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RELAZIONE DELL'ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA

A CURA,DELLACOMMISSIONE PER LO STUDIO DEI PROBLEMI DEL PIANO REGIONALE [da: Rassegna del Primo Convegno per la Ricostruzione Edilizia, Milano 14-16 dicembre 1945, Edizioni per la Casa, 1946]

La Commissione ritiene necessario che i problemi relativi ai Piani Regionali, con speciale riguardo alle necessità della Ricostruzione, siano resi noti al pubblica a mezzo della stampa, della radio, e di conferenze, affinché risulti ben chiaro, sia a coloro che saranno i responsabili di quanto si farà nei prossimi anni, sia a coloro che a detti piani dovranno attenersi, che è indispensabile, per iniziare in maniera organica il lavoro della Ricostruzrone della Patria, ricorrere a detti Piani Regionali, coordinatori di tutti i problemi urbanistici interessanti i vari territori.

La Commissione fa voti affinché il risultato dei propri studi sia preso in esame econsiderato attentamente da tutti i Ministeri e gli Enti interessati alla Ricostruzione.

Nella prima fase dei suoi lavori, la Commissione ha stabilito di analizzare il problema del Piano Regionale nel quadro della Ricostruzione Nazionale; ha pertanto considerato l’opportunità dello studio di un Piano Regionale in quelle zone che sono situate nell’interno del territorio o lungo le coste, dove più a lungo ha sostato la linea di combattimento. Infatti è ovvio che per organizzare la vita ed i traffici in queste zone, è necessaria l’impostazione di un vasto programma di opere che coordini le reti stradali e ferroviarie, lo sviluppo dei Piani di Ricostruzione degli aggregati urbani distrutti, regoli lo sviluppo industriale, agricolo ed economica del territorio eche sopratutto provveda affinché ciascun Ente non operi indipendentemente, ma nell’interesse generale della regione.

A tal fine ha stabilito il programma di studio nei suoi elementi:

1) Rete delle comunicazioni(strade, ferrovie e trasporti pubblici, aeroporti, porti, idroscali, vie fluviali).

2) Azzonamento(industriale, di bonifica, paesistico, turistico, di cura e soggiorno ).

3) Spostamento dei centri abitati distrutti dalla guerra e piani di Ricostruzione dei centri danneggiati.

4) Ente coordinatore efinanziatore dei Piani Regionali.

Occorrerà determinare attentamente quanto èpossibile fare di definitivo sin da adesso, quanto è raccomandabile rimandare ad un secondo tempo piuttosto che compromettere con soluzioni inadeguate l’avvenire delle zone in esame, quanto deve venire interdetto e vincolato per non ostacolare le future realizzazioni, quanto infine, perché legato a s oluzioni ideali, ma in questo momento economicamente irrealizzabili dovrà essere procrastinato. Pertanto tali realizzazioni dovranno essere eseguite tenendo conto delle disponibilità finanziarie dell’attuale momento.

Base iniziale, per procedere nello studio dei Piani Regionali di Ricostruzione, èl’esatta conoscenza di tutti i dati statistici interessanti i territori in esame, necessari per uno studio organico e razionale. Pertanto, oltre ai dati relativi agli abitati danneggiati (quali l’elenco degli edifici distrutti, gravemente o lievemente danneggiati, a numero dei vani distrutti e degli abitanti senza tetto ecc.), occorre che siano predisposte tutte quelle indicazioni statistiche che possano, con l’eloquenza delle cifre, rendere palesi le caratteristiche dei diversi centri urbani e della regione, quali erano prima dei danneggiamenti ed individuare i problemi da risolvere.

Sarà così necessario conoscere i dati demografici, quelli relativi ai servizi elettrici, dell’acqua e del gas, all’intensità di circolazione dei vari mezzi di locomozione e alle industrie in genere, nonché quelli economici, metereologici in genere e di appartenenza a professioni,arti e mestieri.

Tutte queste cognizioni, utili in ogni momento per la vita organizzata di qualsiasi comunità, dovrebbero essere predisposte ed aggiornate in ogni Comune, specialmente in questo momento iniziale della Ricostruzione.

