecciati e disposti. Ben più fondamentali e complesse - ma, nel medesimo tempo, ben più determinate e precise - sono infatti le ragioni del sorgere della città. Non a caso, dunque; quando ci si racchiude e ci si congela entro quel limite sociologico, non si riesce poi minimamente a distinguere tra la città e il borgo (tra la città e il suo incunabolo), e si dà anzi sostanzialmente per processo di genesi e di formazione della città quello che conduce invece al nascere del borgo. Nel borgo come nella città, infatti, gli elementi percepibili da un’analisi di tipo sociologico sono tutti egualmente presenti. Non sussistono invero, nell’uno e nell’altra, le medesime funzioni, forme e strutture, ordinate ai medesimi interessi e alle medesime necessità? Non sono forse presenti, nel borgo come nella città, le figure del mercante, dei sacerdote, del soldato e, ancora, quelle dell’amministratore, dell’artigiano, del bottegaio e così via?

Ma un siffatto tipo di analisi, proprio per le categorie e gli strumenti che peculiarmente gli appartengono (e che costituiscono, d’altronde, i suoi limiti tuttora invalicati), è certamente condannato a restare sulla superficie dei fatti, e non può dunque condurre a riconoscere come la città in quanto tale, nella sua autonomia e distinzione, la città come non-campagna sia stata storicamente postulata e affermata solo nel quadro di una determinata economia: di quell’economia del sovrappiù come fine esclusivo, nella quale appunto, come si è detto, è scomparso anche l’ultimo residuo di un’attività produttiva ordinata al consumo individuale di un consumatore determinato.

Ecco quindi un’ulteriore conferma di un fatto che ci sembra indiscutibile: se ci si limita a una mera descrizione empirica dell’esistente, non è possibile individuare alcun principio, alcun criterio, alcuna categoria capace di discriminare e di distinguere tra l’una e l’altra forma d’insediamento umano, tra l’uno e l’altro dei modi che gli uomini hanno adottato per organizzare, nella storia, le proprie residenze e la propria vita individuale, familiare e sociale. Babilonia, borgo, città, sono dunque, nell’ambito di una simile posizione, termini equivalenti e interscambiabili.

3. Due conseguenze del legame tra città ed economia del puro sovrappiù

La particolare ragione economica che conduce a superare la fase, intrinsecamente transitoria, del borgo, e a giungere storicamente alla città (quella ragione che abbiamo individuato nell’affermarsi del sovrappiù come fine esclusivo del processo economico) comporta tuttavia, per la città medesima, delle gravi e decisive conseguenze. La prima di tali conseguenze può essere individuata in una fondamentale caratteristica della economia del puro sovrappiù, in funzione della quale la città è sorta. In realtà, nel quadro di una simile economia, e proprio perché il sovrappiù in quanto tale (ossia fuori da ogni suo ordinamento a un fine diverso da sé medesimo), è l’obiettivo esclusivo dell’intero processo economico, tutti gli operatori, qualunque sia il ruolo da essi svolto, sono strettamente subordinati e asserviti alla produzione del sovrappiù.

Servi del sovrappiù sono infatti, evidentemente, gli operai (gli antichi servi liberati dallo sfruttamento signorile, o i contadini estromessi dalle terre acquistate dai mercanti della città e impiegati ormai come forza-lavoro, come capitale), che il mercante, e poi il borghese come tale, il maestro delle corporazioni, il proprietario del sovrappiù - il capitalista infine - organizza in funzione immediata ed esclusiva della produzione di un’eccedenza. Gli stessi consumi di tali produttori - dei salariati - sono coattivamente ridotti a meri consumi produttivi; essi, infatti, poiché debbono essere contenuti entro limiti tali da garantire la formazione di un massimo di sovrappiù, sono determinati ormai soltanto sulla base della necessità di soddisfare i bisogni dei produttori in quanto tali (in quanto appunto produttori di sovrappiù), e servono esclusivamente, qualunque sia il livello della produttività del lavoro, alla reintegrazione e alla ricostituzione della capacità lavorativa occorrente alla produzione del sovrappiù: quei consumi sono dunque divenuti, puramente e semplicemente, dei costi di produzione.

A un sostanziale asservimento al sovrappiù vengono ridotti anche i contadini, gli agricoltori, i produttori ancora legati alle campagne. In realtà, la produzione delle campagne non è mai organicamente ordinata in funzione esclusiva della formazione del sovrappiù: essa conserva sempre (e in modo decisivo nell’economia contadina) un sostanziale e peculiare collegamento con dei valori che non sono riducibili alla genericità del sovrappiù in quanto tale. Ma, d’altra parte, l’economia della pura eccedenza, l’economia del capitale, tende a improntare di sé l’intero universo, a sottoporre alle sue leggi rigorose tutti i momenti e gli aspetti della vita economica. Di conseguenza, al produttore delle campagne sono aperte soltanto due strade. Egli può isolarsi in sé stesso, può rinchiudersi nella sua unità produttiva e nel suo nucleo familiare, può rifiutarsi di essere parte di quell’edificio economico che è dominato dalla legge esclusiva del sovrappiù, e può allora evitare di piegarsi a una regola, a una norma che non sono omogeneamente e pienamente sue; ma egli deve in tal caso accettare il destino di una segregazione sempre più definitiva e insormontabile, nella quale egli resterà fissato e congelato nelle forme, nei livelli, nei redditi, nei consumi peculiari alla fase dell’autoconsumo. Egli diverrà allora una eterogenea sopravvivenza di un’età arcaica, una cellula che non si è voluta o potuta adeguare allo sviluppo delle cose e che pertanto non può che venir emarginata, non può non esser condannata all’impotenza, all’inutilità e infine alla miseria e alla disperazione.

Tuttavia il contadino, il produttore delle campagne, può anche tentar di evitare un simile destino, impegnandosi nella seconda delle due strade di cui si diceva. In tal caso egli deve cercar d’inserirsi nelle leggi dell’economia capitalistica e divenire anch’egli un produttore di puro sovrappiù. Ma allora, ove scelga questa seconda soluzione, il contadino perde la sua libertà di disporre pienamente della propria eccedenza per allargare il proprio consumo presente e futuro, o per uscire dal lavoro, o per scambiare il sovrappiù e commerciare; fuori da qualunque possibile alternativa dall’impiego nell’eccedenza, egli diviene ormai soltanto produttore di un sovrappiù generico, che deve quindi (non può) essere scambiato. Ma poiché la produzione che si svolge nelle campagne è, come si è accennato, irriducibile ad un’economia esclusivamente ordinata alla formazione di un puro sovrappiù, deve allora per principio manifestarsi una sostanziale inefficienza della produzione contadina, e cioè, in concreto, l’impossibilità per quest’ultima di garantire un tasso di formazione del sovrappiù competitivo con quello che si verifica al livello del sistema. Il contadino allora, per sforzarsi di conservare le sue posizione nel mercato, deve tentare di aumentare surrettiziamente la quota di sovrappiù commerciabile, ma può farlo in un unico modo: riducendo, cioè, fino al minimo livello compatibile con le più elementari necessità della sussistenza, i propri consumi, e destinando tutto il resto della produzione allo sbocco sul mercato.

Si può quindi affermare, in definitiva, che la città, poiché è divenuta il luogo di un’economia che tende a improntare tutto di sé, impone per ciò stesso le sue leggi - 1e leggi rigorose della sua economia - a quel medesimo contado da cui, attraverso la forma transitoria del borgo, aveva tratto le sue lontane origini. E quei canali che univano il contado al borgo e costituivano quest’ultimo nel luogo posto a completamento, a soccorso, a servizio del contado, divengono, ora che la città ha sostituito il borgo, i tramiti per asservire il contado all’economia della città.

L’economia del sovrappiù come fine, l’economia della città, così come sfrutta gli operai e tutti coloro che operano diretta- mente entro le sue regole, così sfrutta i produttori delle campagne: anche i consumi di costoro tendono a ridursi a consumi produttivi, anche la loro produzione viene finalizzata, in modo sempre più esclusivo, a mera produzione di un sovrappiù. E poiché il sovrappiù ha nelle campagne solo un punto d’origine (nelle città si viene infatti allargando sempre più tumultuosamente quella produzione che diverrà poi industriale), mentre viene poi accumulato e gestito nelle città, quest’ultima si discosta in modo via via più accentuato dal contado, distinguendosene sempre più radicalmente. Comincia a determinarsi così quel contrasto tra città e campagna che costituirà, ancora ai nostri giorni, una delle più vistose antinomie presenti nell’assetto urbanistico, come, più in generale, nell’intero assetto della società e dell’economia.

Ma come gli operai, e a lor modo i contadini, servi del sovrappiù sono infine gli stessi mercanti, i borghesi, i proprietari del sovrappiù. Sebbene essi siano gli unici realmente liberi di disporre delle proprie sostanze, e dunque gli unici capaci di uscire dal consumo produttivo, pur tuttavia essi tendono a non uscirne, ne possono concretamente desiderar d’uscirne, poiché “il grande obiettivo della loro vita è di risparmiare una fortuna”; anche i loro consumi devono esser perciò contenuti (nel quadro di un’austerità che, per esser psicologicamente vissuta come libera, non è perciò meno oggettivamente necessitata) a quel livello che consente di accumulare, nella misura più ampia possibile, il sovrappiù. E in effetti la loro ragion d’essere, l’essenza della loro figura sociale, la loro stessa potenza economica (indispensabile per affermarsi, per continuare a produrre, per sopravvivere sul mercato) son tutte condizionate alla loro capacità di realizzare e di investire, sulla base delle risorse disponibili, il massimo possibile ammontare di sovrappiù.

Tutti coloro i quali in qualche modo partecipano all’attività produttiva sono dunque, nell’economia del puro sovrappiù, asserviti e dominati dalle leggi di tale economia: e lo sono sia per quanto riguarda la loro attività di produttori, sia - in modo altrettanto decisivo - nella loro situazione di consumatori. Ma allora, se la città, che pure ha avuto storicamente bisogno di una siffatta economia per costituirsi, avesse poi preteso di ordinarsi strettamente secondo il rigore delle 1eggi di quella medesima economia, essa sarebbe dunque venuta, inevitabilmente, a conformarsi come una comunità di non liberi. La svolta che la città, come si è detto, ha costituito rispetto alla sua prima radice - al borgo - si sarebbe perciò trasformata in un rovesciamento puro e semplice, di un’antitesi radicale, in una negazione senza scampo del proprio e necessario incunabolo.

Una seconda conseguenza scaturisce da tutto ciò, e le sue implicazioni sono, sul terreno urbanistico, talmente vaste e decisive, che riteniamo di essere giunti, così, a un punto nodale della nostra argomentazione. La città può organizzarsi, può trovare un suo ordine, una sua disciplina, una legge peculiare e propria sufficiente a darle una configurazione pienamente umana, solo fuori dalle regole e dai meccanismi caratteristici di quell’economia che le ha dato storicamente origine, e che in tal senso è stata necessaria alla sua formazione. Ma dove trovare allora, dove assumere dei valori capaci di conferire alla città quell’ordine, quella regola, quella disciplina - indispensabili alla sua esistenza in quanto tale - che la nuova dimensione economica dell’ordinamento al puro sovrappiù non può offrire? L’insediamento signorile, come si è visto, non ha potuto trovare al suo interno dei valori siffatti, e appunto per questo abbiamo dovuto definirlo come la non-città; se dunque anche per la città borghese dovessimo arrivare a una simile constatazione, dovremmo poi paradossalmente concludere che una città vera e propria non è mai esistita: il che potrebbe anche in linea d’ipotesi essere postulato, però contrasterebbe senza dubbio non solo con quello che è il nostro convincimento profondo, ma anche con la stessa realtà delle cose.

E di fatto, poi, la città non è nata dal nulla, ne è sorta immediatamente dall’autoconsumo, ne si è formata direttamente sulla base di un atto di sfruttamento (e dunque di una iniziale operazione alienatrice). Essa ha avuto nel borgo, come si è visto, la sua forma d’origine; si è costituita perciò e si è affermata sulla base delle esigenze e degli interessi di una comunità di liberi e di uguali, si è conformata attorno ai luoghi e agli edifici che esprimevano appunto la materializzazione di quelle esigenze e di quegli interessi: o, a1meno, in presenza e in connessione a essi. È dunque appunto nella memoria, nella continuità, nella persistenza e nello sviluppo dei valori già presenti nel borgo che la città ha potuto trovare le radici del suo ordinamento. E nel concreto, infatti, storicamente la città si è poi organizzata e ordinata proprio in funzione di quegli interessi, di quei bisogni, che, se sono comuni a tutti gli operatori dell’attività produttiva che ,si svolge nell’ambito urbano, non sono avvertiti da costoro in quanto produttori, bensì – nel senso più stretto e specifico del termine - in quanto cittadini, in quanto cioè liberi soggetti di eguale diritto. La città, insomma, ha potuto strutturarsi, definirsi, riconoscersi nella sua autonomia, solo quando si è raccolta e conformata attorno agli interessi e ai bisogni che scaturivano dalle esigenze di convivenza civile, e cioè appunto della vita comune dei cittadini. Essa ha potuto stabilizzarsi nella sua forma specifica solo quando - e nella misura in cui - i suoi abitanti non si sono sentiti esclusivamente produttori, e si sono riconosciuti cittadini; solo quando, infine, si è manifestata e si è affermata la necessità di amministrare una res publica, distinta e autonoma dall’attività economica dei singoli produttori di sovrappiù (anche se, nel tempo medesimo, garante di questa); quando, cioè, dalla polis e nella polis è nata la nuova dimensione della politica, che sostiene, protegge, tutela gli interessi dei produttori e però, nell’atto medesimo, non solo li trascende, ma li limita, li vincola, li subordina a un interesse comune: quello della cittadinanza.

Non per caso, dunque, ma per una inderogabile necessità di principio, gli interessi, i bisogni (e quindi, ma analogicamente e lato sensu, i consumi) attorno ai quali la città si è potuta ordinare, sono stati quelli della gestione della cosa pubblica, della difesa delle attività familiari ed economiche degli abitanti della città, dello sviluppo di alcune esigenze civili dei cittadini, e, infine, del culto comune della divinità: i medesimi interessi e bisogni che abbiamo visto affermarsi nella nascita del borgo. E la città, poiché si nutre degli stessi valori, si conforma poi e si modella intorno agli stessi elementi urbanistici che già avevano costituito la struttura del borgo: sono gli edifici e i luoghi dell’attività politica e civile, del potere militare, del culto. E l’agorà o il foro o l’arengo, l’acropoli o la rocca, le mura, il tempio, infine, o la chiesa, formano il primo grande schema urbanistico, l’unico a tutt’oggi, di cui riconosciamo immediatamente la bellezza.

Ma nella città appunto gli elementi di un simile schema acquistano un carattere e un valore estetico radicalmente nuovi. Ciò deriva - come non è difficile intendere - proprio dal fatto che, mentre nel borgo quegli elementi sono direttamente e strettamente funzionali alle esigenze produttive (e sono perciò concepiti e realizzati con la parsimonia, con l’avarizia, con la stessa limitatezza di prospettive inevitabilmente connaturate a produttori ancora sostanzialmente legati all’ideologia dell’autoconsumo ), nella città invece essi si manifestano nella loro più specifica e dispiegata autonomia. Nella città, insomma, quegli elementi costituiscono il segno visibile, la testimonianza materiale, la concreta e solida rappresentazione di un ordine che nelle condizioni dell’epoca può nascere solo fuori dalle esigenze, dalle leggi, dai meccanismi dell’economia. Essi sono quindi, per così dire, delle creazioni meta-economiche; sono liberi dalle regole dell’attività produttiva; sono, in definitiva, essenzialmente gratuiti. Ma bisogna aggiungere subito che un tale schema, se rappresenta ed esprime la città, se ne definisce dunque, indubbiamente, l’autonomia, viene a rivelare altresì, nel tempo medesimo, la fragilità. peculiare a ogni prodotto dell’operazione umana che si affermi storicamente fuori dell’economia, e anzi pesando seccamente su di essa.

4. La città: una spesa”per il borghese

Già nel sorgere della città si può coglier dunque la radice di un singolare contrasto; esiste insomma, sin da allora, una effettiva e complessa dialettica, una contraddizione tanto più significativa quanto più ambigua, tra la città (quale storicamente si è ordinata) e l’attività produttiva (quale si è storicamente sviluppata presiedendo alla nascita della città); e di conseguenza - quasi come un riflesso della realtà effettuale sullo specchio razionale della teoria - tra le esigenze, i principi, gli ideali dell’urbanistica e le formulazioni storiche in cui è rimasta racchiusa la scienza dell’attività produttiva, l’economia.

Si è visto infatti che il processo economico - così come viene storicamente a svilupparsi e a definirsi - una volta giunto al momento critico, alla svolta qualitativa della formazione del sovrappiù, può postulare l’esigenza della città, e deve, poi, pretendere a sua fondazione, deve anzi oggettivamente condurvi, se il sovrappiù viene sottratto allo sfruttamento signorile e rimane nelle mani dei suoi produttori. Ma nello stesso momento, nell’atto medesimo in cui lo sviluppo dell’attività produttiva determina il passaggio dal borgo alla città, contemporaneamente la forma storicamente determinata di tale sviluppo tende ad alienare la città stessa, poiché appunto conduce da una comunità di liberi a una comunità di asserviti all’economia. È proprio a causa di tutto ciò che sul piano delle strutture urbanistiche, ove la città si ordini secondo quel contesto economico, ove insomma la città rimanga passivamente coartata dal peculiare processo economico storicamente in atto, essa tende a divenire un indistinto coacervo e ad assomigliare sempre più a quel mero insediamento concentrato, a quell’aggregato disorganico e informe che è peculiare alla economia signorile. In altre parole, l’economia capitalistica ha avuto senza dubbio bisogno della città ed ha preteso che sorgesse: ma nel tempo medesimo ha teso a distruggerla.

D’altro canto e parallelamente, anche la città, per parte sua, ha avuto bisogno di quell’economia, poiché appunto nello sviluppo di questa ha trovato la sua origine storica, ossia, in concreto, la ragione della sua necessità oggettiva; e tuttavia, essa ha potuto costituirsi, prender forma, assumere una propria realtà autonoma (e dunque acquisire un valore estetico) soltanto nella misura in cui si è sottratta al rigore di quelle leggi storiche della dimensione economica, che non a caso rendono quest’ultima esclusivistica e disumana. Di fatto, la città ha potuto raggiungere un ordine, un’armonia, ha potuto svilupparsi come un’espressione organica e autonoma dell’operazione umana, solo quando è riuscita ad imporre alle ferree regole dell’attività economica dei vincoli: quelli, in concreto, che si risolvono nell’affermarsi - all’interno della città - di “consumi” non individuali e non legati alla produzione. In altre parole, essa ha potuto costituirsi come tale solo individuando il suo peculiare compito nella soddisfazione di quei “consumi” che non a caso non insorgevano direttamente dal processo produttivo storicamente dato, e che non potevano venir ricondotti e appiattiti a una funzione immediata di quest’ultimo, poiché appunto erano “consumi” della comunità, “consumi” non individuali ma comuni, pubblici.

Ma in questo, precisamente, viene a rivelarsi quella fragilità che costituisce, come si è accennato, l’altra faccia, il contrappeso, il prezzo di una simile autonomia della città. Diventa, a questo proposito, sommamente significativo un fatto, un atteggiamento psicologico - o, più esattamente, una posizione di classe che l’esperienza storica ha registrato, che la memoria letteraria ha sottolineato spesso e di cui ancora ai giorni nostri possiamo facilmente riscontrare la sopravvivenza. Il fatto, cioè, che le opere del culto, quelle della difesa, della politica, della comunità, della città in quanto tale, hanno acquistato un ben determinato carattere agli occhi dei mercanti, dei maestri delle corporazioni artigiane, dei tenitori di fondaci, banchi, botteghe e officine, di tutti i proprietari del sovrappiù: agli occhi, insomma, dei borghesi. Quelle opere hanno assunto palesemente il carattere di spese. Né potevano d’altronde assumere carattere diverso, nel quadro della concezione economica data: esse comportano infatti un esborso di moneta causato da necessità che non sono legate direttamente e immediatamente alla produzione, ma che gravano su di essa, sul capitale. Esse non sono mai un investimento, sono perciò accettate e sopportate come un gravame, come un tributo. Il grande schema urbanistico della città antica (che si prolungherà poi in quella medievale), quello schema di cui abbiamo più sopra sottolineato la bellezza, è dunque una spesa, è un limite alla possibilità di realizzare il massimo del sovrappiù. È la città medesima, in quanto realmente tale, a presentarsi come una spesa per il sistema; essa, perciò, potrà sussistere col massimo di pienezza e di organicità compatibili con i rapporti dialettici che la legano al quadro economico dato, soltanto fino a un punto determinato e preciso: fino a quando, cioè, potrà venir considerata una spesa necessaria.

5. Necessità sociale e politica della spesa urbana”per ilborghese in lotta contro il signore

Ma fino a quando il sistema economico ha bisogno di una città che si racco1ga e si ordini entro un preciso -e meta-economico -schema urbanistico? Fino a quando, in altri termini, l’economia del sovrappiù come fine può e deve sostenere una simile città, può e deve accettare, cioè, la spesa che essa costituisce e comporta? La risposta, dopo quanto abbiamo scritto fin qui, non è davvero difficile, e può essere ritrovata nel carattere che ha assunto, sul terreno storico-sociale, la svolta borghese: nel carattere che di necessità ha dovuto acquistare il rapporto tra la società borghese e quella signorile. In realtà, mentre nel passaggio dall’economia dell’autoconsumo a quella signorile da un lato, e, dall’altro, a quella borghese e capitalistica, vi è stata, sul piano dello sviluppo sociale ed economico, una sostanziale continuità, il rapporto tra ordinamento borghese e ordinamento signorile si configura invece, inevitabilmente, come un rapporto antinomico e di negazione reciproca.

L’economia capitalistica e l’economia signorile si presentano, invero, come due economie, come due sistemi, come due ordinamenti fondati entrambi sulla stessa base storico-naturale - il sovrappiù - e tuttavia finalizzati a due utilizzazioni radicalmente diverse, e anzi seccamente opposte e antitetiche, della loro medesima base. Nell’economia signorile, infatti, il sovrappiù è destinato, essenzialmente e per principio, al consumo del signore; nell’economia borghese esso è destinato invece, in modo esclusivizzato e decisivo, alla “riproduzione allargata” di sé medesimo, al proprio accrescimento, all’accumulazione, e dunque, in definitiva, alla produzione.

Composizione, compromesso, o anche soltanto convivenza tra i due sistemi (quello borghese e quello signorile), sono dunque, per principio, impossibili. L’antinomia, e quindi la lotta tra signore e borghese, tra l’una e l’altra forma di utilizzazione del sovrappiù, hanno dovuto manifestarsi perciò, nella storia, con l’inevitabilità dei fatti oggettivi. E in effetti abbiamo già osservato che il borgo ha potuto affermarsi solo nella misura in cui i produttori sono riusciti a sottrarre il proprio sovrappiù allo sfruttamento signorile, e dunque alla sua destinazione al consumo dello sfruttatore. Già nel borgo, allora, già con l’incunabolo della città, l’antagonismo tra le due forme di utilizzazione del sovrappiù comincia a manifestarsi; ma con la città, il contrasto diventa lotta aperta, scontro inevitabile e dichiarato. È nella città, infatti, che il sovrappiù diviene l’unico fine cui è ordinata l’attività produttiva e, contemporaneamente, l’esclusiva base economica della vita sociale; è, dunque, solo quando la città si libera dal guscio del borgo, quando, cioè, l’economia perde ogni residua finalizzazione al consumo individuale d’un consumatore determinato, che l’irriducibile antagonismo tra l’ordinamento signorile e quello borghese e capitalistico divampa e informa di sé l’intera vicenda della storia umana.

Può allora divenir chiaro perché un ordinamento autonomo della città sia stato, agli occhi del borghese, una spesa necessaria. Sono, infatti, appunto le esigenze di quella lotta secolare, drammatica e senza quartiere, ingaggiata dal borghese contro il signore non solo sull’originario terreno economico, ma anche e soprattutto su quello sociale e politico, che hanno giustificato la spesa dell’autonomia cittadina, che l’hanno resa concretamente sopportabile al parsimonioso rigore del borghese, che l’hanno presentata, in definitiva, come necessaria.

6. L’esempio medievale: la città come macchina bellica

Per comprendere tutto questo con la più evidente perspicuità, ci si soffermi, ad esempio, sul modello illustre della città dell’ultimo medioevo. È proprio in tale periodo che la lotta tra i due ordinamenti, tra le due concezioni, tra i due sistemi - quello signorile e quello borghese - diviene più aperta e dichiarata. È appunto nell’ultimo medioevo che la classe borghese si rivela pronta a cogliere il frutto del proprio progresso storico e a ai quali si è costituita, si è conformata, e si è ordinata storicamente la dimensione autonoma della città. Quegli elementi, infatti, quei luoghi e quegli edifici nei quali si manifestavano e potevano venir soddisfatti gli interessi e i bisogni comuni della cittadinanza, potevano facilmente (e vorremmo dire organicamente, per la loro stessa peculiare e profonda natura) esser visti e utilizzati come elementi della macchina bellica, dello strumento politico e militare che la città costituiva. Quei luoghi e quegli edifici, infatti, erano appunto caratterizzati - come si è visto dal fatto che in essi avveniva un consumo che, essendo totalmente estraneo ai meccanismi economici del sistema (e proprio per questo sopportato come una spesa) era libero e autonomo dalla dimensione produttiva, ed era dunque paragonabile al consumo signorile e a questo politicamente, socialmente e militarmente opponibile. Nella città, insomma, il borghese ha visto, ha incoraggiato - e ha pagato - un nuovo signore, che potesse servire alla lotta contro il signore antico.

Bisogna allora concludere che l’ordinamento autonomo della città è un onere al quale il proprietario del sovrappiù capitalistico è disposto a piegarsi finche esiste la minaccia del “castello”. Quando il secolare antagonismo sarà infine superato, quando il signore (in quanto figura non solo economicamente, ma anche socialmente e politicamente condizionante il sistema sociale nel suo insieme) sarà “ucciso”; quando le mura non solo di questo o quel castello, ma dell’intero “edificio signorile”, saranno diroccate; quando non solo questo o quel possesso feudale sarà appropriato dal fittavolo o dal mercante, non solo i tesori dell’uno o dell’altro saranno dispersi o fruttuosamente investiti, ma quando l’intero sistema economico e sociale sarà sottratto, su ogni piano, al condizionamento del consumo signorile e sottoposto all’unica norma dell’accumulazione capitalistica, allora la spesa che la città comportava potrà finalmente esser ridotta, e anzi tendenzialmente annullata.

La città, in quanto dimensione autonoma e specifica, non troverà, a questo punto, più alcun sostegno nell’interesse della borghesia; l’antinomia tra economia del puro sovrappiù ed economia del sovrappiù come mezzo per il consumo signorile sarà, infatti, storicamente superata e risolta: la macchina bellica non sarà più necessaria, la città non servirà più il sovrappiù capitalistico. Essa allora dovrà cercare in sé stessa il proprio sostegno e la forza indispensabile ad affermare la propria autonomia oppure, come storicamente è avvenuto, dovrà cristallizzarsi o decadere.

7. Tendenza all’alienazione nella città borghese

Nel momento stesso in cui il borghese trionfa sul signore si verifica dunque, nella storia della città, un reale e profondo passaggi qualitativo. Ciò, peraltro, non significa evidentemente ( come crediamo sia ormai ben chiaro) che nella città si manifesta, con la sconfitta dell’ordinamento signorile, l’inizio di una crescita organica e dispiegata, di una positiva evoluzione, e, insomma, di un reale sviluppo in termini di valore ma, anzi, tutto l’opposto. Invero, nella misura in cui il capitalismo celebra sempre più pienamente il suo trionfo, la città medesima viene a perdere ogni ragione che giustifichi la spesa che essa costituisce per un’economia finalizzata in modo esclusivo al sovrappiù. Gli elementi, i valori, i”consumi” attorno ai quali la città si era ordinata e aveva acquisito una forma e acquistato un’autonomia, divengono ormai una pura spesa, una parvenza meramente gratuita, un tributo che non è più necessario, e che dunque sarebbe folle pagare.

La città, allora, poiché non serve più al sistema (sempre più asservito e piegato alle leggi ferree dell’economia del puro sovrappiù), deve necessariamente tendere ad alienarsi. Ogni senso, ogni ragione, ogni storica rilevanza, ogni oggettiva necessità, hanno perso infatti, nel mondo borghese, quei valori urbanistici che soli avevano potuto conferirle una forma. La città tende infatti ad assomigliare sempre più a un mero aggregato, a una concentrazione informe, a un insieme caotico e disordinato di residenze. Non a caso tutti gli sforzi che si sono compiuti, volti a dare (o a ridare) un ordine alla città della borghesia trionfante, si sono dovuti rivelare o immediatamente impotenti e vani, o arbitrari, demiurgici, titanici - e dunque alla fine sempre egualmente impotenti.

Quali che siano insomma gli sforzi per ricomporre, per disciplinare, magari per imprigionare entro le maglie di un “piano” autoritario la realtà dello “sviluppo” cittadino (di quello “sviluppo” quantitativamente smisurato, che nell’età borghese ha condotto la città dalle migliaia ai milioni di abitanti), quella realtà sfugge comunque per ogni verso, essa è dominata da leggi che non trovano più, che non possono più trovare alcun legame con le leggi proprie della città. Parzialmente commisurata, definita, pianificata, disegnata, resa estetica, in questa o in quella delle sue parti, in questo o in quello dei suoi aspetti, la città continua a vivere, a espandersi, a ingigantire con l’estemporaneità, con la casualità, con l’anarchia peculiari a ogni fenomeno immediatamente naturale e refrattario all’azione ordinatrice dell’uomo. È in tal modo, insomma, che si presenta la fase della città borghese. Tuttavia, se ci limitassimo a definirla in questi termini, non riusciremmo davvero a dar compiutamente ragione di essa; infatti, se concludessimo ponendo esclusivamente in rilievo gli aspetti di alienazione, di disgregazione, di inevitabile caoticità, che essa indubbiamente rivela nell’età del capitalismo trionfante, non potremmo riuscire a individuare quel tanto di positività, di ordine inconsapevole e dissimulato, di implicita capacità di conseguire un vero sviluppo, che essa, come ci sembra, possiede e conserva. Ci sfuggirebbe insomma, inevitabilmente, il fatto che la città del capitalismo è purtuttavia (a differenza del “villaggio”, del “castello” e del “borgo” medesimo) una reale città, e che dunque in essa certamente sopravvive la condizione della sua rinascita, e il segno fecondo della speranza di un suo rinnovato e organico sviluppo, omogeneo alle leggi, alle forme, alle esigenze che in essa si sono già manifestate, e che non sono completamente spente e inaridite.

Per proseguire la nostra analisi, dovremo quindi soffermarci con maggiore ampiezza sulla città della borghesia trionfante; è in quest’ultima, infatti, che affonda oltretutto le proprie immediate radici la città d’oggi. E non certamente a caso, ma proprio perché nella città della piena affermazione borghese si possono individuare le origini dirette della città contemporanea –e perché dunque la soluzione del problema di quest’ultima non può essere individuata se si prescinde dall’esame della realtà urbanistica dell’Ottocento - numerosi urbanisti italiani hanno dedicato, in questi ultimi anni, gran parte della loro attenzione appunto alla città ottocentesca.

8. Un primo insegnamento della storia

Da quanto abbiamo potuto fin qui vedere già emerge un primo insegnamento d’indubbia rilevanza, che scaturisce dalla storia della città e dal quale si dovrà prendere le mosse per cercare di capire quali siano le condizioni e le tappe per una ripresa, a un tempo, della disciplina urbanistica e della stessa città. A veder bene, se la città del capitalismo si è anarchicamente ribellata, si è caparbiamente e quasi irrazionalisticamente rifiutata di piegarsi a qualsiasi forma mutuata o dedotta o gelidamente distillata dagli antichi schemi urbanistici; se, parallelamente, hanno finito per fallire in sostanza tutti quegli uomini che si sono adoperati nei ricorrenti tentativi di imporre un ordine alla città mediante un mero ammodernamento - geniale quanto si voglia - delle forme e delle strutture nelle quali essa, ai suoi inizi, era pur riuscita ad ordinarsi e a configurarsi nel suo insieme; se, insomma, non è stato possibile utilizzare positivamente, per organizzare e conformare l’intera città, nessun prolungamento, nessun aggiornamento formale, nessuna rinnovata trascrizione di quello schema urbanistico che era stato sufficiente alla città del mondo classico come a quella del mondo medioevale, ciò non solo non può essere ritenuto casuale, ma va anzi attentamente meditato. Ciò, in effetti, ci sembra costituire non soltanto la chiara dimostrazione, ma la prova concreta dell’insuperabile fragilità di quegli schemi medesimi.

E in realtà, come si è già sottolineato, i valori intorno ai quali la città aveva potuto ordinarsi per raggiungere, storicamente, una sua autonomia, avevano potuto nascere ed esprimersi solo come valori meta-economici, e appunto perciò avevano vissuto sotto il segno di una intrinseca fragilità. Quella fragilità, tuttavia, aveva potuto rimanere implicita e sottesa finché i valori comuni della città erano gli unici esistenti (e dunque gli unici utilizzabili dalla borghesia nella sua lotta al signore) e finche, soprattutto, il modo capitalistico di produzione non aveva sottoposto alle sue leggi esclusive tutta la vita economica come, al limite, quella dell’intera società. Ma quando il processo iniziato con l’uscita del libero produttore dall’autoconsumo giunge alle sue conclusioni, e la produzione diventa interamente capitalistica, quella fragilità deve manifestarsi in modo aperto e invincibile. Col capitalismo, infatti, la produzione esce dall’individualismo e diviene sociale: tutti sono universalmente coinvolti nella produzione; tutti - dovunque producano, dovunque consumino, dovunque risiedano - sono universalmente sottoposti alle sue leggi e ai suoi meccanismi; tutti sono universalmente interessati alla sua espansione, poiché appunto nella crescita del sistema produttivo risiede, per tutti, la garanzia della stabilità del lavoro, della sussistenza, della vita.

Ma d’altra parte, la proprietà del capitale, l’appropriazione del sovrappiù, restano consegnate entro la forma peculiare alla struttura, alla prassi, all’ideologia del sistema borghese: entro la forma, insomma, dell’individualismo proprietario. Appunto per questo, la dimensione sociale inevitabilmente comportata dal modo capitalistico di produzione non può esprimersi in quanto tale, non può rispecchiarsi e vivere nell’intero edificio dell’umanità associata, e deve perciò restar confinata e racchiusa nell’ambito della produzione. Ogni possibile socialità si appiattisce, dunque, al momento produttivo, con esso si identifica, e in esso soltanto può essere in qualche modo concretamente vissuta.

Nella città della borghesia trionfante, in definitiva, la fragilità dello schema urbanistico viene a manifestarsi e a risolversi in una contraddizione di principio: quella, appunto, tra l’individualismo peculiare al mondo borghese e la dimensione pubblica, comune, sociale essenziale alla città. Ma poiché ogni possibile socialità è nell’economia, e poiché d’altra parte l’economia è dominata dall’individualismo, quella contraddizione non può risolversi a sua volta che in un modo soltanto: essa può risolversi, e si risolve di fatto, solo come morte della comunità in quanto tale, e dunque a secco e inevitabile danno della città. Ed ecco, allora, che la città moderna tende continuamente ad alienarsi; ecco che l’economia capitalistico-borghese - l’economia del sovrappiù per il sovrappiù, dell’interesse privato, dell’accumulazione produttiva - si impadronisce, pezzo a pezzo, della città. Non vi è più una parte, una molecola, un aspetto, un momento della città che non siano divenuti privati. Le stesse parti che la borghesia, ogni qual volta si sforza d’incidere soggettivamente sulle cose (come avviene, ad esempio, ai tempi di Napoleone III e di Haussmann), ancora riesce a dominare e a comporre, a sottrarre all’anarchia ormai dominante, non costituirono altro, in definitiva, che il tentativo di unificare formalmente luoghi ed edifici ordinati in funzione di interessi divenuti esclusivamente individualistici e privati.

E l’opera di disgregazione posta in atto dall’individualismo borghese non tarda a investire, in modo primario e decisivo, la stessa base materiale sulla quale la città è fondata: investe, insomma, in primo luogo ed essenzialmente, il suolo sul quale la città sorge e si espande, e determina così l’insorgere di quella questione delle aree che è indubbiamente il simbolo e, insieme, la manifestazione più grave, più limitante e oppressiva, di quella vera e propria attività divoratrice che il privatismo individualistico, connaturato all’ideologia borghese, ha esercitato sulla necessaria dimensione comunitaria della città. Quando le leggi borghesi dell’economia del capitale diventano le uniche leggi vigenti, allora non vi è più un posto in cui la comunità possa possedere terre, per coltivarvi, e per costruirvi le opere civili della città; il suolo, ormai, può essere soltanto suddiviso, spezzettato, individualisticamente appropriato, rigidamente recinto; da virtualmente pubblico, comune, indiviso, esso diventa inevitabilmente privato, e la fitta trama dei confini proprietari - quasi come una rappresentazione fisica, come una traduzione in termini morfologici delle leggi e degli interessi dell’individualismo borghese - costituirà appunto la camicia di Nesso entro cui la città moderna sarà obbligata a svilupparsi e a estendersi. La persistenza del reticolo proprietario diverrà insomma la regola ferrea ed esclusiva, che vanificherà e sostituirà quella legge comunitaria in cui la città non solo affondava le proprie radici storiche, ma in cui essa trovava le stesse ragioni pratiche e di principio della specificità e dell’autonomia della propria esistenza.

Ha assunto que1la crisi le forme di una rottura irrimediabile e liquidatrice di tutto quello che la città ha storicamente significato? Oppure, all’interno di quell’organismo urbano, che è indubbiamente travagliato e sconvolto da insufficienze profonde e radicali, da errori gravissimi e sempre più evidenti, dall’anarchia, dalla casualità, dal disordine mortificante e disumano che sperimentiamo tutti ogni giorno, è possibile rinvenire una speranza, un appiglio, un solido punto di partenza da cui muovere per giungere a una città più giusta?

Per cominciare a rispondere a un simile quesito, tenteremo di analizzare la città capitalistico-borghese, in relazione al sistema economico-sociale al quale essa è intrinsecamente legata, sviluppando alcuni temi che abbiamo già affacciato nel precedente capitolo: poiché ci sembra indubbio - e lo dimostreremo - che le contraddizioni, le minacce di crisi e le speranze di salvezza, i limiti e le prospettive presenti nella città del capitalismo classico (del capitalismo borghese trionfante, e ormai addirittura maturo), sono già visibili, sia pure in nuce, nella città della borghesia originaria, e costituiscono anzi lo sviluppo di determinate condizioni storiche e di principio che hanno presieduto alla nascita della città medesima. In particolare, abbiamo potuto individuare già nel nascere della città e nel suo primo affermarsi, una singolare contraddizione, una vera e propria ambiguità; è appunto nella natura di tale originaria ambiguità e nelle forme che essa, nell’ulteriore sviluppo della città e dell’intero sistema sociale, è venuta storicamente ad assumere fino ai giorni nostri, che si potrà trovare, crediamo, una risposta sufficiente al nostro interrogativo.

2. Incapacità della borghesia a imprimere alla città un autonomo ordinamento formale

La città ha potuto e ha dovuto nascere quando alla fine del ciclo produttivo si è potuto enucleare, dall’insieme del prodotto, una eccedenza, un sovrappiù che è venuto a rompere il cerchio dell’autoconsumo, e nella misura in cui tale sovrappiù, anziché venir appropriato violentemente dal signore per consentire a quest’ultimo di poter uscire dal lavoro e di poter svolgere così la propria libera attività meta-economica, non solo è rimasto nelle mani di coloro che lo venivano producendo, ma soprattutto è stato diretto da costoro al reinvestimento, all’accumulazione, all’allargamento della produzione. La città dunque, in ultima analisi, si presenta come l’insediamento propriamente omogeneo al sistema capitalistico-borghese. Perciò si è subito venuta a configurare non solo come la concentrazione stabile dei produttori del sovrappiù, ma anche e soprattutto come il luogo caratterizzato “dalla presenza di un’umanità d’un genere affatto speciale”; come il luogo, cioè, nel quale risiedono uomini che sono ormai tutti produttori di plusvalore (siano essi proprietari e gestori del capitale, o capitale essi stessi: forza-lavoro, proletari) e che sono dunque, per ciò stesso, soggetti di un comune diritto.

Liberi ed uguali sono infatti fin dal principio, non semplicemente sul terreno del diritto naturale, ma su quello positivo del diritto pubblico, gli abitatori della città. E tali essi non possono non essere poiché il sistema del capitale - il sistema del sovrappiù come fine - affranca l’umanità “dai variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali”, anche se naturalmente l’affranca per renderla disponibile e pronta a divenire nella sua stragrande maggioranza, e al limite e in linea di principio nella sua totalità, un mero strumento della produzione di sovrappiù.

Nella ragione medesima che ha sollecitato il capitalismo a dare storicamente vita alla città, è, dunque, immediatamente avvertibile anche il limite del sistema, anche il suo errore esclusivistico e parzializzante. Invero, se il capitalismo ha liberato gli uomini dallo sfruttamento del signore, se li ha mutati da servi del consumo signorile in liberi produttori, esso ha però, nell’atto medesimo, asservito tutti alla produzione del sovrappiù; tutti, proletari e proprietari, come materiali produttori del sovrappiù e come funzionari della sua accumulazione. L’ allargamento della produzione diviene allora, nel sistema capitalistico, la ragione e il fine esclusivo dell’ordinamento economico, la unica legge del sistema sociale, la sola realtà che giustifichi l’opera degli uomini e quindi, in ultima analisi, la loro esistenza medesima. Nessun altro valore, nessuna diversa dimensione dell’operazione umana, nessuna qualità, insomma, ha più significato autonomo. Ciò che delle dimensioni qualitative elaborate dalla cultura, dalla storia della civiltà, ancora sussiste, è ormai, infatti, mero prolungamento del passato; è, sostanzialmente, quasi uno sterilizzato residuo dello sviluppo storico precedente, e deve dunque venir via via ridotto ai margini e tendenzialmente dissolto, quando non può esser strumentalmente utilizzato come mezzo per l’affermazione storica della produzione capitalistica e della classe borghese.

Si deve allora necessariamente convenire - ritornando così all’argomento che più direttamente ci interessa - che nell’ambito di un assetto sociale pienamente omogeneo all’economia capitalistica, e perciò totalmente finalizzato all’allargamento continuo della produzione, non possano darsi qualità o valori capaci d’imprimere una forma all’insediamento umano. E difatti, storicamente, simili qualità si poterono trovare solo al di fuori dal sistema del sovrappiù come fine, fuori dalla legge esclusivizzata della produzione, e perciò, in definitiva, solo nel prolungamento di determinate realtà esistenti nel passato, peculiari alla società pre-capitalistica e anzi in essa centrali e decisive. Naturalmente, se la città della borghesia nascente ha potuto trovare una propria forma autonoma, ciò non è davvero avvenuto in contraddizione con gli interessi immediati della classe capitalistica, ma anzi proprio in funzione di tali interessi. Di fatto, tutto ciò si è potuto verificare solo perché la lotta dei borghesi contro il loro avversario storico, contro il signore, pretendeva (come si è già rilevato) l’esistenza di un insediamento che fosse paragonabile all’insediamento signorile, non soltanto sul piano strettamente funzionale delle necessità militari, ma anche, e soprattutto, su que1lo delle qualità politiche, civili, estetiche; che fosse, in definitiva, pienamente opponibile al “castello”.

Come, nel concreto, è accaduto tutto ciò? Dove ha potuto trovare, la borghesia, un criterio formale capace di costituire la cittadinanza in un nuovo signore, di conformare la città come un insediamento caratterizzato da un ordine e da una bellezza che fossero in grado di reggere al confronto con la superba magnificenza del castello, della corte, della reggia? La città ha potuto trovare, di fatto, le qualità necessarie a sostanziare una propria forma autonoma, storicamente sufficiente, solo assumendo e rivivendo alcune di quelle qualità cui si ordinava la libera attività meta-economica del signore.