PRIMO ELEMENTO -Rete delle comunicazioni (strade,.ferrovie e trasporti pubblici, porti, vie fluviali, aeroporti, idroscali)

A) Strade.

Considerato che per le distruzioni subite dalla rete ferroviaria e le difficoltà per un sollecito ripristino, le strade. nazionali e secondarie devono essere messe in efficienza al più presto possibile, al fine di poterle utilizzare per il transito degli autoveicoli onde risolvere il sistema dei trasporti, base della nostra Ricostruzione e del nostro lavoro, si provveda a quanto segue:

Riesame dei tracciati delle arterie più importanti che formano la spina dorsale di tutto il sistema di comunicazioni, specialmente dove queste attraversano aggregati urbani o allungano inutilmente il percorso; eventuale allargamento delle sedi stradali e ripristino delle opere d’arte danneggiate e distrutte, migliorando o addirittura trasformando i ponti, i sopra e sotto passaggi, specialmente negli incroci con le linee ferroviarie, onde eliminare o ridurre al minimo i passaggi a livello, secondo i progressi compiuti in questo campo da tutto il mondo.

Opportuna ubicazione delle stazioni di rifornimento, officine di riparazioni, posti di pronto soccorso.

Collegamento dei nuovi centri urbani previsti con i rispettivi centri economici, come impianti industriali, zone agricole e fonti di rifornimento in genere.

Creazione di vincoli riguardanti la distanza delle nuove costruzioni dal ciglio stradale (p. es. ml. 20 per le statali, ml. 10 per le provinciali, comunali e di bonifica; per le strade di montagna e di collina a mezza costa i limiti predetti potranno essere ridotti opportunamente quando venga costituito adeguato vincolo di non costruzione sul lato opposto della strada).

B) Ferrovie e trasporti pubblici.



a) Per le line ferroviarie principali e secondarie:

1) Premettere ad ogni programma di ricostruzione. e di riassetto un accurato esame della linea alla stregua dell’esperienza del periodo critico dei trasporti ferroviari sottoposti alla concorrenza degli autotrasporti e tenuto conto dei progressi tecnici conseguiti e conseguibili in un prossimo futuro, così da abbandonare senz’altro le linee ferroviarie che a causa del tracciato, delle loro caratteristiche costruttive, o per altre ragioni non possono risultare vitali e non siano suscettibili di conveniente trasformazione.

2) Nel programma di Ricostruzione e di riassetto, ispirato naturalmente a criterio di graduazione secondo l’importanza del traffico affluente alle diverse linee, contenere la tendenza a ricostruire gli impianti tal quali erano, provvedendo:

a) a studiare, in base alle correnti dei traffici attuali e futuri, alla luce dei più recenti concetti tecnici e delle acquisizioni dell’esperienza, rettifiche di tracciato od anche più radicali trasformazioni inquadrate in un generale riordinamento della rete, nonché modificazioni delle relative caratteristiche piano-altimetriche che consentano di ridurre le distanze virtuali fra i nodi più importanti e di conseguire maggiori velocità di percorso;

b) a riesaminare le ubicazioni delle stazioni, eventualmente spostandole in località più convenienti, avuto presente lo sviluppo attuale e futuro degli aggregati urbani;

c) a prevedere (previo un esame integrale economico-finanziario) spostamenti del tracciato ferroviario in prossimità di importanti città o di stazioni climatiche di cura e soggiorno, ove quello impedisca o trattenga lo sviluppo urbano, disponendo altrimenti convenienti modifiche di impianti e costruzioni (cavalcavia, sottovia, ecc.) così da assicurare la continuità delle comunicazioni stradali fra le zone adiacenti le ferrovie.

3) Per i grandi centri urbani, ove sia da proporsi la ricostruzione o lo spostamento della stazione centrale, evitare la soluzione della stazione di testa, in ogni caso da essere disposta radialmente, ed ogni notevole allontanamento dal centro cittadino, ed altresì escludere la eccessiva importanza dei fabbricati di stazione concepiti come monumentali porte di città, esuberanti al loro contenuto funzionale.

4) Prevedere, secondo un piano di rapida attuazione, la soppressione dei passaggi a livello in corrispondenza delle strade di grande traffico statali e provinciali e nei centri urbani la costruzione di cavalcavia e sottovia così da assicurare la continuità fra i quartieri adiacenti a tracciati ferroviari di cintura e di penetrazione.

5) Nei confronti delle ferrovie in regime di concessione urge più che mai un esame accurato sulle possibilità di vita di ogni linea, anche tenuto conto del traffico viaggiatori e merci realmente pertinente in base ai critèri vigenti; ove questo non sia modificabile. Esaminare in questa sede eventuali passaggi di gestione dallo Stato all’industria privata o viceversa, così da costituire complessi vitali ed efficienti, eliminando sterili concorrenze e sopprimendo tronchi di evidente inutilità.

6) Prevedere allacciamenti di adeguata potenzialità noti impegnanti la viabilità ordinaria, con le zone industriali, i porti e gli scali fluviali.

7) Imporre con provvedimenti di imperio una più larga zona di vincolo e divieto nei confronti delle nuove costruzioni rispetto alle linee ferroviarie principali (ad esempio, ml. 20 dall’asse galleria, piede del rilevato o ciglio della trincea, e per le secondarie e foranee ml. 10).



b) Per le comunicazioni foranee e vicinali d’interesse locale:

1) Studiare come questione pregiudiziale ed essenziale, un piano organico, da attuarsi anche gradualmente in periodo non breve, di tutte le comunicazioni di interesse locale, inteso a costituire un sistema di rapidi trasporti efficienti ed economici sia fra centri e centri, sia soprattutto con funzione centripeta di disurbanamento nei confronti dei grandi agglomerati urbani.

2) Tale studio, anche tenuto conto degli impianti di trasporto pubblico già esistenti e del loro stato di efficienza e di danneggiamento, prevederà una razionale distribuzione dei vari sistemi di trasporto (ferrovie rapide, tranvie, linee filoviarie ed automobilistiche, funicolari, funivie ecc.) secondo i tracciati più opportuni e le necessità e caratteristiche del traffico, così da conseguire la massima e più conveniente efficienza dei trasporti nelle più favorevoli condizioni economiche. Interessa anche in questo caso evitare la frettolosa ricostruzione di impianti tecnicamente superati e di efficienza inadeguata, o comunque prevedere, nel piano economico, la eliminazione prossima di tali impianti (p. es. tranvie extraurbane su sede stradale).

3) In corrispondenza delle grandi città le stazioni ferroviarie delle linee foranee saranno da ubicarsi il più possibile ravvicinate ai centri vitali urbani, in opportuna coordinazione con i diversi mezzi di pubblico trasporto di superficie; con tracciato di penetrazione in trincea, in sotterraneo o in viadotto, così da non interrompere le comunicazioni stradali fra i quartieri adiacenti.

c) Trasporti pubblici urbani:

1) Provvedere ad un piano organico come per le comunicazioni foranee ed a una ridistribuzione dei vari sistemi di trasporto, prevedendo entro un futuro assai prossimo la estromissione dalle strade urbane delle tranvie non previste in sede separata.

C) Vie fluviali. - Opportunità di provvedere al riattamento ed utilizzazione dei sistemi di canalizzazione esistenti e riprendere i lavori già iniziati per realizzare la linea navigabile Milano-Po. Provvedere a rimettere in efficienza i canali a scopo promiscuo esistenti nell’Emilia, nella Toscana e nel Lazio, onde agevolare il trasporto dei prodotti della terra ai centri industriali di lavorazione.

D) Aeroporti ed idroscali. - Necessità di adattare gli impianti attuali alle nuove esigenze indirizzate verso la aviazione civile, che certamente avrà grande sviluppo, date le difficoltà delle comunicazioni marittime e terrestri, non escludendo tuttavia modeste aliquote di campi-scuola, di collaudo, di studi ed esperienze.