La chiesa, l’arengo, il municipio, la rocca: non è forse evidente come queste essenziali “attrezzature” della città medievale, come questi capisaldi fondamentali e decisivi (e addirittura unici) dello schema urbanistico tradizionale, altro non sono stati che il puntuale corrispettivo della contemplazione e della teologia, della vita curtense, dell’operazione politica e di quella militare, dei principali momenti e aspetti, insomma, nei quali si estrinsecava la libera e meta-economica attività del signore? Le qualità che sostanziarono la forma della città capitalistico-borghese (finché essa ebbe una forma autonoma) erano quindi semplicemente un adeguamento delle fondamentali categorie dell’attività signorile alle mutate condizioni del sistema e della società.

3. Il tentativo borghese: l’utilizzazione comune”delle qualità del mondo signorile

Nelle città, le dimensioni, le qualità, i valori d’uso della religione, della politica, della civiltà, dell’arte e della cultura, non vengono meramente prolungati; di necessità, essi sono assunti in modo nuovo e diverso. Mentre nell’ordinamento signorile essi costituiscono il contenuto e la ragione della libera e individualistica attività meta-economica del signore, nella città quei valori, quelle qualità, si presentano nella sola maniera che sia in qualche modo omogenea alla società borghese: come metaeconomico consumo comune dei cittadini. Per cogliere, nella sua reale e profonda natura, una siffatta differenza, occorrerà ricordare innanzitutto che nello schema signorile tutta l’attività produttiva, istituzionalmente delegata ai servi, agli sfruttati, ai lavoratori, ha come suo unico scopo quello di produrre un sovrappiù esclusivamente destinato al consumo del signore. Costui, padrone unico e incontrastato di tutto il sovrappiù prodotto, trova in questo la garanzia, in primo luogo, della propria sussistenza e della propria libertà dal lavoro, e, in secondo luogo, la possibilità di dedicarsi liberamente (senza alcuna coazione, cioè, che non sia d’ordine “morale”) a quelle attività della contemplazione, della cultura, dell’arte, della politica, le quali, essendo appunto del tutto libere e gratuite, si svolgono completamente al di fuori della legge comune (e servile) del lavoro, in modo individuale e al di fuori della dimensione economica.

Nella società borghese, per converso, quelle medesime qualità che erano alla base della libera attività meta-economica del signore, non vengono più vissute da un solo individuo: dall’uomo posto al vertice della struttura economica e dell’edificio sociale; e neppure le vivono e ne fruiscono soltanto gli amici del signore: i cortigiani, i privilegiati, gli eletti, i pochi. Esse vengono vissute invece dal borghigiano, dal cittadino in quanto tale. Ciò significa, in primo luogo, che quei valori d’uso si manifestano ormai come valori vissuti e fruiti egualitariamente e comunitariamente da ciascuno degli abitanti della città, da tutti gli individui che sono soggetti di diritto comune entro le mura urbane. Sicché si può senz’altro affermare che le qualità, i valori d’uso, le dimensioni già presenti nell’attività signorile, appunto per il carattere comunitario in cui vengono vissuti nella città, rappresentano l’unica realtà nella quale l’uguaglianza e la libertà dei cittadini cessano di rimanere semplicemente affidate alle affermazioni generali e astratte del diritto naturale e a quelle puramente politiche del diritto pubblico, ma acquistano una reale corposità, una effettiva incidenza sociale, che vincola in modo netto e preciso le stesse leggi dell’ordinamento proprietario e del diritto privato.

In secondo luogo, poi, quelle qualità, essendo vissute e fruite comunitariamente, non possono più permanere nell’ambito di quella sostanziale indistinzione tra produzione e consumo che era la caratteristica decisiva della libera attività meta-economica del signore. Non v’è più, in altri termini, una unica individualità che “produce” i valori d’uso della contemplazione, dell’arte, del pensiero, e, nell’atto stesso e senza possibilità di distinzione, “consuma” quei medesimi valori. Ora, invece, essendo l’intera comunità cittadina a fruire delle qualità di cui si è detto, e rimanendo l’erogazione di queste ultime affidata a determinate attività specialistiche - alle categorie, ai ceti di “produttori” che si pongono al servizio dei cittadini - le antiche qualità dell’esistenza signorile si configurano, nel momento in cui vengono fruite, come dei veri e propri consumi (e sia pure non ancora riconosciuti tali nella teoria e nella prassi economica), mentre nel momento in cui vengono erogate, esse danno luogo a una produzione reale (sebbene anch’essa non ancora economicamente riconosciuta).

4. Un consumo comune estraneo all’economia.

La libera e individuale attività del signore si trasforma dunque, entro il quadro della città, nel consumo comune dei cittadini (e negli specifici servizi a ciò necessari). Ma per concludere la nostra argomentazione, per chiarire cioè il differente modo in cui le medesime qualità sono vissute nell’insediamento signorile e nella città, occorre porsi ancora un interrogativo; occorre domandarsi, cioè, quale sia il rapporto che lega, nella città, i valori del consumo comune alla dimensione economica, così come si trova storicamente configurata in un determinato ordinamento.

Già lo abbiamo sottolineato più volte: nel sistema capitalistico l’intera economia è ridotta al momento della produzione del sovrappiù; e per dir meglio, il fine essenziale, l’obiettivo di principio di un tale sistema consiste nella massima possibile accumulazione del sovrappiù, nel continuo, rigoroso, efficiente allargamento della produzione. Ma allora è chiaro che, nella stretta logica di un sistema siffatto, ogni libero, umano, naturale consumo non può non venir meno: l’uomo, in realtà, vi consuma solo in quanto lavoratore, solo in quanto strumento (un degli strumenti) del processo produttivo. E in tal modo il consumo, venendosi a ridurre a semplice garanzia della ricostituzione di una delle condizioni del processo produttivo medesimo, a semplice garanzia del mantenimento e del riprodursi della forza-lavoro, si configura pertanto senza residui come consumo produttivo.

Diviene cosi evidente, quindi, quale sia il rapporto che, nella società capitalistico-borghese, lega il consumo comune della città alla dimensione economica del sistema. Un tale consumo, infatti, per la sua stessa natura, non può assolutamente essere ricondotto alla categoria del consumo produttivo: l’unica forma di consumo che il sistema riconosca come a sé compiutamente omogenea e funzionale. Non a caso abbiamo infatti sottolineato, nel precedente capitolo, che solo analogicamente e lato sensu i bisogni egli interessi intorno ai quali si è conformata la città potevano esser definiti dei “consumi”.

Si deve allora concludere che nel sistema capitalistico-borghese le qualità, i valori d’uso che hanno consentito di dare una forza alla città non sono più soltanto estranei alla dimensione economica, non ,sono più cioè meta-economici: essi sono divenuti ormai puramente e semplicemente la sostanza di consumi economicamente incompatibili con la logica del sistema, consumi antieconomici. Di fatto, mentre prima, nella società dominata dalla libera attività del signore, quelle qualità, quei valori d’uso di cui s’è detto potevano essere considerati come il fine e il fastigio dell’intero edificio sociale, come l’obiettivo cui indirettamente tendeva e in cui, quindi, si giustificava lo stesso lavoro servile dell’uomo (e persino dunque la dimensione servile dell’economia) ora, nel sistema del capitale, essi sono soltanto delle spese, sono delle remore all’attività produttiva, degli impacci al suo progressivo allargamento: essi pesano seccamente sull’accumulazione.

La città ha dunque potuto trovare delle qualità sufficienti a ordinarla secondo una forma autonoma solo mutuando dal mondo signorile le qualità della libera attività meta-economica del signore, e traducendole nella spesa del consumo comune dei cittadini; tentando, cioè, di correggere la parzialità esclusivistica del sistema capitalistico e introducendo in quest’ultimo (o, meglio e più esattamente, facendo sopravvivere e rinnovando in esso) delle qualità, dei valori, delle dimensioni non solo estranei alla produzione del sovrappiù, ma addirittura incompatibili con la sua stretta logica di sistema. Tuttavia, come si è detto, un simile tentativo era intrinsecamente fragile, come ogni tentativo di fondare un’operazione umana fuori dalla dimensione economica, e anzi pesando su di essa. Perciò, in linea storica, poteva aver successo - e fu infatti perseguito - solo fino a un punto ben determinato: fino a quando le esigenze della difesa militare, della vita politica e civile, del culto, servivano al sistema per opporsi al suo avversario storico, al signore, ed erano quindi utilizzabili come strumenti politico-sociali per l’affermazione della produzione capitalistica. Quando il sistema ha trionfato, le ragioni politiche e sociali che avevano giustificato la spesa dell’ordinamento autonomo della città, sono venute ovviamente a esaurirsi. Lo strumento costituito, per la borghesia, da un ordinamento autonomo della città, non è stato più necessario. Il consumo comune dei cittadini ha rivelato allora, ha messo in luce pienamente e unicamente, il proprio carattere improduttivo; e di conseguenza, le qualità, i criteri, i valori che avevano sostanziato la forma della città - poiché più nulla ne veniva ormai a riscattare l’incompatibilità con la legge economica del sistema - sono stati spazzati via, come ogni altra dimensione non riducibile alla produzione del sovrappiù.

5. Le due insufficienze rivelate dal trionfo borghese

Il trionfo storico del capitalismo, col porre in crisi l’ordinamento classico e medioevale della città, ha svelato dunque una duplice insufficienza: l’insufficienza della forma secondo la quale la città aveva potuto ordinarsi e l’insufficienza del sistema capitalistico-borghese.

Inprimo luogo, infatti, mentre il gigantesco espandersi della produzione capitalistica accresceva a dismisura il numero e le dimensioni delle città (e disgregava, parallelamente e contemporaneamente, il tessuto sociale delle campagne); mentre masse sempre più cospicue di uomini venivano strappate all’idiotismo della vita contadina e divenivano cittadine; mentre, quindi, l’umanità, con una velocità che nessuna trasformazione storica aveva fin allora mai conosciuto, si andava precipitosamente urbanizzando (o veniva progressivamente ridotta alla decadenza e alla miseria in una campagna sempre più depauperata e”depressa”); mentre insomma si accumulavano le condizioni materiali per uno sviluppo dell’insediamento urbano, si dissolveva la forma tradizionale della città, rivelando la sua fragilità intrinseca e la sua sostanziale insufficienza. Lo schema urbanistico incentrato sui luoghi e sugli edifici posti al servizio delle esigenze del culto, de1la politica, della difesa, della comunità, la forma che si era potuto realizzare - nella città del mondo greco-romano e in quella del medioevo - come espressione delle qualità già presenti nel mondo signorile, prolungate e vissute nel consumo comune dei cittadini, si dimostravano, l’uno e l’altra, incapaci di conseguire un organico sviluppo, di crescere armoniosamente, di accogliere ed esprimere la prorompente realtà del capitalismo vittorioso e maturo, ed erano perciò rapidamente sconvolti e progressivamente erosi e spazzati via.

In realtà, quel decisivo avvenimento storico che fu costituito dalla crisi della forma urbana tradizionale, ha potuto verificarsi perché l’ordinamento formale della città era caratterizzato, fin dall’inizio, da una carenza di principio, da una intrinseca e connaturata fragilità; da quella carenza, da quella fragilità, da quell’insufficienza che costituiscono la connotazione necessaria di ogni operazione umana che non riconosca il momento dell’economia come un proprio aspetto decisivo, e che perciò viva non distinta, ma separata e divisa dalla dimensione economica: che viva, cioè, in quell’isolamento, in quella segregazione, che nel mondo signorile si manifestarono sotto la specie superba (e però precaria) della meta-economia, e che nella città della borghesia nascente si tradussero nell’antieconomicità del consumo comune. Si può allora affermare che il fallimento dello schema urbanistico tradizionale era inevitabile in linea di principio, e che la storia non ha fatto altro che dimostrare una simile inevitabilità. E si deve per ciò stesso riconoscere che in quel fallimento, in quella rottura, operati dal trionfo del capitalismo, stava la necessaria premessa storica - sia pure configurata in termini negativi - del possibile sviluppo della città a un livello superiore.

Col trionfo del capitalismo la storia ha infatti compiuto, nelle cose, una critica radicale e liquidatrice; ha spazzato impietosamente il terreno da ogni illusione di far vivere una forma come espressione di qualità che non siano riducibili al lavoro umano, e che non siano suscettibili perciò di valutazione nell’ambito di un discorso rigorosamente economico. È vero: la storia ha indubbiamente travolto, nella sua fase borghese, ogni valore, ogni qualità, ogni dimensione incompatibile con le leggi parzializzate ed esclusive della produzione capitalistica; ha certamente riconosciuto l’uomo solo come produttore di sovrappiù. Tuttavia, dissolvendo la capacità ordinatrice dello schema urbanistico tradizionale, la storia ha rivelato anche (e sia pure in modo soltanto implicito) l’impossibilità di ricorrere a un qualsivoglia criterio meta-economico quale fondamento di una forma dell’insediamento umano. Ogni ritorno a un insediamento conformato secondo categorie simile a quelle peculiari del mondo signorile, è negato ormai una volta per tutte.

Nella sua fase capitalistico-borghese, il processo dello sviluppo sociale ha dunque implicitamente affermato la decisività, per qualunque operazione umana, del momento economico. Ma una simile affermazione, come si è visto, si è concretata storicamente come una mera operazione critica: essa ha condotto, cioè, solo alla liquidazione della forma sostanziata dalle qualità dell’antieconomico consumo comune e non ha consentito, né tanto meno ha sollecitato e preteso, il nascere di un nuovo ordinamento autonomo della città. Si può allora scorgere facilmente, all’interno di quella medesima affermazione della decisività della dimensione economica, anche la sua insufficienza, il suo limite storico, la negatività e l’errore inestricabilmente connessi alla formulazione che il capitalismo ne ha dato; è possibile individuare, insomma, non solo l’insufficienza dello schema tradizionale della città, ma altresì quella del sistema capitalistico.

In effetti, nella crisi dell’ordinamento formale della città, provocata dallo sviluppo capitalistico, si può avvertire, con la più dispiegata evidenza, quale sia il prezzo che l’umanità ha dovuto storicamente pagare per la soluzione fornita dalla borghesia al problema della fuoriuscita del mondo signorile. La soluzione borghese in sé ha comportato, indubbiamente, un prezzo elevatissimo. Le qualità che nell’ordinamento signorile potevano vivere ed esprimersi solo come meta-economia (e che nel concreto si fondavano sulla riduzione esclusiva del servo a lavoro e del signore a libertà, in base allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo) non sono state rivissute -poiché non era per principio possibile - dal borghese in quanto tale, dal funzionario dell’accumulazione capitalistica. Anzi, proprio la soluzione fornita dalla borghesia alla crisi dell’ordinamento signorile ha assolutamente escluso e precluso ogni possibilità, ogni prospettiva di ricondurre, riplasmare e riformulare quei valori nell’ambito di un nuovo concetto di lavoro, di produzione, che potesse esserne il necessario momento economico, e che potesse perciò sostenerli. Essi cosi sono rimasti, necessariamente, degli antieconomici consumi comuni, e come tali, se hanno potuto esser utilizzati strumentalmente dalla classe borghese nella sua lotta contro il signore, sono stati poi messi ai margini, se non puramente e semplicemente liquidati, non appena non sono stati più necessari alla lotta sociale e politica della borghesia.

La dimensione economica ha potuto trionfare, con la borghesia, so1o prevaricando seccamente su ogni altra dimensione dell’operazione umana, e riducendo al tempo stesso sé medesima a mera produzione del sovrappiù. sicché, in definitiva, ogni altro momento, ogni altra dimensione, ogni possibile qualità virtualmente implicita nella natura dell’uomo, o già nella storia manifestatasi e divenuta effettuale (e dunque divenuta valore),è stata essenzialmente negata e soppressa, o immediatamente subordinata alla produzione del sovrappiù. È per questo, appunto, che, nella liberazione dall’insufficienza del tradizionale schema, la città non ha potuto vedere l’inizio di una nuova, più armonica forma; dalla liquidazione del passato essa non è stata sospinta verso una più solida e compiuta autonomia: si è dovuta invece alienare , ha dovuto ordinarsi ad altro da sé. Nella città del capitalismo trionfante l’unico possibile criterio cui ancorarsi per eludere il destino dell’anarchia e del caos, è costituito dalla legge stessa, dall’intrinseca funzionalità della produzione: l’unico ordine possibile è quello che deriva dall’appiattimento della città sul sistema.

6. La socialità della produzione capitalistica: una potenzialità positiva per la città

Le argomentazioni fin qui svolte, se ci hanno consentito di individuare le ragioni storiche e di principio della crisi di ogni autonomo ordinamento formale della città capitalistica, non ci forniscono ancora, tuttavia, una risposta sufficientemente completa ed esplicita all’interrogativo dal quale eravamo partiti. Può apparire addirittura ovvio osservare che la città costituisce una realtà vasta e complessa, si presenta come un intreccio singolarmente ricco e multiforme di fenomeni, di attività, di interessi, di dimensioni, di valori. Di un simile intreccio, di un prodotto così variegato e composito della civiltà dell’uomo, ci siamo limitati, fino a questo punto, ad analizzare solo un aspetto: quello del suo ordinamento formale. In altri termini, e più esattamente, ci siamo fin qui adoperati a esaminare la città del capitalismo dal punto di vista che in modo diretto e immediato ci sembra pertinente a un discorso urbanistico, e cioè appunto, dall’angolo visuale dei criteri che sorressero e ordinarono la forma della città e delle qualità che in essa si espressero.

Tuttavia, se non tentassimo di allargare il cerchio della nostra argomentazione ad altri aspetti, ad altri punti di vista, non potremmo renderci compiutamente conto della reale ed effettiva dimensione della crisi della città capitalistica. Se quest’ultima ha dovuto storicamente scontare l’insufficienza del suo originario ordinamento formale, se insomma la forma della città è stata indubbiamente sconvolta da una crisi profonda e irrimediabile, si può forse per ciò stesso affermare che è la città in quanto tale (e dunque in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue dimensioni, in tutta la complessità del suo intreccio) a esser lacerata dalla crisi? È insomma la città un organismo che, nato agli albori del sistema del sovrappiù come fine, decade e muore irrimediabilmente quando un tale sistema perviene al suo pieno trionfo? Per tentar di fornire almeno un inizio di risposta a un siffatto quesito, dovremo esaminare brevemente il sistema economico che senza dubbio costituisce la base storica della città: il sistema capitalistico.

Nella produzione capitalistica esiste una qualità esplicitamente affermata, e dunque effettuale nel sistema, che tuttavia, rispetto alla forma dell’insediamento urbano, si presenta invece solo come una potenzialità o, meglio, come una condizione necessaria ma non sufficiente. Questa qualità si rivela del tutto parziale nei confronti dell’obiettivo di un pieno e autonomo ordinamento formale della città e perciò, come ora si è detto, inadeguata, ma è comunque una potenzialità positiva. E infatti, mentre è una realtà che determina ormai irreversibilmente l’insediamento urbano entro lo schema dell’urbanesimo, costituisce d’altra parte, e nel tempo medesimo, il possibile inizio, la prima condizione materiale di base, per la costruzione di una città non alienata, di una città ordinata secondo una propria forma autonoma, però non estranea alla dimensione economica né, tanto meno, a questa antitetica: in altre parole, una città vera e propria, una città pienamente umana. Come si è già più volte ricordato e ribadito, il sistema capitalistico è indirizzato, in modo esclusivo, all’obiettivo del continuo e indefinito allargamento del processo produttivo, e dunque alla massima accumulazione, alla massima possibile formazione di un sovrappiù reinvestibile nella produzione medesima. questo, abbiamo definito il sistema capitalistico come il sistema del sovrappiù senza fine.

Partendo da una simile definizione del sistema capitalistico è possibile svolgere due serie distinte di considerazioni. Da un lato, infatti, si può dimostrare che proprio perché il sistema capitalistico assume, quale suo fine esclusivo, la produzione di sovrappiù, proprio perché con esso si esce dal rapporto fisico, diretto ed esclusivo dell’attività produttiva con il consumo individuale di un consumatore determinato, diviene impossibile conservare o sviluppare le dimensioni qualitative che si erano venute ad affacciare, nella storia della civiltà, nell’ambito della società pre-capitalistica. Lungo il filo di un simile discorso si giunge facilmente a riconoscere l’impossibilità di sopravvivenza, nella città della borghesia vittoriosa, di un qualsivoglia criterio ordinatore della forma urbana storicamente dedotto dalle categorie del mondo pre-capitalistico; si giunge, insomma, a comprendere le ragioni (e al tempo stesso l’inevitabilità) della crisi della forma tradizionale della città. Ma soprattutto per quel che ora ci interessa, dobbiamo trarre, da questa definizione del sistema capitalistico, una seconda conclusione, che non contraddice quanto abbiamo finora argomentato, anzi lo integra e lo completa.

La produzione capitalistica, proprio perché è uscita dal rapporto fisico, diretto ed esclusivo con il consumo individuale di un consumatore determinato ed è orientata invece all’allargamento metodico e indefinito di sé medesima, acquista fin dall’inizio, e viene via via a sviluppare e consolidare, un proprio decisivo aspetto: essa si afferma sempre più dispiegatamente come una produzione sociale. Il capitale, infatti, la realtà decisiva posta al cuore e al vertice dell’ordinamento economico e sociale affermatosi con il trionfo della classe borghese (la categoria nella quale sinteticamente si concentra e si esprime ogni aspetto della nuova società nata dalle rovine del mondo signorile) è per la sua stessa intrinseca natura - secondo la lucida definizione marxiana – “un prodotto comune”, che “non può essere messo in moto se non dall’attività comune di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, soltanto dall’attività comune di tutti i membri della società”; esso è, in definitiva, “una potenza sociale”. Proprio in questa connotazione del sistema capitalistico - nel carattere sociale della produzione capitalistica - risiede quella potenzialità intrinsecamente positiva per l’esistenza e lo sviluppo della forma autonoma della città, di cui abbiamo più sopra enunciato la presenza.

Se è vero che è in funzione dell’iniziale affermarsi del sovrappiù come fine, della accumulazione, del capitalismo, che la città ha dovuto e ha potuto sorgere, deve essere vero altresì che da un tale tipo di insediamento, nel quadro del sistema capitalistico, non si può in alcun modo tornare indietro. Ma allora, e appunto per tutto quel che finora s’è detto, si dovrà convenire infine che inerisce strettamente alla città la caratteristica di configurarsi come l’insediamento necessariamente sociale: come l’insediamento, cioè, che si conserva inevitabilmente omogeneo al fondamentale carattere comune, sociale, assunto dalla produzione. Di fatto, quando la città si è liberata dalla crisalide del borgo e, distinguendosi dagli interessi immediati dei produttori del sovrappiù, ha voluto ordinarsi secondo una propria forma autonoma, essa, è vero, ha potuto ricorrere soltanto - come si è visto - alle qualità già presenti nel mondo precapitalistico, ma le ha potute utilizzare solo perché le ha rivissute come consumo comune, sociale dei cittadini; solo perché ha potuto tradurle in termini omogenei, se non ai fini, ai valori, agli interessi della produzione capitalistica, almeno al carattere sociale di quest’ultima.

L’insufficienza del sistema capitalistico (insito nel suo parzializzato esclusivismo), e la parallela e cospirante insufficienza dell’ordinamento formale della città, non hanno consentito di far sopravvivere a lungo l’autonoma forma urbana; l’incontro e l’intreccio dell’una con l’altra insufficienza ha fatto maturare ed esplodere la crisi dello schema urbanistico tradizionale; ma non per questo la potenzialità positiva implicita, per la forma autonoma della città, nel carattere sociale della produzione capitalistica, è venuta a dissolversi e a scomparire. Così, quando la contraddizione di principio tra l’individualismo del mondo borghese e il carattere sociale della produzione capitalistica è venuta a manifestarsi sul terreno della città, e questa ha visto via via emarginate e sconfitte - per la loro intrinseca fragilità - le qualità espresse nell’antieconomico consumo comune dei cittadini, la città è indubbiamente entrata in una crisi profonda, come qualsiasi realtà che smarrisca la possibilità di conformarsi secondo leggi peculiari e proprie; e tuttavia, non solo essa non si è dissolta nella diaspora dell’insediamento sparso, ma non si è neppure mai ridotta a una “Babilonia” , a un mero coacervo di residenze, a un insediamento concentrato del tutto generico e casuale.

L’insediamento urbano, infatti, benché si sia certamente alienato, benché abbia perduto cioè l’autonomia della propria forma, non ha smarrito tuttavia, nel quadro storico del capitalismo borghese, qualsiasi forma; il suo alienarsi insomma non si è manifestato come pura anarchia, come invincibile riduzione al disordine ed al caos, e si è concretato invece nell’ordinarsi secondo una legge estranea a sé medesima e alla propria specifica dimensione: secondo la legge della produzione capitalistica. In tal modo, se la città è venuta indubbiamente a configurarsi come una mera “sovrastruttura” del sistema capitalistico, essa ha finito però per ordinarsi secondo una realtà nella quale è presente una qualità, una caratteristica (la socialità della produzione), che non costituisce soltanto la necessaria ragione dell’esistenza materiale dell’organismo urbano e la garanzia della sua sopravvivenza, ma può rappresentare anche - se trasformata e rivissuta fuori dall’esclusivismo della dimensione produttiva del capitalismo - la base e l’inizio per un ordinamento sufficiente, per la fondazione di una forma autonoma e piena della città. È appunto perché ha potuto trovare, nel carattere sociale della produzione capitalistica, un suo criterio ordinatore (e anzi l’unico storicamente consentito, dal momento che si erano venute a dissolvere le qualità dell’antieconomico consumo comune), che la città non è morta. Essa è rimasta indubbiamente un insediamento sociale: è rimasta, insomma, una reale città, e come tale ha potuto, se non svilupparsi qualitativamente, certo sopravvivere ed estendersi in misura via via più rilevante.

Di fronte alla rottura dell’equilibrio espresso dalla forma classica e medioevale della città, la nascente cultura urbanistica moderna (così come veniva appunto delineandosi, nei suoi interessi pratici e nelle sue motivazioni ideali, agli albori del secolo del trionfo pieno del capitalismo), ha avanzato due posizioni distinte e anzi, in linea di principio, addirittura antitetiche. La prima di tali posizioni è fondata sul convincimento (per adoperare i termini di uno dei più noti studiosi italiani dell’argomento, il Benevolo) “di dover ricominciare da capo, contrapponendo alla città esistente nuove forme di convivenza dettate dalla pura teoria”, ed è sostenuta dai “cosiddetti utopisti - Owen, Saint Simon, Fourier, Cabet, Godin, - che tuttavia non si limitano a descrivere la loro città ideale, come Moro, Campanella e Bacone, ma s’impegnano a metterla in pratica”. La seconda si concreta nel “tentativo di risolvere separatamente i singoli problemi e di rimediare ai singoli inconvenienti, senza tener conto delle loro connessioni e senza una visione unitaria del nuovo organismo cittadino” ; ad essa possono ricondursi “gli specialisti e i funzionari che introducono nella città i nuovi regolamenti igienici e i nuovi impianti e [... ] danno inizio, di fatto, alla moderna legislazione urbanistica”.

Gli utopisti che sono a cavallo tra settecento e ottocento sono certamente - come giustamente sottolinea il Benevolo - per così dire, di un’altra specie, rispetto ai Moro, Campanella, Bacone, ed è questo un punto che non ci sembra debba essere trascurato o sottovalutato, poiché consente di cogliere immediatamente il nucleo fondamentale della concezione comune ai fondatoti del socialismo utopistico. Invero, si può senz’altro affermare che l’interesse critico dei pensatori del Rinascimento è volto essenzialmente all’individuazione di quelli che ormai cominciano a configurarsi come i nodi dello sviluppo della civiltà; appunto per questo motivo, nel loro ragionamento e nella loro ricerca, essi si attengono strettamente al terreno della filosofia - e quindi al terreno sul quale indubbiamente quei nodi sembravano poter esser colti e risolti nella loro più profonda e reale essenza -, mentre le loro “utopie”, le loro avveniristiche descrizioni di una Nuova Atlantide odi una Città del Sole o di una Utopia, servono soprattutto per illustrare e colorire, con la tinta immediatamente polemica della contrapposizione al presente, le convinzioni e le tesi che essi andavano formulando con gli strumenti propri al discorso filosofico. In altri termini, e rovesciando il senso dell’affermazione del Benevolo, ci sembra di poter asserire che i Moro, Campanella, Bacone non si sono mai illusi di poter “mettere in pratica” una loro città ideale, proprio perché intuivano la profondità e l’ampiezza della crisi che cominciava allora a discoprirsi; viceversa, quelli che possono sembrare a taluni i loro più efficienti epigoni, si limitavano a tentar di realizzare, hic et nunc, il loro “modello insediativo”.

È fuor di dubbio, infatti, che a sollecitare e a commuovere gli utopisti, a sospingerli verso l’invenzione e la sperimentazione di nuove forme d’insediamento, erano essenzialmente quelle conseguenze che il tumultuoso avvento della produzione capitalistica aveva comportato per le condizioni di vita degli uomini. Gli utopisti vedevano soprattutto, e quasi esclusivamente, lo sradicamento degli antichi costumi e la mancanza di un nuovo ordine, la scomparsa delle idilliache “condizioni di natura” e la devastazione causata dalla “città industriale”, l’enorme sviluppo della tecnologia produttiva e l’asservimento degli uomini al profitto, l’incremento impetuoso dei beni prodotti e il parallelo immiserimento delle masse lavoratrici. Essi coglievano, insomma, gli aspetti più immediatamente disumani, mortificanti e insopportabili, intrinsecamente legati alla tempestosa avanzata di quel complesso e profondo rivolgimento di tutta la tradizione ideologica e culturale, di tutta la vita sociale, politica ed economica dell’Occidente cristiano, che essi avvertivano pressocché esclusivamente nei termini epidermici e descrittivi della “rivoluzione industriale”. Appunto per questo, se gli utopisti del XIX secolo certamente avvertivano - per quel che più direttamente ci interessa - tutto il disordine, tutta la negatività che il capitalismo aveva comportato sul piano della città, essi non riuscivano tuttavia a vedere, dietro il fumo maleodorante delle Coketowns, sotto l’esplosione urbana delle micidiali concentrazioni dei tuguri e degli “alveari” nei quali trovava ricovero la popolazione operaia, né l’inevitabilità storica del trionfo capitalistico, né la potenzialità positiva implicita, per 1a città, nel carattere sociale del capitale. Essi non comprendevano che l’avvento della produzione capitalistica e della classe borghese aveva costituito l’unica soluzione possibile, nelle condizioni storicamente date, alla crisi del mondo signorile. E per ciò stesso, mentre il carattere astrattamente utopistico della loro costruzione veniva continuamente ribadito e riconfermato, si scopriva via via il limite reazionario della loro posizione.

II numero rigidamente limitato e concluso degli abitanti dei “parallelogrammi” oweniani o dei falansteri minuziosamente descritti da Fourier; il ritorno a forme arcaiche di sfruttamento del suolo agrario e il ripristino di un’economia basata essenzialmente sulla produzione agricola; la Isostanziale autosufficienza delle unità sociali e urbanistiche; e insomma tutte queste ricorrenti caratteristiche delle utopie ottocentesche non sono forse il segno evidente di un rifiuto acritico e immediato di ogni novità implicita nel capitalismo? Non costituiscono esse, cioè, l’indice eloquente di una inarrestabile tendenza a tornare verso il passato, per ritrovare, in un sostanziale ripiegamento verso l’autoconsumo, il paradiso perduto di un ordine organico, di una dimensione limitata e dunque ancora vicina alle condizioni originarie dell’uomo, nel mantenimento di un contatto immediato con la natura elaborata sì e incivilita, ma non artificialmente deformata dal lavoro umano ?

Se lo sguardo è volto all’indietro, se il presente è vissuto come secca e irrimediabile negatività (e come tale è coerentemente rifiutato nella sua interezza), non è certamente consentito di cogliere, nel presente, ciò che in esso si viene manifestando come positiva potenzialità. Gli utopisti non possono dunque certamente individuare, nel carattere sociale della produzione capitalistica, l’oggettivo e progressivo portato dello sviluppo storico, né, tanto meno, essi possono cogliere in un simile carattere la condizione materiale di base che giustifica e legittima la sopravvivenza della città, fornendo un possibile punto d’avvio per ritrovare un ordine autonomo, una configurazione sufficiente, una forma peculiare e giusta.

Sicché, in definitiva, l’utopismo dei primo Ottocento non può risolvere la crisi della città del capitalismo, non può fare i conti con quest’ultima: esso deve proporsi di liquidarla. In effetti, non soltanto “le soluzioni spaziali” che gli utopisti “propongono si collocano fuori dalle città”, non soltanto i loro insediamenti “ammettono un ulteriore sviluppo solo nella ripetizione in estensione dell’organismo elementare”, quantitativamente delimitato e conchiuso ed economicamente autosufficiente, ma essi giungono addirittura, come Filippo Buonarroti, a profetare esplicitamente la scomparsa della città, o, come Fourier, a pianificarne razionalisticamente la fine.

2. La validità di un’intuizione degli utopisti: il consumo comune acquista una dimensione nuova.

L’indubbio interesse che la posizione utopistica ancor oggi riveste non deriva soltanto dalla carica di denuncia e di protesta che è alla sua radice; se così fosse, se l’unico frutto che gli Owen e i Fourier, i Godin e i Saint Simon hanno saputo concretamente dedurre dalla critica alle condizioni della città capitalistica, fosse il frutto disperato della rinuncia al presente, le loro vicende potrebbero essere tranquillamente abbandonate nelle mani degli archivisti, per nutrire le accademiche gioie dei filologi. Sta di fatto che l’interesse dimostrato in questi ultimi anni per la posizione utopistica da alcuni dei più attenti studiosi italiani di problemi urbanistici, non ci sembra affatto casuale e gratuito, né riteniamo privo di significato il fatto che tale interesse è dimostrato soprattutto da quanti, con maggiore impegno, si adoperano nella ricerca di un esatto rapporto tra i problemi urbanistici della nuova città e i suoi necessari contenuti civili. In realtà, negli utopisti v’è indubbiamente l’intuizione di un aspetto centrale e decisivo, che costituisce la base dell’ordinamento formale della città e dunque - come potremo vedere più diffusamente nel seguito della nostra ricerca - il fondamentale punto di partenza per giungere a una città sufficiente.

In quanti si misurarono con le disumane insufficienze e con le contraddizioni mortificanti e oppressive della città della borghesia trionfante, in quanti tentarono di opporre, alla “crisi della città industriale”, quelle “nuove forme di convivenza dettate dalla pura teoria”, è sempre presente un’attenzione minuziosa, una cura amorevole, una instancabile premura per l’organizzazione sociale, comune, collettiva, della soddisfazione dei bisogni degli uomini. Gli edifici e i locali per l’istruzione e l’educazione comune di tutti i bambini e i giovani; i luoghi per lo svolgersi comune delle attività religiose, civili, culturali, ricreative; le cucine pubbliche e i refettori comuni per i membri della collettività: questi sono, nelle proposte e negli schemi, come nei tentativi di realizzazione, i nuclei ordinatori degli insediamenti utopistici.

Non solo: ma la stessa residenza assume, nelle idee, nei programmi e nelle esperienze degli utopisti, un evidente carattere comune. E infatti, anche quando l’esigenza di un concreto ancoraggio nella realtà pone un freno alle sbrigliate avventure della fantasia, e la famiglia è riconosciuta e garantita come un ineliminabile istituto della vita sociale; anche quando, di conseguenza, l’alloggio familiare conserva la sua natura di cellula elementare dell’insediamento, gli alloggi sono strettamente integrati al complesso dei servizi comuni, sono concepiti come cellule private di un insieme comune e costituiscono in definitiva essi medesimi, nel loro complesso, un servizio comune. Nell’insediamento utopistico anche la famiglia, in altri termini, vive e consuma il momento della sua realtà privata nell’ambito e con il sostegno di una comune organizzazione.

Si può affermare dunque che esiste indubbiamente un evidente punto di contatto tra l’impostazione utopistica e quella che aveva presieduto al tradizionale schema urbanistico della città della borghesia nascente: nell’un caso come nell’altro, sono infatti le esigenze e gli interessi della comunità, sono i consumicomuni degli abitanti a costituire il nucleo ordinatore dell’insediamento. Ma ci sembra che nel caso degli utopisti vi sia, rispetto all’impostazione tradizionale, l’iniziale ma esplicito manifestarsi di una svolta, di una positiva e feconda novità.

Come abbiamo visto, nella prima fase della città, in tanto esisteva e si manifestava una dimensione comunitaria, in quanto venivano concretamente vissuti e fruiti come consumo comune quei valori d’uso, quelle qualità che, già presenti nel mondo signorile, avevano potuto sussistere (in quest’ultimo) solo entro la sfera meta-economica della libera attività del signore e che, nella città della borghesia nascente, mentre restavano ancora sostanzialmente estranei alla dimensione dell’economia, potevano essere assunti e avvertiti soltanto come una spesa. Appunto per questo, quando abbiamo dovuto definire quei valori e li abbiamo definiti consumi comuni, abbiamo dovuto sottolineare però che solo allusivamente e impropriamente potevamo adoperare il termine “consumo”, e difatti gli conferivamo un significato che costituisce certamente un’estrapolazione del senso che esso ha finora avuto nello stretto contesto del discorso economico (al quale la categoria del consumo legittimamente appartiene).

In modo radicalmente diverso si manifestavano invece le esigenze e gli interessi della comunità nel quadro della concezione utopistica. La caratteristica fondamentale dell’impostazione degli utopisti consiste nel fatto che le esigenze e gli interessi classici della comunità investono ormai, decisivamente ed essenzialmente, la sfera dei consumi: di quei consumi, cioè, che sono realmente e propriamente tali nell’ambito del discorso economico così come si è storicamente determinato. E in realtà, sono la residenza, l’alimentazione, l’educazione (da un lato, quindi, due decisivi aspetti della sussistenza, e dall’altro l’aspetto della formazione delle capacità professionali dei produttori) a divenire la materia e la base della vita comunitaria: sono gli stessi valori d’uso di cui si sostanzia il consumo produttivo che vengono ormai, nell’insediamento proposto dagli utopisti, vissuti e fruiti in modo comune.

Da una simile svolta discendono allora due conseguenze di singolare importanza, attraverso le quali la posizione utopistica definisce e conclude il proprio discorso. Da un lato, la comunità è divenuta arbitra del proprio consumo di sussistenza e di riproduzione. Essa lo ha sottratto cioè alla legge esclusiva, al dominio del processo accumulativo, e può estenderlo, allargarlo a proprio piacimento, o meglio in tutta quella misura che sia consentita dall’esigenza di mantenere la possibilità di un “impiego vantaggioso per tutti i lavoratori, in un sistema che consenta di continuare il progresso meccanico in modo illimitato”. E naturalmente viene a cadere ogni distinzione, o almeno ogni separazione e contrapposizione, tra consumo produttivo e improduttivo.

Dall’altro lato, continua certamente a sussistere, anche nella città, anche nei chiusi modelli societari degli utopisti, l’esigenza di vivere e di assumere quei valori d’uso, propriamente e massimamente umani, di cui, come si è visto, già si alimentava la libera e meta-economica attività del signore; ma siffatti valori d’uso, adesso, possono essere regolati e commisurati dalla comunità in stretta proporzione alle proprie possibilità produttive, alle proprie risorse, possono essere riportati insomma, nel modo più rigoroso e diretto, alle leggi del lavoro. E la spesa per tali consumi, se rimane pur sempre una spesa, viene però stabilita, determinata e ripartita; da tutti, su tutti, e nell’interesse di tutti. Cade così evidentemente, nella “nuova armonia” dell’insediamento utopistico, ogni prevaricazione borghese della produzione, come ogni prevaricazione signorile della libertà dell’uomo sul lavoro.

Si può senz’altro affermare, pertanto, che la “città ideale” si risolve, in definitiva, nel grande tentativo di colmare quella frattura fra i valori, il momento della comunità e la sfera dell’economia, che era stata la causa della crisi dell’autonomo ordinamento formale delle città. Solo che la nostra esposizione peccherebbe di unilateralità e potrebbe facilmente essere accusata di acritica benevolenza nei confronti degli uomini dell’utopia, se trascurassimo di precisare e di porre in evidenza i limiti che condizionano tutto l’insieme della loro posizione, e quindi anche il loro tentativo d’inquadrare l’intera sfera economica, e particolarmente la dimensione del consumo, sotto il segno comunitario.

3. Le ragioni del fallimento storico degli utopisti

I filologi e gli studiosi, siano essi critici demolitori e avversari, o sostenitori ammirati della tesi e delle esperienze utopistiche, paiono tutti concordare su un punto. Quale che sia il “valore permanente di stimolo” del loro impulso rinnovatore, quale che sia la carica di “generosità e di simpatia umana” che sprigiona dalle loro città ideali, quale che sia l’intrinseca validità del “gran serbatoio di idee” II che essi hanno raccolto, certo è che gli Owen, i Fourier, i Godin, sono stati impietosamente consegnati, dalla storia, nel ghetto dell’utopia. Invero, è assai facile e immediato osservare che le loro intuizioni non si sono mai organizzate in una visione complessiva e realistica del mondo cui pur dovevano applicarsi, cioè non sono mai state sorrette da un disegno di trasformazione della società e della città storicamente date. Basta infatti limitarsi a descrivere la posizione degli utopisti, per rendersi conto che essi non hanno saputo mai cogliere pienamente, nel sistema e nella città, i nodi decisivi da sciogliere, i fulcri su cui far leva per modificare l’assetto dell’uno e dell’altra. La nuda cronaca dei fatti, in altri termini, è già sufficiente a mostrare come le indubbie anticipazioni che punteggiano la loro storia siano rimaste congelate nello schematismo minuzioso, e in definitiva un po’ folle, dei “modelli” elementari, delle astratte “città ideali”, o, al più, siano rimaste immiserite nel ritaglio solo fittiziamente concreto di sporadici insediamenti, irripetibili e chiusi in sé medesimi, e per ciò effimeri e caduchi.

Ma tutto ciò ammesso e registrato, resta ancora da domandarsi - se veramente ci si vuol dar ragione dei limiti della posizione utopistica - perché essi possano essere descritti in un modo siffatto, perché essi abbiano dunque subito il destino dell’utopia.

Per conto nostro, possiamo adesso cercare di fornire una risposta, che ci sembra esauriente, a un simile interrogativo. Dal momento che non vedevano la inevitabilità storica del capitalismo, gli utopisti non solo non scorgevano, entro quest’ultimo, la peculiare potenzialità positiva rappresentata, per la città, dal carattere sociale della produzione, ma divenivano poi del tutto incapaci di comprendere realmente il capitalismo e di analizzarlo nella sua vera e profonda natura, e quindi, per ciò stesso, di criticarlo in modo sufficiente; di conseguenza, data la presenza massiccia e l’inevitabile affermazione del sistema capitalistico-borghese, essi non potevano far altro che patirlo, accettandolo nella sostanza e, al tempo stesso, ribellandovisi moralisticamente e astrattamente. È allora proprio per questi aspetti più intrinsecamente negativi, ma decisivi e determinanti, della loro posizione, che gli utopisti dovevano rivelare la loro incapacità di sviluppare pienamente e di rendere effettuali le loro stesse intuizioni più valide. Il loro limite e il loro errore sono immediatamente individuabili, a ben vedere, in quel medesimo processo logico attraverso il quale essi giungono alle positive e feconde intuizioni che abbiamo più sopra sottolineato.