Tenere conto che la necessità dei campi di fortuna è oggi assai meno sentita, date le attuali ridotte probabilità di avaria; la loro esistenza potrà tuttavia utilmente adattarsi allo sviluppo di una aviazione economica e turistica (taxi aerei).

Studiare una adeguata distribuzione di basi aeree per una rete nazionale, collegando i centri principali, in considerazione del fatto che una linea frazionata in molteplici scali, sottopone le macchine ad un tormento eccessivo e richiede numerose e costose infrastrutture che aumentano le spese di esercizio senza offrire possibilità di adeguate entrate. Tener presente che, in condizioni normali, su brevi percorsi; la concorrenza dei mezzi terrestri ha nettamente ragione su quelli aerei, specialmente per la posta e le merci.

Pertanto, dato che a causa del rendimento economico della gestione le reti aeree nazionali toccano solo poche basi ed ancora meno ne toccano le linee internazionali, sarà indispensabile provvedere a tutti quei collegamenti terrestri e marittimi in coincidenza con le linee aeree, onde consentire anche a quei centri che non sono toccati dai percorsi aerei di usufruire dei grandi vantaggi di questi.

E) Porti.

Tenuto conto che il funzionamento dei porti è vitale per la rinascita della Nazione, specie in questo periodo di difficoltà per i trasporti interni, e che pertanto l’opera di Ricostruzione va affrontata con la maggiore urgenza e con la massima energia, è necessario in un primo tempo:

1) ridare efficienza ai porti minori dove con più facilità può svilupparsi il traffico di cabotaggio, utilissimo per una equa distribuzione in tutto il Paese dei prodotti delle singole regioni italiane;

2) nei porti di maggiore importanza ricostruire le banchine e le attrezzature che dovranno servire ad agevolare le importazioni dei generi alimentari che vanno immagazzinati in silos, frigoriferi e che sono destinati allo sbarco di materie prime indispensabili per la ricostruzione;

3) ripristino in tutti i porti degli scali di alaggio per la riparazione dei natanti affondati. Dopo la esecuzione dei lavori più urgenti si dovranno rimettere in efficienza tutti i porti e pertanto occorre studiare il Piano Regolatore di ciascun porto onde adeguare ogni scalo al compito che gli sarà assegnato dalla economia del dopoguerra.

A tale scopo si fa presente la opportunità dell’ampliamento dei servizi dei porti, là dove sono stati distrutti dei quartieri cittadini limitrofi agli impianti portuali, al fine di migliorare, se è necessario, la efficienza dei porti stessi;

4) tenere conto della necessità di comode e facili comunicazione tra le zone industriali e i porti;

5) nei porti che funzionano anche da basi navali, studiare una conveniente separazione della zona destinata al traffico commerciale dalle zone di competenza militare.

SECONDO ELEMENTO - Azzonamento (industriale; di bonifica, turistico, paesistico, di cura e soggiorno).

A) Industriale.

Per le industrie totalmente distrutte o anche assai gravemente danneggiate occorrerà ponderare attentamente i casi in cui, esse possono essere ricostruite, o debbano, per molteplici ragioni, essere trasferite, in relazione alle fonti di materie prime ed alla mano d’opera. Vincolo indispensabile per quelle industrie le cui caratteristiche lo richiedano, è quello della netta separazione di qualsiasi complesso industriale dai centri residenziali delle masse operaie, ed in generale di tutta la popolazione di un aggregato urbano.

Questo vincolo trae motivo non solo da concetti immediati di protezione antiaerea, in caso di futuri conflitti, ma anche da necessità di profilassi igienica, di difesa della popolazione dai nocivi effetti dei fumi e delle esalazioni e di allontanamento delle sorgenti di rumore e di polvere, con la conseguente possibilità di rendere le zone residenziali tanti luoghi di soggiorno veramente tranquilli. La distanza tra le industrie e le zone abitate potrà variare, a seconda delle condizioni ambientali, delle caratteristiche e dell’importanza delle industrie stesse.

Pertanto, qualora le zone abitate a contatto con le industrie risultino distrutte, sarà opportuno trasferirle altrove e destinare le zone distrutte ad altro scopo.

B) Di bonifica (agraria, di prosciugamento, di rimboschimento).

Nella fase attuale, cioè all’inizio dell’opera di Ricostruzione, specialmente nelle zone devastate dalla guerra, i temi fondamentali si ripresentano spesso come nella fase iniziale.

È perciò doveroso predisporre in sede di Piano di Ricostruzione regionale i progetti di bonifica studiati dagli organi competenti in materia tecnico-agricola.

In molte zone di Italia i vari tipi di bonifica si sovrappongono e si completano e pertanto è necessario istituire dei Comitati locali a vasta rappresentanza.

È bene tener presente la massima importanza che assume nelle bonifiche una razionale distribuzione gerarchica della rete stradale che deve tener conto dei traffici locali e di quelli di attraversamento e così pure la ubicazione dei centri rurali e la loro funzione civile ed amministrativa.

C) Turistico, paesistico, di cura e soggiorno.

È di attualità un esame degli aspetti turistici e paesistici nell’ambiente dei Piani Regionali per la Ricostruzione, poiché il nostro Paese è dotato di una serie di luoghi naturalmente belli, che valorizzati costituiranno una fonte di ricchezza.

Pertanto si raccomanda la applicazione della legge 29 giugno 1939 n. 1497 e del regolamento 3 giugno 1940 n. 1357 perla tutela delle bellezze naturali, che dispone che le Sovrintendenze possono redigere dei Piani Regionali paesistici (zone di rispetto, rapporti tra aree libere ed aree fabbricabili, distribuzione e vario allineamento dei fabbricati ecc.).

TERZO ELEMENTO - Spostamento dei centri abitati distrutti dalla guerra e piani di ricostruzione dei centri danneggiati

Non è raro il caso in cui un centro sia stato fortemente danneggiato o totalmente distrutto dal passaggio della guerra. Si presenterà allora durante la fase di ricostruzione, il problema se convenga o meno spostare il centro in posizione più idonea alla mutata necessità dei tempi ed al dinamismo particolare della vita moderna.

Nel caso in cui uno spostamento del genere sarà opportuno tenere presente che il nuovo rispetto al vecchio aggregato urbano, a conveniente distanza ed in adatta posizione, vincolando a zona rurale lo spazio intermedio, ed in facile comunicazione con arterie stradali al riparo per quanto è possibile, dai venti più molesti ed in luogo soleggiato.

Per la ubicazione dei nuovi centri abitati il problema deve essere impostato sopra un approfondito esame del luogo sotto l’aspetto della salubrità, dell’edificabilità del suolo, predisponendo lo studio dei dati metereologici e del soleggiamento della zona soprattutto affrontandolo secondo i dettami della moderna urbanistica.

Sarebbe molto opportuno poter arrivare ad una legge che stabilisca, in caso di ricostruzione di un centro distrutto in località diversa, o in caso di creazione di un nuovo centro, che tutto il terreno fabbricabile debba essere demanializzato, sottratto cioè a qualsiasi interesse speculativo privato. Con tale provvedimento il suolo cittadino non graverebbe più come fattore economico sulle costruzioni e pertanto sarebbe più facile impostare il nuovo aggregato urbano su basi estensive e conforme ad una nuova concezione dell’Urbanistica moderna, secondo la quale tutta l’area libera dalle costruzioni diviene un vero e proprio parco pubblico, libero a tutti i cittadini, nel quale le costruzioni sorgono isolate, immerse nel verde, razionalmente disposte, di limitata altezza, senza cortili o chiostrine.

Le costruzioni dovrebbero essere affrancate dal vincolo del filo stradale, e solo dovrebbero essere soggette alla legge di un buon orientamento. Naturalmente, pur lasciando le maggiori libertà alla iniziativa dei singoli, si dovrebbe addivenire ad opportune norme vincolatrici, onde evitare di cadere nel disordine.

Anche in sede di Piano Regionale di Ricostruzione si può prendere in esame la convenienza di porre un limite alla esuberante urbanizzazione dei vecchi centri, e fissare la densità di abitanti da attribuire ad una zona e a una nuova comunità, per il funzionamento delle comunicazioni, per le esigenze economiche e commerciali.