Si rifletta, ad esempio, sul modo e sui motivi per i quali un Owen perveniva ad affermare la necessità di ordinare l’insediamento nella maniera che si è descritta, superando cioè la cesura tra il momento comunitario e la dimensione economica. Il suo punto di partenza non è costituito dal tentativo di uscire, in modo criticamente adeguato, dall’esclusivismo produttivo del sistema capitalistico; egli non vede che, per superare ‘le contraddizioni alle quali pur si ribellava, occorreva criticare alle radici il concetto di produzione, di economia, di lavoro, che è alla base di quel sistema e della stessa ideologia borghese. Egli è invece preoccupato, sconcertato e indignato, dalle mere conseguenze del vizio intrinseco (che a lui rimane ignoto) del capitalismo, e si propone perciò essenzialmente di costruire un sistema nel quale, pur rimanendo inalterate le condizioni di base esistenti, vengano però superate e risolte, o meglio eliminate, tutte le loro più urtanti manifestazioni. Così, nel concreto, ciò che soprattutto lo sollecita è la considerazione che “la causa immediata della disoccupazione attuale va [...] cercata in un eccesso di produzione di ricchezze d’ogni genere, che tutti i mercati del mondo non bastano ad assorbire”. E poiché per lui è obiettivo essenziale - e anzi, come già si è detto, norma di base della società – “trovare un impiego vantaggioso per tutti i lavoratori, in un sistema che consenta di continuare il progresso meccanico in modo illimitato”, poiché insomma tra i suoi scopi sta quello di evitare le “crisi di sottoconsumo” cui il sistema sembrava inevitabilmente condannato, non vede altra uscita se non quella di creare “un mercato interno all’apparato produttivo, aumentando la retribuzione dei lavoratori per renderli consumatori dei beni prodotti, e non solo strumenti della produzione”.

Owen, in definitiva, se è sospinto a dedicare la sua cura e la sua attenzione al consumo dei produttori, a estenderlo e a organizzarlo quindi con maggiore ampiezza e secondo una “più umana giustizia”, e se in questo suo tentativo giunge poi ad intuire delle novità di notevole rilevanza, è mosso però sostanzialmente dall’esigenza di dar fiato al sistema produttivo esistente, al quale non contrappone nessuna reale alternativa.

È interessante osservare, a questo proposito, il singolare parallelismo tra la sua posizione e quella di T. R. Malthus. Come quest’ultimo, Owen configura il destino del capitalismo in termini di “crisi di sottoconsumo”, e come Malthus, egli non vede altra soluzione se non quella di allargare la domanda dei consumi, lasciando immutata la struttura produttiva. Certo, a differenza di Malthus, egli non vede la soluzione nella tesi, oltretutto politicamente reazionaria, della indispensabilità di una “classe improduttiva”, la cui funzione consisteva appunto - per l’autore del Saggio sulla popolazione - nel consumare senza produrre per garantire uno sbocco sufficiente all’eccedenza produttiva. Egli, anzi, rovescia decisamente la tesi malthusiana, nel senso che, precorrendo in certo qual modo le moderne posizioni dell’”economia del benessere”, sostiene la tesi (socialmente, politicamente ed economicamente opposta) dell’incremento dei consumi dei produttori. Ed è proprio attraverso il rovesciamento della posizione malthusiana che Owen giunge poi alla conclusione della quale abbiamo più volte sottolineato la positività: a riconoscere cioè, come decisivo per l’insediamento umano, il superamento della cesura tra il momento comunitario e la dimensione economica. Ma in ogni caso resta pur sempre il fatto che il suo limite, mutatis mutandis, è il medesimo di Malthus: è il limite, cioè, peculiare a tutti coloro i quali si propongono di sottrarre il sistema alle sue contraddizioni, senza criticarne le radici, e anzi implicitamente accettandole.

4. Dissoluzione della posizione utopistica

Il limite di principio della posizione utopistica spiega le ragioni per cui l’utopismo ha perduto, nel corso del processo storico, la sua stessa autonomia ideale; le ragioni, cioè, per cui si può affermare che non esiste più una posizione culturale che si riallacci direttamente e immediatamente alle tesi, alle concezioni, agli ideali dell’utopismo. In realtà, nel concreto della storia, a mano a mano che il capitalismo si è venuto ad affermare in modo sempre più palese e massiccio, irreversibile e irrefrenabile, a mano a mano che si è venuta a rivelare inconfutabile l’inevitabilità storica del trionfo capitalistico borghese, la posizione utopistica si è parallelamente avviata verso la propria dissoluzione, lungo due strade diverse, e anzi opposte e divergenti.

Da un lato, infatti, nella misura in cui ha voluto conservare la carica di ribellione radicale ai necessari modi di sviluppo del sistema; nella misura in cui, in nome dell’antica protesta contro le negatività del capitalismo, ha continuato a volersi opporre a quest’ultimo, la posizione utopistica si è venuta sempre di più a scontrare frontalmente con la dura lex sed lex dell’affermazione capitalistico-borghese. Troppe disillusioni, troppi fallimenti, troppi tentativi vanifìcati dalla dura realtà delle cose si dovevano ormai segnare sul bilancio dell’esperienza - e di una esperienza circoscritta oltretutto nel breve cerchio di poche decine di “colonie” -, perché si potesse ancora rimanere ciechi al cospetto dell’evidenza: il mondo, il potere, l’economia, gli uomini medesimi, tutto era nelle mani del “sistema industriale”. Diveniva allora naturale - per quanti almeno, nell’ambito della posizione utopistica, non volevano dimettere l’abito della protesta e della ribellione - cercar la rivalsa nella profezia apocalittica di una crisi catastrofica alla quale il sistema avrebbe dovuto giungere, in una prospettiva ravvicinata, per virtù delle proprie leggi di sviluppo, e alla quale restavano affidate in definitiva tutte le carte e le possibilità di una liberazione della città e dell’uomo dai “mali della rivoluzione industriale”.

Ma in tal modo la posizione utopistica finiva per perdere ogni sua autonomia. Essa difatti, poiché a suo modo ammetteva ormai la fine del sistema, veniva necessariamente a confluire in quella posizione - la proletaria e marxista - nella quale la critica al sistema capitalistico aveva indubbiamente raggiunto una coerenza ed una robustezza che la rendeva di gran lunga superiore a quella che poteva venir formulata dall’utopismo. E allora, inevitabilmente, o l’utopismo era riassorbito dal marxismo e in esso si annullava, o, seppure voleva nutrirsi ad altri ideali, riferirsi ad altri principi, interpretare altre esigenze e altri interessi, finiva comunque per subire l’egemonia della posizione proletaria.

Se viceversa, dall’altro lato, si abbandonava l’empito della carica ribellistica per cercar di sottrarre, hic et nunc, la maggior parte possibile degli abitanti della città capitalistica almeno ad alcune delle più insopportabili conseguenze delle “disfunzioni” del sistema; se insomma ci si voleva mantener fedeli al vecchio imperativo utopistico dell’impegno immediato, e ci si proponeva quindi di cercar di garantire una qualche soddisfazione alle esigenze comuni dei cittadini, non si poteva tuttavia, anche in questo caso, far a meno di riconoscere quell’inevitabilità dell’affermazione capitalistica, che si era ormai rivelata nei fatti. Ma si doveva allora, necessariamente, rinunciare alla lotta contro l’insieme delle “conseguenze negative del sistema industrialistico” ; si doveva cioè coltivar l’illusione che errori e insufficienze si annidassero soltanto in questo o in quell’altro dei suoi aspetti marginali, suscettibili come tali d’esser corretti senza perciò dover porre il problema, in qualche modo globale, degli “eccessi dell’industrialismo”. Così, nel concreto, si finiva in sostanza per rinchiudersi entro le maglie del sistema, limitandosi alla difesa di quel tanto di consumo comune che era via via consentito dallo sviluppo e dalla logica del capitalismo.

Certo, anche un simile tentativo, oltre a costituire un’evidente abdicazione dalle originarie impostazioni dell’utopismo, sarebbe stato senza dubbio condannato al fallimento, se le leggi del sistema si fossero manifestate nella pienezza del loro rigore; in tal caso, infatti, nessun consumo sarebbe stato consentito se non quello strettamente produttivo e dunque, per sua propria essenza, necessariamente non comunitario. Ma sta di fatto che (come vedremo meglio in seguito) già sul finire del secolo scorso la società capitalistico-borghese si era venuta ad allontanare in modo considerevole dalla rigorosa logica del suo modello. Lo squilibrio di fondo tra potenzialità produttiva e capacità di consumo non era più soltanto un’ipotesi di questo o di quel “teorizzatore”: cominciava ormai a configurarsi come una realtà avvertibile nelle cose, alla quale si doveva tentare di por riparo anche ampliando, su scala di massa, le occasioni di consumo, per garantire in tal modo alla produzione sbocchi più larghi di quelli compatibili con la stretta logica capitalistica.

Ecco dunque perché le rivendicazioni degli epigoni degli utopisti, nella misura in cui venivano depurate dalla loro carica di ribellione al sistema, non solo potevano venir sopportate da quest’ultimo, ma cominciavano a divenire addirittura necessarie alla sua sopravvivenza: anche se, evidentemente, il grado della loro sopportabilità (e della loro utilità) era via via direttamente correlato al grado di maturità raggiunto dal sistema capitalistico.

Possiamo dunque concludere che l’utopismo, nel momento in cui rinuncia alla tensione protestataria per impegnarsi invece esclusivamente nel compito di correggere gradualmente questa o quella deficienza del sistema capitalistico-borghese, non solo si subordina a quest’ultimo, ma finisce poi per servirne il processo evolutivo, accelerandone la maturazione. Ed è allora evidente che, lungo una simile direzione, la posizione utopistica assume tutte le caratteristiche peculiari al riformismo; essa perde perciò ogni speranza di costruire la “città del futuro”, e si riduce a un mero strumento per l’organizzazione, nella città, di maggiori occasioni di consumo.

5. I funzionalisti: il braccio urbanistico”del sistema borghese

Il trionfo storico del capitalismo condanna dunque la posizione utopistica a disperdersi lungo due direzioni antitetiche: a subordinarsi di fatto all’ideologia e alla prassi della rivoluzione proletaria, oppure a stemperarsi nella pratica del riformismo. Dai proudhoniani fino ad Ebenezer Howard e ai più recenti propugnatori dell’ideologia comunitaria, la storia dell’urbanistica è intessuta, nell’ultimo secolo, da mille episodi che testimoniano come la seconda scelta (la riformistica) sia stata quella che più vistosamente si è manifestata e che ha potuto condurre, ma sul solo terreno immediato dell’azione empirica, ai successi più numerosi ed evidenti. In realtà, la scelta riformistica, se portava a smarrire ogni possibilità di misurarsi con le cause effettive della crisi cui si voleva porre riparo, consentiva almeno di conservare un qualche contatto immediato, diretto, quasi fisicamente avvertibile, con le più urgenti e quotidiane esigenze degli uomini. Ma lungo una simile direzione l’utopismo finiva per incontrare - fino a dissolversi praticamente in essa - la seconda delle posizioni cui abbiamo più sopra accennato: quella degli specialisti, dei funzionari, di quanti tentano “di risolvere i singoli problemi [...] senza una visione unitaria del nuovo organismo cittadino”; insomma, la posizione di quelli che sempre più si manifesteranno come i concreti e fattivi operatori urbanistici. È appunto su questa seconda posizione che vogliamo ora brevemente soffermarci.

Quali che fossero le motivazioni ideali dalle quali muovevano, quali che fossero gli impulsi da cui erano sollecitati a intervenire, certo è che gli uomini che si adoperavano nel tentativo di correggere, a una a una, le mille forme in cui si esprimeva e si rispecchiava l’insufficienza della città capitalistica, potevano raggiungere un obiettivo soltanto: l’obiettivo di rendere urbanisticamente più efficiente e razionale l’insediamento umano, di conferirgli insomma una funzionalità. Tuttavia, qual’era la legge, il principio, il criterio fondamentale in funzione del quale si volevano ordinare, razionalmente ed efficientemente, i molteplici momenti e aspetti dell’organismo urbano? Invero, una posizione meramente funzionalistica non ha mai - non può mai avere - in sé medesima la propria ragione; essa è definita, può divenire operante, solo in relazione a un fine che è, per principio, esterno ad essa. In realtà, poiché la posizione di cui ci stiamo ora occupando è appunto caratterizzata non solo dall’assenza di una critica globale del sistema economico-sociale esistente, ma, anzi, dalla convinzione di una sua generale positività, poiché nel quadro di tale posizione si considera addirittura il sistema capitalistico-borghese come l’unico possibile, e poiché infine, proprio per tutto questo, si ritiene che nell’ambito di un siffatto sistema (e sia pure con le necessarie “correzioni”) resti pur sempre possibile sanare singolarmente quei mali che in esso indubbiamente si presentano, ecco che, inevitabilmente, si giunge per ciò stesso ad accettare e ad assumere, come proprio fine, quello peculiare al sistema medesimo.

Si deve allora convenire su di un punto fondamentale. Gli specialisti e i funzionari che si affannano a riportare ordine nei vari settori della città dell’Ottocento, gli uomini che propongono nuove soluzioni .per i servizi tecnici e la viabilità, che iniziano la prassi della regolamentazione edilizia e gettano le basi della moderna legislazione urbanistica - i nuovi tecnici dell’urbanistica - possono senza dubbio raggiungere il risultato di ridurre al massimo le diseconomie e le incongruenze che vengono via via a manifestarsi nella città, per l’assenza di una sua forma autonoma. Essi, cioè, possono certamente rendere la città, in questo o in quell’altro suo aspetto, sempre più rispondente alla funzione che deve assolvere nel quadro del sistema capitalistico, e possono anzi continuamente impedire che l’insediamento urbano precipiti definitivamente nel disordine, per ricondurlo invece, volta per volta, entro quell’ordine, quella razionalità, quell’efficienza, che sono indispensabili al corretto funzionamento di una città a misura del processo produttivo capitalistico. Essi possono operare come strumenti tecnici per il continuo ripristino delle condizioni che fanno della città l’insediamento tendenzialmente omogeneo al rigore della produzione capitalistica: poiché questo, e non altro, è il compito che il sistema ha loro assegnato.

Quella materiale e generica capacità ordinatrice che la produzione capitalistica - come più sopra si è detto - ha potuto rivelare nei confronti della città, e grazie alla quale si è potuto sottrarre quest’ultima alla prospettiva cui era condannata dalla perdita della propria forma autonoma, ha avuto insomma nei funzionalisti i suoi più organici intrepreti. Ma è allora chiaro che costoro, mentre si affannano a rincorrere e a risolvere, uno per uno, gli innumerevoli problemi che via via scaturiscono nel processo di crescita dell’organismo urbano e di sviluppo del sistema, non possono però mai raggiungere la soluzione del problema della città. Così, la città che essi costruiscono (o, più esattamente, la città che essi volta per volta aggiustano e adeguano, con successivi ritagli e ricuciture) è una città sempre più appiattita sul momento produttivo; e anzi, a mano a mano che essi riescono a ricondurre entro l’ordine funzionale del sistema, singole parti e zone e settori della città, questa viene per ciò stesso ribadita nella sua condizione alienata: poiché l’ordine entro cui viene regolata, la forma che le viene impressa, non costituiscono l’espressione autonoma delle sue proprie leggi, ma sono direttamente dettati e imposti dalle leggi della produzione.

6. Impotenza del funzionalismo

Prima di concludere il discorso sulla posizione funzionalista, è necessario però rispondere ancora a un interrogativo. Se tale posizione ha effettivamente costituito l’espressione piena e coerente del sistema capitalistico, se il sistema ha dunque riconosciuto negli uomini del funzionamento (esplicitamente o di fatto) il suo organico e conseguente braccio urbanistico, ciò significa, forse, che nella città del capitalismo trionfante (o in quella del capitalismo già maturo e prossimo all’opulenza) è possibile raggiungere quella pienezza di rigore, d’ordine, d’efficienza, che sembrerebbe dovere costituire per principio l’obiettivo del funzionalismo medesimo? E se a una simile domanda si deve poi dare una risposta negativa, qual’è dunque la ragione di ciò, qual’è insomma il motivo per cui il funzionalismo non riesce a dominare e a regolare interamente la città capitalistica?

La realtà concreta dei fatti già fornisce, nella sua immediatezza, una risposta univoca alla prima delle questioni che abbiamo ora formulato; poiché i fatti, fuor d’ogni dubbio, sono quelli di una borghesia che, quand’anche riesce a determinare in alcune città (e il caso più tipico ed esemplare è la Parigi di Haussmann) una “struttura a grandi maglie”, che rivela caratteristiche di funzionalità e d’efficienza, risolve poi l’insieme del tessuto urbano “a brani” a pezzi, con una serie d’interventi dispersi, la cui sostanziale casualità manifesta proprio l’incapacità di raggiungere compiutamente e in modo generalizzato -persino in quelle città nelle quali il funzionalismo ha concentrato i suoi sforzi - l’ordine e l’efficienza peculiari alle leggi della produzione.

Ma le cose, la nuda realtà dei fatti, se possono mostrarci quel ch’è stato e quel che non è stato, se possono insomma farci vedere e quasi toccar con mano la limitata incidenza che storicamente ha avuto, sulla città capitalistico..borghese, la posizione funzionalista, e se possono dunque fornire una sufficiente risposta al nostro primo interrogativo, non sono poi ovviamente capaci di far comprendere le ragioni per cui ciò è dovuto accadere.

Per cercar d’individuare tali ragioni, osserveremo in primo luogo che nessun sistema economico-sociale, sino a oggi, si è mai storicamente realizzato nella sua rigorosa pienezza. In particolare poi, come abbiamo già marginalmente rilevato, la classe borghese non avrebbe mai potuto pervenire a confermare a sua immagine e somiglianza l’intera società; e di fatto, nel concreto storico, ha potuto affermare la propria egemonia solo pagando il prezzo di sostanziali compromessi con le realtà politiche, economiche e sociali a essa preesistenti o a essa estranee: in definitiva, le è stato evidentemente impossibile estendere all’intero edificio sociale le rigorose leggi della produzione capitalistica.

Le conseguenze di questa vera e propria incapacità della borghesia sono, nell’insediamento umano, abbastanza palesi, e consentono di vedere con sufficiente chiarezza come l’opera dei funzionalisti, appunto per quel motivo, fosse condannata a rimaner circoscritta entro l’ambito di quelle porzioni del tessuto sociale e territoriale nelle quali la rivoluzione borghese aveva potuto agire più a fondo e più dispiegatamente. Così, mentre (a causa del permanere dei modi di produzione precapitalistici nella quasi totalità del settore agrario) l’antico equilibrio tra borgo e contado si arrovesciava nella contraddizione tra città e campagna, e impediva dunque che tutta la residenza dell’uomo divenisse città; mentre i numerosi insediamenti urbani nei quali la produzione industriale conseguiva uno sviluppo limitato, o addirittura nullo, restavano congelati nelle forme che avevano assunto durante l’età medievale; mentre infine il compromesso tra profitto e rendita cominciava a porre delle pesanti remore alla funzionalità delle sistemazioni urbanistiche negli stessi centri in rapida espansione, accadeva, in definitiva, che fossero quasi esclusivamente le maggiori città - e spesso solo le capitali - a permettere e a utilizzare l’opera dei tecnici funzionalisti.

In secondo luogo, in quelle stesse città alle quali la borghesia riesce a imprimere più efficacemente il suo volto (e ciò accade negli Stati e nelle regioni e nei centri in cui la classe capitalistica giunge ad affermare in modo più dispiegato le leggi della “produzione sociale”), l’insediamento non è reso ugualmente funzionale per tutti i produttori, e dunque in tutte le sue parti. I produttori, infatti, sono divisi e contrapposti in proletari e proprietari; e poiché solo questi ultimi possono liberamente garantirsi dei liberi consumi, la città del capitalismo deve necessariamente ordinarsi, in modo tendenzialmente esclusivo, al servizio dei consumi dei borghesi, dei proprietari, dei non controllati e non controllabili funzionari dell’accumulazione: al servizio, dunque, di una soltanto delle due classi, quella dominante anche se numericamente più esigua.

Ecco dunque perché, come si rileva in numerosi esempi, mentre il rapporto tra i quartieri borghesi e le zone della produzione e dello scambio diventa il fulcro funzionale della città capitalistica, i quartieri della residenza operaia (negli antichi rioni dei “centri storici” o nelle caotiche espansioni periferiche) vengono abbandonati a se stessi; ecco perché nasce l’idea - e si afferma la prassi - di una “città centrata attorno a taluni percorsi (assi stradali, linee di traffico e d’affari), che condizionano l’intelaiatura dell’intera struttura urbana, lasciando ampie zone grigie”, per cui si può addirittura sostenere che “la città borghese è (si realizza e si esprime) nella continuità stradale, come elemento funzionale e rappresentativo e come garanzia per ignorare le zone subalterne”; ed ecco, infine, perché quei “percorsi divengono uguali - cioè a scacchiera - solo dove l’intervento edilizio è in gran parte o del tutto destinato alla residenza borghese”.

Nel quadro capitalistico-borghese la posizione che abbiamo definito funzionalista incontra dunque un costante ostacolo alla propria pretesa di una piena esplicazione. La sua storia, se da un lato, e nel migliore dei casi, è la storia delle soluzioni meramente tecniche (e perciò sempre parziali, sempre insufficienti, sempre inadeguate a risolvere i reali problemi dell’organismo urbano), non è poi, dall’altro lato, che la storia dei continui tentativi di recuperare le “zone grigie”, di imprimere a posteriori un ordine e una regolarità seccamente funzionali a quelle porzioni del tessuto urbano che volta a volta, nel corso del continuo processo d’espansione e d’intensificazione produttiva della vita sociale che si svolge nella città, divengono essenziali per il corretto funzionamento della “macchina urbana”; ed è dunque, al tempo medesimo, la storia impietosa e funesta delle demolizioni, degli sventramenti, della liquidazione insomma delle vestigia del passato.

7. Il marxismo: una soluzione rigorosamente capitalistica

Come la posizione utopistica, così anche quella funzionalista non ha quindi potuto fornire una risposta sufficiente ai problemi che si sono manifestati nella città del capitalismo trionfante; e la città, difatti, si è sviluppata, nel corso del XIX secolo, nel modo che tutti conosciamo, e che ha condotto al generale riconoscimento di una sua crisi. Ma la nostra analisi della città capitalistica, e dei tentativi che sono stati intrapresi per riempire le sue insufficienze e per dominare il suo sviluppo, non potrebbe certo considerarsi compiuta - neppure nei limiti di una ricerca, per così dire, “a grandi linee”, qual’è la nostra -, e sarebbe anzi gravemente manchevole, se trascurassimo di soffermarci, sia pure brevemente, intorno a una terza posizione, che è venuta emergendo nella seconda metà del secolo scorso sulla base della robusta critica di Carlo Marx: la posizione, appunto, d’ispirazione proletaria e marxista.

All’interno della posizione d’origine marxista ci sembra che si possano individuare due tematiche chiaramente distinguibili. La prima, alla quale abbiamo già accennato a proposito dell’utopismo, concerne le prospettive che dovrebbero dischiudersi alla città -o più esattamente all’insediamento umano - nel “libero futuro” della società comunista; sono dunque, essenzialmente, le prospettive dell’eliminazione dell’antitesi tra città e campagna, e della parallela dissoluzione della città come forma dell’insediamento umano, che trovano in Engels il loro profeta, pur smaliziato e prudente. Ma la tematica che qui più direttamente ci interessa (poiché è l’unica che ha, sul piano della teoria, un senso e un significato reali nei confronti della città capitalistica, e che perciò ha potuto avere, in pratica, un’incidenza concretamente rilevabile), è la tematica più immediatamente radicata alla lotta per l’affermazione, in termini di potere, del proletariato.

Dobbiamo dunque cercar di vedere e di comprendere, in sostanza, quale configurazione assuma per la posizione marxista il problema della città, in quella fase di “passaggio dal capitalismo al comunismo [che] abbraccia un’intiera epoca storica”. Inquali termini, secondo quali criteri viene affrontato questo problema, nel quadro e nel corso del processo rivoluzionario che deve condurre la classe operaia dalla presa di coscienza del proprio ruolo storico, e attraverso la lotta contro il dominio capitalistico-borghese, alla definitiva rottura di quest’ultimo? Come il marxismo ha inteso fare i conti con la questione urbanistica, in attesa del giorno in cui, grazie al definitivo “affrancamento della classe oppressa”, fosse divenuta possibile “la creazione di una società nuova”, della “società comunista”, e dunque la fondazione di un insediamento anch’esso radicalmente nuovo e diverso da quanti altri mai si sono succeduti lungo il cammino della storia?

È ben noto quale sia, per il marxismo, la forma che caratterizza l’assetto sociale e politico, nel passaggio dalla fase capitalistica a quella della comunistica “società senza classi”: è la forma della dittatura rivoluzionaria del proletariato. Per comprendere la soluzione che il marxismo fornisce, sul terreno concreto della storia, al problema della città, bisogna dunque vedere, in primo luogo, come si configuri la società governata dalla dittatura proletaria: quella società “appena uscita dal seno del capitalismo, e che porta ancora sotto ogni rapporto le impronte della vecchia società, che Marx chiama ‘la prima fase’, la fase inferiore della società comunista”, o, come verrà generalmente definita soprattutto nel periodo staliniano, la società socialista.

Nella società socialista, innanzitutto, è cessato il dominio politico della classe dei proprietari di capitale, che è stato appunto sostituito dalla dittatura del proletariato; la proprietà dei mezzi di produzione è divenuta pubblica, e quindi omogenea al carattere sociale del capitale; il processo produttivo, infine, è direttamente gestito in funzione e al servizio degli interessi della classe proletaria: di quella classe, cioè, dalle cui mani scaturisce tutto il sovrappiù - il plusvalore - realizzato nel corso del processo produttivo medesimo.

Ma la “prima fase”, la “fase inferiore” della società comunista, la fase contrassegnata dalla legge politica e sociale della dittatura proletaria, è appunto, nella concezione marxiana, una “fase”, una tappa, un periodo transitorio, caratterizzato dal fatto che lungo il suo corso si devono preparare le condizioni materiali e politiche che consentano il salto “dal regno della necessità al regno della libertà”; che consentano, cioè, di raggiungere la “fase più elevata della società comunista”. “Dopo che con lo sviluppo generale degli individui [saranno] cresciute anche le forze produttive, e tutte le sorgenti della ricchezza sociale [ scorreranno] in tutta la loro pienezza”, quella società potrà “scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni”.

Appunto per questo (così almeno sostiene Lenin, portando a logica coerenza il testo marxiano che abbiamo ora citato), durante la fase socialista, il processo produttivo - e l’intera economia - dev’essere ferreamente indirizzato alla massima intensificazione dell’accumulazione; tutto dev’essere ordinato, cioè, all’allargamento delle basi della produzione, alla crescita del capitale, in modo che venga raggiunta, al più presto, quella generalizzata capacità di produrre con abbondanza tutti i beni necessari a garantire la libertà dell’uomo dal lavoro, che costituirà il segno visibile - ed è insieme la condizione necessaria - del passaggio alla comunistica “pienezza dei tempi”. Ma bisogna allora che, nel concreto, venga negata e respinta la tesi secondo la quale “l’operaio riceve in regime socialista il ‘frutto non ridotto’ o il ‘frutto integrale del proprio lavoro’”; bisogna che sia invece affermata e propugnata la inderogabile necessità di detrarre, dal prodotto del lavoro sociale, la quota indispensabile alla continua estensione e alla crescita impetuosa delle forze produttive.

È allora evidente perché, nel corso di tutto il periodo della dittatura proletaria, “i socialisti [ reclameranno] dalla società e dallo Stato il più rigoroso controllo della misura del lavoro e della misura del consumo”; è solo tirando la cinghia, è solo conformando l’intera società come “un grande edificio o una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”, è solo insomma estendendo a tutto l’edificio sociale la proletaria “disciplina da ‘officina’”, e imprimendo dunque ad ogni momento della vita civile e sociale la rigorosa legge economica del consumo produttivo, che si potranno allargare rapidamente le basi del processo di produzione, accelerare i tempi della “fase transitoria” e toccar finalmente con mano il libero destino della società senza classi.

8. Una città a misura del proletario

Diviene chiaro, a questo punto, come debba configurarsi, nella posizione marxista, il problema della città nella fase storica del socialismo. La città, in tale fase, è una città proletaria: una città sottratta all’arbitrio della libera volontà dei borghesi; una città egualitaria che esprime e garantisce le esigenze di tutti i produttori, ed è organizzata in funzione degli interessi di quei proletari che costituiscono “l’enorme maggioranza della popolazione”. Essa è dunque in tal senso (e propriamente) una città democratica.

Ma poiché, d’altra parte, il proletario, oltre a essere evidentemente - nella sua espressione politica - l’egemone di quella faticosa costruzione della società comunista cui si è sopra accennato, costituisce poi soprattutto - nella sua immediata realtà economica - la figura sociale da cui dipende l’accumulazione e che è definita e definibile solo in funzione della propria attività produttiva; e poiché quindi il suo massimo interesse politico e di classe sta nell’efficienza e nell’intensificazione del processo accumulativo (nel quale esso vede, al tempo medesimo, la condizione di base per il raggiungimento della piena “libertà comunista” e, nell’immediato, la garanzia della propria sussistenza e della propria attività), ecco che la città proletaria si configura altresì, e decisivamente, come quell’insediamento che, più d’ogni altro, dev’esser funzionale alla produzione.

Il proletario, però, non soltanto deve (per i suoi interessi politici ed economici) costruire una città funzionale alla produzione; esso può anche costruirla. E invero, dal momento che la dittatura proletaria consente di portare fino in fondo l’incompiuta rivoluzione borghese, sbarazzando così il terreno da ogni residuo pre-moderno, da ogni posizione di rendita, da ogni sopravvivenza - ormai anche storicamente del tutto arbitraria - di remore signorili che intralcino la funzionalità della produzione sociale, ecco che nella società socialista si può compiere quella operazione cui la borghesia aveva potuto soltanto dar inizio (avviluppata com’era nei compromessi, politicamente indispensabili, con le realtà sociali ed economiche ad essa preesistenti), ed ecco che nella città proletaria si può raggiungere quell’obiettivo, che i funzionalisti d’osservanza borghese avevano rincorso, ma non avevano potuto mai conseguire a causa dell’insufficienza del sistema capitalistico-borghese.

Di fatto (non a caso, ma anzi proprio per tutto quel che finora s’è detto) la posizione urbanistica di radice o d’ispirazione proletaria e marxista può far divenire norma generale quella “facoltà preziosa già concessa alla città” dalla borghesia, e poi non solo limitata, ma sempre contraddetta e negata: la facoltà di disporre liberamente, negli interessi della comunità, del suolo urbano. La città proletaria, infatti, è liberata dalla servitù della rendita fondiaria.

Così, sul suolo finalmente e definitivamente affrancato dall’individualismo proprietario, possono venir progettate e costruite città più razionali ed efficienti, pienamente e rigorosamente funzionali nei riguardi della produzione, e immediatamente ordinate al servizio dei produttori, di tutti i produttori. E poiché sono gli stessi produttori a gestire il proprio consumo, si può cominciare concretamente a organizzare quest’ultimo - ovviamente, entro i limiti rigorosi e invalicabili segnati dalla necessità di estendere al massimo grado socialmente consentito il processo accumulativo - con razionalità.

La città proletaria è dunque, in primo luogo ed essenzialmente, una città di produttori: lo è, anzi, per definizione. Perciò, quando il proletario giunge al potere e costruisce la propria città, costruisce un insediamento “connesso con tutti i suoi fili, con tutta la sua vita materiale, produttiva, spirituale, all’industria socialista”; e sebbene “formalmente le aziende industriali non [ siano] responsabili della situazione e del carattere dei lavori architettonici e urbanistici realizzati nella loro città [...] , in pratica, essendo esse i centri economici fondamentali di quest’ultima, sovente determinano in misura decisiva il processo della formazione della città, la sua compattezza o frammentarietà, l’elevato o deficiente livello dei suoi servizi”.

Quando il proletario gestisce il potere, la forma della città è strettamente determinata dalle leggi della dimensione produttiva; “la logica, conseguente zonizzazione della città socialista è completamente in funzione della produzione industriale, alla cui importanza corrispondono per dimensione e ubicazione le altre zone”. E i medesimi consumi che avvengono nella città e che si concretano nelle “attrezzature collettive”, costituendo i nuclei della struttura e dell’ordine interno delle zone residenziali, vengono ad assumere questa loro forma comunitaria solo perché sono concepiti e rea1izzati essenzialmente come “i mezzi di educazione e di stimolo per realizzare quel collettivismo dell’economia domestica che può rendere atto ai lavori produttivi il 30 per cento in più della popolazione”. In altri termini, la stessa forma comune di consumo, in tanto viene prevista (e avaramente realizzata) in quanto consente di sostituire con forme più efficienti quella “economia domestica” cui è stata tradizionalmente affidata la gestione del consumo, ma che, proprio per la sua peculiare natura, mentre sfugge ad ogni rigorosa valutazione economica, comporta una indebita e inefficiente erogazione di lavoro.

Organizzare e gestire comunemente il consumo dei proletari (dunque il consumo produttivo), determina tuttavia, inevitabilmente, la necessità di riconoscere al consumo - e sia pure in modo soltanto implicito - una sua autonomia, una qualche libera e distinta presenza nella dimensione economica. Ma un consumo cui, di fatto, venga riconosciuta una propria autonomia nella sfera economica, tende poi invisibilmente a crescere, ad espandersi, a rompere e a superare gli argini del consumo strettamente produttivo; ed è per ciò che nella fase del socialismo, della dittatura proletaria, della preminenza esclusiva dell’accumulazione, le attrezzature collettive vengono realizzate, in pratica, con la parsimonia imposta dalla necessità di destinare tutte le risorse agli investimenti, e di concedere quindi il minimo possibile a un consumo che deve rigorosamente rimaner produttivo.

Quel che è certo, comunque, è che nella fase socialista le attrezzature cittadine vengono essenzialmente concepite, sul piano del consumo, come uno strumento per la soddisfazione delle più elementari esigenze della forza-lavoro, dei proletari in quanto tali. Sicché, in definitiva, si deve necessariamente concludere che la città, nell’ambito della posizione proletaria e marxista, se può certamente raggiungere una funzionalità incomparabilmente superiore a quella consentita nel quadro del dominio borghese, non può tuttavia vedere la soluzione del suo peculiare problema. Essa cioè non viene ordinata secondo una sua propria autonoma forma, ma resta - come la città della borghesia trionfante - ordinata alla produzione, e dunque ad altro da sé: resta, insomma, alienata.

9. Verso la città opulenta

Nessuna delle tre posizioni, che si sono concretamente misurate con la città del capitalismo, ha potuto risolvere la crisi del suo autonomo ordinamento formale, e sostituire alle qualità e ai valori d’uso che si erano espressi nella spesa del consumo comune dei cittadini, delle nuove qualità, dei nuovi valori - compiutamente autonomi, eppure radicati nella dimensione economica - che fossero capaci di sostanziare una nuova forma urbana. Però, mentre i primi critici moderni della “società industriale” (gli Owen, i Saint Simon e i loro seguaci ed epigoni) dovevano restar confinati, per la loro incapacità di comprendere realmente il sistema capitalistico-borghese, nel regno astratto dell’utopia; mentre gli operosi specialisti e agguerriti tecnici al servizio della borghesia dovevano limitarsi ad accompagnare lo sviluppo di quest’ultima, scontrandosi contro le sue contraddizioni; mentre infine gli antagonisti e gli “affossatori” del capitalismo borghese appiattivano la città, nel modo più rigoroso, sulla stessa dimensione produttiva capitalistica; mentre insomma, per un verso o per l’altro, la città restava inevitabilmente ridotta ad una mera “sovrastruttura” della produzione, la storia - il processo di sviluppo del sistema sociale proseguiva invece il suo cammino. Il sistema capitalistico - quale sistema rigorosamente finalizzato all’accumulazione del sovrappiù - compiva fino in fondo la sua evoluzione, e riducendo via via, nella caduta delle sue finalità, le proprie leggi a meri meccanismi tecnici, trapassava gradualmente nel sistema dell’opulenza.

Non vogliamo sostenere con questo che gli urbanisti siano pervenuti a una piena consapevolezza della reale consistenza di quel mutamento, della sua esatta natura, del suo peculiare significato storico. Ma se gli urbanisti adoperano il più delle volte - salvo dunque rare eccezioni - quei termini che abbiamo sopra elencato senza criticare in alcun modo la sostanza ch’essi ricoprono (accettandola, anzi, come un indiscutibile dato di fatto, sociologicamente registrato e subito), ci sembra comunque interessante e significativo che, nell’ambito della cultura urbanistica, si cominci a prendere coscienza del fatto che non ha più senso, oggi, parlare della città del presente come della città del capitalismo borghese, e che ci troviamo di fronte a una città ben diversa da quella con la quale si misurarono, nel secolo scorso e nei primi decenni del nostro, gli utopisti, i funzionalisti e i marxisti.

È appunto della città di oggi, della città contemporanea, che dobbiamo ora occuparci. Ma prima di entrare decisamente nel merito, ci converrà descrivere le peculiari caratteristiche dell’assetto economico-sociale nel quale oggi viviamo. Crediamo infatti che sia impossibile affrontare il discorso strettamente urbanistico sulla città, se prima non si è acquistata una sufficiente consapevolezza delle fondamentali connotazioni che caratterizzano l’ordinamento sociale, del quale l’insediamento umano costituisce in ultima analisi - come ha sempre costituito - un decisivo aspetto.

2. Tre modelli economico-sociali entro una determinata concezione del lavoro

Sulla base di quella determinata concezione del lavoro che domina universalmente anche ai nostri giorni, è possibile ipotizzare tre distinti modelli - che si sono effettivamente concretati nella realtà della storia - dell’assetto economico-sociale: il modello signorile, quello capitalistico-borghese e, infine, quello che ormai viene generalmente definito come modello opulento. Ci siamo già occupati, nei capitoli precedenti, dei primi due; ma ci sembra utile richiamarne qui le caratteristiche essenziali e di principio, sia per riepilogare brevemente quel tanto delle considerazioni già svolte che ci serve per procedere nella nostra analisi, sia perché un esame parallelo dei tre modelli può consentirci di comprendere più chiaramente quello sul quale dovremo più a lungo soffermarci per affrontare il tema della città contemporanea: il modello dell’opulenza.

Ma dobbiamo preliminarmente precisare qual’è quella determinata concezione del lavoro che si pone alla radice e alla base dei modelli signorile, capitalistico-borghese e opulento, come dei concreti assetti economico-sociali nei quali essi si sono espressi e manifestati storicamente. Riassumendo le tesi sostenute da Claudio Napoleoni, si può affermare in sostanza che quella concezione rispecchia la riduzione del lavoro, da strumento universale per il conseguimento di fini umani via via d’ordine superiore, a strumento particolare per il raggiungimento di un fine circoscritto e definito, stabilito una volta per tutte: quello del soddisfacimento del bisogno di sussistenza fisica dell’uomo.

Però quanto qui si deve soprattutto sottolineare è che, da quando il lavoro è stato innaturalmente ridotto da strumento universale a strumento particolare - ed è stato in tal modo alienato - l’aumento della sua produttività non ha potuto più tradursi organicamente in un arricchimento dei fini. Esso ha dato luogo invece a una “libera” eccedenza, che perdendo ogni relazione con lo sviluppo e la crescita dell’operazione umana, può subire destinazioni diverse, ma tutte in qualche modo arbitrarie e disumane. È appunto la diversa destinazione di tale eccedenza a costituire l’elemento caratterizzante e distintivo dei tre modelli di cui si diceva.

3. Le due classiche”utilizzazioni del sovrappiù: il modello signorile ...

Decisivo ed essenziale, prima e forse più d’ogni altro, sul piano della storia come su quello dei principi, è il modello signorile. Esso, come abbiamo visto, è caratterizzato dall’operazione sociale ed economica dello sfruttamento, la quale consiste fondamentalmente nel fatto che il lavoro degli uni (i servi)viene violentemente ordinato alla libertà dal lavoro di un altro (il signore). Naturalmente, perché l’operazione dello sfruttamento abbia luogo, è necessario che la produttività del lavoro sia tale da garantire non solo la sussistenza fisica del lavoratore (la ricostituzione e la riproduzione della forza-lavoro), ma la disponibilità di un sovrappiù. È solo nell’atto dello sfruttamento, e attraverso quest’atto, che il sovrappiù - distaccandosi in tal modo dal lavoro e presentandosi per la prima volta nella storia in quanto tale - viene violentemente destinato alla soddisfazione dei bisogni della sussistenza fisica di un altro, che non partecipa al processo produttivo.

Il modello signorile è contrassegnato dal fatto che l’eccedenza che si manifesta alla fine di un ciclo produttivo, grazie all’attività servile dei produttori, è appropriata con violenza da un individuo il quale può, in tal modo, uscire dalla necessità del lavoro e consumare senza produrre. Il genere umano è dunque spaccato per la prima volta in due tronconi; le uniche figure socialmente ed economicamente riconosciute - intorno alle quali pullula la moltitudine indistinta e assolutamente superflua dei poveri - sono costituite dal servo e dal signore. Il primo, ridotto dallo sfruttamento a mero lavoro alienato, diviene lo strumento subalterno della libertà del secondo, mentre quest’ultimo, il signore, poiché è uscito dalla necessità del lavoro, e si è posto anzi come il fine e la ragione del lavoro altrui, è uscito per ciò stesso da qualsiasi legge comune. Tutto l’edificio sociale è pertanto ordinato alla libera attività individualistica del signore; e poiché costui si pone al di sopra e al di fuori della prima e immediata legge comune concretamente operante nell’assetto economico e sociale - quella del lavoro -, il modello signorile è per principio incompatibile con l’organismo comune della città.

Come abbiamo ampiamente dimostrato, se è vero che l’ordinamento signorile dà luogo a un insediamento concentrato, un tale insediamento si configura poi come un mero agglomerato di residenze, servili e cortigiane, nelle quali l’unica legge in qualche modo operante è quella tirannica del soggiogamento alla libera volontà del signore.

4. ... e il modello borghese

Con il modello capitalistico-borghese, la destinazione dell’eccedenza muta radicalmente di segno. Essa non è più sottratta al ciclo produttivo, ma rimane entro quest’ultimo per allargarlo sempre di più; il suo fine cessa di essere costituito dal consumo del signore, e risiede invece nell’indefinita intensificazione dell’accumulazione del sovrappiù. Nella storia, il modello capitalistico-borghese si realizza quando si afferma una nuova classe: la classe dei borghesi, la classe che sorge dagli antichi gestori del sovrappiù signorile e dallo sviluppo di quei patres familias che, usciti dall’autoconsumo, sono rimasti liberi detentori del sovrappiù prodotto dalla propria attività.

La borghesia, però, può affermarsi - e di fatto si afferma nella storia - unicamente interpretando e utilizzando la tensione di rivolta dei servi contro il signore, ed eliminando quest’ultimo in quanto figura economicamente, socialmente e politicamente dominante. Avendo “ucciso il signore”, la rivoluzione borghese esprime soltanto le esigenze e gli interessi delle classi che sono sempre state - i servi - o che sono divenute -i borghesi - le protagoniste dell’attività produttiva; perciò, da una parte, il lavoro viene a porsi come legge universale dell’assetto economico-sociale (la stessa finalizzazione dell’eccedenza all’accumulazione si configura come la garanzia per la sempre più vasta occupazione del lavoro umano), e dall’altra, questo stesso lavoro, questo lavoro affrancato dalla propria subordinazione al consumo e alla libertà signorili e ordinato ormai a sé medesimo, resta pur sempre consegnato entro quella forma nella quale è stato ridotto dallo sfruttamento. Esso resta, insomma, lavoro alienato, lavoro esclusivisticamente concepito e vissuto come strumento per la produzione di una categoria particolare di beni.

Due rilevanti conseguenze comporta allora (come abbiamo già visto) il modello borghese sul terreno dell’insediamento umano. Da un lato, infatti, poiché la legge comune del lavoro è divenuta ormai norma universale della società, poiché il consumo è vigorosamente determinato - per tutti, almeno nel modello - dalla legge della massima intensificazione accumulativa (è stato ridotto a consumo produttivo), poiché infine, sempre nel modello, è stato eliminato lo sfruttamento e tutti sono ormai egualmente alienati, ugualmente servi dell’accumulazione, ecco dunque che la città può trovare una dimensione sociale, comune nella quale sorgere e affermarsi. Ma dall’altro lato poi, dato che la fuoriuscita dall’ordinamento s1gnorile si è realizzata come secca e radicale eliminazione di tutte le qualità, le dimensioni, i valori di cui si nutriva la libera attività individuale del signore, dato che di conseguenza tutto l’assetto sociale e la vita civile sono esclusivisticamente finalizzati all’economia - la quale è ridotta a produzione di sovrappiù da accumulare - ecco che la dimensione produttiva, nell’atto stesso in cui fa sorgere la città, nega contemporaneamente ogni autonomia al suo ordinamento formale e la aliena.

5. La tendenza catastrofica del modello borghese

La descrizione del modello capitalistico-borghese non sarebbe tuttavia completa e esauriente - sia pure nella sua necessaria brevità - se mancassimo di soffermarci su quella che è indubbiamente una sua caratteristica decisiva e di principio. Ci riferiamo a quel tendenziale catastrofismo che è implicito nella struttura medesima del modello capitalistico-borghese, che ha decisivamente condizionato il crollo clamoroso e sanguinoso dell’assetto sociale in cui tale modello si è espresso, e che ci interessa ora particolarmente di sottolineare per un motivo ben preciso: perché è proprio analizzando tale tendenza che si può cogliere più efficacemente la ragione per cui il sistema sociale ha dovuto uscire dal suo assetto capitalistico-borghese e approdare all’opulenza e, insieme, il modo in cui il modello opulento - l’ultimo, dunque, dei modelli ipotizzabili entro quella determinata concezione del lavoro di cui s’è detto -si è venuto a concretare e a manifestare storicamente.

In realtà, il modello capitalistico-borghese, mentre ha il suo essenziale nucleo di principio e il suo peculiare significato storico nell’invenzione e nell’esaltazione del momento accumulativo, incontra poi fatalmente la propria classica contraddizione proprio nell’incapacità di proseguire il processo di accumulazione del capitale: ed è una contraddizione appunto che si manifesta ed agisce nel cuore stesso del modello, nel suo punto decisivo e centrale. Il sistematico sottoconsumo, conseguente al fatto che l’accumulazione è il fine esclusivo e diretto dell’ordinamento capitalistico-borghese; l’individualismo - l’anarchismo - dominante nel meccanismo del mercato, il quale rende praticamente impossibile tener conto di una domanda nella quale la quota per investimenti diviene sempre più decisiva: questi sono i due aspetti, strettamente intrecciati tra loro, nei quali si esprime la contraddizione dell’assetto capitalistico-borghese, già contenuta nel suo modello. Ma converrà ora esaminarli rapidamente nel loro intreccio, poiché è proprio dalla contraddizione che in essi si rivela e dalla carica catastrofica che da essi si sprigiona, che nasce - ove si rimanga, come si è rimasti, entro quella concezione di lavoro di cui s’è detto - la necessità del realizzarsi del modello opulento.

In un ordinamento economico in cui il fine esclusivo e immediato è costituito dall’accumulazione del sovrappiù, il consumo è necessariamente ridotto a consumo produttivo; esso, in altri termini, non può essere visto, non può esser considerato e commisurato, che come consumo strettamente necessario alla ricostituzione e alla riproduzione della forza-lavoro impiegata nel processo produttivo. A mano a mano che l’accumulazione procede e che aumenta la produttività del lavoro, mentre oltretutto diminuisce progressivamente la quantità di forza-lavoro necessaria alla produzione di una determinata quantità di beni, si aggrava sempre più il divario tra merci effettivamente consumabili e merci prodotte. E poiché d’altra parte il processo accumulativo, per potersi concretamente svolgere, ha bisogno che al suo termine vi sia una sufficiente domanda, ecco dunque che si profila il primo dei due aspetti contraddittori di cui sopra si diceva; ecco che si manifesta nell’ordinamento capitalistico-borghese, a contrastare la possibilità di una domanda adeguata, una strutturale insufficienza del consumo: la minaccia della crisi di sottoconsumo.

Potrebbe a prima vista sembrare che, anche rimanendo entro un quadro strettamente capitalistico-borghese, sia tuttavia possibile sfuggire a una simile crisi. E in effetti, a quanto abbiamo fin qui sostenuto si potrebbe obiettare che quel che conta perché l’accumulazione possa proseguire, è che vi sia al suo termine una adeguata domanda globale, sicché, in definitiva, seppure la domanda per consumi decresce in senso relativo, basta - perché l’accumulazione possa svilupparsi - che aumenti in proporzione la domanda per investimenti. poiché quest’ultima condizione è certamente soddisfatta in un sistema caratterizzato, come quello borghese, dal fine dell’espansione accumulativa, non avrebbe senso parlare, entro un tale sistema, di crisi di sottoconsumo.

A questo punto, contro una siffatta obiezione, si inserisce tuttavia il secondo aspetto della contraddizione insita nel modello capitalistico-borghese. Invero l’unico strumento, pienamente compatibile con quel modello, mediante il quale è possibile misurare l’entità della domanda (e dunque tenerne concretamente conto), è il mercato concorrenziale. Ma quest’ultimo, per definizione, è caratterizzato dall’individualismo, e per ciò stesso, se è in grado di registrare la domanda di beni di consumo, è del tutto inefficiente - com’è d’altronde ormai largamente dimostrato - per valutare la domanda di beni d’investimento, la quale richiede capacità di previsione e d’attesa ben diverse da quelle di cui possono essere dotati i singoli e individuali imprenditori che compongono il mercato, e che per di più sono mossi essenzialmente e principalmente dalla prospettiva di un profitto immediato e diretto.

Da tutto questo consegue che, se il processo accumulativo rimanesse ancora intieramente gestito - a un certo stadio del suo sviluppo - dalla classe borghese, esso perderebbe catastroficamente ogni possibilità di proseguire. La contraddizione, di cui abbiamo ora descritto ambedue i termini, mina alle sue stesse radici, nella sua basilare funzione economica e sociale, la figura medesima del borghese. Costui infatti, da un lato, se vuole poter proseguire - in quanto membro della classe dei gestori del capitale - il processo accumulativo, deve consentire e anzi sollecitare e promuovere l’allargamento del consumo; e dall’altro lato però, poiché - in quanto individuale e privato proprietario del capitale - non può nemmeno concepire una riduzione del proprio profitto e una distrazione di risorse dal fine esclusivo e immediato cui è ordinata tutta la sua attività, un simile allargamento gli ripugna in modo invincibile.

6. Sconfitta del dominio borghese su scala mondiale

Eludere la minaccia della crisi di sottoconsumo, evitare il tendenziale catastrofismo dell’ordinamento capitalistico-borghese, è dunque possibile solo a condizione di uscire dalla rigorosa logica del modello. Difatti, quando Malthus, svelando per la prima volta l’intima, insanabile contraddizione già in atto nel capitalismo dei suoi anni, proponeva alla classe borghese di utilizzare, per sopravvivere, il sostegno fornito dal consumo improduttivo dei ceti parassitari, egli - con malizioso e lucido pessimismo - altro non faceva, in ultima analisi, che ammonire sull’illusorietà delle loro speranze e sulla vanità dei loro tentativi quanti ritenevano possibile proseguire ad infinitum lo sviluppo di un capitalismo borghese ferreamente fedele al proprio modello.

La linea malthusiana era, indubbiamente, l’unica linea che poteva consentire alla borghesia di tamponare gli effetti della crisi di cui era la portatrice, e di conservare al tempo stesso la propria egemonia. Non erano forse già definitivamente battuti -politicamente, socialmente ed economicamente - quei ceti parassitari ai cui consumi oziosi bisognava far ricorso? E però, proprio perché erano già battuti e virtualmente liquidati, proprio perché non costituivano ormai che delle pure sopravvivenze del passato - la polvere della storia -, essi dovevano venir perdendo via via (solo che la classe borghese potesse esprimere con pienezza la sua funzione egemonica) ogni consistenza e persino ogni parvenza di realtà: anche il sostegno meramente passivo ch’essi potevano fornire allo sviluppo del sistema, mascherandone e coprendone la natura contraddittoria, doveva rapidamente vanificarsi.

A mano a mano allora che le posizioni parassitarie e di rendita, sopravvissute all’ ancien regime, tendevano a scomparire; a mano a mano che il capitalismo, con la sua logica inconsapevole, dissolveva i puntelli che gli consentivano di procrastinare l’esplodere della propria contraddizione, quest’ultima doveva per ciò stesso ripresentarsi con tutta la virulenza della sua carica distruttrice. Ed è appunto per tutto questo che è divenuto a un certo momento inevitabile - seppur non si voleva, nelle condizioni storiche date, giungere alla paralisi del processo economico e, di conseguenza, alla catastrofe dell’intero ordinamento sociale - il manifestarsi di una nuova linea: è divenuto addirittura necessario che il dominio di classe della borghesia venisse negato e sconfitto, e che determinate carte, peraltro decisive, passassero nelle mani dell’avversario storico del borghese: nelle mani del proletariato. Il proletariato, infatti, costituisce a ben vedere l’unica classe che, forzando e mutando a suo favore il meccanismo distributivo, pretendendo dosi sempre più larghe di beni di consumo, lottando contro le rigorose barriere del consumo produttivo, può - seguendo la propria stretta logica di classe condurre a quell’allargamento del consumo che è indispensabile per sostenere e proseguire il processo accumulativo capitalistico. È evidente che in tale modo, mentre si esce dalla tendenza catastrofica dell’assetto borghese e dalla logica del suo modello, si esce anche dal dominio di classe che è loro omogeneo: è chiaro, insomma, che il dispiegarsi dell’azione proletaria ha condotto a una svolta di portata storica.

Senza dubbio - e non certamente a caso, ma proprio perché la logica dei principi si realizza puntualmente nella concretezza delle cose - l’affermazione di classe del proletariato e la sconfitta del dominio borghese si sono verificate attraverso un succedersi di crisi e di lacerazioni profonde, in cui si è riflessa e si è ripercossa la disperata volontà della borghesia di non perdere il proprio dominio sulla società mondiale, e si è manifestato il segno, si è determinata la misura, dell’entità della svolta che si veniva producendo. Tuttavia, come abbiamo visto, quel drammatico passaggio di poteri dalle mani della classe borghese a quelle del suo storico antagonista, non era semplicemente il portato di una soggettiva volontà del proletariato e delle sue avanguardie: esso era anche preteso dal tendenziale catastrofismo implicito nel modello capitalistico-borghese.

Così infatti, nella storia, alla fine rovinosa del capitalismo borghese come sistema mondiale maturatasi appunto attraverso una guerra (quella del 1914-1918), ha corrisposto subito - in una parte del globo - il sorgere e l’ affermarsi di un assetto sociale a piena egemonia proletaria che poteva quindi proporsi, quale proprio fine, “l’abbondanza per tutti i lavoratori”. Così - nell’altra parte del mondo - attraverso tutta una serie di nuove crisi culminate nella II guerra mondiale, si è avuto il progressivo estendersi di una prassi politica, sociale ed economica sempre più condizionata dall’azione proletaria e che, proprio per questo, ha finito per trovare nella “democrazia del benessere” il suo più caratterizzante obiettivo. Da un lato e dall’altro di quella linea di frattura il cui manifestarsi, dividendo il mondo in due schieramenti contrapposti, ha segnato la definitiva scomparsa del dominio "borghese sul piano mondiale, si è venuto insomma a sviluppare via via un nuovo assetto, nel quale la prospettiva (o l’immediato realizzarsi) di un allargamento del consumo, si presenta come la diretta conseguenza del ruolo nuovo e determinante che ormai giocano le classi lavoratrici.

7. Consumo opulento dei produttori e tempo libero

Fine del dominio borghese e affermazione proletaria; progressivo allargamento del consumo dei produttori: questi sono dunque gli aspetti che caratterizzano, sul piano della storia, la fuoriuscita dall’ordinamento borghese e l’approdo all’assetto opulento del sistema economico-sociale. Ma possiamo provarci ormai a definire il modello dell’opulenza nelle sue connotazioni essenziali e di principio. È chiaro intanto, in primo luogo, che, come il modello capitalistico-borghese costituisce il rovesciamento di quello signorile, così il modello opulento rappresenta una svolta radicale, e quasi una puntuale antitesi, del modello capitalistico-borghese. Mentre quest’ultimo ha infatti nella produzione il suo momento centrale e decisivo, e mentre in esso la massima quota possibile di sovrappiù viene reinvestita nel processo accumulativo per allargarne sistematicamente le basi, il modello opulento è invece decisivamente caratterizzato dalla destinazione di quote sempre più larghe di eccedenza all’allargamento del consumo dei produttori, il quale diviene la realtà dominante. Si rovescia dunque il rapporto tra accumulazione e consumo; quest’ultimo non è più rigorosamente definito e contenuto entro i limiti del consumo produttivo, in modo da consentire la massima possibile formazione di sovrappiù accumulabile; è invece il processo accumulativo medesimo che viene a pretendere e a sollecitare - per poter concretamente aver luogo - la destinazione di una parte crescente di sovrappiù all’allargamento del consumo.

Poiché tuttavia il lavoro è rimasto alienato, e poiché quindi, nel trapasso dal capitalismo borghese all’opulenza, il bisogno umano ha continuato a restar racchiuso nella cerchia dei bisogni della vita fisica, ecco che l’allargamento del consumo può avvenire solo attraverso la progressiva e indefinita complicazione dei modi in cui viene soddisfatta quella particolare categoria di bisogni, cui è stata ridotta e cristallizzata tutta la dimensione e la realtà del bisogno umano: ecco, insomma, che il consumo diviene appunto opulento.

Il consumo opulento, proprio per questa sua connotazione definitoria, proprio perché è un consumo contrassegnato e definito dall’essere un modo via via più complicato e arbitrario di soddisfare il medesimo bisogno, se può crescere in modo indefinito, non può svilupparsi però al di là di ogni limite, in modo infinito. Esso, in altri termini, poiché non ha alcuna legge interna che ne determini lo sviluppo - è infatti un consumo superfluo - si accresce, è vero, e si espande progressivamente senza che si possa in alcun modo prevedere quando il suo ampliarsi incontrerà il suo limite; e tuttavia un siffatto limite indubbiamente deve, a un certo punto, essere raggiunto, perché la soddisfazione di un determinato bisogno, per quanto ci si possa studiare di presentarla in modo via via più artefatto e complicato, deve necessariamente giungere al momento della propria saturazione. Accade allora, inevitabilmente, che a mano a mano che si arriva al limite, al punto di saturazione opulenta dei vari particolari bisogni che compongono, nel loro assortimento, il bisogno di sussistenza dell’uomo, si giunge per ciò stesso all’indebolirsi e al contrarsi e, via via, allo spegnersi definitivo del processo di allargamento del consumo opulento. Poiché d’altra parte l’aumento della produttività del lavoro rende necessario un ammontare progressivamente decrescente di forza-lavoro, per assicurare il soddisfacimento di quel bisogno che ha ormai raggiunto la propria saturazione opulenta, ecco che il problema dell’accumulazione perde di continuo la propria rilevanza e si manifesta indispensabile la contrazione dell’impiego produttivo del lavoro umano. Ecco che si afferma, con evidenza sempre più ampia e dispiegata, la necessità del tempo libero.

Come il consumo opulento, così anche il tempo libero non può estendersi però, in quanto tale, all’infinito. E difatti, dal momento in cui il bisogno dell’uomo è rimasto fissato e congelato nel modo che più volte si è detto, risulta impedito il processo naturale e organico di sviluppo dell’operazione umana: quel processo di cui il lavoro, il consumo, il bisogno costituiscono, in linea di principio, i momenti successivi tra loro correlati e via via progressivamente crescenti. Inaltre parole, l’uomo non ha trovato nello sviluppo dei propri bisogni i fini, di tipo via via superiore, ai quali ordinare il proprio lavoro, mentre l’aumento della produttività di quest’ultimo, d’altra parte, non si è tradotto - attraverso il consumo - in un continuo e parallelo arricchimento del bisogno.

È appunto per questo motivo, in ultima analisi, che il lavoro - cessata inevitabilmente la deformatrice mediazione del signore - è rimasto ordinato a sé medesimo, e che il mondo umano si è risolto esclusivamente nel lavoro dell’uomo, mentre l’uomo si è racchiuso e ridotto entro la figura dell’homo faber. L’uomo, insomma, può ancora sussistere e riconoscersi come tale solo nella propria dimensione di lavoratore: in una dimensione, tuttavia, che si presenta come inevitabilmente alienata, poiché è sottratta a ogni organica relazione con gli altri decisivi momenti della sua vita. Da tutto ciò consegue altresì che all’uomo - sebbene egli debba, nell’ordinamento dell’opulenza, allargar di continuo il proprio consumo, e tale allargamento non richieda più ulteriori dosi di lavoro - è rimasto un unico titolo per poter continuare a esistete in quanto soggetto economico, e per poter fruire del consumo opulento: quello d’esser, almeno formalmente, un lavoratore.

Ecco perché, nel concreto della vita sociale, il tempo libero non può estendersi oltre ogni limite; ecco perché si presenta, sempre più spesso, nella forma del lavoro superfluo, di un’attività umanamente ed economicamente priva di scopo e di significato. L’espandersi, oltre ogni necessità e ragione, delle “attività terziarie”; l’ipertrofico gonfiarsi degli “intellettuali integrati”, dei “tecnici della persuasione”, dei professionisti della “mediazione culturale”; il progressivo complicarsi degli apparati distributivi e pubblicitari; il medesimo ripiegamento verso forme individualistiche di produzione artigianale nell’ambito di un processo produttivo altamente socializzato e industrializzato (il bricolage, il build it yourself); non sono forse, tutti questi fenomeni e aspetti della vita contemporanea, anche la prova evidente di una vera e propria mistificazione del tempo libero, di una dissimulazione di quest’ultimo nelle forme coperte e surrettizie di un lavoro privo di qualunque reale contenuto e concreta necessità economica? Non trovano forse, queste varie incarnazioni del lavoro superfluo, la loro vera ragione di fondo nella necessità per l’uomo di conservare -sia pure soltanto formalmente, sociologicamente o addirittura psicologicamente la qualifica di produttore?

8. Novità del modello opulento

Possiamo ritenere a questo punto di aver sufficientemente sintetizzato, nelle sue caratteristiche essenziali, il modello dell’opulenza e il relativo assetto del sistema sociale. Quest’ultimo dunque - vogliamo sottolinearlo conclusivamente - è fondamentalmente caratterizzato e definito, nella sua fase opulenta, dall’intreccio di due realtà assolutamente nuove nella storia: il consumo opulento dei produttori, e il tempo libero, diretto o mascherato che sia. E si deve allora convenire che l’uomo, nel quadro della società opulenta, anziché esser visto come un lavoratore che consuma per poter continuare a produrre (che consuma, cioè, solo nella misura necessaria ad assicurare la libertà dal lavoro del signore, o a fornire quelle risorse che il borghese gestirà nel senso di garantire la massima esplicazione possibile del processo accumulativo), è visto come un consumatore che deve consumare sempre di più, lavorando sempre di meno. Questo è il modello, l’assetto del sistema economico-sociale, cui gli urbanisti di fatto si riferiscono o a cui alludono quando parlano di “società dei consumi” o di “opulentismo” o di “terziarizzazione”, o quando adoperano altre consimili espressioni. E crediamo che sia ormai chiara la ragione per cui, nell’iniziare questo capitolo, abbiamo sottolineato l’interesse del fatto che l’attuale cultura urbanistica comincia ad avvertire il mutamento che si è prodotto nell’ambito del sistema sociale.

Quel mutamento, infatti, si configura nei termini di una svolta radicale, profonda, irreversibile, che investe e trasforma tutti gli aspetti, le dimensioni, i valori, le categorie della vita della società e dell’uomo. Essa non può dunque mancar di riflettersi, in modo decisivo, sulla condizione e sui destini della città. Questa è certamente divenuta - poiché vive in un nuovo orizzonte sociale, politico, economico - una realtà che non può più esser compresa ne sviluppata mediante il semplice prolungamento di operazioni e ragionamenti pedissequamente ancorati alle posizioni anteriori alla svolta dell’opulenza.

Entro il quadro capitalistico-borghese, la produzione in tanto poteva imprimere un ordine all’insediamento urbano, in quanto essa costituiva il momento decisivo e culminante, il fine esclusivo e l’unica legge del processo economico, il quale era divenuto a sua volta - con la rivoluzione borghese - il cuore, il centro, lo scopo dell’intero ordinamento sociale. Poiché, in altri termini, ogni valore, realtà, qualità, dimensione della società civile aveva dovuto subordinarsi all’economia (o era stato impietosamente emarginato), e poiché all’interno di quest’ultima la produzione aveva assunto un ruolo di esclusivo predominio, ecco che il momento produttivo era venuto per ciò stesso a configurarsi inevitabilmente, per qualsiasi aspetto dell’attività dell’uomo, e dunque anche per la città, come l’unica sorgente d’ogni possibile regola.

Una simile regola, poi, benché comportasse ovviamente per la città (come per ogni altro organismo o istituto o dimensione della società civile) l’appiattimento sulla dimensione produttiva, non era tuttavia vissuta e patita come secca e arbitraria negatività da nessuna delle figure sociali decisive: da nessuno, quindi, dei cittadini. Non lo era infatti dal borghese, che era, appunto, l’organico rappresentante e protagonista dell’esclusivismo della dimensione economica e dell’attività produttiva (e aveva comunque poi sempre la facoltà di ritagliarsi una zona d’evasione signorile dalle leggi del sistema); ma non lo era neppure dal proletario, poiché il fine del continuo allargamento delle basi del processo produttivo si presentava per costui come la massima garanzia per l’occupazione della propria forza-lavoro, e dunque come la condizione necessaria per il mantenimento delle esigenze elementari della propria esistenza. Orbene, è facile vedere che nella città opulenta la produzione perde entrambe queste caratteristiche: che essa, cioè, non è più capace di ordinare l’insediamento umano, ne è più la portatrice di un’oggettiva ed elementare necessarietà sociale e umana.

Nell’ordinamento dell’opulenza, infatti, la dimensione produttiva non è più - lo si è già sottolineato - il momento centrale e decisivo, la ragione e il fine esclusivo dell’economia e dell’intera vita sociale. Essa è, invece, non solo strettamente condizionata all’indefinita e opulenta espansione del consumo, ma è anzi, in ultima analisi, subordinata a quest’ultimo; di fatto, è soltanto l’allargamento del consumo che conferisce un qualche fine al processo produttivo, il quale, tendenzialmente e al limite, perde addirittura ogni funzione economica amano a mano che si giunge - come non si può non giungere - alla saturazione del consumo opulento. D’altra parte, poiché, quando si giunge all’opulenza, i bisogni dell’esistenza fisica dell’uomo sono stati ormai certamente soddisfatti, per definizione, nella loro essenzialità; e poiché anzi - mentre non è più indispensabile allargare il processo produttivo per garantire la fruizione dei consumi relativi ai bisogni immediatamente e necessariamente comuni lo stesso problema dell’occupazione si viene a rovesciare in quello del tempo libero e del lavoro superfluo, ecco dunque che la produzione smarrisce anche quel carattere di necessarietà sociale ed umana che rendeva il suo esclusivo predominio - agli occhi del proletario come di ogni membro della società - storicamente giustificato, e quindi concretamente sopportabile.

La produzione, insomma, come non ha più alcuna ragione economica che possa consentirle di porsi come il momento decisivo e centrale dell’assetto economico-sociale, così non ha più alcun senso umano ed organicamente civile e sociale; e così appunto viene direttamente e insofferentemente avvertita dall’uomo moderno.

2. Insufficienza urbanistica del consumo opulento.

Se la produzione, perdendo l’una e l’altra caratteristica su cui fondava la sua capacità ordinatrice, non è più in grado, nell’assetto opulento, di porsi come regola per l’insediamento urbano, forse una capacità ordinatrice analoga può esser trovata nell’altro momento della dimensione economica, nel consumo?

Potrebbe sembrare, a prima vista, che a un tale quesito debba rispondersi positivamente. Infatti non abbiamo sostenuto che la società opulenta costituisce una svolta radicale rispetto a quella borghese proprio perché il consumo è divenuto il momento centrale e decisivo, la categoria dominante a cui ogni altro aspetto dell’attività economica è, in un modo o nell’altro, subordinato? Non ha insomma, in tal senso, il consumo soppiantato e sostituito la produzione? E non deve discendere quindi da tutto ciò che il consumo viene necessariamente ad assumere, entro il modello opulento, anche quel ruolo ordinatore sul piano urbanistico che la produzione manifestava nei confronti della città borghese?

Le cose, tuttavia, non sono così semplici né così schematiche. Bisogna anzitutto sottolineare che il consumo peculiare al modello opulento non è certamente - come abbiamo già osservato - un consumo legato a una effettiva e organica necessità umana. Esso infatti, nella stretta logica del modello (ma perciò anche nelle tendenze concretamente in atto), non è che consumo di dosi sempre più ampie di beni destinati ad un bisogno che, nella sua sostanza naturale, è ormai generalmente e abbondantemente soddisfatto; in definitiva è un consumo che si allarga, di continuo e all’indefinito, nella totale assenza dello sviluppo del bisogno umano, e anzi coprendo e mistificando il fatto decisivo che il bisogno della sussistenza fisica è ormai pienamente soddisfacibile e soddisfatto. Perciò il consumo opulento resta inevitabilmente contrassegnato dalla superfluità, e dunque dalla gratuità e dall’arbitrio. Ora, già per tutto questo, il consumo opulento non può apparire a nessuno come il portato di una oggettiva necessarietà umana e sociale che convalidi e giustifichi un suo ruolo egemonico e dominante nella città e nella società; ed è questo, crediamo, un primo motivo per cui bisogna concludere che il consumo non può esercitare una capacità ordinatrice nell’insediamento urbano.

Ma c’è un’altra caratteristica del consumo opulento che conferma e ribadisce la nostra tesi, e che conduce anzi a dover addirittura riconoscere la presenza di una radicale incompatibilità tra un reale ordine della città e il consumo pienamente omogeneo all’assetto opulento. Tale consumo infatti, nonostante la sua complicazione e il suo carattere capriccioso e sofisticato, è pur sempre consumo di beni ordinati al bisogno della vita fisica. Esso è dunque, per ciò stesso, legato e riferito esclusivamente a una determinata categoria di bisogni (quelli appunto della vita fisica dell’uomo) che può esser considerata pienamente umana solo se costituisce un gradino di una scala di bisogni continuamente crescente, e che invece, quando viene assolutizzata e vissuta come l’unica forma del bisogno umano, può caratterizzare soltanto un’esistenza ridotta a mero e materiale animalismo.

Una simile esistenza, infine - e la questione, come vedremo, è di decisiva importanza - è necessariamente contrassegnata dall’individualismo: in altre parole, il consumo opulento si presenta inevitabilmente come un consumo che può esser vissuto dall’uomo soltanto come esasperato e chiuso particolarismo, e che perciò, come tale, non può costituire, di per sé stesso, un sufficiente supporto alla necessaria dimensione sociale della città, e può anzi unicamente negarla e dissolverla.

3. Una città inordinabile, ma liberata dall’alienazione all’economia

Né la produzione né il consumo - entro la stretta logica del modello opulento - sono dunque in grado di imprimere un ordine alla città. Ed è allora evidente che deve entrare definitivamente in crisi quella posizione funzionalistica che, nella città dell’Ottocento, costituiva il “braccio urbanistico” del dominio della borghesia e che, interpretando e traducendo in concreti schemi organizzativi la materiale e generica capacità ordinatrice della produzione capitalistico-borghese, perveniva a dare una qualche forma, sia pure alienata e parziale, alla città. Non vogliamo sostenere con questo che l’affermarsi dell’opulenza venga a dissolvere la posizione funzionalistica anche nella sua sostanziale radice ideologica. Infatti, è pur sempre possibile proporsi di appiattire la città al dato, al mero esistente; in tal senso, evidentemente, anche nel quadro dell’opulenza può manifestarsi e può operare una posizione funzionalistica. Però quel che certamente il funzionalismo smarrisce, nel passaggio dall’assetto capitalistico-borghese a quello opulento, è la propria capacità di conformare la città in funzione e al servizio di una legge rigorosa, derivata e desunta da una dimensione e da una realtà eterogenea, come quella dell’economia, all’organismo urbano.

Ma se le regole, se i meccanismi della dimensione economica del sistema non sono più in grado di fornire una struttura alla città e se, di conseguenza, la linea funzionalistica deve rivelare, alla fine, la propria impotenza, significa ciò forse che la storia, alla lunga, ha dato ragione agli epigoni catastrofici dell’utopismo? Erano forse degli illuminati profeti quanti predicavano l’incompatibilità assoluta e totale tra sviluppo dell’ordinamento capitalistico e sviluppo della città? E colgono il vero quegli studiosi moderni della città che pongono al centro dell’attenzione “i sinistri particolari della vita quotidiana”?

Da quanto abbiamo fin qui argomentato e descritto scaturisce con chiarezza, ci sembra, e in tutta la sua gravità, l’aspetto negativo che la svolta dell’opulenza comporta nei confronti della città. Quest’ultima, infatti, dal momento che non ha più nella dimensione economica una base che le consenta di trovare una qualche ragione per il proprio ordinamento, dal momento insomma che ha perso ogni possibilità di conservare, nel rapporto alienante con l’economia, una regola capace di conferirle una struttura e una forma, tende ormai a divenire, entro il modello opulento, una realtà che non è più in alcun modo ordinabile.

L’antica polis armoniosamente adagiata, tra la pianura e il mare, a presidio dei suoi porti e delle sue campagne, organicamente inserita nella natura, ordinatamente disposta attorno ai suoi templi e alle sue agorà; l’urbs e la civitas dei romani, cerniere e punti di forza di una geniale struttura politica e amministrativa, fuochi di un sistema di relazioni e di reciproche influenze che imprimevano un ordine e una forza a tutto il territorio lavorato dall’uomo; il borgo e la città del medioevo cristiano, luoghi nei quali i servi divenivano liberi, i liberi resistevano alla soggezione e alla violenza del signore, e gli uni e gli altri si riconoscevano uguali raccogliendosi negli edifici comuni della religione e del culto, della politica, del commercio, della vita civile; la stessa prodigiosa metropoli dell’Ottocento borghese, strutturata in funzione degli interessi, esclusivistici ma storicamente progressivi, di una classe che si disponeva a dominare il mondo, invadendolo con le merci prodotte nelle operose officine, e regolando i destini della società internazionale secondo le intese e i disegni intessuti nelle fastose e civili capitali; tutto quel che la storia dell’uomo ha faticosamente elaborato nello sforzo millenario di dare alla società un luogo nel quale ordinatamente vivere e riconoscersi, distinguendosi dall’immediatezza della natura, pare dunque irrimediabilmente finire. Tutto ciò tende a mutarsi, come il Mumford esattamente descrive, in “una massa informe e continua, qui gonfia di edifici, là interrotta da una macchia verde o da un nastro di asfalto”, che “continua a crescere inorganicamente, e anzi cancerosamente, con la continua decomposizione dei vecchi tessuti e lo sviluppo eccessivo dei nuovi”, e che trova infine la sua forma solo nella “sua informità, come la sua meta [in] una espansione senza meta”.

E però, riconosciuto e accettato tutto ciò, accolta insomma quella empirica verità che indubbiamente è sottesa alla denuncia appassionata dei più illustri epigoni dell’utopismo, non si può comunque trascurare di porre in evidenza anche il rovescio, positivo implicito nella nuova configurazione che è venuto ad assumere, con l’opulenza, il rapporto della città con la dimensione economica storicamente data.

Quel rapporto, infatti, che nel quadro dell’assetto capitalistico-borghese si era inevitabilmente tradotto nei termini di un’alienazione dell’ordinamento formale della città, è ora praticamente dissolto. Ma ciò significa allora che, con l’opulenza, la città si è liberata dal legame con un’economia che, mentre ne aveva consentito - e anzi preteso - la nascita, e mentre poi aveva potuto conferirle un ordine, l’aveva peraltro, nell’atto medesimo, alienata. E sebbene nell’ambito del modello opulento un simile affrancamento della città possa esprimersi soltanto in termini negativi è comunque certo che ormai, dal momento che è divenuta impossibile l’alienazione all’economia dell’ordinamento formale della città, è divenuta invece oggettivamente possibile la nascita di una reale, compiuta, dispiegata autonomia dell’organismo urbano.

4. Scomparsa dell’individualismo borghese dalla sfera della produzione.

Il primo termine dell’ambiguità presente nella città capitalistico-borghese - l’alienazione del suo ordinamento formale - si è dunque rovesciato, nell’opulenza, in possibilità oggettiva di autonomia, in potenziale positività. Ma come si è trasformata e modificata a sua volta quella potenzialità positiva per la città, che avevamo potuto individuare, entro l’ordinamento borghese, nel carattere “sociale” della produzione (il secondo termine, dunque, della ambiguità di cui si diceva)?

Fin dall’inizio della formazione del processo opulento, il carattere “sociale” della produzione si afferma in modo via via più massiccio, sino a divenire una connotazione decisiva e incontrastata dell’attività produttiva, e a costituirsi come la forma universale di quest’ultimo. Per comprendere con sufficiente chiarezza la ragione e il significato di un simile pieno affermarsi della “socialità” della produzione, occorre ricordare che nell’ordinamento borghese il carattere “sociale” dell’attività produttiva incontrava il proprio limite - invalicabile in linea di principio - nel privatismo proprietario peculiare alla figura sociale ed economica del borghese. E in realtà, la giustificazione e la relativa insuperalbilità di un limite siffatto derivavano sostanzialmente dalla circostanza che nella società capitalistico-borghese (in cui tutto è esclusivisticamente ordinato all’accumulazione) solo il borghese, il capitalista, poteva essere - il linea di principio come in linea di fatto - l’unico e indiscusso gestore, l’incontrastato garante, l’arbitro supremo e inappellabile dell’intero sistema.

Nella società opulenta, viceversa, mentre l’accumulazione perde il suo ruolo di dimensione centrale e decisiva dell’intero ordinamento economico e sociale, il gestore del processo produttivo viene via via a dimettere, per così dire, l’abito del borghese. Egli invero, poiché la sua attività è ormai, se non immediatamente diretta, certo strettamente condizionata all’allargamento del consumo dei produttori, e poiché anzi la sua tipica operazione non è più il fine esclusivo della vita economica e sociale, cessa di essere l’arbitro incontrastato dell’intero sistema, mentre si avvia a perdere in modo definitivo la sua antica capacità d’incidere individualisticamente e soggettivamente, in maniera pienamente libera e arbitraria, nella condotta della stessa attività produttiva. In realtà, se in una prima fase del processo opulento egli conserva ancora un residuo di quel carattere socialmente dominatore che era peculiare al privatismo borghese, deve perdere anche questa sua ultima possibilità, a mano a mano che il consumo opulento raggiunge i suoi limiti e perviene alla sua saturazione: l’imprenditore si trasforma allora a sua volta, definitivamente e totalmente, in generico e anonimo funzionario del processo produttivo.

Il crollo del dominio borghese sulla società mondiale e la parallela affermazione economica, sociale e politica della classe proletaria; la crisi definitiva dell’“economia di mercato” e il progressivo ampliarsi di quegli interventi che determinano l’economia programmata: non costituiscono, forse, questi decisivi momenti dello sviluppo storico contemporaneo, altrettanti colpi mortali inferti all’individualismo e al privatismo connaturati alla figura del borghese?

5. Una città che non può più essere bella per pochi

Se nella società opulenta la zona del privatismo viene via via a ridursi - nel campo dell’attività produttiva - in misura sempre maggiore, e se, parallelamente e di conseguenza, il carattere “sociale” della produzione capitalistica si libera del proprio limite borghese, tutto ciò non significa che si sia sviluppata, che abbia acquistato maggior peso e rilevanza quella potenzialità positiva che, per la città, è costituita, in linea di principio, dalla “socialità” della produzione. Infatti, benché la dimensione produttiva sia ormai - come si è detto - pressoché totalmente caratterizzata da quella natura “sociale” che è propria al capitale, sta comunque di fatto che la stessa dimensione produttiva è venuta a perdere via via - come abbiamo più sopra osservato - la propria centralità: il ruolo decisivo che essa svolgeva nell’ordinamento capitalistico-borghese è stato soppiantato e sostituito, nell’ordinamento dell’opulenza, dal consumo.

Ciò significa che il decadere del privatismo nella attività produttiva non provoca, nella città, alcuna positiva conseguenza? Certamente, i contrapposti effetti dell’allargamento della “socialità” della dimensione produttiva e del parallelo ridursi della centralità e dell’importanza di quest’ultima si vengono, per così dire, a sommare algebricamente fino ad annullarsi l’un con l’altro. C’è tuttavia una conseguenza rilevante e positiva, che discende dalla tendenziale liquidazione del privatismo borghese. Quella liquidazione comporta infatti, sul piano della città, la fine di una serie di mistificazioni che agivano pesantemente nella città capitalistico-borghese e che, condizionando l’opera razionalizzatrice dei funzionalisti, facevano della città il luogo dei “liberi consumi” e, soprattutto, dell’importanza sociale di una soltanto delle classi che vi risiedevano: della classe borghese.

I borghesi potevano infatti ordinare la città al servizio di quei “liberi consumi”, di tipo sostanzialmente signorile, che a loro, e solo a loro, erano permessi e garantiti dal privilegio proprietario, e con cui si manifestava e si celebrava la centralità dominatrice della loro funzione sociale. Ora invece, nella società opulenta, poiché quel privilegio ha perso ogni ragione, ogni senso e ogni riflesso egemonico, poiché il borghese si viene anzi a mutare e a ridurre in semplice e subordinato funzionario del processo produttivo, poiché, quindi, gli è impedito ormai di erigersi singolarmente e individualisticamente in signore, deve per ciò stesso scomparire, nella città, ogni aspetto fastoso ed esclusivo, ogni simbolo e ogni struttura conformati per celebrare il potere, la libertà (e il peculio) dei membri della classe dominante. Scompare, dunque, la possibilità di dissimulare l’anarchia, il disordine, la bruttura dei tessuti residenziali destinati ai proletari dietro le facciate costruite e adornate per la signorilità dei borghesi; scompare ogni copertura di qualità signorili, fondate sul privilegio e sulla divisione; scompare insomma, definitivamente, l’illusione che la città possa essere bella senza esserlo per tutti.

6. Esiste nella città opulenta una speranza per il futuro?

Ma se tutta la positività presente nella città opulenta fosse costituita dalla fine dell’alienazione all’economia e dalla liquidazione dell’importanza sociale del privilegio proprietario - e fosse dunque esprimibile unicamente in termini negativi -, bisognerebbe allora concludere che la pessimistica e disperata denuncia degli epigoni dell’utopismo è, nonostante tutto, un atteggiamento pienamente legittimo e giustificato. Nella città del nostro tempo, infatti, se le cose stanno soltanto come fino a ora le abbiamo descritte, non sarebbe consentito di individuare un appiglio dispiegatamente positivo, un germe non illusorio di speranza, e soprattutto una realtà dalla quale muovere e su cui far leva per costruire, sopra le ceneri delle negatività antiche, liquidate dall’opulenza, una città pienamente e creativamente padrona di se stessa e capace di darsi, perciò, un autonomo ordinamento formale. Ma c’è un punto, di fondamentale importanza, sul quale dobbiamo ancora soffermarci; c’è una tesi decisiva che dobbiamo dimostrare, prima di poter considerare esaurito - sia pure nelle linee di fondo - il nostro esame della città opulenta. Dobbiamo trarre cioè una conseguenza dal fatto (che assume per la città, come vedremo, un massimo rilievo) che nell’assetto opulento il consumo di tutti i produttori diviene la dimensione centrale dell’ordinamento sociale ed economico.

Su di una circostanza è tornata sovente la nostra attenzione; sul fatto cioè (da noi individuato nell’ambito di un ragionamento di tipo storico) che la possibilità di esprimere una forma autonoma dell’insediamento umano è stata sempre condizionata dalla presenza di determinate qualità. Tali qualità erano già presenti, ed erano state anzi elaborate, nel mondo signorile, ma non potevano esser utilizzate come base dell’ordinamento formale di un insediamento definibile come città, perché erano vissute dal signore come libera e individualistica attività meta economica, e venivano perciò fruite mediante un “consumo” che, mentre era meramente particolaristico e individuale, rimaneva riservato esclusivamente ai membri di quella classe “dei pochi e degli eletti” che, quasi per diritto divino, si elevava al di sopra della moltitudine comune dei servi.

Esse, invece, sono state utilizzate come matrici per una forma autonoma della città solo quando, nel borgo e nella primitiva città borghese in lotta con il “castello”, si sono manifestate come consumo comune dei cittadini. E tuttavia, a causa della sostanziale meta-economicità di tale consumo comune, le qualità che lo nutrivano dovevano (nell’ordinamento capitalistico-borghese, esclusivamente finalizzato alla produzione del sovrappiù) rapidamente dissolversi, o venir emarginate e spazzate via. Appunto per questo, appunto per la fragilità di principio di uno schema urbano fondato su di un consumo comune ma metaeconomico, l’autonomo ordinamento formale della città classica e medievale doveva conoscere la propria rovina nel corso della crisi storica che ha condotto al pieno affermarsi dell’assetto capitalistico-borghese.

Orbene, già da quello che abbiamo più sopra osservato circa il ruolo che il consumo di tutti i produttori svolge nella società opulenta, si può facilmente intuire come la storia, nel condurre il sistema sociale dall’assetto signorile e da quello capitalistico-borghese a quello dell’opulenza, sia venuta ad accumulare le ragioni per un radicale salto di qualità dell’organismo urbano; come la storia, cioè, sia venuta a porre in essere una situazione in cui, mentre è sempre possibile che continui il dissolversi della città in un insediamento amorfo e inordinabile, sono però presenti le condizioni per un definitivo trascendimento dei limiti che hanno impedito, da sempre, il manifestarsi di una solida e dispiegata autonomia dell’ordinamento formale della città: le condizioni positive, dunque, per la costruzione di una città realmente e pienamente tale.

7. Centralità del consumo nella città e nel modello opulento

Un primo elemento sul quale dobbiamo soffermarci per svolgere la nostra argomentazione, è costituito da una caratteristica che - come già si è detto - si pone come una connotazione essenziale e di principio della società opulenta: il fatto, cioè, che in tale società il consumo, sebbene rimanga pur sempre ordinato a un bisogno cristallizzato e definito nella forma del bisogno della vita fisica dell’uomo, diviene comunque il momento decisivo e centrale della dimensione economica e dell’intera società civile. Il consumo, in altri termini, non è più definito come una funzione esclusiva della produzione, come il semplice costo della forza-lavoro necessaria a sviluppare il processo produttivo. Esso diviene invece, per la produzione medesima, da mero strumento (quale è inevitabilmente un consumo ridotto a consumo produttivo), reale problema: non si presenta forse il consumo, già dal primo affermarsi dell’opulenza, come una realtà che è indispensabile indurre per poter continuare a espandere l’attività produttiva? Non è comunque l’espansione produttiva ormai strettamente condizionata a un indefinito allargamento del consumo?

Quest’ultimo insomma, il consumo, acquista nella società opulenta un peso e un’incidenza decisivi e determinanti indipendentemente dal fatto di essere un input della produzione, un suo momento interno; esso si afferma e si sviluppa con una sua specifica autonomia, e dunque, in definitiva, proprio in quanto consumo. Tutto ciò significa allora - ed è questo che soprattutto ci interessa sottolineare - che una categoria, di cui abbiamo riconosciuto la decisività per l’operazione urbanistica, acquista ora, con l’opulenza, una dimensione assolutamente nuova. Quel consumo che, manifestandosi nel borgo e nella città primigenia come meta-economica fruizione comune delle qualità religiose, politiche, civili, estetiche, consentiva il sorgere di una forma autonoma dell’insediamento urbano; quel consumo, che la vittoria capitalistico-borghese sull’assetto signorile doveva invece asservire seccamente alla produzione, alienando per ciò stesso l’ordinamento formale della città; quel consumo, infine, di cui i padri dell’urbanistica moderna (gli Owen, i Fourier, i Godin) dovevano intuire la fondamentale importanza per la città, ponendolo al centro e al cuore dei loro utopistici insediamenti, quel medesimo consumo si è ora trasformato, nell’assetto opulento, in una realtà economica e sociale dalla quale non si può prescindere.

8. Il rischio dell’opulenza.

Certo, il consumo può - anzi, nelle condizioni storiche date, deve - rimanere opulento, e dunque necessariamente arbitrario e individualistico: questa infatti è la tendenza connaturata allo sviluppo evolutivo del sistema in atto. E in tal caso, come si è già osservato, il consumo, poiché è arbitrario, non è capace di fornire il sostegno di alcuna legge alla città, e poiché è individualistico, tende anzi a dissolverla, eliminandone la radice sociale. Se il consumo rimane quindi strettamente caratterizzato dall’opulenza, l’insediamento umano ripercorre all’indietro il proprio cammino: esso si riduce a una dispersione anarchica e casuale, o a una mera e informe aggregazione di residenze, simile a quella che era costituita dall’insediamento peculiare all’età delle “pompose Babilonie”. La città, in tal caso, non solo decade, ma giunge alla propria catastrofe. Dal momento che tutti, o per meglio dire che ciascun abitante dello insediamento opulento può - e addirittura deve - allargare all’indefinito i propri consumi, e dal momento che una simile indefinita espansione non ha alcuna regola realmente comune che possa consentire di conferirle un qualche ordine, ecco che la città si avvia alla propria definitiva crisi lungo due direzioni alternative.

Da un lato, infatti, la proliferazione disorganica dei consumi individuali conduce - ove e finché si rimanga nell’ipotesi di un insediamento concentrato - a una crescente e irrefrenabile congestione, che porta - in una prospettiva di cui siamo già in grado di conoscere e di patire, nelle nostre odierne metropoli - l’iniziale manifestarsi -a una completa e insanabile paralisi della vita urbana. Dall’altro lato, a mano a mano che le condizioni d’esistenza entro un simile convulso aggregato si rivelano umanamente insostenibili, non esistendo più alcuna ragione di rimanere vicini gli uni agli altri per fruire degli individualistici consumi opulenti, si è sollecitati e sospinti alla dispersione delle residenze. Ciascuno tende sempre più, o almeno per un maggior tempo, a insediarsi singolarmente e isolatamente in questa o in quell’altra parte del territorio, in una inconsapevole e grottesca restaurazione dell’insediamento dell’autoconsumo. In definitiva, la città si dissolve.

Questo è dunque il destino che è riservato alla città se il fatto nuovo, costituito dall’affermarsi del consumo, rimane entro la stretta logica del modello opulento. Ma ciò significa allora che esiste dal punto di vista dell’urbanistica un massimo di necessità e di urgenza di superare la fase opulenta. La disciplina urbanistica, in altri termini, può sviluppare la propria operazione solo a patto di impegnarsi, sul suo specifico terreno, nello sforzo di contribuire a dar vita a uno sviluppo della città - entro un generale sviluppo della società - che sia radicalmente diverso da quello che è peculiare al modello dell’opulenza. E del resto, precisamente a causa del particolare ruolo svolto, nell’assetto opulento, dal consumo di tutti i produttori, e proprio in ragione della decisività di quest’ultimo per l’operazione urbanistica, si presenta oggi anche un massimo di possibilità di utilizzare le condizioni, il terreno, la situazione storica dell’opulenza, per iniziare la costruzione di una città nuova; di una città, in altri termini, che colga l’occasione dell’opulenza per superare i limiti e le alienazioni antiche e, insieme, le odierne minacce.

9. L ‘occasione dell’opulenza.

In effetti esiste, nel concreto, la possibilità di far giocare il consumo in modo diverso da come è comportato nell’opulenza. Tale possibilità è insita in una contraddizione di fondo implicita nel consumo opulento. Abbiamo visto che l’ordinamento dell’opulenza è caratterizzato - in linea di principio e in linea storica - dal fatto che in esso acquista un massimo di centralità e di decisività il consumo di tutti i produttori. Anzi, poiché la qualifica di produttore, di lavoratore, tende sempre più a risolversi in un attributo formale, in una giustificazione sociologica, o addirittura nel sostegno e nell’alibi psicologico di un’esistenza umana che, fuori del lavoro, non riesce a trovare una propria regola; poiché insomma, per quei motivi che abbiamo più sopra largamente accennato, l’esser produttore si avvia in sostanza a divenire, per l’uomo, solo un titolo per poter consumare, si può quindi affermare senz’altro, e decisamente, che nell’ordinamento dell’opulenza la realtà centrale e dominante è costituita dal consumo di tutti gli uomini.

Ma d’altra parte (e anche su questo punto ci siamo già soffermati) il consumo di tutti viene poi, nel quadro dell’opulenza, individualisticamente fruito, per la ragione fondamentale che è rimasto esclusivamente consumo di beni necessari alla soddisfazione del bisogno della vita fisica: di quel bisogno, cioè, che, ove sia assolutizzato e vissuto come l’unico possibile, non postula, per il proprio appagamento, alcuna realtà comune e sociale.

Ecco, dunque, i termini della potenziale contraddizione implicita del consumo opulento. Da un lato, esso è consumo di tutti; è un consumo generalizzato, egualitario, democratico, che come tale pretende di trasformarsi in consumo comune: che pretende, cioè, d’esser fruito dagli uomini in quanto membri di una comune società. Ma dall’altro lato, esso è un consumo vissuto nella forma individualistica; è un consumo, perciò, che incontra nell’individualismo non solo l’insuperabile limite per la piena esplicitazione della sua tensione comunitaria, ma la vera ragione del suo permanere in amorfo consumo di massa.

Ora è proprio nel nodo costituito dalla contraddizione latente nel consumo opulento che l’azione degli urbanisti può inserirsi; è proprio incidendo in tale contraddizione e contribuendo a risolverla che la loro opera può raggiungere una sua positiva efficacia. Ed è allora evidente che l’operazione urbanistica viene ad agire, in tal modo, entro una linea d’azione che comporta la prospettiva del definitivo trascendimento dell’opulentismo e del suo vizio di fondo (la riduzione del bisogno umano ai bisogni della sussistenza fisica dell’uomo), ma che nello stesso tempo, poiché è una linea d’azione che può cominciare a realizzarsi nell’immediato, costituisce già, per ciò stesso, un inizio concreto di superamento dei limiti, degli errori, delle mistificazioni dell’opulenza.

Lo abbiamo già affermato: ci sembra che l’attuale cultura urbanistica non sia ancora pervenuta a formulare un’analisi sufficiente della città opulenta, e che, per questo motivo, essa non abbia potuto individuare chiaramente e coerentemente le radici e le cause dell’attuale situazione della città, né, di conseguenza, le prospettive e le speranze che possono schiudersi al suo futuro. E poiché l’opulenza costituisce ormai l’innegabile realtà di fatto, la cultura urbanistica - quando non si oppone disperatamente e velleitariamente a tutte le condizioni date, com’è il caso, già da noi esaminato, del neo-utopismo - finisce inevitabilmente per patire la logica dell’ordinamento dell’opulenza e per subordinarvisi: il che accade sia quando si aderisce e ci si adegua piattamente al portato dello sviluppo storico, accettandolo acriticamente in tutti i suoi aspetti, sia quando si tenta di distinguersi da esso e di criticarlo, senza però aver maturato una sufficiente consapevolezza della sua ambiguità, e quindi dell’occasione storica che essa costituisce.

L’atteggiamento di acritica adesione all’opulentismo costituisce a sua volta il comune substrato di due differenti posizioni: una subisce l’opulenza come processo in atto, ed è quindi contraddistinta da una visione della realtà ancora dinamica, irrequieta, apparentemente anticipatrice; l’altra accetta l’opulenza come l’unica realtà possibile, come il dato indiscutibile e assiomatico, in nessun modo valutabile e criticabile.

Gran parte della cultura urbanistica italiana è dominata, ci sembra, dalla prima di tali posizioni; e ciò non è davvero casuale o inspiegabile, ma è invece strettamente legato alle generali condizioni della nostra società. In Italia, infatti, l’opulenza è indubbiamente un processo in atto, il quale, nella misura in cui è anche il portatore di valori storicamente positivi (la fuoriuscita dalla miseria e dalla fame, l’affermazione proletaria, la pacificità della democrazia, la liquidazione dell’importanza sociale dei privilegi lbol1ghesi e di quelli pre-moderni), e nella misura in cui, per converso, è frenata e ritardata dalle resistenze opposte dai residui del passato, sollecita e sospinge a una partecipazione attiva al suo realizzarsi.

Naturalmente, dato che una simile posizione non è fondata su di una consapevolezza delle autonome esigenze di sviluppo della città e su di una conseguente critica dell’opulentismo, ed è anzi contraddistinta da una inconsapevole ma globale accettazione di quest’ultimo, fuori da ogni capacità di distinguere gli aspetti positivi da quelli negativi, si giunge ad assumere come valori anche gli aspetti più inquietanti ed erronei dello sviluppo opulento, e si è portati a rivivere e a ribadire quell’impostazione che abbiamo definito funzionalistica. Ecco, insomma, che la città viene considerata e riguardata come una mera e subordinata funzione dell’assetto opulento del sistema.

Necessariamente, contro e malgrado ogni buona intenzione, si concepisce allora l’urbanistica come un semplice strumento per la lotta dell’opulentismo contro le remore e gli impacci che ne ostacolano lo sviluppo. E poiché, in quanto urbanisti, si può partecipare a questa lotta solo conformando la città secondo il modello di riferimento adottato (quello, appunto, dell’opulenza), si giunge, nel concreto, a ideare e a progettare degli insediamenti i cui punti di forza sono costituiti dall’esaltazione e dalla celebrazione delle più vistose conseguenze dell’opulentismo: l’ipertrofia delle attività terziarie, nelle quali viene vissuto il lavoro superfluo; il dinamismo irrequieto, che deriva dalla mancanza di ogni regola umanamente accettabile; la ,genericità dei valori e dei contenuti, in cui si esprime la gratuità e l’arbitrarietà del consumo opulento; infine, la fuga solitaria verso la natura, che costituisce la evasione estrema, e necessariamente individualistica, da una città ridotta a congestionata “conurbazione”.

2. L’astrazione sociologistica di Kevin Lynch

Una identica impostazione funzionalistica caratterizza la seconda delle posizioni cui abbiamo accennato: quella che, identificando empiricamente l’esistente con l’assoluto, accetta la condizione dell’opulenza come l’unica realtà possibile. Crediamo che questa posizione possa essere efficacemente illustrata da alcune tesi che sono alla base delle ricerche del noto studioso statunitense, Kevin Lynch.

Il Lynch si propone di analizzare la città e di individuarne gli elementi caratterizzanti attraverso la percezione che i suoi abitanti ne hanno; “dobbiamo considerare la città -egli dice non come un oggetto a sé stante, ma nei modi in cui essa viene percepita dai suoi abitanti”. L’inchiesta diretta, il test orale e grafico, le “battute di rilevamento” condotte da squadre di esperti, la costruzione infine di una “sintesi” mediante la sovrapposizione delle diverse impressioni sulla città ricavate dagli “uomini della strada” che in vario modo hanno collaborato all’impresa: questi sono gli strumenti (l’armamentario tecnico della sociologia più ammodernata) dei quali Lynch si giova per la sua analisi dell’ambiente urbano. Una simile analisi, tuttavia, non resta per il Lynch fine a se stessa. Dallo studio e dall’elaborazione del materiale in essa raccolto, dall’indagine accurata e minuziosa delle sensazioni che i mille oggetti di cui è composta la città (vie, case, insegne, quartieri, alberi, argini, fiumi, monumenti, arredi, parchi) sollecitano e suscitano negli abitanti, lo studioso americano intende desumere le leggi che consentano di costruire ambienti urbani dotati dell’attributo che più lo interessa: dotati cioè di figurabilità, ossia di quella “qualità che conferisce a ogni oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore una immagine vigorosa”.

Crediamo di vedere, sottese all’impostazione di Lynch, due esigenze la cui validità ci sembra incontestabile, e che è tanto più interessante porre in rilievo, in quanto esse trapelano da un contesto d’idee e di convinzioni che a nostro avviso è viziato (come subito vedremo) da gravissimi limiti. Ci.sembra intanto, in primo luogo, che l’interesse dimostrato per la figurabilità possa alludere (certo ambiguamente) all’esigenza di ricondurre l’attenzione dell’urbanista su quello che è il suo più pertinente e peculiare campo d’azione: la forma della città, i valori estetici che in essa devono esprimersi. Ci sembra poi, in secondo luogo, che nel proposito di vedere e di studiare la città attraverso gli occhi dei suoi abitanti, si nasconda in qualche modo la esigenza di assumere l’uomo come punto di partenza dell’operazione urbanistica.

Ma quale uomo? I limiti della posizione di Lynch divengono subito palesi. “Pragmatismo e sociologismo americano costituiscono il sostrato culturale a cui va ricondotto il suo pensiero”, e di conseguenza l’uomo è per lui, ovviamente, l’uomo dato, l’uomo di Boston o di New Jersey o di Los Angeles, così come può esser colto secondo i metodi e con “le distinzioni della psicologia sperimentale”. È un uomo “metastorico e metaculturale”, nel senso di una disumana e alienante astrazione: non nel senso cioè che possa e sappia giudicare e criticare la cultura e la storia per utilizzarle e rinnovarle, ma nel senso che, concepito ormai come “un organismo biologico legato alle sensazioni elementari e alle necessità pratiche”, vive, di necessità, solo nel presente e, distaccandosi da ogni legame con qualsivoglia tradizione, si è identificato con quel solo momento della sua storia che è appunto, con le sue ideologie, con la sua cultura, la società opulenta.

La generica forza di convinzione delle “immagini” urbane; la mera “percezione visiva” suscitata nel singolo individuo (e sia pure nelle “centinaia di migliaia di individui” statisticamente sommati) dai vari e disparati elementi della città di oggi; la “capacità d’orientamento” che quest’ultima richiede all’uomo che in essa s’avventura: questi sono i fenomeni che interessano il Lynch. E allora, fatalmente, mentre l’esigenza di ricondurre l’attenzione sui problemi della forma si dissolve in uno sterile formalismo psicologico-emozionale, la sua totale indifferenza per una definizione intrinsecamente autosufficiente e non contraddittoria della città lo rende pienamente disponibile per l’opulentismo, Nella patria del Lynch, d’altronde, la società opulenta non si identifica forse, quasi senza più residui, con quella situazione data che nella concezione e nell’ideologia dell’empirismo neopositivistico esaurisce ogni possibilità?

È chiaro dunque perché, sulla base della posizione del Lynch, la città è un fenomeno al quale non è possibile conferire alcun ordine. Essa non è il luogo di una cittadinanza, non è il luogo in cui risiede e opera una società; è soltanto e semplicemente l’ asilo (e la sorgente dei godimenti “visivi” o”percettivi”) di una moltitudine di individui, i quali vivono la loro libertà in modo meramente singolare e particolaristico. Non vi sono quindi - non possono esservi - leggi capaci di regolarla, né ideali comuni che possano darle una ragione.

3. La critica di un comunista.

Il processo dello sviluppo opulento non viene tuttavia tranquillamente accettato dall’insieme dell’attuale cultura urbanistica. Oltre alle due posizioni delle quali ci siamo ora occupati, e che possono venire entrambe riportate a un’identica matrice funzionalistica, esiste infatti - come abbiamo accennato - una terza posizione, caratterizzata dal fatto di avvertire l’estensione e la gravità della crisi cui è giunta l’intera vita sociale nella svolta dal capitalismo borghese all’opulenza, e di opporsi alle conseguenze che tale crisi comporta sul terreno dell’urbanistica, senza individuare peraltro in tutta la sua ambiguità - e dunque anche nella sua potenzialità positiva - la portata di quella svolta.

Una simile posizione è sostanzialmente espressa da un noto urbanista italiano d’orientamento marxista, Carlo Aymonino. Appunto per questo motivo, appunto cioè perché ci sembra che l’Aymonino possa essere considerato un significativo esponente della posizione che ora ci interessa esaminare, ci soffermeremo brevemente sulle sue tesi.

All’Aymonino, senza dubbio, non sfuggono le negatività presenti nell’attuale condizione della città, ma cade nell’errore (di utopistica radice) di un’apodittica negazione di tutta la realtà storica. L’informità della “città terziaria” e il suo carattere parassitario e superfluo; la dissoluzione della città, da “concentrazione stabile produttiva e culturale [...] in una concentrazione temporanea che tende sempre più ad assolvere il solo compito dello sviluppo forzato dei consumi”; la “marcata accentuazione di taluni consumi individuali che divengono “fine a se stessi” e che finiscono per condizionare “l’intera struttura urbana”; infine, “la generale tendenza alla fuga dalla città, verso un territorio che sempre più assume anch’esso gli “aspetti , alienati ‘ della città stessa”, tutti questi fenomeni, che indubbiamente e palesemente caratterizzano la città dell’assetto opulento, sono colti e enumerati (e naturalmente condannati) con una sensibilità critica e una decisione che derivano allo studioso dalla sua esperienza comunista. Tuttavia, l’Aymonino si limita a enumerare semplicemente tali fenomeni, descrivendoli con una certa sommarietà: egli non li analizza e non tenta di individuarli nelle loro cause. La realtà è che egli non intuisce il fatto che la crisi, di cui pur egli coglie tutti gli aspetti negativi,costituisce una svolta effettiva nel processo storico: poiché precisamente l’approdo opulento è senz’altro una novità, una fuoriuscita dall’ordinamento capitalistico-borghese.

I due modelli (quello capitalistico-borghese e quello opulento ), non vengono neppure distinti.. La situazione attuale - la situazione dell’opulenza - è presentata, fuori da ogni sua ambiguità, come un mero deterioramento di quella borghese; la città contemporanea è semplicemente il prodotto di alcune “trasformazioni”, sia pure “notevoli”, della città capitalistico-borghese: e non a caso, sembra talvolta che “l’elemento determinante” di tali trasformazioni debba esser visto unicamente nella “tendenza, da parte delle imprese industriali [ ...] a lasciare la città”.

Ne consegue che l’Aymonino identifica il superamento dell’assetto opulento (il quale tuttavia, et pour cause, non è mai definito come tale dall’Autore) nel rovesciamento dell’assetto capitalistico-borghese - in realtà, come tale, già storicamente finito - e nell’approdo più rapido possibile alla soluzione rivoluzionaria prevista e preconizzata dal marxismo; la quale però, poiché l’avversario che combatteva è stato ormai liquidato dall’opulenza, non si presenta più con le caratteristiche di quella mordente incisività sulla realtà storica che così a lungo ha sostenuto il movimento operaio e ne ha determinato la coscienza e la capacità di lotta, ma deve ormai dispiegarsi, nel vuoto, in tutto il suo astratto contenuto ideologistico, e dunque come salto qualitativo assoluto. Non a caso l’Aymonino, lungi dal partire da una differenziata analisi critica della città di oggi, e insomma da un esame che permetta di rilevare l’ambiguità e di distinguere la potenzialità positiva della città opulenta, dirige sostanzialmente il suo sforzo a dedurre, da una ideale città del futuro, quelle regole che l’urbanistica dovrebbe adoperarsi a imporre al magma confuso e caotico della megalopoli moderna.

E qual’è poi “l’idea generale”, qual’è “la nuova condizione umana, di valore universale”, che in tali regole dovrebbero esprimersi? Di necessità, l’una e l’altra non possono non essere quanto mai indeterminate e vaghe: “la molteplicità delle scelte” per “la più completa libertà sociale” è infatti, per l’Aymonino, quel contrassegno decisivo della società di domani, che nella città d’oggi bisogna prepararsi a esprimere “in termini formalmente compiuti”.

La scarsa chiarezza di tali formulazioni - che l’Autore d’altra parte riconosce di dover “verificare con una ricerca più approfondita” - giustifica il tentativo d’interpretarle. E l’interpreteremo secondo una chiave che l’Aymonino medesimo, con una sua citazione conclusiva di un brano di Marx, sembra suggerire e legittimare: secondo una chiave marxiana.

Ma prima di accingerci a questo tentativo, vogliamo osservare che il brano di Marx citato dall’ Aymonino - soprattutto se letto nel suo contesto - non ci sembra particolarmente calzante con l’”ipotesi di ricerca” alla quale lo studioso comunista vuole riferirlo. Marx sostiene infatti che “la natura della grande industria porta con se variazioni del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell’operaio in tutti i sensi. Dall’altra parte essa riproduce l’antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica. Si è visto - prosegue Marx - come questa contraddizione assoluta elimini ogni tranquillità, solidità e sicurezza delle condizioni di vita dell’operaio, e minacci sempre di fargli saltare di mano col mezzo di lavoro il mezzo di sussistenza e di render superfluo l’operaio stesso rendendo superflua la sua funzione parziale; e come questa contraddizione si sfoghi nell’olocausto ininterrotto della classe operaia, nello sperpero più sfrenato delle energie lavorative e nelle devastazioni derivanti dall’anarchia sociale. Questo è l’aspetto negativo. Però, se ora la variazione del lavoro si impone soltanto come prepotente legge naturale e con l’effetto ciecamente distruttivo di una legge naturale che incontri ostacoli dappertutto, la grande industria, con le sue stesse catastrofi, fa sì che il riconoscimento della variazione dei lavori e quindi della maggior versatilità possibile dell’operaio come legge sociale generale della produzione e l’adattamento delle circostanze alla attuazione normale di tale legge, diventino una questione di vita e di morte. Per essa diventa questione di vita e di morte sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell’uomo per il variare delle esigenze del lavoro; sostituire all’individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l’individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l’un con l’altro.

Marx coglie quindi una contraddizione tra la “grande industria” e la “sua forma capitalistica”, e riconosce nell’”individuo totalmente sviluppato” un obiettivo che si raggiungerà solo con l’”inevitabile conquista del potere politico da parte della classe operaia”. Ma ci ‘sembra chiaro che un simile obiettivo è, nella dottrina comunista e marxista, soltanto un obiettivo storico, intermedio; un obiettivo che si colloca pur sempre all’interno di quella “sfera di produzione materiale vera e propria” da cui è indispensabile uscire per raggiungere, nella sua pienezza, il “regno della libertà”. Ci sembra in definitiva che sia a una siffatta “libertà”, e non a quella direttamente e quasi tecnologicamente legata alla “grande industria”, che l’ Aymonino si riferisca: ci stupirebbe, oltretutto, che la nuova condizione umana di valore universale, cui l’ Aymonino allude, fosse esclusivamente legata a una determinata “forza produttiva”, quale la “grande industria” indubbiamente rimane.

4. Città comunista e città opulenta: due prospettive coincidenti?

In realtà, come è sufficientemente noto, nella posizione marxiana e marxista la condizione umana di piena libertà, quella condizione che comporta il salto qualitativo dal “regno della necessità” al “regno della libertà”, si viene a realizzare e a concretare nella fuoriuscita dal lavoro: e cioè da quel momento insostituibile della vicenda dell’uomo, da quel fondamentale aspetto della sua operazione, che nel marxismo è vissuto come contingente - o meglio storica - alienazione, e nel cui superamento pienamente si identifica il punto di discrimine tra un’esistenza umana determinata “dalla necessità e dalla finalità esterna”, e un’esistenza vissuta invece, finalmente, come libero e dispiegato “sviluppo delle capacità umane”.

Non ci sembra una pretestuosa forzatura delle tesi dell’Aymonino, né un’avventata estrapolazione di esse, sostenere - come sosteniamo - la coincidenza tra la città in cui sarà verificata “la più completa libertà sociale” e la società che sarà marxianamente pervenuta al “vero regno della libertà” uscendo dalla necessità del lavoro. C’è dato allora di cogliere il perché della insufficienza e dell’astrattezza dell’ “ipotesi” dell’Aymonino, nella sua pretesa di essere proposta risolutrice dei problemi della città d’oggi. Bisogna infatti convenire che, per la posizione di cui ci stiamo ora occupando, la città dell’avvenire, la città della “molteplicità delle scelte” e della “più completa libertà sociale” - quella città da cui pur debbono trarsi le regole per ordinare la realtà urbana di oggi - è vista e prefigurata come la città in cui si è raggiunta quella “condizione fondamentale” per l’avvento del “vero regno della libertà” che Marx vedeva in una massima “riduzione della giornata lavorativa”, e in cui perciò l’estensione generalizzata del tempo libero è divenuta la condizione comune di una umanità affrancata dall’alienazione del lavoro.

Ma pur tralasciando ogni considerazione di principio sulla validità umana di una simile prospettiva, dobbiamo peraltro necessariamente sottolineare che entro una tale ipotesi la tensione rivoluzionaria del comunismo finisce inevitabilmente per identificarsi con la realtà storica dell’opulenza. È stato proprio uno studioso di formazione marxista, Herbert Marcuse, a cogliere con singolare acutezza il fatto che, nella realtà della società opulenta, viene esclusivamente a concretarsi proprio quella tesi marxiana “secondo cui il regno del lavoro non può che restare il regno della necessità [ ...] , mentre il regno della libertà può svilupparsi unicamente al di fuori e al di sopra del regno della necessità”. Afferma infatti ancora il Marcuse:

“Io credo che qui dovremmo discutere se nella società industriale ad alto sviluppo questa concezione possieda ancora un valore in generale, ed è probabilmente questo il punto più cruciale di tutta la questione: amiamo tutti i concetti di piena realizzazione di ciascuno, di libero dispiegamento delle capacità individuali, a tutti sta a cuore l’eliminazione dell’alienazione, però oggi dobbiamo domandarci: che senso ha una cosa del genere? Che senso ha, se nella società tecnologica di massa il tempo lavorativo, il tempo lavorativo socialmente necessario, è ridotto al minimo e il tempo libero quasi tocca le proporzioni di un tempo pieno? Che fare allora? Se ancora indulgiamo a espressioni venerande come “lavoro creativo” o “sviluppo creativo”, non verremo a capo di nulla. Che senso ha oggi quella vecchia istanza? Vuol dire che tutti andranno a pesca o a caccia, che scriveranno tutti poesie o dipingeranno e via elencando? So bene che è facilissimo tirare al ridicolo in queste cose, e in questo momento mi esprimo in modo provocatorio, giacché proprio questo è per me uno dei più seri problemi del marxismo e del socialismo, e penso non di questi soltanto. Proprio su questo punto dobbiamo acquisire concretezza, e non limitarci più a discorrere di autodispiegamento dell’individuo e di lavoro non alienato, ma porci la domanda: che senso ha una cosa del genere? Perché la progressiva riduzione del lavoro necessario non è più un’utopia, bensì una possibilità molto reale”.

Allora la città del futuro, la città nella quale ci si illude di trovar la legge per superare le negatività presenti nella città contemporanea, viene a coincidere, praticamente senza residui, con la città dell’opulenza. Infatti, come abbiamo dimostrato, il tempo libero non è altro che il portato naturale dell’evoluzione del sistema in cui il lavoro è ridotto - sulla base della originaria operazione dello sfruttamento - a capitale; di quella evoluzione, precisamente, che ha nell’assetto opulento il suo punto terminale e invalicabile.

Quindi affrontare oggi il problema della città entro la prospettiva di una libertà realizzata come uscita dal lavoro, conduce, di fatto, semplicemente a proseguire lo sviluppo opulento dell’insediamento urbano, venendo a porre oggettivamente in crisi ogni volontà rivoluzionaria di rinnovamento; sicché, seppur si vuole salvare quest’ultima, seppur si vuole rimanere fedeli, si è necessariamente sollecitati alla fuga in avanti nell’utopia e nell’estremismo. In realtà, proprio dalle posizioni come quelle dell’Aymonino si sprigiona spesso una tensione ad accelerare ed estremizzare quel processo di trasformazione opulenta della città che - lo abbiamo visto - porta alla fine, inevitabilmente, l’insediamento urbano al suo destino di crisi: a quel destino, cioè, che vede l’unica possibile uscita dalla congestione metropolitana (e dalla conseguente paralisi della vita urbana) nella dispersione delle residenze e nella dissoluzione dell’organismo cittadino.

Ma c’è di più: poiché il limite della piena uscita dal lavoro e della generale affermazione del tempo libero rimane semplicemente un limite, poiché in altri termini non si raggiunge mai, per i motivi che abbiamo più sopra enunciati, la piena e definitiva uscita dalla forma (fenomenologica, sociologica, psicologica) del lavoro e il tempo libero viene invece largamente vissuto come lavoro superfluo, ecco che la posizione della quale ci stiamo ora occupando deve rivelare, come necessario contrappunto all’estremismo, anche il proprio velleitarismo. Ed ecco allora che, mentre da un lato, come prima s’è visto, si è dovuta far propria la prospettiva e la tendenza dello sviluppo opulento, dall’altro lato, ogni qual volta ci si propone di far concretamente i conti con le cose, si è costretti ad accettare la realtà dell’opulenza così come questa storicamente si presenta. Ci si riduce, perciò, in definitiva, accantonando la critica e l’opposizione alle conseguenze dell’opulentismo, a rimaner subalterni a quest’ultimo anche nell’immediato: ad accettare in sostanza questa città così come il processo opulento la va configurando, e a celebrarne gli aspetti più caratterizzanti e negativi: il “problema” del tempo libero, la centralità delle attività terziarie, la genericità e la fungibilità dei valori e dei contenuti.

Non ci sembra dunque casuale se nell’attuale pratica professionale degli urbanisti italiani si rileva spesso una chiara tendenza formalistica, dalla quale non è esente chi, come l’ Aymonino, pur partendo dalla premessa della necessità di un impegno nell’analisi e nella trasformazione della società, e cogliendo poi una serie di importanti aspetti della nostra realtà sociale e urbanistica, non raggiunge però una sufficiente consapevolezza dei problemi e delle prospettive del nostro tempo. Una prova significativa di tale tendenza formalistica è costituita, crediamo, dalla fortuna che ha incontrato - proprio tra gli urbanisti più vicini alla posizione che abbiamo ora analizzato - la tematica non priva d’interesse, ma certo ambigua, dei contenitori. Questi sono infatti presentati e concepiti spesso come organismi urbanistici e architettonici nei quali è possibile svolgere, indifferentemente, una serie di funzioni estremamente varie e diverse (commerciali, residenziali, burocratiche e amministrative, artigianali, scolastiche, ricreative e così enumerando), senza che nessuna di esse conferisca un qualche carattere distintivo all’edificio nel quale vien svolta. Il contenitore, in altri termini, si configura come una struttura edilizia e urbanistica massimamente fungibile e ”poli-funzionale”, disponibile per qualunque contenuto, e ridotta quindi tendenzialmente a pura forma, ossia a mera empiricità generica.

5. La questione delle attrezzature collettive”

C’è un tema, fra tutti quelli che oggi costituiscono argomento di studio e di discussione tra gli urbanisti, che nonostante la sua apparente settorialità e il modo in cui finora è stato affrontato, ci sembra comunque - per tutto quello che abbiamo fin qui i sostenuto - particolarmente interessante e merita senz’altro di essere preso in considerazione: è il tema delle cosiddette “attrezzature collettive”. È chiaro il motivo di questa nostra affermazione: le “attrezzature collettive” costituiscono, infatti, i luoghi, le aree, gli edifici predisposti e organizzati per la soddisfazione di una serie di esigenze di carattere pubblico e comune; esse costituiscono dunque, per ciò stesso, un momento urbanistico legato a quella realtà del consumo comune di cui abbiamo ribadito più volte l’importanza e la decisività.

Le attrezzature scolastiche e per l’infanzia, le chiese e i centri parrocchiali, le attrezzature sanitarie e quelle ricreative e sportive, i centri culturali e le biblioteche, le attrezzature per l’esercizio dei diritti democratici, i centri sociali e quelli civici, i centri commerciali e le attrezzature collettive domestiche: queste sono - in una delle classificazioni correnti - le principali categorie di “attrezzature urbanistiche” oggi riconosciute. E non è forse evidente che esse costituiscono una sorta di prolungamento di quei luoghi e quegli edifici (l’acropoli, la rocca, l’agorà, il foro e l’arengo, il tempio e la cattedrale) che nella città classica e in quella medievale costituivano i punti focali della vita cittadina e i nuclei dell’ordinamento formale dell’organismo urbano? Non sono esse forse lo sviluppo di quei servizi collettivi che Owen e Fourier ponevano al centro delle New Harmony o dei Falansteri? Tutto ciò è talmente ovvio e palese che non merita certo di soffermarvisi più a lungo. Ma quel che vogliamo ora sottolineare è che la questione delle “attrezzature collettive”, ove sia posta al centro dell’interesse e dell’impegno di quanti si occupano del destino della città contemporanea, se consente di cogliere, nell’immediato, l’occasione dell’opulenza, costituisce anche un iniziale superamento dei suoi limiti.

In effetti, dato che l’assetto opulento è caratterizzato dal fatto che, nel suo ambito, il consumo di tutti è divenuto la dimensione centrale e decisiva dell’intera vita economica e sociale, e che esso può -e addirittura deve - crescere ed espandersi con una propria autonomia, ecco che esiste oggi la possibilità concreta di cogliere l’occasione dell’opulenza non solo per soddisfare, in modo via via più ampio, i bisogni che vengono oggi avvertiti, ma per porre anzi, dispiegatamente, il consumo di tutti - nella sua nuova autonomia - come la realtà centrale e ordinatrice dell’organismo urbano: di porre perciò le “attrezzature collettive” come l’elemento decisivo della città.

D’altra parte, dal momento che il limite dell’opulentismo è soprattutto ed essenzialmente costituito, nei confronti della città, dall’individualismo che è intrinsecamente connesso al modo opulento di fruire il consumo, è chiaro che ogni sforzo orientato a consolidare o a inventare, a proporre o a sostenere forme comuni di consumo, è uno sforzo che, per ciò stesso, tende a porsi in opposizione alla logica del modello opulento, a contraddirla e a negarla e, infine e in prospettiva, a pretenderne e a prepararne il rovesciamento e la sostituzione. La questione delle “attrezzature collettive” potrebbe allora effettivamente costituire il fulcro di un’azione volta a restituire un ordinamento autonomo alla città; a operare dunque per la città di domani, cominciando a costruirla nel presente. E poiché una tale questione è stata già da tempo affrontata, dalla cultura e dalla prassi urbanistica, si tratta di vedere adesso in che modo gli urbanisti abbiano saputo lavorare su di un simile tema.

Occorre innanzitutto rilevare, a questo proposito, che negli ultimi anni si è manifestato nel nostro paese un rinnovato interesse per il problema delle “attrezzature collettive”, e che un primo frutto di tale interesse può esser già oggi individuato in alcuni parziali approfondimenti di quel problema, i quali, pur senza costituire delle clamorose novità -e, soprattutto, senza aver condotto ancora a un organico e complessivo sviluppo della questione delle “attrezzature” -, indicano tuttavia una positiva tendenza della cultura urbanistica, che ci sembra interessante sottolineare per due motivi particolari.

Innanzitutto perché, dal momento che quegli approfondimenti non nascono da un tentativo di individuare le ragioni di principio dell’operazione urbanistica, e sono invece essenzialmente sollecitati dalle esigenze della pratica, essi - se sono ancora, appunto per tale motivo, precari e insufficienti - costituiscono però una prova ulteriore di un fatto al quale abbiamo già accennato: del fatto, cioè, che è la medesima realtà d’oggi, la realtà dell’opulenza, a pretendere ( e a consentire) un più largo e impegnato interesse al tema delle attrezzature urbanistiche. In secondo luogo, perché nella capacità dimostrata dagli urbanisti (o, almeno, dai migliori di loro) di avvertire e registrare la sollecitazione che scaturisce dalla concreta realtà sociale (quella sollecitazione per uno sviluppo del consumo di tutti, di cui s’è detto), si può scorgere un confortante segno di speranza per una loro più matura presa di coscienza.

La necessità di superare la tradizionale separazione tra “residenze” e “attrezzature”, e la conseguente concezione dello sviluppo della città come una continua “aggiunta” di unità integrate, in cui le parti tradizionalmente “residenziali” costituiscono solo un aspetto, inscindibile dagli altri; la proposta di realizzare un “telaio” di “attrezzature collettive” come struttura ordinatrice dell’organismo urbano, e dell’intero territorio, al quale è tendenzialmente esteso “l’effetto città”; l’esigenza di sottrarre “le attrezzature collettive” ai criteri strettamente funzionalistici o fisiologici che, nell’impostazione tradizionale, ne regolavano avaramente il dimensionamento, e la tendenza invece a stabilire degli “standards” fondati sulla previsione di un più largo affermarsi della dimensione sociale della vita dei cittadini , queste sono, tra le nuove acquisizioni dell’urbanistica italiana, quelle che ci sembrano più interessanti e promettenti. In esse, infatti, comincia a manifestarsi empiricamente non solo una generale tendenza a estendere quantitativamente il peso delle “attrezzature collettive” e a precisare e ad affinare i metodi per una loro migliore determinazione, ma, soprattutto, una iniziale e positiva volontà: la volontà di rompere le barriere che separano il consumo pubblico dal consumo privato e di vivere ogni momento della “residenza” come consumo pubblico; la volontà di ricondurre un tale consumo al suo ruolo di elemento centrale e ordinatore della città; di valutare e misurare l’efficacia dell’operazione urbanistica in base al grado di fruibilità del consumo comune assicurato a ogni cittadino dalle sistemazioni urbanistiche stesse; di trovare infine, proprio sul terreno del consumo pubblico e comune, il decisivo e peculiare punto d’incontro tra l’urbanistica e la realtà sociale.

6. L ‘ipotesi del modello nucleare”

Certo, una siffatta volontà, proprio perché per ora è generalmente vissuta come empirica approssimazione, proprio perché non è ancora sufficientemente fondata ne su di una chiara ed esplicita consapevolezza dei principi peculiari alla disciplina urbanistica né su di una rigorosa analisi del processo storico contemporaneo, rischia di stemperarsi nella ovvietà del praticismo - o addirittura di dissolversi nelle frivolezze brillanti di una moda -, e minaccia contemporaneamente di risolversi in una mera velleità tecnocratica.

Già altre volte la tendenza tecnocratica e il velleitarismo demiurgico hanno pesato sulle migliori intenzioni e sulle intuizioni più promettenti degli urbanisti. È il caso, che qui particolarmente ci interessa ricordare, di quella concezione “nucleare della città che, pur costituendo un primo tentativo moderno di conformare 1’insediamento umano sulla base di una determinata organizzazione delle attrezzature, si traduceva poi in uno schema razionalisticamente e astrattamente precostituito dei modi della convivenza sociale, il quale non trovava alcuna effettiva corrispondenza nella realtà della società civile, e tentava perciò di sovrapporsi a quest’ultima come una soffocante camicia di Nesso oppure - più sovente - veniva da essa anarchicamente rifiutato e infranto.

Non vogliamo affermare con questo che non abbia, in linea di principio, alcun senso la tesi secondo cui la società (e dunque anche la città) debba trovare la propria più peculiare e armonica organizzazione in una gamma via via crescente di organismi e istituti e livelli associativi, che dall’iniziale nucleo sociale della famiglia si allarghino a mano a mano fino a comprendere l’intera umanità. In questo senso, anzi, ci sembra che i propugnatori del “modello nucleare” abbiano colto, sia pure implicitamente e con tutti i limiti di un’approssimazione astrattamente sociologica, una importante verità di principio, che sarebbe del tutto erroneo negare seccamente, respingendo la vita sociale ai suoi poli estremi: l’individuo e l’umanità.

Resta tuttavia indiscutibile il fatto che oggi, nella concreta situazione della nostra epoca, la vita sociale non è organizzata - né è immediatamente organizzabile - secondo i moduli ipotizzati nel “modello nucleare” della città. Così, mentre l’esclusivizzata astrattezza di un tale modello conduceva i suoi sostenitori a esaltare gli ipotetici elementi di coesione entro i vari “livelli associativi” da essi previsti (e a trascurare di conseguenza le relazioni tra i diversi “livelli” ), la loro preoccupazione di valorizzare una sociologica “scala umana” li portava a dissolvere tendenzialmente l’unitarietà dell’intero organismo sociale e urbano in nome di una velleitaria - o soffocante - compattezza dei “livelli” elementari (le “unità di vicinato”, le “comunità”, i”quartieri”). E perciò appunto, essi erano inevitabilmente condannati a raggiungere, con la loro azione, due sbocchi pratici entrambi negativi.

Da un lato, infatti, nella misura in cui le loro schematiche teorie riuscivano a trovare una qualche concreta applicazione, essi potevano ancorarsi, entro il sistema sociale storicamente dato, a un unico punto di riferimento, a una sola struttura organizzativa: quella costituita dalla dimensione produttiva. Nascevano così i”quartieri operai”, o le “comunità” strettamente e funzionalmente asservite - in modo più o meno paternalistico - a questa o a quell’altra fabbrica; nascevano, insomma, le unità residenziali pienamente e direttamente appiattite alle leggi e agli interessi aziendali, segregate e rinchiuse nel cerchio angusto di una realtà produttiva prevaricatrice e alienante. Ma dall’altro lato, nella misura in cui la vita sociale rifiutava di farsi imprigionare negli schemi razionalistici e nelle tecnicistiche astrazioni dei propugnatori del “modello nucleare”, quest’ultimo veniva semplicemente vanifìcato e dissolto dall’incontro con la concretezza delle cose, e rivelava tutto il suo velleitarismo. La forza spontanea della vita sociale operante nella città - di una vita sempre più dominata dal dispiegarsi del consumo opulento -, sebbene priva di un suo ordine sufficiente disgregava le tecnocratiche illusioni dei pianificatori, e svuotava di contenuto e di significato i loro tentativi e i loro progetti.

7. La linea degli standards”

A un destino analogo va incontro chi, senza rendersi conto della reale portata e della potenzialità di rinnovamento che è sottesa al tema delle “attrezzature collettive”, vede in esso unicamente il problema di assicurare ai cittadini, in aggiunta alle dotazioni edilizie di cui già possono disporre (case, alloggi, stanze), “adeguate” dotazioni urbanistiche di verde attrezzato, di aree ed edifici scolastici, e così enumerando.

È esattamente ciò che accade nell’ambito di quella che può esser definita la “linea degli standards urbanistici”. Infatti entro questa linea si perviene, è vero, a comprendere che il problema della città può esser risolto solo se si pone l’accento sugli elementi pubblici, comuni, collettivi: ma questi ultimi non vengono visti come l’elemento ordinatore dell’intero insediamento umano, come il principio stesso della città, come il momento decisivo di quest’ultima e di ciascuna delle sue parti. Gli elementi pubblici vengono considerati invece unicamente come delle aggiunte , come delle integrazioni, che devono completare un assetto delle città che può, in definitiva, restare quello tradizionale.

Poco importa in altri termini, agli assertori della “linea degli standards”, che la porzione volumetricamente più consistente della città (quella costituita dagli edifici destinati alla residenza) resti sostanzialmente immodifìcata, e perciò dominata da una concezione individualistica dell’abitare. Poco importa che ogni uomo, ogni cittadino, resti un individuo nel suo alloggio, e che continui a fruire entro di esso un consumo individualisticamente organizzato: basta solo che ogni individuo possa disporre, oltre che dell’alloggio tradizionalisticamente inteso, anche di determinate quantità di aree destinate a usi comuni e pubblici.

È facile rendersi conto dell’insufficienza di una linea siffatta. Essa, in primo luogo, è una linea meramente riformistica, e come tale è per principio subordinata al sistema dato. Non abbiamo forse affermato che gli elementi pubblici sono concepiti - entro quella linea - solo come aggiunte e integrazioni? Ma allora, essi vengono inevitabilmente concessi unicamente laddove ( e nella misura in cui) il sistema può concederli, senza nulla modificare della propria sostanza. Per ciò appunto, la città che è possibile conformare secondo la “linea degli standards” non solo è una città nella quale i superamenti dell’individualismo sono sempre inevitabilmente parziali, hanno sempre un carattere meramente sussidiario, non solo è una città in cui ibridamente convivono elementi comuni e parti dominate dall’individualismo, ma è poi un insediamento nel quale quel tanto di elementi comuni, non più individualistici, che è stato concesso, può essere in ogni istante contraddetto e negato.

La “linea degli standards” è dunque anche una linea velleitaria. In effetti, in tutto il periodo in cui il processo dell’opulenza è ancora al suo inizio, la richiesta di dotazioni in aggiunta deve inevitabilmente venir respinta, perché la spesa che essa inevitabilmente comporta, mentre non appare oggettivamente necessitata, non corrisponde d’altra parte a una qualche riduzione di spesa (quindi a una liberazione di risorse) in un altro punto dell’assetto urbanistico e sociale.

Poi, a mano a mano che l’evoluzione opulentistica fa scomparire - nell’inutile abbondanza - ogni problema di risorse, e che diviene perciò economicamente possibile soddisfare la richiesta di quelle dotazioni in aggiunta, l’ibridismo tra elementi comuni e parti individualistiche d’1ll’insediamento viene fatalmente a risolversi nell’unico modo pienamente compatibile con l’opulentismo: con la fine cioè, con la scomparsa e la vanificazione, di quel tanto di elementi comuni che è riuscito a manifestarsi e a concretarsi, e con il trionfo di quell’insediamento disperso che segna evidentemente la fine di ogni linea legata all’espressione degli elementi comuni della città.

8. L ‘indispensabile punto di partenza

Disconoscere il carattere ambiguo dell’opulentismo impedisce di portare un contributo risolutivo alla crisi della città; si è infatti portati, inevitabilmente a una evoluzione del sistema sociale che è letale per la città, oppure - sottolineando esclusivamente ,gli aspetti negativi dello sviluppo opulento e impedendosi così di scorgere la potenzialità positiva che ambiguamente convive nella complessa realtà dell’opulenza - a vedere l’unica strada in un’astratta e velleitaria fuga in avanti. Ma non basta neppure - lo abbiamo visto - avvertire solo empiricamente la centralità della questione degli elementi comuni della città: che in tal modo non si giunge a comprendere il collegamento profondo che esiste tra il problema della rinascita della città e quello dello sviluppo della società, e si è condotti a oscillare tra le tentazioni tecnocratiche e demiurgiche e le ovvietà subalterne del riformismo.

Per superare effettivamente l’opulentismo (e, con esso, la minaccia che grava sulla città d’oggi) bisogna invero riconoscerlo innanzitutto come tale: bisogna assumere cioè piena consapevolezza della svolta che esso rappresenta rispetto all’ordinamento capitalistico-borghese e coglierne quindi, insieme, il limite erroneo e l’intrinseca potenzialità positiva. È solo in tal modo, è solo nel quadro di una reale e dispiegata comprensione dell’opulentismo e della concreta possibilità di superamento che in esso si manifestano, che possono oltre tutto acquistare un significato non velleitario ne generico alcune intuizioni che sono contenute nelle posizioni più interessanti della presente cultura urbanistica; è solo in tal modo che diviene possibile dare una ragione, un senso, una prospettività, una profondità storica a quelle concrete iniziative, oggi ancora vissute empiricamente, nelle quali i migliori urbanisti italiani dimostrano di saper cominciare a cogliere - almeno praticamente e nelle cose - la possibilità costituita dall’opulenza.

Per conto nostro, crediamo di aver dimostrato a sufficienza in che cosa risieda una simile possibilità; abbiamo anzi già accennato a una generale linea d’ azione (quella, in sostanza, che consiste nello sviluppo del consumo di tutti in consumo comune) attraverso cui quella possibilità può divenire effettuale. Ma come può cominciare a svo1gersi, concretamente e nei fatti, una simile linea d’azione? Come partire per cogliere l’occasione dell’opulenza e per dar principio a quel superamento dei limiti dell’opulentismo, che è indispensabile per liberare la città dalla minaccia che grava su di essa, e per darle anzi un volto pienamente estetico?

Occorre innanzitutto uscire dal chiuso dei discorsi strettamente settoriali e specialistici, e sforzarsi invece di legare la tematica urbanistica, nel suo complesso, alla concretezza, alla carne e al sangue della vita sociale: e precisamente alla vita di una società che, giunta ormai all’opulenza, è contraddistinta dalla piena affermazione del momento del consumo. Siamo così riportati al nostro primo problema: il problema di sviluppare, di rendere consapevole, di portare a piena conoscenza, quella volontà di conformare la città d’oggi secondo le esigenze del consumo comune. Una simile strada, può oggi esser effettivamente percorsa? Esiste insomma la possibilità che la società venga incontro agli urbanisti, e li strappi finalmente da quell’isolamento, da quell’amara e distaccata solitudine, in cui intristiscono le loro migliori intuizioni? La risposta, in linea di principio, non è davvero difficile, dopo tutto quel che abbiamo finora argomentato; anzi, ne discende direttamente e immediatamente.

E in effetti, poiché nell’assetto opulento si è affermato un consumo di tutti che pretende oggettivamente e inconsapevolmente di liberarsi dalle mistificazioni dell’individualismo, e aspira a svilupparsi in consumo comune, deve certamente esistere, nella società, un insieme di forze che sollecitano a tale sviluppo, e che vi sono anzi vitalmente interessate. È allora proprio nel collegamento con queste forze che l’urbanistica può trovare non solo il sostegno tattico, ma soprattutto l’alleanza strategica. Essa può ritrovarvi cioè, insieme con quel positivo condizionamento che le garantisca di evitare la tentazione demiurgica e velleitaria, anche quel radicamento di principio nella storia che le consenta di acquisire la base per l’esplicazione della propria autonomia.

Per individuare queste forze dovremo approfondire l’esame dell’opulenza, spostando però l’attenzione, dal terreno dei princìpi e dalle leggi di fondo, al terreno della concretezza storica e del processo attraverso il quale l’opulentismo si viene manifestando e affermando, soffermandoci in particolare sulle contraddizioni sociali che nel corso di quel processo si sviluppano.

I giovani, gli studenti dei paesi nei quali il processo opulento si è maggiormente sviluppato, i figli di quel medio ceto largamente parassitario e privilegiato che è il primo benefìciario dei consumi opulenti, sono stati tra i primi a esplodere e a ribellarsi. Ma la rivolta delle università è soltanto un avvertimento, è un segnale della tensione nascosta sotto le levigate apparenze della «società del benessere». In altri modi, per altre vie, lungo altre linee di frattura possono erompere e liberarsi quelle contraddizioni che lo sviluppo dell’opulenza viene man mano ad accumulare.

Quali sono però queste contraddizioni? Possono esse costituire la base materiale di una politica diretta alla fuoriuscita dai meccanismi dell’opulenza e alla fondazione di un differente sviluppo? Ci proveremo adesso a rispondere a entrambe queste domande.

Ciò che ci sembra di dover in primo luogo sottolineare è che lo sviluppo opulento, nella sua fase iniziale, non si presenta certamente come una realtà capace di superare in modo pieno, e quindi di risolvere effettivamente, le antiche contraddizioni: quelle cioè che in qualche modo costituiscono il risultato cumulativo degli errori, delle parzialità, dei limiti, da cui è stato contrassegnato il processo storico. Anzi, è facile vedere che l’opulenza, proprio per le intrinseche leggi che regolano il suo sviluppo, se certamente perviene a ridurre via via l’incidenza sociale e politica di quelle contraddizioni, può farlo soltanto emarginandole, congelandole, regalandole, per così dire, ai confini della realtà da essa più direttamente dominata: conservandole insomma come sacche, quasi perpetua testimonianza delle parzialità del suo stesso sviluppo.

Si rifletta, ad esempio, sulla grande contraddizione a scala mondiale tra i paesi del capitalismo maturo e i paesi della miseria e della fame: una contraddizione che pesa già gravemente sulle decisioni di politica internazionale dei paesi ricchi, e perciò sulle stesse condizioni del loro assetto interno. Ebbene, è anche troppo chiaro che, ove si rimanga passivamente nel quadro dell’evoluzione opulentistica, quella contraddizione non può non permanere e non accentuarsi. Nulla invero, del meccanismo e della logica dello sviluppo opulento, può far prevedere che la grande contraddizione a livello mondiale dei nostri tempi possa venir risolta o riassorbita; tutto, anzi, indica il contrario, e precisamente l’inevitabilità, entro il quadro dell’opulenza, di un progressivo approfondirsi di quel pauroso abisso che già spacca l’umanità in due tronconi, con l’esplosione di nuovi eccidi, nuove catastrofi e nuovi massacri.

Si rifletta, ancora, su quella tipica contraddizione che si manifesta nella realtà del nostro paese (ma non solo del nostro), e che investe la campagna e il mondo contadino. È questa, certamente, una contraddizione tipica dello sviluppo capitalistico-borghese, e difatti già i primi utopisti e, più tardi, i fondatori del socialismo scientifico non mancarono di individuarla e di criticarla. Essa non viene però positivamente risolta dallo sviluppo opulento, e viene anzi tendenzialmente eliminata attraverso una secca eliminazione del mondo contadino, al quale oggi viene indicata come unica alternativa la dissoluzione e la definitiva scomparsa, in un processo tumultuoso e spontaneistico che condanna gli abitanti delle campagne a scegliere tra due sole soluzioni, entrambe socialmente e umanamente intollerabili, e perciò gravide di tensioni. Una è quella del restare in una campagna e in un’agricoltura sempre più immiserite ed emarginate; l’altra è quella dell’abbandono disperato della terra, delle tradizioni, della classe, delle abitudini, dei vincoli familiari e sociali -e infine del naufragio nelle squallide periferie urbane e nella condizione tragicamente subalterna del sottoproletario.

Si rifletta, infine, sulla contraddizione implicita nella presente condizione femminile: una contraddizione «classica» ormai nella realtà sociale, ma non ancora nella letteratura, ne nella critica e nell’azione politica. Su quest’ultima contraddizione gioverà soffermarsi con una certa ampiezza, e ciò non solo per la scarsa consapevolezza che per essa hanno finora dimostrato il personale politico e più in generale gli intellettuali nel loro complesso, e che quindi sollecita a un esame più ampio di quello necessario per altre «questioni» ormai entrate nella coscienza comune, ma anche perché nell’attuale condizione femminile è possibile rinvenire una sollecitazione particolarmente significativa a risolvere il problema della città nel modo omogeneo alle tesi che abbiamo dimostrato e alle ipotesi che abbiamo assunto.

2. La questione femminile

La tradizionale condizione femminile (quella condizione la cui presa di coscienza determinò il sorgere del movimento di emancipazione) ha una sua fondamentale caratteristica sociale nel fatto che tutti i consumi che si svolgono nell’ambito familiare vengono organizzati e gestiti dalla donna, la quale, privata di qualunque libertà nella scelta delle proprie opportunità di lavoro, è esclusivamente relegata al ruolo di erogatrice dei servizi necessari a fruire di tali consumi. Una simile situazione (che si risolve di fatto, quali che possano essere le coperture e le mistifìcazioni, in una piena servitù della donna) poteva comunque venir subita tranquillamente e quasi naturalmente, finché il lavoro femminile extra-domestico rimaneva un’eccezione; essa doveva però rivelare tutta la sua insopportabilità umana e sociale quando l’affermarsi della produzione capitalistica, con il suo progressivo allargarsi fino a investire l’ «esercizio di riserva» costituito dalla forza-lavoro femminile, conduceva all’ingresso di quest’ultima, in aliquote sempre più ampie, nell’attività produttiva.

In effetti, all’impiego capitalistico della forza-lavoro femminile non è venuta a corrispondere una sufficiente assunzione, da parte della società, dei compiti del lavoro casalingo. Di conseguenza, nel momento stesso in cui la donna, con il suo ingresso nel mondo del lavoro, ha dato inizio al processo della propria emancipazione, essa ha dovuto però pagare lo scotto d’essere sottoposta a un doppio lavoro: quello della fabbrica, o comunque delle sue mansioni nel processo produttivo al livello sociale, e quello casalingo della ‘gestione domestica.

È appunto per tutto questo, è appunto per liberare la donna dal peso inumano e insopportabile di un simile doppio lavoro, che i più consapevoli settori del movimento di emancipazione, mentre dovevano salutare, come un positivo portato allo sviluppo storico e come una sostanziale affermazione della libertà femminile, l’ingresso delle donne nella dimensione sociale della produzione, dovevano però, al tempo stesso, lottare perché le donne fossero affrancate dalla servitù dell’altro lavoro; perché dunque la custodia e l’istruzione della prole, la cura e la manutenzione degli alloggi, la preparazione dei pasti tutti gli aspetti, insomma, dell’”economia domestica” fossero progressivamente svolti sulla base, nelle forme e con l’efficienza di un vero e proprio lavoro, e non più attraverso la servile supplenza del «lavoro casalingo».

Ma uscire effettivamente dal «lavoro casalingo», organizzare come un vero e proprio lavoro i servizi tradizionalmente svolti dalla donna nell’ambito della famiglia, è evidentemente possibile solo se i consumi cui quei servizi sono ordinati mutano anch’essi radicalmente di segno; poiché è chiaro che i consumi domestici possono essere soddisfatti mediante l’erogazione di un lavoro che sia realmente tale ( di un lavoro cioè pienamente economico, nel senso di qualificato, efficiente, socialmente organizzato), soltanto se escono dall’individualismo che inevitabilmente li caratterizza finche vengono esclusivamente vissuti nell’ambito familiare, e si sviluppano in consumo comune.

Non è questa però - ormai lo abbiamo ampiamente argomentato - la strada seguita dal processo opulento; il consumo individualistico non si muta in consumo comune, ma viene anzi esaltato e sviluppato in modo parossistico e abnorme. Non si realizza perciò quella condizione necessaria, che sola può consentire alla donna di uscire dalla condizione inumana del “doppio lavoro”, senza nulla perdere della conquista raggiunta nel processo emancipatorio. Ma v’è di più. Nella società opulenta le donne non solo non vengono liberate dalla servitù casalinga; esse, mentre vengono ribadite nella loro condizione di erogatrici di servizi domestici, sono contemporaneamente sospinte ad abbandonare quell’unica e decisiva posizione che avevano raggiunto nella loro lotta emancipatoria. Le donne, infatti, vengono indotte dall’opulentismo a lasciare il mondo del lavoro e a chiudersi in quello di una “mistica femminile” nella quale rivivono, aggiornati e ammodernati, quegli antichi e mitici “valori femminili” che avevano mistificato e coperto la servitù casalinga della donna, presentandola come la connaturata e positiva prerogativa dell’ “angelo del focolare”.

Chiara è la ragione di ciò: non è forse il lavoro, nella società opulenta, economicamente inutile? E non sono ovviamente le donne le prime a essere sollecitate e praticamente costrette ad abbandonare quel mondo della produzione nel quale esse sono ancora, in definitiva, delle parvenues? È l’esperienza di questi anni, ormai, a dimostrarlo e a confermarlo in modo inoppugnabile.

3. Le dimensioni sovrastrutturali”

Le donne, i contadini, i popoli dell’area del sottosviluppo: ecco alcune corpose realtà sociali che l’opulenza abbandona alla crisi o al ristagno, alla disperazione o alla morte. E non sarebbe difficile dimostrare che altre realtà e dimensioni e istituti della vita sociale nei nostri tempi già stanno vivendo anch’esse (o incominciano a vivere) il momento di una loro crisi altrettanto grave e altrettanto carica di tensioni potenziali, o già in atto.

Già abbiamo accennato alla crisi e alla ribellione del mondo studentesco, in cui certamente si esprime la tipica contraddizione dell’opulenza: quella di un consumo (il consumo della scuola, dell’istruzione, della cultura), che è ormai diventato di massa, ma viene ancora organizzato, amministrato e gestito nelle forme omogenee all’individualismo aristocratico, ed è dispensato da un personale tenacemente arroccato nella difesa di un privilegio inconcepibile in una società ormai dispiegatamente entrata sotto il segno della democrazia.

E vogliamo accennare ancora a un momento che consideriamo particolarmente significativo ed emblematico della vita ideale: quello della vita religiosa. Per quanti non si rinchiudono entro una concezione teologica, che nel rapporto esclusivo e diretto tra ogni singolo uomo e la divinità esaurisce tutta la vita religiosa, quest’ultima deve naturalmente svolgersi nell’ambito non semplicemente di una riunione o di un’assemblea di individui, ma di una vera “società di fedeli”. Per la religione cattolica, in particolare, è massima la centralità e l’indispensabilità della piena dimensione comunitaria non solo nel momento, più evidentemente pubblico, del culto, ma anche - e in modo decisivo - nei momenti più intimi e profondi della vita religiosa: quelli della preghiera e della partecipazione sacramentale alla divinità.

Tutto ciò, crediamo, è sufficientemente noto, e ha cominciato d’altra parte a esser significativamente rivissuto - almeno nel cattolicesimo - a partire dagli anni del pontificato di Giovanni XXIII. Quello che però qui ci interessa di sottolineare è che un mondo integralmente dominato dall’individualismo - qual è quello determinato dallo sviluppo opulento - nega la stessa possibilità della vita religiosa; esso infatti non solo ostacola e frena l’esplicarsi di quella dimensione comunitaria che è indispensabile al pieno svolgimento della vita religiosa, ma semplicemente lo rende impossibile: dissolve quel tanto di comune, di corale, di ecclesiale, che ha potuto storicamente manifestarsi e sopravvivere; atrofizza e isterilisce infine quel che non può dissolvere.

Se dal piano dei momenti della vita ideale passiamo a quello degli istituti nei quali tali momenti si incarnano e si esprimono, non è forse evidente che le crisi “strutturali” cui lo sviluppo opulento dà luogo investono direttamente l’esistenza di questi istituti medesimi? È il caso, appunto, della Chiesa cattolica, che è posta in crisi dall’impietosa e drammatica liquidazione del mondo contadino, come dall’azione aberrante e deformatrice esercitata dall’opulentismo sulla famiglia, come infine - e soprattutto - da quella lacerazione dell’umanità in due tronconi, il cui perpetuarsi e drammatico aggravarsi non possono non suonare come una condanna per ogni realtà, per ogni istituto, che necessiti di un respiro pienamente universale.

4. Una contraddizione fondamentale del sistema opulento.

Si potrebbe osservare che tutte le contraddizioni che abbiamo finora elencate sono, per così dire, esterne all’opulenza. Esse vengono infatti patite da chi è territorialmente escluso dallo sviluppo opulento (come i popoli dell’area del sottosviluppo), o è economicamente marginale rispetto a tale sviluppo, e quindi ugualmente escluso da esso (come i contadini e le donne); oppure investono categorie che sono, almeno temporaneamente, non inserite nei ranghi del sistema (come gli studenti), e i cui componenti sono comunque suscettibili di abbandonare la loro posizione di critica e di ribellione man mano che, con il passar degli anni, vengano singolarmente a integrarsi nell’opulenza.

Nessuna delle contraddizioni anzidette, insomma, colpirebbe il sistema al suo cuore e nel suo centro, poiché nessuna delle forze sociali e delle dimensioni da esse investite è realmente indispensabile al proseguire dei meccanismi dell’opulenza. Di conseguenza, sebbene l’esistenza delle une e delle altre riveli indubbiamente la parzialità dello sviluppo opulento e ponga in luce il suo limite disumano, non potrebbe nascerne, però, una linea sufficiente di trascendimento di tale sviluppo ne una forza capace di affermare una linea siffatta.

Una simile obiezione coglie senz’altro un punto importante ed esatto. E in effetti, se certamente le contraddizioni, che abbiamo brevemente esaminate, dimostrano che c’è chi concretamente paga lo sviluppo opulento al prezzo della propria morte o della propria vanificazione, e se quindi esse rivelano l’esistenza di una serie di forze vitalmente interessate alla fuoriuscita dall’opulentismo, tali forze non sono tuttavia di per sé sufficienti a dar luogo a un positivo processo di liberazione della società dai limiti deformanti nei quali essa oggi minaccia di congelarsi. Ci sembra, però, che all’interno dello sviluppo opulento si annidi un’ulteriore e fondamentale contraddizione la quale, poiché interessa una classe che è essenziale al sistema, è senz’altro decisiva al fine del realizzarsi di quel processo di liberazione: è la contraddizione implicita nella presente condizione operaia.

5. La classe operaia

È indubbio che non solo oggi, non solo agli inizi del processo opulento, ma sempre, non può non essere soprattutto ed essenzialmente la classe operaia a pagare per l’affermarsi e lo svilupparsi dell’opulentismo. Essa viene conquistando, è vero, un progressivo ampliamento del proprio reddito, ma solo e sempre al prezzo di condizioni di lavoro e di vita assolutamente imparagonabili con quelle delle categorie e dei ceti sostanzialmente improduttivi (e comunque largamente parassitari) che costituiscono i veri usufruttuari del benessere e dell’opulenza. D’altra parte, sebbene i proletari vengano via via ad acquistare un maggior benessere, essi lo pagano con la perdita della loro stessa verità di classe, della loro funzione storica: di quelle ragioni e di quelle prospettive, insomma, che riscattano il proletariato dalla sua subalternità originaria e lo elevano, nell’interesse dell’umanità, a nuova forza sociale dirigente. Non ci sembra, questo, un punto sul quale sia necessario insistere e soffermarsi a lungo. Abbiamo infatti già sottolineato che, ove si rimanga passivamente nel quadro dell’evoluzione opulentistica, la contraddizione cruciale tra i popoli ricchi e quelli poveri non può non permanere e accentuarsi, non può non trasformarsi in una lacerazione sempre più profonda e irreversibile. E non è forse evidente che in questa spaccatura mortale del mondo e dell’intera umanità, il proletariato viene fatalmente ad alienarsi nella sua necessità rivoluzionaria? Ove insomma le cose dovessero procedere secondo i meccanismi propri dei sistemi in atto, la classe proletaria finirebbe per perdere anch’essa (come la Chiesa cattolica) ogni possibilità di respiro universale; il suo stesso momento politico verrebbe a dissolversi, ad annullarsi, a scomparire senza residui.

Non solo, ma lo stesso interesse di classe del proletariato non postula forse, quale proprio obiettivo di fondo, il superamento della sua condizione di forza-lavoro, della riduzione di questa a capitale? E non è forse basato il sistema dell’opulenza appunto sul permanere di una simile riduzione, in una prospettiva indefinita e insuperabile?

Anche il proletariato, dunque, paga in modo insopportabile lo sviluppo opulento; anche il proletario è vitalmente interessato, di conseguenza, al superamento di tale sviluppo. Ma il proletariato non soltanto deve opporsi all’opulentismo: esso può anche farlo. La classe proletaria, infatti, è quella che ha storicamente battuto il suo avversario di classe: la borghesia. Ma - come abbiamo già osservato quando abbiamo esaminato il modo in cui si è giunti, nella storia, al manifestarsi dell’opulenza - se il proletariato, la classe dei detentori della forza-lavoro, ha mutato dall’interno i fondamentali e principali meccanismi economici del capitalismo, tuttavia ha lasciato sopravvivere i suoi fini e i suoi modi, consentendogli cosi di sopravvivere alla crisi della classe borghese come classe egemonica a livello mondiale. Il sopravvivere dell’economia capitalistica insomma, l’elusione della contraddizione catastrofica che era implicita nella sua forma borghese, sono stati consentiti soltanto dall’incremento della capacità di consumo dei produttori e questo, a sua volta, ha trovato unicamente nella tensione rivendicativa (e nella parallela lotta politica) del proletariato la propria causa efficiente.

Certamente e necessariamente ambigua è quindi la posizione del proletariato nella società opulenta. Questa è, in qualche modo, una sua creatura, pur essendo letale per i suoi destini. Depurando il capitalismo della sua contraddizione fondamentale, la classe operaia ha consentito che rimanesse in vita l’unico sistema economico, tra quelli oggi ipotizzabili e ipotizzati, capace di garantire lo svolgersi del processo produttivo a livelli d’efficienza sufficienti ad appagare il bisogno di beni di sussistenza per tutti; e però, poiché l’economia capitalistica è stata lasciata alla sua forma opulenta, poiché insomma, una volta battuta l’egemonia borghese, nessuna l’ha sostituita e il sistema si è venuto sviluppando secondo le sole reggi della propria spontaneità, ecco che le capacità produttive del capitalismo sono restate congelate all’interno di determinate aree, si sono sviluppate intensivamente (e in modo di necessità distorto), non hanno dato luogo a una generale uscita dell’umanità dalla povertà e dalla fame, ed ecco infine che si sono venute ad aggravare proprio quelle contraddizioni - di cui abbiamo più sopra discorso - che minacciano e compromettono la vocazione rinnovatrice e universale del proletariato.

Se cosi stanno le cose, ci sembra abbastanza evidente che è proprio il proletariato che ha tutte le carte per gestire un processo di fuoriuscita dall’opulentismo: un processo che non contesti (perche, allo stato degli atti, non è contestabile) la forma di produzione basata sulla riduzione del lavoro a capitale, ma ponga all’economia capitalistica degli obiettivi, delle regole, differenti - e anzi opposti - a quelli spontaneamente impressi dallo sviluppo opulento.

Il discorso, evidentemente, diviene qui propriamente politico. E in effetti, perché il proletariato possa gestire il sistema capitalistico in modo non subalterno a1l’opulentismo, è necessario in primo luogo che esso non si esaurisca in una azione meramente rivendicativa, redistributiva - consumistica, dunque -, in essa identificando e risolvendo quasi interamente l’azione politica vera e propria. Finche sarà così, evidentemente, il processo opulento potrà continuare indisturbato il proprio cammino, e l’oggettivo potenziale di rinnovamento costituito dalle forze sociali escluse dall’opulentismo - o da esso mortificate e uccise - resterà sterile e subalterno. Resterà, appunto, un mero potenziale, non diverrà un reale blocco di forze: la base sociale organica per la gestione del potere.

È necessario, quindi, che il proletariato si affermi compiutamente - nella sua dimensione di partito - sul terreno del potere, e che su tale terreno affronti e risolva il problema di una gestione dell’economia radicalmente diversa da quella peculiare all’opulentismo. Una simile gestione non può proporsi - già lo abbiamo accennato - di superare illico et immediate la forma capitalistica di produzione; e ciò non solo per la ragione, di per sé sufficiente, che a tale forma non è stato possibile opporre - sul piano della teoria come su quello della prassi economica - un’alternativa che non sia l’anarchia o la reazione, ma anche perché il modo capitalistico di produzione non ha ancora esaurito sufficientemente la sua funzione sociale di fondo: quella cioè di garantire la massima esplicazione del processo produttivo, e di portare così l’umanità intiera fuori dal bisogno dei beni della sussistenza.

Utilizzare sotto segno proletario la forma capitalistica di produzione, sviluppare l’economia del capitale fuori dall’esclusivismo nazionale e di classe della borghesia e al di là della stagnazione mortificatrice dell’opulentismo, significa dunque, per la classe operaia, “riconquistare stabilmente la sua alleanza fondamentale”, ricollegarsi “agli esclusi delle aree depresse (a coloro che sono oggi solo virtualmente i futuri proletari) in un processo di allargamento continuo su scala mondiale del suo nuovo potere”; ma significa altresì manifestare concretamente la propria piena libertà d’azione dal sistema dell’opulenza, affermare positivamente la propria egemonia politica e aprire perciò la prospettiva di una liberazione del lavoro dalla sua condizione di lavoro alienato, di lavoro ridotto a capitale.

Come è possibile però gestire, a livello dei tempi in cui viviamo, l’economia capitalistica in una prospettiva omogenea agli interessi di fondo della classe proletaria? Non possiamo evidentemente affrontare in modo esauriente questa decisiva questione, e rinviamo perciò il lettore alle pagine ora citate. Ci interessa comunque di sottolineare che il problema dell’organizzazione della città e, più in generale, quello di un “dispiegamento organico, e in prospettiva generalizzata, della forma sociale del consumo”, è una componente decisiva di una siffatta gestione, a egemonia proletaria, del capitalismo.

E in effetti, non solo una simile figura del consumo è antitetica - come abbiamo dimostrato - a quella propria al sistema opulento, e consente perciò al partito proletario di affermare la pienezza della propria autonomia da tale sistema. Non solo, poi, rivendicare consumi organizzati in forma pienamente sociale garantisce al proletariato di migliorare le proprie condizioni d’esistenza (e dunque di non sacrificare neppure i propri immediati interessi di classe). Ma, soprattutto, un’organizzazione sociale del consumo poiché riconduce quest’ultimo sotto una norma di efficienza e di risparmio, consente perciò di liberare risorse: consente dunque al proletariato di estendere - sotto la propria egemonia - il processo accumulativo, di ricondurre nell’ambito dell’economia e della civiltà moderna i popoli esclusi dal circuito della vita civile, sottraendoli così al loro destino di miseria e di fame; consente, infine, di indicare ai popoli del sottosviluppo e alle zone di arretratezza presenti nello stesso mondo dell’opulenza una concreta prospettiva di sviluppo civile, e di fondare così le nuove ragioni di un’alleanza storica, a livello mondiale, della classe proletaria.

6. Una domanda conclusiva

Condurre la società fuori dallo sviluppo opulento, quindi, è fin d’ora oggettivamente possibile, perché esistono le forze sociali interessate a farlo. E allora non è utopistica e astratta, non è velleitariamente eversiva una linea urbanistica che si proponga di sottrarre la città al destino cui l’opulentismo la condanna. Se gli urbanisti giungono a formulare e a concretare una simile linea, essi possono non essere soli: possono ritrovare, anzi, un legame profondo e organico con le forze decisive della società d’oggi, per camminare e lottare nella medesima direzione. Non solo, ma ci sembra - e lo abbiamo già in parte dimostrato - che una linea urbanistica di rinnovamento della città, fondata sulla trasformazione del consumo individualistico di massa in consumo comune, oltre a essere evidentemente omogenea a una linea di generale trascendimento dell’opulentismo, ne può essere addirittura una componente essenziale. Per vederlo meglio, gioverà comunque riprendere l’analisi della città dell’opulenza e svilupparla, esaminando brevemente alcuni più vistosi e rilevanti fenomeni dell’attuale crisi urbana, entrati oramai nell’esperienza di tutti (o, almeno, di quanti vivono nella parte del mondo già condizionata, in misura più o meno rilevante, dal processo dell’opulenza).

Quando abbiamo affrontato il tema della città di oggi abbiamo affermato che, ove si rimanga entro il quadro del modello opulento, la città si avvia verso la sua definitiva crisi lungo due direzioni: quella della congestione crescente e irrefrenabile, e quella della dispersione delle residenze sul territorio.

Ci sembra che due aspetti, due fenomeni, o se si vuole due momenti della crisi dell’odierna città, particolarmente signifìcativi ed emblematici, siano costituiti dalla questione del traffico e dalla tendenza a quella particolare forma d’insediamento che viene definito suburbio. Tali aspetti dell’attua1e problema urbanistico rappresentano infatti, con efficacia quasi simbolica, quelle due direzioni di cui or ora si diceva (e difatti il traffico è uno dei parametri più rilevanti della congestione urbana, e il suburbio è la forma dominante della dispersione delle residenze), ed entrambi rivelano e confermano, con sufficiente chiarezza, che la crisi già in atto nella città è direttamente riconducibile alla caratteristica di fondo del consumo nella società opulenta: quella cioè di esser divenuto consumo di massa, pur essendo rimasto nella millenaria forma individualistica. Non è soltanto per questi motivi però, non è solo per trovar conferma alle nostre tesi, che vogliamo ora esaminare brevemente il fenomeno del traffico e quello del suburbio, ma anche e soprattutto perché un’analisi più concreta e puntuale della città d’oggi (colta in alcuni suoi decisivi aspetti) ci potrà consentir di vedere chi paghi socialmente il prezzo della crisi della città, e quali siano la portata e il significato di quella crisi sul terreno economico; avremo così accumulato sufficiente materiale per dimostrare, in definitiva, la nostra tesi ultima e conclusiva: che cioè l’azione per il rinnovamento della città può essere una componente essenziale di una più generale linea anti-opulentistica.

7. Il problema del traffico

Che il traffico sia diventato un problema macroscopico delle nostre città non è cosa che occorra dimostrare. Stanno n a testimoniarlo, oltretutto, una grande quantità di rapporti, relazioni, documenti congressuali, articoli ,giornalistici; fiumi di interviste, dichiarazioni, discorsi; centinaia di iniziative tecniche e amministrative (sia pure generalmente parziali e settoriali). E non ha forse provocato, infine, il problema del traffico, riflessi spesso vistosi e clamorosi sul terreno delle lotte sociali e sindacali ? Quanti hanno messo anche soltanto un piede nelle città dell’”area sviluppata”, conoscono di persona quel problema: tutti sanno oramai che, nel momento stesso in cui il rapido sviluppo della tecnologia viene elaborando gli strumenti tecnici, sempre più raffinati ed efficienti, che consentirebbero di soddisfare l’esigenza della mobilità, quest’ultima viene invece appagata in modo sempre più precario, affannoso, mortificante, inumano, compromettendo in misura via via più diretta la stessa possibilità di circolare nelle città, di viverle, di conservarle perfino.

Le cause di una situazione siffatta sono indubbiamente molteplici, ma due soprattutto sono decisive e fondamentali: l’accrescimento tumultuoso, irrazionale, disorganico delle città maggiori, con il parallelo e contemporaneo spopolamento delle campagne e dei centri minori; la scelta della motorizzazione individuale (l’automobile), quale mezzo di gran lunga preminente per risolvere il problema della mobilità. Ora a noi sembra assai facile dimostrare, che non solo - com’è intuitivo - la seconda, ma anche la prima di queste cause ha la sua radice in quella caratteristica di fondo del consumo opulento di cui si diceva. L’accrescimento delle grandi città a spese del resto dell’insediamento ha infatti certamente la sua ragione nel fatto che all’aumentata necessità di rapporti e relazioni tra gli uomini e tra le varie sedi nelle quali si svolgono la vita e l’attività (le residenze, i luoghi di lavoro, le attrezzature collettive ), alla rottura, insomma, di quella situazione tradizionale che vedeva l’insediamento umano come la giustapposizione di mondi, quali più grandi e quali più piccoli, ciascuno chiuso in se stesso e in sostanza autosufficiente (quale che fosse il livello di vita in ognuno consentito ), non ha corrisposto una effettiva .presa di coscienza delle nuove esigenze e delle mutate condizioni, e perciò neppure una politica tendente a un’equilibrata dislocazione degli insediamenti sul territorio. In altri termini, quando ogni uomo ha cominciato a divenir consapevole della propria necessità (e del proprio diritto) di usufruire di determinate condizioni di vita e possibilità di lavoro, ciò non ha dato luogo a un processo di complessiva riorganizzazione degli insediamenti sul territorio, nell’ambito del quale si giungesse a infrangere - come tecnicamente è possibile - la cesura fra città e campagna, fra insediamenti maggiori, e perciò dotati di un sufficiente livello di attrezzature, e insediamenti minori.

L’esigenza di vivere in ambienti caratterizzati da condizioni “urbane”, insomma, anche quando è divenuta di massa, ha trovato una soluzione solo individualisticamente; ciascuno ha dovuto cercare singolarmente e spontaneisticamente la soluzione al suo proprio problema ( che era invece oramai un problema di tutti}, e l’ha fatto nell’unico modo possibile nella situazione data: affluendo cioè alla città, inurbandosi, accorrendo insomma là dove unicamente esistevano condizioni di vita e possibilità di lavoro vicine a quelle che oramai erano da tutti sentite come indispensabili.

Non solo la scelta della motorizzazione individuale, quale risposta dominante all’esigenza di massa della mobilità, ma anche l’abnorme e tempestivo accrescimento dei centri maggiori, ha dunque la sua radice nel fatto che un’esigenza di massa ha trovato un appagamento unicamente entro la logica di un consumo individualistico. Ed è allora l’intiero odierno problema del traffico che deve venir ricondotto alla caratteristica di base del consumo opulento.

8. Il suburbio”, insediamento tipico dell’opulenza

Minacciata dal congestionamento e dalla paralisi, resa inordinabile dal caos che la caratterizza (e che ha nel traffico una delle sue più evidenti manifestazioni, ma non certo l’unica), ecco che la città comincia ad apparire sempre di più una realtà nella quale è impossibile vivere. E non a caso, si viene via via affermando una tendenza, particolarmente omogenea all’opulenza, nell’ambito della quale, mentre i centri minori si svuotano e s’isteriliscono sempre di più, e mentre le grandi città ospitano soltanto le cosiddette “funzioni terziarie superiori” o “quaternarie” e i mostruosi “ghetti” nei quali vengono accatastati quanti ancora non sono assorbibili dall’opulenza, si sviluppa invece, in misura crescente e man mano più massiccia, un processo di fuga di massa dalla città. È, quest’ultimo, un processo che interessa le moltitudini festive dei cittadini delle metropoli dell’opulenza, i quali cercano periodicamente un’evasione illusoria e spesso intimamente disperata nell’esodo del week-end, ma è un processo che comincia già a dar luogo a insediamenti stabili e permanenti, a formare un nuovo modo di abitare e di vivere: si tratta, appunto, di quella mostruosità urbanistica che può divenir tipica dei nostri tempi: il suburbio.

Che cosa è il “suburbio”? È un insediamento caratterizzato da due elementi essenziali, tra loro strettamente collegati nel senso che il primo è condizione del secondo: la rarefazione estrema dei tessuti edilizi, ossia la dispersione delle residenze sul territorio; la concentrazione dei più essenziali servizi (soprattutto quelli commerciali) e la loro conseguente localizzazione in punti assai distanti gli uni dagli altri.

Il “suburbio” si basa, più precisamente, su una cellula generatrice che è l’alloggio individuale, costruito su di un lotto individuale anch’esso, e dotato - oltre che del suo brandello privato di verde - di tutta una serie di spazi e di ambienti, i quali servono allo svolgimento (nell’ambito della famiglia e, appunto, dell’alloggio) di funzioni e di compiti che non solo possono venir svolti e organizzati in forme sociali, ma che in parte già venivano concretamente svolti in tali forme.

La bassa densità edilizia risultante da una simile soluzione dell’alloggio comporta evidentemente una notevolissima rete stradale, e quindi rende praticamente impossibile una organizzazione collettiva del trasporto: l’automobile è perciò la regina del suburbio, e ogni famiglia deve possederne più d’una. E poiché l’estrema rarefazione impone che i servizi ineliminabili siano localizzati a grandi distanze reciproche (altrimenti non disporrebbero di una sufficiente “area di mercato”), ecco che viene ancor più scoraggiata ogni volontà di uscire frequentemente dall’alloggio per provvedersi di beni o servizi di uso quotidiano, ed ecco quindi che viene ribadita e ulteriormente esaltata la necessità di attrezzare la casa “di tutti quegli strumenti che rendono possibile l’autonomo e individualistico soddisfacimento dei bisogni altrimenti soddisfacibili collettivamente: la televisione, anzitutto, e poi l’indefinita proliferazione degli elettrodomestici”.

È evidente, perciò, che questo tipo d’insediamento comporta una notevolissima espansione dei consumi privati: non solo per il motivo generale che è l’insediamento omogeneo all’individualismo di massa, ma anche per il motivo specifico che una residenza organizzata in un modo siffatto pretende un aumento dei consumi privati nella misura precisa in cui postula una rinuncia sempre più marcata a una organizzazione sociale dei servizi. Ed è appunto per questo, in definitiva, che gli unici elementi comuni i quali riescono a svilupparsi in un simile inferno urbanistico (e umano) sono quelli ordinati appunto all’approvvigionamento, il meno frequente possibile, dei beni di consumo privati: i giganteschi shopping centers, le efficienti stazioni di servizio automobilistiche, e, di conseguenza, le faraoniche costruzioni destinate ai parcheggi. Sono questi, insomma, i nuovi templi, i nuovi arenghi, le nuove piazze, le nuove cattedrali dell’insediamento proprio all’individualismo di massa.

9. Chi paga il prezzo della città opulenta?

Il rapido esame, che abbiamo compiuto, di due rilevanti aspetti della crisi dell’odierna città, non è certamente - né voleva essere - un’esauriente rassegna dei fenomeni nei quali si manifesta il disastro urbanistico nel quale viviamo; più di una volta però (lo confessiamo francamente al lettore) la penna avrebbe voluto correre per illustrare e denunciare altri aspetti, altri fenomeni, altre manifestazioni - che ogni giorno ci colpiscono - del decadimento e della dissoluzione dell’assetto delle nostre città e del nostro territorio. Se abbiamo resistito, se non ci siamo soffermati nel ricordare e nell’esaminare la dissipazione del territorio e del paesaggio divorati dall’anarchia dell’appropriazione individualistica, o la distruzione dei centri storici stravolti, oltre che dalla congestione, dal privilegio rozzo dei più ricchi e dalla miseria dei più poveri, o l’assurda bruttura dei panorami urbani determinati da un mostruoso agglomerarsi di miriadi di episodi singolari tra loro sconnessi e dissonanti, o la dispersione della vita negli alveari metropolitani e negli ischeletriti insediamenti della campagna e della provincia, ciò non è dipeso dal fatto che questi aspetti non ci sembrino tutti rilevanti. È che, così facendo, non avremmo aggiunto al nostro quadro null’altro di sostanziale: ci sembra, infatti, che le conclusioni, alle quali stiamo cercando di pervenire, non potrebbero trovare nell’esame di questi ulteriori aspetti un contributo diverso da quello di una conferma della loro validità. Avremmo corso il rischio, invece, di lasciarci travolgere dalla facile passionalità della mera denuncia e dell’invettiva, mentre ciò che soprattutto ci preme e c’interessa è di contribuire a far passare la cultura urbanistica dalla denuncia alla proposta consapevole, dalla protesta al lavoro, all’azione coerente e fiduciosa, critica - perché non può non esserlo - ma aperta alla speranza: pronta, perciò, a riconoscere le vie attraverso le quali passa il possibile, e a percorrerle.

Per individuare le “vie del possibile”, ci sembra che si debba in primo luogo comprendere che il problema della città non è cosa che interessa soltanto gli urbanisti: se così fosse, davvero disperata sarebbe la loro azione, condannata al velleitarismo ribellistico e protestatario, o all’astrazione sterile dell’utopia.

L’esserci brevemente soffermati sul problema del traffico e sulla tipologia del “suburbio”, ci consente intanto di vedere a questo punto, con sufficiente chiarezza, che la condizione degli uomini nella città d’oggi è realmente tale da non poter mancar di generare una carica d’insoddisfazione, di disagio, di protesta, quindi, e di ribellione, in tutti i suoi abitatori. La concreta situazione della città dei nostri giorni dimostra insomma che il prezzo dello sviluppo opulento è pagato, direttamente e quotidianamente, dagli stessi uomini che già vivono nel processo dell’opulenza, ne sono i protagonisti e gli usufruttuari.

Essi pagano un simile prezzo in quanto uomini, individualmente e singolarmente, ma lo pagano anche in quanto umanità associata, nei corpi e negli istituti e negli organismi in cui si esprime e si articola la dimensione comunitaria della società; ciò non solo per il motivo generale che la città dell’opulenza, poiché è dominata dall’individualismo, è incomponibile con una vita pienamente sociale, ma anche per una serie di motivi specifici, che nel primo hanno evidentemente la loro causa originaria, e che possono essere colti correttamente solo esaminando ciascuna delle distinte realtà sociali che nella città vivono. Su una di queste - che già abbiamo poco fa trattato - vogliamo ora brevemente ritornare quasi a titolo d’esempio, e soprattutto perché la consideriamo particolarmente legata alla realtà urbanistica: ci riferiamo alle donne.

10. Le donne e il suburbio

Nell’insediamento omogeneo all’individualismo di massa, gli elementi decisivi -come abbiamo visto -sono l’esaltazione dell’individualismo della residenza e l’esaltazione del consumo, anch’esso individualisticamente concepito, organizzato e fruito. Più precisamente, sia la residenza che il consumo trovano nella famiglia (materialisticamente intesa e tradizionalisticamente fissata) l’istituto, il luogo, il momento, al quale si ordinano e in funzione del quale esclusivamente si organizzano.

Ma il consumo dei nostri tempi, e la residenza dei nostri tempi, non sono quelli dei tempi andati. Non sono più un consumo e una residenza di cui era difficilmente immaginabile -e invero storicamente non è stata immaginata -la forma collettiva, poiché appunto erano ridotti all’osso, contenuti nel minimo indispensabile per la sussistenza, ed erano infatti regolati dalla dura norma e dall’arte difficile e complessa del risparmio. Anzi, viviamo in una società nella quale (poiché vengono metodicamente, automaticamente scartate tutte le aperture verso forme collettive di gestione e di insediamento) la tendenza è quella di un esasperato individualismo residenziale e di una progressiva espansione dei consumi tradizionali, sorretta da una continua complicazione delle esigenze materiali.

Il consumo, perciò, si complica e si moltiplica, pur rimanendo un consumo individualistico, domesticamente gestito entro il chiuso alloggio familiare: basti pensare alla «indefinita proliferazione degli elettrodomestici», alle elaboratissime ricette culinarie che tornano in auge nei «paesi evoluti», alle frenesie consumistiche in cui paganamente si risolvono ( con una cospicua erogazione di forza-lavoro domestica) le feste tradizionali e quelle nuove, alle stesse rinverdite teorie pseudo-psicanalitiche sull’indispensabilità della fisica presenza materna per i bambini fino a due o tre o quattro anni. Chi dunque si occupa di un simile consumo e chi presiede a un simile modo di abitare non regola nulla, ma si abbandona al flusso delle cose; non risparmia, spende; non garantisce un ordine, galleggia su un’informe anarchia.

Di questo modo abnorme di consumare e di vivere, il suburbio è evidentemente, al tempo stesso, la condizione e il risultato. Ma nel concreto, chi è che deve occuparsi di tutto ciò? Chi è che deve gestire un simile consumo e occuparsi di una residenza siffatta? Né la logica né la storia hanno esitazioni nel rispondere: è ovviamente la donna, è l’antico «angelo del focolare», che deve farlo. È essa, infatti, che è sempre stata aggiogata alla famiglia ed alla casa, rimanendovi asservita anche quando finalmente è entrata nella produzione, nel mercato del lavoro.

Ma v’è di più; come già abbiamo visto, il processo di emancipazione della donna e il movimento emancipativo organizzato spingevano e spingono tuttora la società, oggettivamente e soggettivamente, a trasformarsi, a svilupparsi, e insomma ad adeguare faticosamente se stessa alla nuova situazione della donna che vuole affermare la propria umanità nella figura del libero produttore. Solo che, in un primo momento, la società non ha cambiato nulla di sostanziale su un così decisivo e primario terreno come è quello del consumo e dell’insediamento, e ha scelto quindi la via più tranquilla ed immediata: quella cioè di accogliere solo l’elemento tecnologico del progresso, e tenere in piedi - anche quando son divenute mortifere, anche quando occorre imbalsamarle e corromperle - tutte le vecchie abitudini, tutte le vecchie tradizioni e servitù, che non sono direttamente di ostacolo al processo tecnologico stesso.

In un secondo momento invece, con il meccanismo dell’opulenza, ha prevalso, sul piano stesso della rilevanza economica, la figura del consumatore rispetto a quella del lavoratore, e per ciò si è avuto sempre meno bisogno, sotto ogni aspetto, della forza-lavoro femminile, per cui se ne è favorito l’espulsione dal mondo del lavoro per riportarla esclusivamente alla sue antiche funzioni, adesso esaltate, ma anche alienate e distorte, dalla trionfale avanzata del consumismo di massa.

L’antico «angelo del focolare» si vien trasformando sotto i nostri occhi (senza perdere nulla del suo errore) nella moderna, «razionale», «efficiente» funzionaria del consumo. La donna abbandona sì la fatica oggettivamente rivoluzionaria del doppio lavoro, ma per divenire la nevrotica addetta a quella vera e propria mostruosità economica, sociale e umana che è la cosiddetta «azienda familiare»: l’azienda in cui si amministra, si organizza, si gestisce, si consuma ormai soltanto il superfluo, quello che è inutile in sé, e quello che è inutile consumare in quel modo.

La tendenza urbanistica del suburbio e quella del «ritorno a casa» della donna sono dunque davvero due fenomeni strettamente connessi, due facce di un’unica realtà: e sono infatti due modi, due momenti, due aspetti dell’identica operazione, messa in atto dallo sviluppo opulento, per aggiogare la donna a una moderna schiavitù.

11. Una prospettiva di rinnovamento della città.

Quale città è necessaria per consentire un’effettiva liberazione della donna?

È una città, evidentemente, in cui il rapporto tra alloggio e attrezzature collettive non dev’essere riformisticamente corretto, ma deve essere completamente rovesciato in modo rivoluzionario. È una città, concretamente, in cui l’alloggio non deve più essere un’isola, ma deve diventare parte di un complesso assetto della residenza in cui ogni singolo servizio, ogni consumo, vengano organizzati e gestiti in modo comune, sociale, collettivo. Se, per fare degli esempi, si estende il ruolo della scuola; se per ogni gruppo di alloggi si prevede uno spazio sorvegliato per i giochi dei bambini; se si sostituiscono le lavatrici individuali con impianti di caseggiato; se una fitta rete di ristoranti economici permette di evitare la corvée della spesa e della cucina e del rigoverno delle stoviglie; se la manutenzione e la pulizia degli alloggi vengono svolte, per tutti, da squadre specializzate; se tutte queste cose vengono fatte, allora effettivamente ci si avvia a organizzare la residenza in modo che consenta la liberazione della donna.

Ci si avvia, abbiamo detto. E infatti gli esempi ora elencati sono serviti solo a far comprendere meglio in che direzione sollecita la spinta di una determinata forza sociale; non pretendono certo di dare, sul piano urbanistico, un’immagine sufficiente della città quale dovrebbe essere e quale dovrà essere. Sono esempi che possono servire a dare una indicazione sul punto di partenza e sulla direttrice di marcia, non sul punto di arrivo.

È chiaro, comunque, che muovendosi da quel punto di partenza e lungo quella direttrice si comincia a costruire - sulla base di esigenze e di spinte sociali che già oggi si esprimono e ci sollecitano - una città che è dominata dal momento sociale, e che quindi non è più un aggregato di isole individualistiche, ma una struttura di elementi collettivi, comuni; una città in cui le case, gli alloggi, sono soltanto i prolungamenti delle attrezzature collettive, e che perciò, in definitiva, è proprio una città rivoluzionata: nel senso che è l’esatta antitesi, il puntuale rovesciamento di quella attuale, anche se realisticamente è dalle possibilità, dai germi, dagli inizi già presenti nella città di oggi, che si comincia a costruirla.

E non è proprio una simile città, d’altra parte, quella che è omogenea alla intuizioni degli utopisti come alle indicazioni più positive e promettenti della moderna cultura urbanistica? Non è in una siffatta direzione che si può riprendere un fruttuoso collegamento con l’eredità storica della città, con le ragioni stesse della sua nascita, con l’esperienza dei momenti più fecondi della sua evoluzione? Veramente ambigua e complessa è la realtà dell’opulenza: convivono e si intrecciano al suo interno i meccanismi che sospingono alla dissoluzione dell’organismo urbano, e le tensioni e le forze che già indicano la strada per una rinascita della città, per il suo sviluppo.

12. Lo spreco della città.

Certo, nessuno, oggi, si rende conto di quanto costa una città organizzata individualisticamente, nessuno -o quasi - avverte e denuncia lo spreco della città. Ma perché? In primo luogo, nessuno è oggi costretto a rendersene conto: c’è ancora qualcuno che è mistificatamente sfruttato, c’è ancora qualcuno che sfacchina senza essere pagato, ci sono appunto le donne, le casalinghe, gli «angeli del focolare» che lavorano senza retribuzione. C’è ancora oggi, insomma, una spesa invisibile, una erogazione gratuita e dissimulata di forza-lavoro femminile, in cui sta proprio una delle cause che consentono la sopravvivenza di una città anarchica e antieconomica.

In secondo luogo, poi, nessuno se ne rende conto perché tutti sono oggi alienati, almeno nel senso che tutti sono condizionati dal sistema, dall’assetto dell’opulenza, in cui sono socialmente inseriti. In che cosa precisamente si manifesti un simile condizionamento, perché esso conduca a una siffatta alienazione e impedisca di prender coscienza del costo di una città individualistica, può esser ormai facilmente compreso.

Il sistema dello sviluppo opulento ha bisogno della spinta dell’individualismo consumistico proprio per i suoi interni equilibri, e trova anzi in quella spinta la condizione essenziale perché i suoi automatismi possano esplicarsi. Quel consumo superfluo che è caratteristico dell’individualismo di massa, e che intrinsecamente altro non è se non puro spreco, è insomma indispensabile per la sopravvivenza del sistema: per esso, quindi, non è uno spreco, ma diviene una precisa norma economica.

Ecco quindi perché e in qual senso oggi si è tutti alienati; ecco perché, nella misura in cui si è condizionati da questo sistema e si rimane idealmente entro di esso, è impossibile concepire una città organizzata in modo diverso; ed ecco infine perché, fino a quando il sistema in atto è questo determinato sistema entro il quale viviamo, realizzare una città conforme alle esigenze degli urbanisti è addirittura impossibile. Bisogna convenire che lottare oggi per una città diversa, per una città nella quale il consumo di massa si sviluppi nel consumo comune e possa perciò esser sottoposto a una norma economica, significa cogliere l’occasione dell’urbanistica per contestare e rovesciare - in una serie di punti concreti, su questioni che vitalmente interessano forze sociale decisive - lo sviluppo opulento, le sue leggi, le sue necessarie regole economiche.

Per farlo, non è certamente necessario un atto demiurgico degli urbanisti, un porsi dei «tecnici della città» come supremi ed esclusivi regolatori dell’assetto urbanistico; serve, anzi, esattamente l’opposto. Serve cioè che gli urbanisti, sfuggendo a quella tendenza all’esclusivismo che è destino di ogni disciplina che si separi dalle altre, intreccino la propria ricerca e la propria azione con quelle delle discipline, e delle forze che sono direttamente e peculiarmente ordinate all’intervento sul terreno del sistema sociale. E serve poi, d’altra parte, che le forze sociali decisive - e quindi, prima fra tutte, quella proletaria - comprendano il ruolo fondamentale che la questione urbanistica può oggi assumere per iniziare il processo di fuoriuscita dall’opulentismo: quel processo cioè che, attraverso l’eliminazione di ogni parassitismo (quale quello preborghese della rendita fondiaria), di ogni spreco economico, di ogni dissipazione di risorse, consenta di gestire politicamente il meccanismo capitalistico negli interessi dello sviluppo, a scala mondiale, di una nuova egemonia rivoluzionaria della classe proletaria nell’ambito di un nuovo «blocco storico» di alleanze.

13. Conclusione

Gli urbanisti si lamentano spesso dei fallimenti a cui vanno incontro. Essi, però, sogliono dimenticare altrettanto spesso che le idee camminano, si concretano, si traducono in leggi e poi in edifici e spazi e città, solo quando incontrano le forze capaci di comprenderle, di verificarle nei propri interessi immediati,e perciò di farle proprie e di battersi per esse. Abbiamo voluto dimostrare, in quest’ultimo capitolo, che questo incontro è possibile, oltre che necessario, e dobbiamo ormai considerare conclusa questa nostra ricerca.

Non nel senso, beninteso, che essa ci abbia condotto a un qualche traguardo sul quale si possa sostare nell’attesa che le cose proseguano il loro sviluppo; ma, almeno, nel senso che abbiamo potuto trarre, da una prima indagine a grandi linee , sulle origini storiche e sulle cause di principio che determinano l’attuale condizione della città, alcune direttrici di studio e d’azione. E se siamo stati condotti a dover riconoscere, nella città contemporanea, la minaccia d’una crisi distruttrice e mortale, abbiamo però potuto individuare il segno esplicito di una speranza di rinnovamento.

Certamente, le radici di quella crisi - lo abbiamo intravisto - sono profonde, complesse, antiche; esse affondano in una concezione dell’uomo, del lavoro, dell’economia, della società, che è antica come la storia e che pesa sul nostro futuro. Rimuoverle interamente, concretare quindi definitivamente quella speranza per la città, è dunque impresa alla quale gli urbanisti, da soli, non possono ovviamente accingersi. Essi però - è questo il senso del nostro lavoro - non più da solitari scienziati e quindi da «profeti disarmati», ma in operosa alleanza con una serie di forze della società civile, possono portare il loro contributo, sullo specifico terreno della loro disciplina, alla soluzione comune dei problemi del nostro tempo.

I – Introduzione

1 Definizioni generiche possono essere considerate, ad esempio, quelle per cui “il fatto città si riduce essenzialmente a un concentramento di popolazione” (M. POETE, La città antica, Torino 1958, p. 28), o a una “sede di aggregazione umana” (L. PICCINATO, in Enciclopedia italiana dell’Istituto Treccani, voce “Città”, voI. X, p. 472).

2 Interpretazioni di carattere sostanzialmente utopistico sono quelle tipiche del filone culturale che ha in Lewis Mumford e in E. A. Gutkind i suoi massimi esponenti. Per la complessità e l’implicita ricchezza delle intuizioni dei due A., le tesi richiederebbero un discorso ben più vasto di quello che è qui consentito. Resta, peraltro, il fatto che le loro intuizioni sono espresse in modo tale da non poter dar luogo a un discorso sufficiente rigoroso, e che sfuggono a essi, pressoché totalmente, le cause degli eventi e dei fenomeni analizzati e descritti, per cui le loro conclusioni non possono risultare che apodittiche. Il Mumford, ad esempio, individua in Thanatos ed Eros, nell’elemento mortale (il maschio, il cacciatore, il guerriero, il monarca, ecc.) e in quello vitale (la femmina, la madre, la fertilità, la conservazione della specie, e insomma tutte “le funzioni materne e vitali”) le grandi tensioni inconscie, dialetticamente contrapposte, che fin dall’età della pietra determinano il processo storico, e che danno luogo rispettivamente alla “Megalopoli” - ultima incarnazione della città - e al “Villaggio”. Da una tale premessa egli non può giungere, evidentemente, a nessuna conclusione di una qualche diretta utilità; infatti, egli non può, in definitiva, additare altra prospettiva se non quella velleitaria di un’utopia democratico-comunitaria nella quale rivive l’ideale del villaggio. Per quanto poi riguarda il Gutkind, basterà ricordare la sua affermazione: “il concetto di città è un anacronismo e neppure riforme molto avanzate possono impedirne la decadenza e la scomparsa definitiva”, per cui dovrà verificarsi una “dispersione livellatrice” che ‘conduca alla “meta finale” della “regione senza centro” e una situazione in cui, nello “spazio libero centrale”, sia alfine raggiunta “la meta ideale di ogni città”, il ”costruttivo inizio della Fine della Città” (E. A. GUTKIND, L’ambiente in espansione, Milano 1955, pp. 21-41 passim).

3 “Ogni evoluzione della teorica e della pratica urbanistica rischia di disperdersi in una oscillazione continua tra due tendenze opposte e ugualmente eversive: da un lato, l’accettazione passiva e incondizionata - la mera descrizione - dei livelli di sviluppo raggiunti, momento per momento, per effetto di un gioco di forze cui l’urbanistica non partecipa e che non controlla; dall’altro lato, la negazione apodittica del meccanismo di sviluppo reale in nome di uno sterile moralismo giusnaturalistico e l’evasione utopistica nella città ideale”. (A. CUZZER, F. FIORELLI, Pianificazione territoriale, standard e ricerca scientifica, in “Marcatrè”, n. 6-7, 1964, p. 132).

4 G. C. DE CARLO, Relazioni del seminario La nuova dimensione della città -la città regione”, ILSES, Milano 1962, p. 188. “La città-regione [ ...] è caratterizzata da una molteplicità di interessi che si diffondono sull’intero territorio ponendolo in uno stato di permanente dinamismo, dalla alternanza di peso di ciascuna delle sue parti in relazione al ruolo che esse esercitano nel momento in cui le si considera, dalla presenza di strutture aperte, dalla tendenza ad esprimersi in configurazioni astilistiche e in continuo rinnovamento, vincolate alla dinamica delle situazioni” (ibid., p. 189).

II – LE FORME D’INSEDIAMENTO PECULIARI ...

1 Si intende per consumatore “determinato” un consumatore la cui presenza, in quanto soggetto specifico, è avvertibile nel momento dell’atto produttivo. Così, ad esempio, il contadino che produce per il consumo proprio e della propria famiglia produce evidentemente per un consumatore “determinato”, e così chi, nell’ambito di un rapporto servile, produce per il consumo del proprio signore.

2 Si veda ad esempio, su questo punto, il cap. Colonie latine e villaggi consorziali nella classica Storia di Roma di T. MOMMSEN, Milano 1961, VoI. I, pp. 55-58.

3 C. CATTANEO, La città considerata come il principio delle istorie italiane in La letteratura italiana. Storia e testi, voI. 68, Milano-Napoli 1956, p. 1007.

III – NASCITA DELLA CITTÀ

1 “Sino allora, c’erano stati soltanto individui isolati; ora, era nato un essere collettivo” (M. BLOCH, La società feudale, Torino 1959, p. 514). “L’originalità del giuramento comunale fu di unire degli uguali” (ibid., p. 515).

2 Si veda il testo di Mommsen già citato.

3 Chi non comprende come l’economia capitalistica sia stata storicamente l’unica economia capace di postulare, sia pur contraddittoriamente e dialetticamente, la città, è condotto a vedere nella città della borghesia solo gli elementi di negatività che in essa indubbiamente sussistono fin dall’inizio, e dunque ad indicare come il momento dèll’inizio della decadenza della città quello che a noi sembra invece il momento della nascita della città vera e propria. Non comprendere il ruolo giuocato, nella storia, dal capitalismo sul piano della città conduce allora in definitiva a concepire come seccamente negativo ( e dunque sotto il segno di un inspiegabile irrazionalismo catastrofico) tutto un decisivo periodo della storia dell’uomo. Non a caso, poi, si deve giungere - sulla base di una simile posizione - a rinnegare di fatto la città e a proporre, in un modo o nell’altro, un ripiegamento nostalgico o un’evasione disperata verso le forme d’insediamento che hanno preceduto la città: il borgo, il villaggio, o addirittura – con la più conseguente coerenza -la dispersione nelle campagne.

4 Si veda, per un chiarimento e un approfondimento di questo punto: Considerazioni sulla questione agraria, nel n. 1 de “La Rivista trimestrale”, 1962.

5 T. R. MALTHUS, Principles of Political Economy. La frase citata è tratta dalla traduzione pubblicata sul n. 1 de “La Rivista trimestrale», 1962, p. 156. ,

6 È chiaro che, a differenza del proletario, il borghese può sfuggire individualmente al lavoro, al consumo produttivo e alla servitù all’accumulazione; egli può, infatti, sulla base del proprio privilegio proprietario, destinare quote del profitto all’allargamento del proprio consumo. Ma in tal caso, evidentemente, il modello capitalistico-borghese perde il suo interno rigore e la sua coerenza logica, il che - come vedremo meglio in seguito - non può non provocare l’insorgere di tensioni e di crisi.

7 Una testimonianza letteraria particolarmente lucida ed efficace dell’atteggiamento della nascente borghesia verso le opere della città è costituita dal romanzo di R. BACCHELLI, Non ti chiamerò più padre, Milano 1959.

8 Sulla continuità manifestatasi nel passaggio dall’autoconsumo all’ordinamento borghese ci siamo già soffermati a sufficienza; abbiamo, infatti, potuto concludere che il borgo è, al tempo stesso, il frutto organico scaturito dallo sviluppo dell’economia e della società dell’autoconsumo, e il germe dal quale inevitabilmente si forma la città (l’insediamento, cioè, cui si giunge al livello dell’economia capitalistica e della società borghese). Per quanto riguarda la sostanziale continuità che si è verificata nel transito dall’autoconsumo alla società s1gnorile, basterà riflettere su due circostanze. Anzitutto, al fatto che lo sfruttamento - che è indubbiamente il più rilevante e decisivo aspetto di quel transito - si è esercitato sull’eccedenza, e ha di conseguenza lasciato immutato quanto, nell’economia dell’autoconsumo, preesisteva alla formazione del sovrappiù; le condizioni economiche di base esistenti nelle unità produttive, in altri termini, non sono state sostanzialmente modificate dallo sfruttamento, il quale, congelando al livello della sussistenza fisica il consumo dei produttori, ha inciso esclusivamente sullo sviluppo di tale consumo. In secondo luogo, va rilevato che nell’economia signorile, come nell’autoconsumo, il fine dell’attività produttiva resta pur sempre nel consumo individuale di un consumatore determinato, per cui, in sostanza, nell’insieme dell’edificio sociale i valori cui l’attività produttiva era ordinata restavano comunque dei valori in qualche modo legati ad effettive esigenze umane.

9 Si può affermare che i più significativi testi di urbanistica scritti in Italia negli ultimi anni sono incentrati sull’analisi della città della borghesia trionfante. È il caso, ad esempio, delle seguenti opere, che costituiscono un contributo alla comprensione dell’attuale problematica urbanistica nella luce di una prospettiva storica: G. SAMONÀ, L’Urbanistica e l’avvenire della città, Bari 1960; L. BENEVOLO, Le origini dell’urbanistica moderna, Bari 1963; C. AYMONINO, Le origini dell’urbanistica moderna, in “Critica marxista”, a. II (1964), n. 2, pp. 40-68.

10 Nei testi urbanistici si riportano talvolta delle cartografie comparate dalle quali risulta con evidenza un fatto assai indicativo e sintomatico, che è d’altronde ben noto. Il fatto, cioè, che le lottizzazioni urbane avvengono nel rispetto e nella conservazione del reticolo della proprietà agraria, sicché, in definitiva, è appunto la proprietà agraria a determinare la forma della città.

IV – LA CITTÀ CAPITALISTICO-BORGHESE

1 M. BLOCH, op. cit., p. 512.

2 K. MARX"F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, Roma 1947, p. 28.

3 Ci sembra che valga la pena di soffermarci brevemente, sia pure in limine, sulla portata del fatto che -come si è detto -nel sistema capitalistico-borghese l’eguaglianza e la libertà dei cittadini si manifestano, nell’ambito del diritto positivo, solo in quel limitato settore rappresentato, nell’insieme dell’ordinamento giuridico, dal diritto pubblico. È effettivamente decisiva ed essenziale, per il sistema capitalistico, la proprietà privata del capitale, che costituisce anzi la garanzia giuridica dell’attività economica dei “funzionari del capitale”, ponendosi pertanto come condizione decisiva del processo accumulativo. Senza dubbio ciò significa che sul piano del diritto privato esiste una sostanziale differenza fra i cittadini, i quali sono appunto nettamente distinti in proprietari e non proprietari. Ma se l’uguaglianza e la libertà dei cittadini non sono dunque, nel complesso dell’edificio giuridico, diritti pienamente affermati, ne sono, quindi, operanti nel concreto della realtà sociale, e finiscono, anzi, per rappresentare un elemento di contraddizione, sta di fatto che la proprietà privata del capitale, essendo il fondamento giuridico dell’attività economica del borghese e essendo destinata alla produzione del sovrappiù, non può mai rompere esplicitamente e formalmente quel diritto comune di libertà ed uguaglianza che definisce la generale condizione sociale necessaria allo sviluppo del modo capitalistico di produzione. In altre parole, il diritto privato, malgrado la sua formulazione privatistica, non può costituire la base per una rottura esplicita, pienamente istituzionale, effettivamente giuridica, della radice comune dell’ordinamento giuridico stesso. E in realtà, è facile constatare che il privatismo proprietario non può dar luogo a differenze recepibili nell’ambito del diritto naturale. Ne vale obiettare che il borghese può, nel concreto storico, “costituirsi in signore”, che egli può rompere cioè il diritto, subordinando ai propri individuali interessi -in modo più o meno implicito i diritti comuni di quanti riesce a dominare e ad asservire, in forza dei suoi privati diritti proprietari. In tal caso, infatti, egli esce dalla coerenza dell’ordinamento giuridico, e allora o si segrega dalla società, resta ai suoi margini e infine decade, o, se prevale e si afferma, condanna alla decadenza il sistema.

4 È evidente che stiamo ragionando intorno ad un determinato modello storico, il quale contiene tutte le connotazioni essenziali del sistema sociale cui si riferisce, e cioè quello capitalistico-borghese. Ma un determinato sistema sociale viene sempre, senza eccezioni, a ricoprire completamente ed integralmente l’intera dimensione della società? Il realizzarsi storico del sistema coincide, cioè, con la piena esplicazione storica della società in quanto tale? In realtà, la società civile non si è mai interamente ridotta all’ordinamento capitalistico, ne, per converso, è mai potuto esistere un sistema sociale, basato su di una economia che abbia come fine la produzione del sovrappiù, entro il quale l’intera società abbia potuto risolversi senza residui. A maggior ragione, l’uomo non si è mai potuto identificare fino in fondo con questa o con quell’altra figura di sistemi sociali siffatti, e non si è insomma ridotto mai a essere soltanto i propri rapporti sociali. Appunto perciò, nella complessità del concreto storico, le qualità preesistenti al sistema capitalistico-borghese non hanno sopravvissuto soltanto come residui del passato. Vi è stata, invece, non solo sopravvivenza, ma anche una certa accumulazione, un certo tipo di sviluppo delle qualità estranee all’ordinamento capitalistico. Però tali qualità, poiché appunto estranee i al sistema e, anzi, contraddittorie con la sua logica, con le sue leggi, con le sue tendenze, non solo hanno potuto esistere unicamente contro il sistema, in opposizione a esso, non solo hanno potuto manifestarsi unicamente ai margini del sistema, rivelandosi perciò insufficienti e incapaci di raggiungere una effettiva pienezza, ma hanno dovuto, inevitabilmente, ! esprimersi in una forma pesantemente limitata in senso individualistico, in quanto sistematicamente esclusa da ogni organica compiutezza di commercio sociale.

5 Ciò vale, evidentemente, anche per il borghese, che, in quanto tale, vive, agisce e consuma solo come un “funzionario del capitale”. “Tutto il suo fare -osserva Marx -è soltanto funzione del capitale che in lui è dotato di volontà e di coscienza, il proprio consumo privato è considerato dal capitalista come furto ai danni dell’accumulazione del suo capitale” (II Capitale, Roma 1952, voI. I, 3, p. 37). Tuttavia, mentre il lavoratore subalterno, il proletario, non può sfuggire individualmente alla riduzione del proprio consumo a consumo produttivo, il singolo borghese, invece, in virtù della sua condizione di proprietario del capitale, può destinare porzioni del proprio profitto all’allargamento del proprio consumo, distraendolo dall’accumulazione.

6 Nella letteratura urbanistica si suole generalmente spiegare la “crisi della città industriale”, limitandosi a sottolineare l’influenza che ebbero sullo sviluppo della città l’aumento della popolazione e il mutamento della sua distribuzione sul territorio, l’accresciuta produttività del lavoro, la velocità di siffatte trasformazioni e, insomma, quel complesso di fenomeni che indubbiamente si accompagnarono alla produzione capitalistica, ma solo come il tuono si accompagna alla folgore {si veda, ad esempio, L. BENEVOLO, op. cit., soprattutto alle pp. 12-28). In realtà, una simile interpretazione ci sembra carente almeno per due motivi. Anzitutto, perché essa coglie e descrive esclusivamente il quadro tecnologico e la fenomenologia sociologica che derivano dallo sviluppo storico-sociale, e non dà quindi ragione dei reali motivi dai quali quegli aspetti strettamente conseguono: j non a caso, nell’ambito di tale interpretazione, si è condotti a configurare !’ e a definire la rivoluzione capitalistico-borghese come rivoluzione industriale, in una sostanziale confusione dunque tra causa ed effetto. In secondo luogo - e ciò, sul terreno urbanistico, ci sembra ancor più grave e limitante - perché non vede che la crisi della città capitalistica è nata non solo, per così dire, a causa di una sollecitazione esterna ( quella appunto dello sviluppo storico-sociale), ma anche, e decisamente, per il rivelarsi di un’interna insufficienza dell’ordinamento formale della città e dei criteri che ad esso presiedevano.

7 K. MARX-F. ENGELS, Manifesto del partito comunista cit., pp. 43-44.

V – TRE TENTATIVI ....

1 L. Benevolo, op. cit,., p. 8.

2 Il che non significa, evidentemente, che da quella crisi non fosse consentita, in linea di principio, altra via d’uscita se non quella della 1 rivoluzione capitalistico-borghese. Significa soltanto che, in linea di fatto, la soluzione borghese è stata la sola che abbia potuto storicamente manifestarsi, e che si era già pienamente e irreversibilmente manifestata quando gli Owen e i Fourier davano corpo ai loro impulsi generosi ma 1 astratti, e alle loro razionalistiche costruzioni intellettuali.

3 Gli abitanti dell’insediamento preconizzato da Owen avrebbero dovuto oscillare tra i 500 e i 1500, intorno alla cifra ottimale di 1200; il villaggio di New Harmony, negli Stati Uniti, dove l’Owen nel 1826 sperimentò personalmente le proprie tesi, era composto inizialmente da 800 persone. Charles Fourier stabilisce in 1620 persone gli abitanti del suo Falansterio, l’insediamento peculiare alla mitica era della “Grande Armonia”.

4 Per Owen la coltivazione del suolo avrebbe dovuto essere compiuta con la vanga, anziché con l’aratro. “Mentre le sue fabbriche erano moderne e scientifica la sua concimazione, la vera e propria aratura del terreno doveva rimanere primitiva” (B. RUSSELL, Storia delle idee del secolo XIX, Torino 1959, p. 194). “Il suo progetto era di radunare i disoccupati in villaggi, dove dovevano coltivare collettivamente la terra, ed anche lavorare nelle industrie, sebbene il grosso del loro lavoro dovesse essere abitualmente quello agricolo” (ibid., p. 193). Per Fourier “ogni membro della società partecipa all’agricoltura al pari che all’industria”, ma “ha la prevalenza in quest’ultima il mestiere e la manifattura” (F. ENGELS, Antidühring, Roma 1956, p. 319).

5 “La dimensione di tali fantasie si rifà [...] più alla campagna che alla città; e della prima eredita soprattutto, pur con l’inserimento di atti1vità industriali, il concetto di auto-sufficienza che si invera in un organismo semplice ma completo, capace di rispondere a più funzioni” (C. AYMONINO, art. cit., p. 45).

6 “Gli uomini di cultura dell’800 sono [...] animati da una profonda sfiducia nella città industriale, e non concepiscono neppure la possibilità di ripristinare l’ordine e l’armonia a Coketown o nel corpo gigantesco di Londra. Perciò quando pensano ai rimedi giudicano che le irragionevoli attuali forme di convivenza debbano essere sostituite da altre completamente diverse, dettate dalla pura ragione, cioè contrappongono alla città reale una città ideale” (L. BENEVOLO, Storia dell’architettura moderna, Bari 1960, voI. I, p. 219).

7 C. AYMONINO, art. cit., p. 44.

8 “Non più una capitale, non più grandi città; a poco a poco il paese si sarebbe coperto di villaggi” (F. BUONARROTI, Congiura per l’uguaglianza o di Babeuf, Torino 1946, p. 141). Fourier, per conto suo, descrive e profetizza lo sviluppo storico come il susseguirsi di sette periodi: “l’umanità si trova attualmente al passaggio fra il quarto periodo (barbarie) e il quinto (civiltà)” (L. BENEVOLO, Le origini, cit., p. 84). Con il settimo periodo le città saranno sostituite dai Falansteri.

9 I “parallelogrammi” di Owen sono costituiti da un quadrato di edifici destinati agli alloggi, all’interno dei quali sono disposti -quasi a perno dell’intera composizione -i fabbricati destinati alla cucina pubblica, alle scuole, alle sale di preghiera, di lettura, di ritrovo, alla biblioteca. Particolare evidenza assumono, nell’esperimento oweniano, due istituzioni, corrispondenti a due fondamentali aspetti dell’organizzazione comune del consumo: la scuola e le attrezzature per i servizi domestici. Il Benevolo pone in particolare evidenza il primo di tali aspetti, mostrando Come la “istituzione per la formazione del carattere” abbia costituito il nucleo originario dell’utopia oweniana. Il secondo aspetto fu messo singolarmente in luce dai suoi contemporanei detrattori, i quali così sintetizzarono sarcasticamente il piano di Owen: “Costruire un grande parallelogramma cooperativo, con una macchina a vapore nel mezzo, come una donna tutto-fare” (cit. da B. RUSSELL, op. cit., p. 194). I Falansteri avrebbero dovuto esser costituiti da un unico edificio, al cui centro sarebbero stati disposti i loca1i per le funzioni pubbliche, per il refettorio, per lo studio e così via. Analogamente avveniva nelle proposte degli altri utopisti. (Si vedano in proposito le opere citate dal Benevolo.)

10 R. OWEN, Report to the County of Lanark, cit. da L. BENEVOLO, Le origini ecc., cit., p. 65.

11 L. BENEVOLO, op. cit., p. 119.

12 R. OWEN, loc. cit., p. 65.

13 L. BENEVOLO, op. cit., p. 71.

14 Vogliamo rilevare a questo proposito, l’esistenza di alcuni espliciti punti di contatto tra marxismo e utopismo, non solo sul terreno della protesta anticapitalistica, ma anche su quello della prefigurazione del destino della città. Intorno a quest’ultimo argomento è nota l’influenza che Owen e Fourier ebbero su F. ENGELS, del quale riportiamo una singolare affermazione: “La civiltà ci ha senza dubbio lasciato nelle grandi città un’eredità la cui eliminazione costerà molto tempo e molta fatica. Ma esse debbono essere e saranno eliminate, anche se questa e1iminazione sarà un processo molto laborioso” (Antidühring cit., p. 323).

15 E. HOWARD, fondatore del movimento della città-giardino, espose le sue idee nel 1898, in Tomorrow, a peaceful path to real reform (trad. it., L’idea della città-giardino, Bologna 1962). “La città-giardino risulta una completa creazione sociale ed economica anche se a ben guardare nessun fatto nuovo strutturale è rilevabile, nessuna ipotesi di “nuova società”, niente che non sia un prudente neocapitalismo (si direbbe oggi) aperto al desiderio che in futuro si sviluppi cooperazione, azione municipale, ecc. La fiducia nel trapasso graduale al suo ordine per conquiste continue e per mezzo del convincimento è alla base del sistema” (P. L. GIORDANI, in Considerazioni intorno a ‘Garden Cities of Tomorrow’, in appendice alla citata trad. it. del testo di Howard, p. 201).

16 L. BENEVOLO, op. cit., p. 8.

17 La posizione della quale ci stiamo occupando è stata definita, da uno dei più intelligenti e illustri studiosi italiani di questioni urbanistiche, come la posizione peculiare a quelle “nuove classi professionali sorte in prevalenza dal liberalismo, che, come un esercito che si organizza per operare, andarono gradatamente penetrando, con azioni sempre più vaste e suddivise, in tutte le branche della vita sociale, nella duplice attività di formazione delle strutture urbane e di controllo di queste strutture, man mano che una più complessa concentrazione funzionale, col suo ingrandirsi ed interferire, rendeva necessaria un’organizzazione vigilata” (G. SAMONÀ, op. cit., p. 13).

18 Va qui rilevato che, nella sistemazione ottocentesca delle grandi capitali, le esigenze della funzionalità produttiva costituirono soltanto una delle componenti; acquistarono infatti rilevanza notevole -e spesso decisiva -quelle esigenze del prestigio politico e statuale che sono essenziali alla borghesia alla vigilia e nel momento della sua espansione imperialistica. Queste ultime esigenze, nelle quali riecheggiano le antiche necessità signorili di fornire uno sbocco al sovrappiù tesaurizzato, sono particolarmente evidenti nella Parigi di Napoleone III e di Haussmann, nella Parigi, insomma, che fu realizzata - per volontà del suo signore - da quello “straordinario prefetto di genio, che ebbe la prima e forse più grandiosa visione di quanto potesse, per il prestigio dello Stato moderno, una capitale in cui la trama edilizia avesse una strutturazione imponente, spettacolare per taglio di arterie, per grandiosità di piazze e per continuità di fronti architettoniche, rese monumentali dalle ripetizioni di un determinato scomparto” (G. SAMONÀ, op. cit., p. 44).

19 Come osserva, con singolare acutezza, l’Aymonino, nel suo già citato saggio (p, 47).

20“La soluzione che darebbe alla questione [delle abitazioni] una rivoluzione sociale non dipende soltanto dalle condizioni del momento, ma anche è connessa ad una serie di questioni di molto maggiore ampiezza, tra le quali una delle più importanti è quella dell’eliminazione dell’antitesi fra città e campagna. Dato che noialtri non siamo di quelli che creano dei sistemi utopistici per l’instaurazione della società futura, dilungarci in proposito sarebbe inutile” (P. ENGELS, La questione delle abitazioni, Roma 1950, p. 43). “Voler risolvere la questione delle abitazioni e nello stesso tempo voler conservare gli odierni grandi agglomerati urbani è un controsenso. Ma gli odierni grandi agglomerati urbani saranno eliminati soltanto dall’abolizione del modo capitalistico di produzione, e quando si sarà dato l’abbrivio a questo, si tratterà di ben altro che di assegnare a ciascun lavoratore una casetta appartenentegli in proprietà” (ibid., p. 71). “Ma di risolvere la cosiddetta questione delle abitazioni non mi passa neanche per la testa; altrettanto come non mi occupo dei dettagli della questione alimentare, che è ancora più importante” (ibid., p. 136).

21 V. LENIN, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, Edizioni in lingue estere, Mosca 1949, p. 32.

22 K. MARX, Miseria della filosofia, Roma 1949, p. 139.

23 “Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad essa corrisponde un periodo politico transitorio, in cui lo Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato” (K. MARX, Critica del programma di Gotha, Edizioni in lingue estere, Mosca 1949, p. 37).

24 V. LENIN, Stato e rivoluzione, Roma 1954, p. 106.

25 K. MARX, Critica del programma di Gotha cit., pp. 25-26.

26 V. LENIN, Stato e rivoluzione, cit., p. 102.

27Ibid., p. 108.

28Ibid., p. 113.

29 G. E. Haussmann, cit. dal BENEVOLO) Le origini cit., p. 191. Il prefetto di Parigi si batté per ottenere che la legge del 1850 sulle abitazioni insalubri venisse interpretata “nel senso che i terreni edificabili, espropriati e valorizzati dai lavori cittadini, restassero di proprietà pubblica e potessero essere venduti al nuovo valore commerciale. Ma il Consiglio di Stato decise [...] che il Comune conservasse solo le aree stradali, mentre i terreni circostanti fossero restituiti ai vecchi proprietari” ( ibid.)

30 Nel primo Stato socialista, l’Unione Sovietica, “la condizione nuova, totalmente rivoluzionaria, è sancita il 20 agosto 1918 dalla legge concernente gli affari della municipalità, che trasforma tutta la proprietà privata in proprietà regionale o municipale” (V. DE FEO, URSS Architettura 1917-1936, Roma 1963, p. 46). Del resto già nei suoi studi per la “città industriale” Tony Garnier aveva supposto che “l’amministrazione avesse la libera disponibilità del suolo” (cit. dal BENEVOLO, Storia dell’architeltura cit., p. 428). La collaborazione del Garnier con Edouard Herriot e l’amministra2Jione radical-socialista di Lione fu particolarmente stretta e intensa, talché si considera generalmente la Cité industrielle del Garnier un incunabolo della città socialista (cfr. anche il cit. scritto dell’Aymonino).

31 M. TSAPENKO, Sui fondamenti realistici dell’architettura sovietica, Mosca 1951, cit. su “Casabella-Continuità” n. 262, aprile 1962, p. 26.

32 V. DE FEO, op. cit., p. 52.

33lbid., p. 53.

VI – IL MODELLO OPULENTO

1 Una interessante eccezione in tal senso è costituita da un articolo di P. CECCARELLI, Urbanistica opulenta, comparso su “Casabella-Continuità”, n. 278, agosto 1963, pp. 5 sgg. In tale articolo, commentando i risultati del concorso per il Centro direzionale di Torino, l’ A. rileva innanzitutto che “nella problematica urbanistica più recente si rintraccia un costante ed eccezionale interesse per il peso che le attrezzature terziarie esercitano sulla struttura delle città e per il ruolo che in futuro esse potrebbero esercitare in una nuova dimensione urbana”, e che, di conseguenza, “si attribuisce a un nuovo modo di organizzare ta1i elementi il compito di strutturare la nuova città e di rappresentare la società nel futuro”. Ma il Ceccarelli nega che sia possibile “prescindere da un giudizio sulla natura e il significato” della “terziarizzazione”, o addirittura assumere quest’ultima “come un processo fisiologico della società attuale”; egli coglie il nesso esistente tra “la formazione di una società opulenta e il parallelo svilupparsi del settore terziario” e conclude, su questo argomento, invitando gli urbanisti a una attenta analisi del “modello di sviluppo della società opulenta”, che costituisce oggi “l’unico riferimento preciso”. Un’altra posizione di sostanziale denuncia degli effetti dell’opulentismo è quella dell’Aymonino, della quale ci occuperemo più avanti.

2 “Il lavoro è, per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine. I fini che l’uomo può proporsi sono potenzialmente infiniti, ma l’uomo, come essere finito, li può perseguire e raggiungere solo in un processo, passando da ogni determinato ordine di fini ad altri ordini superiori, e intanto questo processo è pienamente umano in quanto ogni suo momento è una tappa per il passaggio ai momenti successivi, e mai un punto di arrivo definitivo. Corrispondentemente il lavoro, in condizioni naturali, realizza la sua natura di strumento universale solo passando sistematicamente attraverso una successione di determinazioni particolari, senza mai fissarsi in alcuna, ma anzi stando in ciascuna solo per conseguire fini che, una volta raggiunti, lo metteranno in grado di acquisire una maggiore efficacia come strumento e quindi di servire per fini superiori. In questo processo naturale di sviluppo, c’è dunque un rapporto di azione reciproca tra i fini e il lavoro: è il raggiungimento del fine che arricchisce il lavoro, ed è il lavoro arricchito che consente fini più alti. “Ora l’operazione posta in essere dallo sfruttamento è l’interruzione di questo processo naturale. Con lo sfruttamento, infatti, il lavoro perde la sua natura di strumento universale, in quanto viene rinchiuso entro una cerchia definita e invalicabile di bisogni, quella dei bisogni della vita fisica. Quando quella parte della capacità lavorativa di un uomo che resta ancora disponibile dopo che egli ha soddisfatto i propri bisogni di sussistenza, e che potrebbe perciò essere ordinata alla soddisfazione di bisogni superiori, viene viceversa piegata verso la produzione occorrente per soci. disfare i bisogni di sussistenza di un altro uomo, allora il lavoro rimane fissato entro una categoria determinata di bisogni, il rapporto di interazione tra lavoro e fini è spezzato, il processo stesso dello sviluppo umano (almeno come sviluppo interessante la generalità degli uomini) risulta interrotto” (C. NAPOLEONI, Sfruttamento, alienazione, capitalismo, in “La Rivista trimestrale”, nn. 7-8, 1963, p. 402).

3 Perciò è proprio nella fase signorile e attraverso l’operazione storica dello sfruttamento che avviene quella riduzione di principio del lavoro, da strumento dell’-indefinita espansione dei fini e della stessa natura dell’umanità, a mezzo per la sussistenza fisica dell’uomo (dei lavoratori e dei non lavoratori): riduzione appunto nella quale si realizza e si compie, per la prima volta, la alienazione del lavoro umano.

4 La letteratura sulla “società opulenta” è ormai così abbondante che sarebbe arduo darne un’esauriente bibliografia. Quest’ultima, poi, non sarebbe di grande utilità per il lettore, dal momento che (per quanto almeno ci risulta) la pubblicistica sull’opulentismo fornisce essenzialmente una serie di descrizioni e di denuncie di fenomeni che non vengono ricondotti alle loro matrici. Vogliamo comunque ricordare che la locuzione “società opulenta” (affluent society) fu coniata da J. K. GAILBRAITH in un suo libro pubblicato negli USA nel 1958, e pubblicato in Italia con il titolo Economia e benessere, Milano 1959. Per conto nostro, ci sembra doveroso avvertire il lettore che la definizione di società opulenta che diamo in queste pagine si basa sulla fondamentale analisi compiuta da F. RODANO su “La Rivista trimestrale”, soprattutto in due scritti del 1962, Il processo di formazione della società opulenta (n. 2) e Il pensiero cattolico di fronte alla società opulenta (n. 3 ), e in uno del 1967, Società opulenta e politica rivoluzionaria (nn. 22-23).

VII – AMBIGUITÀ ....

1 Ci siamo fin qui sempre riferiti al modello opulento e alla società opulenta: rispettivamente, dunque, allo schema di principio e all’assetto sociale nel quale tale schema pienamente si realizza. Non ci sfugge evidentemente il fatto che, nel concreto storico, 11 processo di formazione della società opulenta (come, a suo tempo, quello della società capitalistico-borghese) non si è dispiegato in modo omogeneo e diffuso, non ha investito cioè simultaneamente l’insieme della società mondiale; oggi, infatti, accanto a vaste zone e a decisivi settori nei quali l’opulenza costituisce senza dubbio la situazione di fatto, ne esistono altri -estensivamente assai più r11evanti -nei quali il problema della sussistenza è, addirittura, ancor lungi da11’essere risolto (ed è questo, ci sembra, un sintomo alquanto sinistro dell’insufficienza dello sviluppo opulento). Resta comunque il fatto che la tendenza verso la opulenza è oggi, a nostro avviso, l’unica tendenza storicamente in atto, che, dunque, anche le società ancora distanti dal “live1lo opulento” non possono evolutivamente non raggiungerlo, e che infine -e proprio per tutto questo -il problema decisivo da affrontare è appunto quello dell’opulenza. Se un simile problema non fosse aggredito e risolto, teoricamente e politicamente, ciò ricadrebbe a inevitabile danno dell’intera società umana: delle sue attuali “punte” come delle sue persistenti “paludi”.

2 Nella pubblicistica sull’opulenza, si pone soprattutto e quasi esclusivamente in rilievo l’arbitrio esercitato dalla produzione attraverso il meccanismo dell’induzione del consumo, e si tende a vedere sostanzialmente in tale induzione la caratteristica decisiva del processo opulento. Per conto nostro, ci sembra di aver sottolineato a sufficienza come l’allargamento opulento del consumo abbia la propria causa fondamentale nel mancato sviluppo del bisogno umano: in un motivo, quindi, non solo diverso, ma più complesso di quello costituito dall’induzione del consumo dovuta al prepotere della produzione. Se le cose stanno come noi le vediamo, poco importa in realtà -ai fini del nostro ragionamento -che l’arbitrio dal quale è caratterizzato il consumo opulento sia dovuto all’iniziativa induttrice della produzione, o a una propensione alt’ arbitrio del consumo medesimo, o (com’è più probabile, almeno per un certo periodo) all’una e all’altra ragione insieme; quel ch’è certo, comunque, è che la medesima induzione non potrebbe manifestarsi se non esistesse la propensione da parte del consumo a subirla, e che in definitiva è più che probabile che il fenomeno dell’induzione, in quanto soggettiva operazione svolta dall’attività produttiva, tenda a scomparire via via che il processo dell’opulenza prosegue il suo cammino.

3 Tanto ciò è vero che gli animali, la cui “vita economica” è interamente e definitivamente racchiuso, per principio, nella sussistenza, non costituiscono società. Sul piano urbanistico, è interessante osservare che la città nasce, come abbiamo cercato di dimostrare, solo quando si esce dall’autoconsumo (da un modello, cioè, caratterizzato appunto da1la sussistenza del produttore e della sua famiglia come unico fine dell’attività economica} e quando il lavoro, acquistando la dimensione “sociale” comportata dalla sua forma capitalistica, viene a costituirsi come la base oggettiva per la nascita di una città materialisticamente comune. È chiaro che quando, con l’opulenza, si esce dalla necessità del lavoro, si tende inevitabilmente a tornare a una situazione caratterizzata, come quella dell’autoconsumo, dal prevalere dell’individualismo.

4 L. MUMFORD, La città nella storia, Milano 1964, p. 678.

5 Ibid., pp. 674-76.

6 Evidentemente non c’è posto per il borghese in quella “società ad alto sviluppo industriale”, in cui “quella che era una volta una libera economia di mercato si è tramutata in una economia di profitto pilotata, di carattere monopolistico privato o dirigistico statale, in un capitalismo organizzato”, in una società “il cui buon funzionamento economico in vasta misura dipende dalla politica ed è possibile soltanto grazie al costante intervento, diretto o indiretto, dello Stato nei settori decisivi dell’economia” (H. MARCUSE, Le prospettive del socialismo nella società ad alto sviluppo industriale, in “Problemi del socialismo”, a. VII (1965), n. s., n. 1, p. 8). Cfr. anche L. BARCA, Il meccanismo unico, Roma 1968.

VIII – LA CULTURA URBANISTICA ... [la nota n. 24 ha nello stampato edito il numero (chissà perché) 91; la 25 e la 26 di conseguenza nello stampato hanno il 25 e 25]

1 Il Ceccarelli, nell’articolo già da noi citato, si occupa di uno di tali punti di forza: quello dell’esaltazione acritica delle attività terziarie. Basterebbe analizzare il materiale pubblicato dalle riviste italiane di architettura e urbanistica per dimostrare che un atteggiamento analogo a quello criticato dal Ceccarelli si manifesta assai spesso tra gli urbanisti, anche in relazione alle altre conseguenze dell’opulentismo cui abbiamo qui brevemente accennato.

2 Alcune opere di quest’ultimo sono state recentemente tradotte e pubblicate in Italia (K. LYNCH, L ‘immagine della città, Padova 1964; La struttura della metropoli, in La metropoli del futuro, a cura di Lloyd Rodwin, Padova 1964).

3 LYNCH, L’immagine cit., p. 25.

4Ibid., pp. 31-32.

5 Così afferma G.C. Guarda nella sua introduzione alla trad. it. del libro del Lynch, op. cit., p. 16.

6Ibid., p. 15.

7Ibid., p. 15.

8 C. AYMONINO, Le origini dell’urbanistica moderna, cit.

9Ibid., pp. 60-61.

10Ibid., p. 59.

11Ibid., pp. 66-67.

12Ibid., p. 66.

13 K. MARX, Il Capitale, I, 2, Roma 1956, pp. 200-1.

14Ibid.

15Ibid., III, 3, p. 231.

16Ibid., pp. 231-32.

17Ibid., p. 232.

18 H. MARCUSE, cit., p. 18. Corsivo dell’Autore.

19 Si vedano in proposito i già citati scritti di F. Rodano sulla società opulenta. Ci preme qui sottolineare (se ci è consentito accennare fugacemente a un tema di grande rilevanza teorica e pratica) che la società del tempo libero, la società in cui si viene realizzando l’uscita dal lavoro;rion è la società in cui l’uomo ha raggiunto la propria liberazione, ma è, viceversa, la società in cui viene definitivamente celebrata, nelle sue conseguenze ultime, l’alienazione del lavoro umano, e perciò dell’uomo medesimo.

20 Osserva il Ceccarelli, a proposito dei progetti per il Centro direzionale di Torino, che “l’assenza di giudizio critico su tali problemi [quelli della società opulenta] da parte di molti - dal Gruppo Quaroni a quello di Astengo a quello di Aymonino - è forse segno dell’a accettazione delle tendenze attuali come di una condizione oggettivamente valida” (op. cit., p. 6). Ci sembra, in realtà, che il saggio dell’Aymonino porti ad escludere che vi sia, in tale Autore, una effettiva “assenza di giudizio critico” nei confronti del1’opulentismo; è però singolare che una simile osservazione possa esser mossa all’Aymonino -e, riteniamo, senza intenzioni polemicamente maliziose -proprio in occasione di un concreto intervento in una città, Torino, che Marcuse definirebbe “ad alto sviluppo industriale”.

21 Sul fatto che le attrezzature urbanistiche sono di per se ordinate al consumo comune, si veda, ad esempio, il Primo contributo alla ricerca sugli standards urbanistici, del Centro degli studi della Gestione case per lavoratori, Roma 1964, pp. 1-2.

22 Giustamente afferma ad esempio Giancarlo de Carlo che occorre eliminare “l’equivoco di stabilire i livelli di abitabilità come se l’attività dell’abitare si esaurisse all’interno della residenza, o al massimo si estendesse ad alcuni suoi esterni prolungamenti di servizio”; egli sostiene invece la necessità di “riferire i giudizi e i limiti [dell’operazione urbanistica] a una realtà urbana [...] costituita da ‘quanti di urbanizzazione’, entro i quali si svolgono le interrelazioni delle attività abitative, e che sono quindi ‘quanti di attrezzature’ comprendenti tra l’altro anche le residenze” (intervento al Convegno nazionale sull’edilizia residenziale, Atti, Roma 1964, p. 753).

23 È il caso, ad esempio, della “zona pianificata di Spinaceto” progettata a Roma, nell’ambito del Piano di zona prescritto dalla legge 18 aprile 1962 n. 167, dagli arch. Moroni, Di Cagno, Barbera, Battimelli e Di Virgilio Francione. L’asse di tale “zona pianificata”, che interessa circa 150.000 abitanti, è costituita da una “attrezzatura complessa continua, composta da strade e servizi pubblici e privati [...] contornata da un sistema articolato di residenze con alle spalle la campagna-parco” (Relazione del 30 aprile 1965, copia cianografata, p. 8). Tale “attrezzatura complessa continua” è sostanzialmente formata da una fascia di attrezzature, sovrapposte al sistema viario, che si prolunga nel tessuto strettamente residenziale con le attrezzature più direttamente legate agli alloggi e con i percorsi pedonali. Tutte le residenze si affacciano su di essa, mentre presentano l’altro fronte alla campagna.

24 Si può dire che tale posizione è oggi praticamente condivisa dalla grande maggioranza degli urbanisti italiani, e che essa ha cominciato addirittura a investire la più recente attività legislativa e amministrativa.

25 Il “modello nucleare” prevede “l’espansione della città realizzata attraverso una serie di ‘unità residenziali’ (neighbourhood-units), l’una indipendente dall’altra in quanto a forma, e viceversa alle altre collegate da un criterio gerarchico, in base al quale due o tre o quattro unità primarie vicine formano una unità secondaria, due o più unità secondarie, a loro volta, ne formano una di terzo grado, e così via, in maniera tale da distribuire via via a unità più grandi i servizi pubblici di dimensioni relativamente crescenti” (L. QUARONI, Città e quartiere nell’attuale fase critica della cultura, in “La casa”, quaderni di architettura e di critica diretti da Pio Montesi, n. 3, Roma 1956, p. 16). L’esempio più noto di una simile struttura è costituito dal piano di Londra di P. Abercrombie, del 1944; essa ha la sua prima formulazione in uno scritto dello studioso americano Clarence Perry .

26 Ci sembra che una siffatta tendenza a trascurare, in nome di un “massimo di mobilità sociale” (Atti, cit., p. 132), la necessaria articolazione della società, sia oggi particolarmente diffusa. In essa si esprime, estremisticamente, un’esigenza reale: quella cioè di superare lo schematismo del “modello nucleare” e la segregazione che gli deriva quando vi si riflette direttamente l’attuale contesto sociale. Ci sembra però che cercare il superamento di quel modello lungo una linea di “polarizzazione agli estremi”, oltre a essere cosa altrettanto schematica e astratta, conduca in definitiva ad accettare le caratteristiche proprie dell’assetto opulento, il quale si configura appunto come un ordinamento nel quale l’unica parvenza di socialità è costituita da quella somma di individualismi che costituisce la massa.

IX USCIRE DALL’OPULENZA

1 Va qui sottolineato che un simile lavoro non ha mai potuto essere considerato tale; esso infatti non è mai stato retribuito nella forma salariale (ne in alcuna altra forma), ed è stato quindi escluso da qualsiasi riconoscimento economico e sociale.

2 Una efficace e lucida denuncia della condizione della donna nella società opulenta è costituita dal libro di B. FRIEDAN, La mistica della femminilità, Milano 1964. Cfr. anche la relazione introduttiva all’8° Congresso nazionale dell’Unione donne italiane, Roma 1968 (Atti in corso di stampa).

3 Sulla funzione del proletariato nel processo di fuoriuscita dall’opulentismo ci sia consentito rinviare il lettore allo scritto di C. NAPOLEONI e F. RODANO, Su alcune questioni sollevate dal movimento studentesco, “La Rivista trimestrale”, nn. 24-25, 1967-68, dal quale sono tratte le citazioni del presente paragrafo.

4 M. MANIERI ELIA, L’architettura del dopoguerra in U.S.A., Bologna 1967, p.101.

Una simile sensazione - che conduce alcuni a ripiegate sull’amaro isolamento di un’attività professionale sterilmente tecnicizzata o formalistica, altri a gettarsi in un’azione politica che si deforma spesso in impaziente tecnocratismo - è poi resa ancor più acuta e insofferente dalla consapevolezza dell’esistenza di una sempre più vivace “sollecitazione dal basso”, di una spinta sempre più forte dei cittadini per un rinnovamento profondo dell’organismo urbano. Ci sembra invero fuor di discussione che oggi l’utente, il consumatore di beni e servizi urbanistici - in una parola, il cittadino - è sollecitato e sospinto ad avvertire, in misura sempre maggiore, la decisiva importanza che ha per lui una corretta soluzione dei problemi del traffico, dei servizi pubblici, delle attrezzature sociali, del verde, della conservazione, utilizzazione e sviluppo del patrimonio naturale e di quello artistico. L’opinione pubblica comincia insomma a rendersi conto, via via più chiaramente e con sempre più viva impazienza, come l’anarchico disordine e l’ormai antiquato individualismo, che ancora presiedono alla crescita della città, incidano profondamente sulla stessa vita privata e familiare degli uomini, aumentando i pesi che gravano su di essa e mortificando le sue virtualità di sviluppo.

I numerosi convegni e incontri organizzati o promossi dalle associazioni popolari e dagli “organismi di massa” sui problemi del traffico, degli orari di lavoro, delle attrezzature scolastiche e per la prima infanzia, del verde, dei servizi pubblici, della casa; le molteplici inchieste della stampa di informazione sui medesimi argomenti; il nuovo interesse dei sindacati per i fattori extra aziendali che incidono sui salario reale; lo stesso più ampio rilievo dato dai quotidiani e dai settimanali a rotocalco alle questioni e agli “scandali” connessi alla salvaguardia del patrimonio naturale e artistico, non sono forse, tutti questi, più ancora che sintomi, chiari ed espliciti riconoscimenti di un’accentuata partecipazione popolare ai differenti aspetti dell’assetto urbanistico?

E tuttavia, da questo manifestarsi e sprigionarsi di esigenze, da questo affiorare di una nuova coscienza urbanistica degli italiani, non sembra che gli urbanisti abbiano ancora saputo - o potuto - trarre un sufficiente alimento per la propria azione, ma sembra anzi, come dicevamo, che essi ne siano stati ribaditi nella sensazione di una loro forzosa impotenza. Così si deve ancor oggi riconoscere che se la cultura urbanistica ha certamente accumulato un patrimonio non solo di soluzioni tecniche, ma anche di intuizioni teoriche e di iniziali - sebbene ancora timide - affermazioni di principio, resta comunque il fatto che tutto ciò non ha fino ad oggi condotto, nella concretezza della vita sociale e politica, a una piena e matura consapevolezza dei reali termini della questione urbanistica, e non ha quindi portato l’insieme delle forze che agiscono nella società ad affrontare, in modo sufficiente, il complesso problema della città.

Tra la polis e gli urbanisti esiste insomma, indubbiamente, una cesura. Ma quali sono le sue origini ? Quali le sue cause ? Quali le vie da percorrere per superarla? Non credo che sia sufficiente, né giusto, addebitare tutta la colpa d’una simile cesura - come spesso si suol fare - all’incomprensione o al “tradimento” del personale politico; alle sue possibili insipienze, confusioni e compromessi, o magari ai suoi interessati intrighi. Una siffatta soluzione, di sapore qualunquistico, ci consentirebbe, in quanto urbanisti, solo di scaricarci a buon mercato la coscienza. Né ovviamente - non foss’altro che per quella nuova coscienza urbanistica cui più sopra si accennava - sembra possibile accettare la tesi di una qualche immaturità della coscienza civile degli italiani, dalla quale il nostro paese dovrebbe magari sollevarsi mediante una semplice imitazione di frigidi - e comunque incongrui - modelli di importazione anglosassone o scandinava.

Siamo convinti invece - ed è questa la tesi, la premessa sulla quale si basa questo lavoro - che se la cultura urbanistica avesse una reale, chiara, profonda consapevolezza dei propri principi e del proprio ruolo peculiare e specifico, non solo quella cesura di cui si diceva sarebbe assai facilmente colmata, ma accadrebbe addirittura che, dall’incontro tra le virtualità della disciplina urbanistica e le nuove (e le antiche) esigenze dei cittadini, verrebbe a scaturire un potenziale capace di sollecitare l’intera società civile a un reale e dispiegato sviluppo. Ciò che allora ci compete soprattutto di ricordare (ogni qual volta ci sentiamo sospinti, dalla sensazione della sterilità del nostro operare, all’amaro e orgoglioso isolamento, o all’intervento surrettizio in campi che non appartengono alla nostra specifica azione di urbanisti) è che la nostra disciplina non ha tutte le carte in regola, e che è dunque di essa, in primo luogo ed essenzialmente, che ci corre l’obbligo e la responsabilità di occuparci.

Per conto nostro, tenteremo in questo scritto di trovare - aiutandoci con quel tanto di luce che una sommaria analisi della storia può gettare sul presente - almeno alcune premesse sulla cui base sia possibile lavorare per affrontare correttamente e, in prospettiva, per risolvere l’odierno problema dell’urbanistica. E se l’esigenza di individuare i principi che determinano l’autonomia, le leggi, il ruolo della disciplina e dell’operazione dell’urbanistica, condurrà talvolta a descrivere e a interpretare i diversi assetti della società cogliendoli soprattutto nel loro aspetto di sistema (e cioè nella loro medesima configurazione di principio), il lettore attento comprenderà facilmente - così almeno speriamo - come non ci sfugga il fatto che ogni concreta realtà sociale non si identifica, non si sovrappone completamente, non viene necessariamente a coincidere nel suo insieme e in ogni sua parte con quel determinato sistema sociale che, volta a volta, ne definisce e ne sintetizza gli elementi essenziali. Ed è anzi proprio dalla circostanza che praticamente mai nella storia - e neppure oggi, nel moderno sistema dell’ opulenza - un determinato sistema sociale ha potuto pienamente soddisfare le esigenze della città e dell’urbanistica, né tutte quelle della società civile, che scaturisce la necessità - e la possibilità - di giungere oggi a un più comprensivo ordinamento sociale e, insieme, a un più armonico assetto urbanistico.

2. Insufficienza delle consuete definizioni di città

Come spesso avviene, l’etimologia può offrire anche in questo caso una utile traccia di partenza per avviare la ricerca. E infatti, quali che siano le connessioni e le complicazioni, quali che siano le forme e i contenuti che si vogliano attribuire alla scienza urbanistica, è indubitabile che tale scienza è in primo luogo - come appunto l’etimologia suggerisce - la scienza della città. Per cominciare a comprendere allora che cosa sia l’urbanistica, occorre domandarsi anzitutto che cosa sia la città.

Un simile modo di affrontare la questione può risultar oggi particolarmente necessario e fruttuoso, poiché ci sembra che le attuali difficoltà, incertezze, contraddizioni, entro le quali la disciplina urbanistica si muove, abbiano appunto la loro radice in una scarsa consapevolezza di quel che la città rappresenta, costituisce ed esprime. Ci sembra, in altri termini, che la mancanza di una definizione sufficiente di “scienza urbanistica” derivi proprio dall’attuale incapacità di formulare una definizione pienamente accettabile della città.

Oggi, infatti, o si dà di quest’ultima una definizione assolutamente generica, e perciò del tutto inutilizzabile; o se ne esprime un’interpretazione permeata da una carica d’utopismo visionario, asservita a una astratta prospettiva escatologica, e perciò sostanzialmente distorta e inservibile sul piano della riflessione scientifica; oppure, infine, anche quando la ricerca sembra approfondirsi e articolarsi e pretendere a un più meditato rigore, non si riesce mai a superare il piano di una mera descrizione empirica della città.

Nella letteratura urbanistica quest’ultima posizione si manifesta in due versioni diverse e anzi apparentemente opposte. Da un lato, infatti, è chiaro che ci si limita a una elementare descrittiva del “fenomeno urbano”, quando, nella scia della tradizione positivistica, si assumono i ,moduli scolastici di un’analisi da manuale e ci si esercita, quindi, nell’enumerazione pedissequa dei vari “tipi” di insediamenti concentrati, delle diverse “funzioni” svolte nell’ambito urbano, o delle differenti “forme” nelle quali la città si è incarnata. Ma, dall’altro lato, è quasi altrettanto palese che una posizione puramente descrittiva è anche quella in cui approda necessariamente allorché, pur criticando come astratta e sterilmente accademica l’intenzione erudita di classificare i vari aspetti (tipologici, funzionali, o formali) della città, si tenta di capovo1gerla semplicemente: allorché insomma, esclusivamente sollecitati dalla preoccupazione di evitare ad ogni costo d’esser “tagliati fuori dalla realtà dei fatti”, ci si propone, proprio per questo, di restar strettamente e tenacemente attaccati alle cose, di aderire al loro sviluppo senza mai discostarsene, di razionalizzare gli ostacoli via via incontrati sul cammino univocamente determinato dall’evoluzione spontanea.

Nessuna legge di principio, nessuna caratteristica di base della città può venir individuata e stabilita - o anche soltanto ricercata - nell’ambito di una posizione siffatta, la quale anzi non può che negare l’esistenza di qualunque legge, di qualunque ordine, di qualunque principio che non siano quelli del processo storico in atto. Ci si riduce allora, necessariamente, all’“accettazione passiva e incondizionata - alla mera descrizione - dei livelli di sviluppo raggiunti, momento per momento, per effetto di un gioco di forze di cui l’urbanistica non partecipa e che non controlla”. Anzi, quanto più ci si sforza nel tentativo di conservare almeno il fantasma di una presenza urbanistica distinta dalla spontaneità del processo evolutivo, tanto più si finisce poi, inevitabilmente, per teorizzare l’esistente, per “costruire”un modello di città che è lo specchio fedele delle esigenze del moderno capitalismo, per erigere, infine, un siffatto modello di città a valore assoluto e archetipo universale e permanente.

D’altra parte, poiché, sul terreno dei fatti, l’aspetto dell’attuale città capitalistica che più immediatamente ed evidentemente può venir colto è quello di un dinamismo urbanisticamente imprevedibile, è quello della mobilità, del dialettico modificarsi delle situazioni e dei rapporti, dell’irrequieto mutare di tutte le grandezze coinvolte nello sviluppo del sistema, un solo “modello” può venir teorizzato nell’ambito della posizione anzidetta: quello, appunto, per cui si concepisce la nuova città come “una relazione dinamica che si sostituisce alla condizione statica della città tradizionale”, come “il luogo di situazioni omogenee in continua mutazione, dove ogni parte si integra alle altre secondo un rapporto che si modifica a ogni fase dello sviluppo”. Ma una formulazione siffatta non esprime forse il destino cui si è condannati ove si accetti di rinchiudersi nella posizione che abbiamo tentato di delineare? È un destino, infatti, che comporta il perpetuo inseguimento di una realtà in movimento perenne, la quale - come la filosofica tartaruga di Achille - precederà sempre di un passo l’urbanista, i suoi tentativi di incidere sulle cose e le sue illusioni di distinguersi da esse.

Ma allora, se è vero che la scienza della città non si è finora mostrata capace di individuare con esattezza quello che costituisce il suo oggetto specifico, è evidente che proprio questo punto deve essere inizialmente affrontato da ogni ricerca che voglia darsi ragione delle condizioni presenti della disciplina urbanistica.

È possibile elevare .una simile osservazione sino al livello ed alla dignità di una tesi definitoria? È possibile, in altre parole, asserire che sempre e di necessità, quando l’attività produttiva si svolge comprendendo tra le sue caratteristiche anche quella suddetta, l’insediamento deve assumere una forma peculiare, definibile soltanto come città? Se vogliamo tentar di legittimare questo passaggio, invero decisivo, dalla mera constatazione alla tesi e alla definizione di principio, dobbiamo comprovare almeno tre distinte posizioni.

Dobbiamo dimostrare innanzitutto, per così dire negativamente, che quando l’attività produttiva non si svolge obbedendo a quella caratteristica di cui sopra si è detto (e si svolge dunque ordinata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente al consumo individuale di un consumatore determinato), l’insediamento umano, per concentrato che possa essere, non è assolutamente una città, né merita quindi di venir definito in tal modo. Dobbiamo poi dimostrare in secondo luogo - ed è questo evidentemente il punto centrale - che effettivamente, quando nell’attività produttiva è comunque presente quella caratteristica (la caratteristica cioè della scomparsa come fine del consumo individuale di un consumatore determinato), allora, e soltanto allora, l’insediamento umano assume i caratteri e le forme di una vera e propria città, e comporta quindi e pretende di essere definito come tale. Ma c’è una terza posizione che bisogna a ogni costo dimostrare o, per meglio dire, c’è da rispondere a una obiezione che nasce dall’esperienza medesima di questa nostra città disorganica e disperata, caotica e disumana, e in cui tuttavia, come proprio poco fa si è sottolineato, l’attività produttiva obbedisce senza dubbio alla caratteristica di non essere rapportata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente, come al suo unico fine, al consumo individuale di un consumatore determinato. Bisogna cioè dimostrare che l’insufficienza, la vera e propria alienazione della città nella sua forma di città contemporanea, non dipende dal fatto che nell’attività produttiva è presente quella caratteristica di cui più volte si è detto, ma discende da altre ragioni, sicché, anzi, sviluppo della città nella sua pienezza e nella sua autonomia può aversi soltanto nel quadro di un’economia nella quale l’attività produttiva abbia e mantenga la caratteristica di svolgersi fuori dal rapporto fisico, diretto ed esclusivo con il consumo individuale di un consumatore determinato.

Inizieremo dunque senz’altro la nostra argomentazione, studiandoci di mostrare come non si dia luogo a città quando l’attività produttiva è ordinata immediatamente, fisicamente ed esclusivamente al consumo individuale di un qualche consumatore determinato. In corrispondenza a una simile caratteristica la storia ci ha fornito due soli esempi, due soli modelli economici: quello dell’autoconsumo e quello dell’economia signorile.

2. Il modello dell’autoconsumo e l’insediamento disperso

L’economia dell’autoconsumo può essere essenzialmente definita come quell’economia nella quale il produttore produce per il proprio consumo, e consuma per poter continuare nel tempo, e al medesimo livello, la propria attività di produttore. È quindi evidente che un simile modello risponde alla caratteristica prima postulata; nell’autoconsumo, infatti, il fine immediato, fisico, esclusivo dell’attività produttiva è costituito certamente dal consumo individuale di un consumatore determinato, che in questo caso coincide appunto con la persona medesima del produttore. Ma d’altra parte, poiché in una simile economia il fine del consumo è a sua volta costituito dal mantenimento delle condizioni di una ripresa, al medesimo livello, dell’attività produttiva del consumatore stesso, ecco che i bisogni, che è necessario soddisfare perché tale attività produttiva possa aver luogo, sono, e possono essere soltanto, i "bisogni della vita fisica, della sussistenza corporea dell’individuo e della sua famiglia (quelli cioè della reintegrazione e della ricostituzione dell’energia lavorativa); il lavoro, proprio per tutto ciò, non può non essere applicato, e viene a essere esclusivamente e unicamente applicato, all’appropriazione diretta e immediata delle risorse della natura, che in tanto vengono appropriate, elaborate e trasformate, in quanto devono essere, immediatamente e direttamente, consumate.

Una conseguenza discende allora palesemente da tutto questo. L’unica forma di vita associata, l’unico organismo sociale che venga già preteso e sostenuto dall’economia dell’autoconsumo, è quello costituito dalla famiglia in quanto istituto ordinato alla riproduzione della forza-lavoro: così originaria è per l’uomo, così intrinsecamente umana è la famiglia, che anche la forma primordiale dell’economia già la pretende e la sostiene. In ogni modo ciò che qui interessa di sottolineare è che nessun altro ordinamento, nessun altro schema sociale è necessario al funzionamento del modello dell’autoconsumo, come nessun altro, del resto, può venirne sorretto. Allora, sul :piano delle forme dell’insediamento umano, è chiaro altresì che il ciclo chiuso, localizzato, meramente reiterantesi dell’economia dell’autoconsumo ha, quale suo unico corrispettivo residenziale omogeneo, quello dell’insediamento individuale e disperso, il quale, poi, trova come suo invalicabile limite superiore quello che deriva dal mero accrescimento naturale della residenza unifamiliare: il villaggio, racchiuso e circoscritto nell’ambito degli elementari interessi di consumo e di produzione (e in definitiva di sussistenza) di una famiglia solo quantitativamente più estesa, di una gens.

L’autoconsumo, dunque, non postula, non può postulare la città, non può darle vita. E comincia allora ad acquistare un senso reale, una effettiva profondità un significato logicamente comprensibile, l’osservazione elementare e quasi ingenuamente empirica, per non dire lapalissiana, che la città è la non-campagna: poi che infatti un’economia di autoconsumo (quella appunto che, come si è detto, comporta e pretende solo un insediamento sparso e che esclude quindi, nel modo più radicale, la dimensione della città) non può non svolgersi se non a immediato contatto con la natura, con le risorse naturali, e dunque nelle campagne. Ma per procedere nell’argomentazione bisognerà ora mostrare come neppure l’altra forma di economia ordinata al consumo individuale di un consumatore determinato - l’economia signorile - possa condurre a una vera e propria città: come insomma, se ci è consentita un’espressione simbolica e quanto mai ellittica, la città sia anche il non-castello.

3. L’appropriazione signorile del sovrappiù.

L’economia signorile è caratterizzata dall’operazione dello sfruttamento, la quale consiste sostanzialmente nel fatto che il lavoro di una parte del genere umano (i servi)viene violentemente ordinato dalla libertà dal lavoro di un’altra parte del genere umano (i cui membri in quest’atto si costituiscono in signori). È chiaro allora che l’economia signorile può sorgere solo sulla base della formazione del sovrappiù. Essa può sorgere, in altri termini, solo quando il lavoro umano, per quel suo sviluppo che è preteso dalla stessa natura dell’uomo e che si è venuto esplicando nella storia, raggiunge un determinato livello di produttività: esattamente quel determinato livello che consente di ottenere, alla fine del ciclo produttivo, una eccedenza di beni prodotti, rispetto alle esigenze del consumo necessario alla sussistenza fisica del produttore.

Ma non a caso non si è scritto semplicemente che l’economia signorile sorge sulla base del sovrappiù, e si è detto invece, più complessamente, che essa può sorgere su quella specifica base. In realtà, poiché è proprio nell’ambito dell’economia dell’autoconsumo che deve naturalmente formarsi e viene a rivelarsi storicamente (a un determinato stadio dello sviluppo della produttività del lavoro) un’eccedenza produttiva, nulla vieta che questa eccedenza medesima rimanga nelle mani di quanti l’hanno prodotta; in tal caso, ovviamente, non potrebbe sorgere né la figura del signore ne un’economia signorile.

Però, i produttori che ormai, per ipotesi, detengono un sovrappiù, possono rimanere subalternamente entro il quadro delle categorie tipiche dell’autoconsumo. Ma in una simile ipotesi, allora, essi non possono distinguere in modo netto e inequivocabile, dall’insieme del prodotto, il sovrappiù; non possono prendere coscienza di questa nuova realtà della vita economica; non possono comprenderla e assumerla nella sua specificità e nella sua novità; non possono individuare e scoprire le nuove regole, le nuove forme che discendono, per la stessa economia, dal fatto che un sovrappiù si è formato. L’eccedenza, infatti, nell’ideologia di questi produttori rimasti entro l’orizzonte dell’autoconsumo, diverrebbe, indiscriminatamente, sia occasione e possibilità di maggiori consumi, sia garanzia e riserva di consumo sufficiente per gli anni e per le stagioni di carestia (in una sostanziale confusione dunque tra incremento di consumo e consumo differito ), sia infine, per non dire soprattutto, occasione e possibilità di minor lavoro, di un allargamento del riposo, del tempo libero. Dimodoché si fa chiaro che in tal modo tutte le nuove possibilità dinamiche implicite nel sovrappiù verrebbero, nell’ambito di un anacronistico perdurare dell’ideologia dell’autoconsumo, mortificate e disperse. È questa, in definitiva, la possibile debolezza fondamentale, il possibile limite - che può divenire appunto, a un determinato momento, concreto, e diviene allora catastrofìcamente disumano e antiumano - insito nella fase dell’autoconsumo. Ma è su questa debolezza che s’inserisce l’iniziativa del signore, trovandovi anzi la sua giustificazione storica.

In realtà, se la formazione del sovrappiù è la condizione naturale e storica di base per il sorgere dell’economia signorile, questa sorge poi rea1mente, in concreto, solo quando dalla volontà di un uomo viene posta in atto una determinata e peculiare operazione storica. È appunto l’operazione dello sfruttamento, la quale senza dubbio è voluta da un uomo (colui che diventa il signore) per appropriarsi del sovrappiù prodotto da un altro uomo (colui che viene ridotto a servo). Certo, una simile operazione - poiché appunto in questa volontà consiste e di questa di continuo si alimenta - fa pagare all’umanità il prezzo intollerabile, e foriero di nuove contraddizioni, dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo; e tuttavia, nel tempo medesimo, essa conduce, oggettivamente ma inevitabilmente, a distinguere il sovrappiù, a liberarlo, a enuclearlo da quella indiscriminazione, da quella indistinzione cui rimane condannato nel quadro dell’ideologia dell’autoconsumo, e in cui si viene a perdere tutta la potenzialità dinamica dell’eccedenza.

Ecco dunque perché si è detto più sopra che l’economia signorile può sorgere, e non sorge automaticamente, una volta che si sia formato il sovrappiù. In effetti, poiché la formazione del sovrappiù rende solo possibile la fuoriuscita dall’autoconsumo, e rende dunque solo possibile l’instaurazione di un’economia signorile, è l’atto del signore che fonda realmente l’economia signorile e che perciò rende quest’ultima, da meramente potenziale, storicamente effettuale; ma allora, in definitiva, quel medesimo atto è anche un modo (uno dei modi, almeno, se non certo l’unico possibile in linea di principio, né l’unico storicamente verificatosi) per cui la necessaria fuoriuscita dal limite, divenuto disumano, dell’autoconsumo, trapassi a sua volta dalla pura possibilità alla concretezza storica. Solo che - ed è questo un punto che va particolarmente sottolineato ai fini di questa ricerca - un simile modo, il modo signorile di enucleare il sovrappiù, appunto perché implica lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non solo mantiene l’attività produttiva immediatamente, fisicamente ed esclusivamente rapportata al consumo individuale di un consumatore determinato, ma comporta tutta una serie di contraddizioni le quali hanno, anch’esse, un’estrema importanza sul piano dell’urbanistica: sulla natura, sul carattere e sulle leggi peculiari all’insediamento umano preteso da una simile economia.

4. Caratteristiche e leggi del modello signorile

Riassumendo quanto finora si è detto, si può affermare che l’economia signorile nasce quando il sovrappiù, formatosi amano a mano nell’ambito delle unità produttive fino allora caratterizzate dall’autoconsumo, viene appropriato individualmente da un uomo. Ma a quale fine, a quale obiettivo viene ordinata una siffatta appropriazione? A quelli, evidentemente, che costituiscono l’ideale dei signore, il quale in tanto sottrae il sovrappiù ai produttori, in quanto solo così può raggiungere lo scopo di consumare senza produrre e può dunque, per così esprimerci, uscire dalla produzione, uscire dal lavoro.

Da tutto ciò nascono appunto quelle conseguenze che interessano direttamente il discorso urbanistico: in primo luogo, è chiaro che l’operazione dello sfruttamento, l’operazione tipica dell’economia signorile, comporta il permanere di un rapporto fisico, immediato, esclusivo tra l’attività produttiva e il consumo individuale di quel consumatore determinato che è il signore: a un tale consumo è infatti direttamente ordinato il sovrappiù. In secondo luogo poi - ed è questa l’origine di quella serie di contraddizioni di cui sopra si è parlato - poiché il fine dello sfruttamento sta appunto nella fuoriuscita dello sfruttatore dalla produzione, è chiaro che lo sfruttatore medesimo - il signore - si costituisce in puro consumatore; egli diviene, cioè, un consumatore libero dalla necessità di lavorare per consumare, nell’atto stesso in cui l’altro, lo sfruttato, il produttore del sovrappiù appropriato dal signore - insomma il servo - viene ad essere ridotto tutt’intero, nel suo lavoro come nei suoi consumi, a mero strumento produttivo per la soddisfazione di un puro consumo.

Un siffatto consumo - il puro consumo appunto - quel consumo del signore che è divenuto il fine cui tutta l’economia è ordinata, acquista dunque un carattere ed è sottoposto a un destino davvero singolare. Che cosa significa infatti che il consumo signorile è divenuto un puro consumo? Significa che, per principio, esso viene soddisfatto senza che colui che lo soddisfa, il signore, paghi il prezzo del lavoro. È allora un consumo che, liberandosi dal lavoro, si è liberato con ciò dalla sua condizione necessaria, e dunque da ogni necessità, ed è divenuto per questo un consumo libero, un consumo fine a se stesso. In definitiva quindi, e appunto per tutto ciò, esso non può non divenire opulento, non può cioè non crescere su se stesso e complicarsi via via all’indefinito. E di fatto, sottratto com’è ad ogni legge esterna (ove si escluda il condizionamento storico e sociale, per altro continuamente superabile, costituito dalla quantità di sovrappiù disponibile), esso diviene l’espressione materiale medesima della libertà e della dignità del signore, la realizzazione della volontà del signore, del suo arbitrio, del suo capriccio.

Innanzitutto quindi, nella sua forma più immediata e originaria - in quanto cioè consumo dei beni necessari alla sussistenza fisica del signore - esso verrà via via a svi1upparsi e a complicarsi (privo ormai di ogni collegamento persino con le radici naturali di un consumo per l’esistenza) fino alle forme più raffinate, più arbitrarie e più disumane del lusso. Subito dopo, poiché la garanzia della sussistenza fisica del signore fuori dalla necessità del lavoro determina al tempo stesso la piena e totale libertà, la meta-economicità assoluta, e insieme l’irriducibile carattere individuale di ogni possibile attività signorile (attività che appunto si svolge al di fuori della legge comune del lavoro), ecco che il consumo signorile si costituisce come quel punto in cui di continuo vengono drenati, a sostegno di tale attività, i beni e la ricchezza prodotti nel mondo servile dell’economia. Il consumo signorile, così, si costituisce come il punto in cui tali beni trapassano dalla sfera dell’economia alla sfera di quanto non può non definirsi come cultura, come civiltà, poiché vi si esprime tutto ciò che non è servile, tutto ciò che non è immediatamente ed esclusivamente ordinato alla produzione dei beni per la sussistenza fisica, e che tuttavia non a caso - come ormai è facile intendere - ha sempre patito il limite di un individualismo sfrenato, di una barbara negazione dell’umanità in nome dell’esaltazione dell’uomo, e che di fatto, impossibilitato per principio a raggiungere un’universalità sufficiente, ha dovuto sempre soffrire il destino del corrompimento e della decadenza. Ciò che qui soprattutto interessa, tuttavia, è che il consumo signorile possiede, per il suo stesso carattere organico, proprio, cioè, per la peculiare natura che lo contraddistingue e che ne determina le leggi e le prospettive, un’enorme capacità di concentrazione del sovrappiù; al limite e in linea di principio, è sufficiente un solo signore per drenare e concentrare tutto il sovrappiù storicamente esistente.

5. L’insediamento concentrato peculiare all’economia signorile. pomposa Babilonia”

Alla rottura del chiuso e breve cerchio dell’economia dell’autoconsumo (rottura che costituisce, come si è visto, la conseguenza diretta e immediata dell’appropriazione signorile del sovrappiù), viene allora a corrispondere, sul terreno che più strettamente riguarda l’urbanistica, la necessità di uscire dalle forme dell’insediamento sparso. Infatti, parallelamente e contemporaneamente allo spezzarsi di quel processo circolare dell’economia che aveva nell’autoconsumo la sua forma più elementare, più immediata, più staticamente determinata e localizzata; parallelamente e contemporaneamente al porsi del fine del processo economico nel consumo signorile, avviene sul piano sociale -e di conseguenza su quello dell’insediamento umano - una trasformazione altrettanto decisiva. L’esclusivizzata finalizzazione della produzione servile al consumo del signore si riflette e si completa, invero, nella subordinazione del contado (delle unità familiari, delle residenze disperse, delle elementari agglomerazioni dei vi1laggi) alla sede del signore. Questa d’altra parte, appunto per quella organica capacità di concentrazione che è peculiare al consumo signorile, tende ad aumentare, in misura via via crescente, il proprio peso, il proprio potere, e dunque le proprie dimensioni medesime.

Si può dire allora che è strettamente inerente all’economia signorile la necessità di dar luogo a un insediamento umano concentrato. Questo sorge e si sviluppa sulla base della coordinazione e del collegamento dei precedenti nuclei umani, delle preesistenti unità produttive, il cui sovrappiù deve venire regolarmente e sistematicamente rastrellato dagli incaricati del signore per affluire senza tregua alla sua sede, reggia o castello o monastero che sia; e quell’insediamento concentrato, allora, si accresce poi e si agglomera intorno al nucleo centrale del consumo signorile (attorno al punto focale della sede del signore) a mano a mano che l’accumulazione del sovrappiù può e deve dar luogo a una corte; a mano a mano che il consumo del signore e della sua parassitaria “servitù cortese” impone il formarsi di categorie di lavoratori che producano direttamente per il lusso signorile, e che, infine, masse sempre più imponenti di “servitù villana” si insediano attorno al luogo stesso cui è ordinata la loro attività di produttori di sovrappiù.

L’economia signorile può, e deve, dar luogo a un insediamento concentrato. Ma d’altra parte, è facile vedere, sulla base di quel che finora si è detto, che un simile insediamento nulla aggiunge al “castello”, né da esso può distinguersi se non sul piano meramente fenomenologico e descrittivo della quantità delle residenze agglomerate attorno alla sede signorile. In quell’insediamento si concentrano infatti i membri di un’umanità subalterna, che è condannata alla funzione esclusiva di produrre un sovrappiù utilizzabile fuori da essa, fuori dalla sua possibilità di conseguire un effettivo sviluppo umano: vi si concentra, insomma, la massa dei servi, aggiogata a un destino ineludibile di mero strumento di produzione del sovrappiù signorile. E seppure, nel momento e al livello di maggior splendore di tali insediamenti concentrati, questi sono abitati da più illustri personaggi, da individui liberi dalla produzione, costoro, in definitiva, non sono altro che i cortigiani, i clienti; sono insomma i membri di quella classe il cui unico ruolo consiste nel permettere al signore di consumare come opulenza, a fini di lusso o a fini di “civiltà”, il sovrappiù accumulato. Anch’essi sono dunque legati, inevitabilmente e per principio, a una funzione subordinata e servile.

Nell’insediamento concentrato dell’epoca signorile l’umanità, il valore, la dignità, la libertà, l’onore, il fine stesso dell’ordinamento economico, sociale, civile, tutte le caratteristiche, insomma, peculiari dell’uomo, sono dunque effettivamente presenti soltanto nella figura individuale del signore (quindi in modo di necessità deformato). Un simile insediamento umano, pertanto, preso nel suo insieme, ha la sua ragione e il suo fine fuori di sé; esso è alienato dal signore, è schiavo della sua libertà, del suo arbitrio, è anzi il luogo stesso della servitù: è il luogo della residenza di quanti non sono socialmente uomini. È allora impossibile qualificare come vera e propria città un insediamento siffatto. Non sono certamente città quei concentramenti, nati in funzione del consumo signorile del sovrappiù, che, come il Cattaneo acutamente osservava, sono “pompose Babilonie, sono città senz’ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo”. Se pertanto un ordine può mai venir impresso a siffatte Babilonie, se con una regola e una legge si vuole sottrarle al caos, all’anarchia, alla casualità che sono loro connaturati, quell’ordine, quella regola, quella legge possono venire solamente dall’esterno. La regola, la legge, l’ordine non scaturiranno mai organicamente dall’insediamento signorile; essi verranno imposti dal “castello”.

Come l’insediamento omogeneo all’economia dell’autoconsumo, così anche quello compatibile con l’economia signorile non può quindi essere propriamente definito una città. Certo, l’attuale cultura urbanistica è riluttante a riconoscere la validità di un simile giudizio. Ma non è cosa, questa, che possa meravigliare. In verità, se ci si arresta al livello meramente fenomenologico dell’osservazione dei dati più elementari e immediati, se ci si limita a definire la città come un’agglomerazione di residenze, come un insieme quantitativamente rilevante di edifici, come una concentrazione demografica, l’insediamento signorile può essere effettivamente considerato come una città. Ma come pagine addietro si è già affermato, simili definizioni sembrano del tutto insufficienti. Difatti - come si vedrà in seguito - quelle definizioni non permettono di riconoscere la vera natura della città, le condizioni della sua affermazione storica, le tappe obbligate della sua rinascita, della sua fuoriuscita dall’attuale situazione di crisi. Si può dunque ritener confermata, almeno in prima approssimazione, la tesi più sopra enunciata: nessuno degli schemi, nessuno dei modelli economici in cui l’attività produttiva conserva la caratteristica di essere rapportata in modo immediato, fisico, esclusivo, al consumo individuale di un consumatore determinato, è capace di postulare una città.

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