In merito al vincolo da porre alle vecchie città affinché queste non siano soggette ad irrazionale ed anormale accrescimento, occorrerà che siano stabiliti limiti di estensione territoriale, limiti di densità di popolazione (che per un centro di oltre 100.000 abitanti non dovrebbe superare il limite di 300 abitanti per ettaro) e infine il numero limite di abitanti per vano (che non dovrebbe mai superare l’unità).

Nella determinazione delle caratteristiche dei nuovi centri, anche molto piccoli, questi limiti debbono essere osservati ed imposti per mezzo di vincoli di regolamento edilizio e per le caratteristiche delle zonizzazioni prescelte.

QUARTO ELEMENTO - Ente coordinatore e finanziatore del piano regionale

L’iniziativa per la progettazione di un Piano Regionale può essere presa da più Comuni o dal Prefetto della Provincia o dai Prefetti di più Provincie finitime interessate alla sistemazione.

Ritenuta la necessità di provvedere al Piano Regionale, il Provveditorato alle OO.PP. dovrebbe promuovere la costituzione di un Ente Coordinatore e Finanziatore che agisca alle sue dipendenze e sotto il suo controllo diretto, salvo ratifica del suo operato da parte del Consiglio Superiore dei LL.PP.

Farà parte di questo Ente coordinatore e finanziatore una apposita Commissione di studio che, posto il problema nei suoi termini essenziali, dovrà procedere alla redazione vera e propria del Piano, avvalendosi di tutti quei dati statistici già predisposti dei quali si è fatto cenno nelle premesse.

Dovranno essere rappresentate in tale Commissione tutte le categorie interessate, quali i tecnici relativi alle opere civili e ai vari rami (agricoli, idraulici, stradali, ferroviari, dei trasporti in genere), esperti igienisti, sociologi, statistici ed amministrativi, industriali, finanzieri ecc. E tutti gli studi, le proposte, le idee di costoro dovranno essere vagliate e riassunte dai tecnici progettisti scelti tra persone chiaramente competenti in campo urbanistico (Architetti o Ingegneri urbanisti) alle quali sarà demandato il compito di stendere il piano esecutivo dettagliato.

Dopo l’approvazione del Piano, che è, per legge, di competenza esclusiva del Ministero dèi LL.PP., si procederà alla costituzione di un Comitato Esecutivo, il quale, rispettando la logica successione dei tempi indicata nel progetto, ne curèrà la realizzazione.

Di tale Comitato Esecutivo, sempre costituito da un Collegio di urbanisti provetti, farà altresì parte una Sezione Amministrativa, che dovrà iniziare immediatamente la compilazione dello schedario dei contribuenti alle spese da affrontare per la realizzazione del Piano Regionale.

Detto schedario assume una importanza di primo ordine in tali casi, poiché è da esso che potrà stabilirsi l’aliquota esatta di tassazione, specie per i singoli proprietari terrieri o di fabbricati, in confronto dei quali si procederebbe in analogia ,di quanto viene ora effettuato dai Comuni, allorché una nuova opera (strada, fognatura ecc.) migliora un determinato quartiere, applicando cioè una tassa di miglioria.

Anche le aliquote afferenti alle amministrazioni comunali e provinciali, alle industrie e via dicendo, dovrebbero essere detèrminate con lo stesso criterio (quote proporzionali al numero degli abitanti ecc.). Il contributo indispensabile dello Stato dovrà parzialmente essere corrisposto subito, onde permettere all’Ente di entrare praticamente in funzione. Tale contributo, fissato per legge, terrà conto della estensione del comprensorio sotto progetto, e dovrà essere posto a disposizione dell’Ente non appena questo sia costituito.

Superata infine la fase realizzativa delle grandi opere, l’Ente verrà mantenuto, ma ridotto negli organici per vigilare sulla realizzazione delle opere residue.

Nota: per un confronto almeno parziale (di tematiche se non di contesto politico), si veda l'estratto della Commissione Barlow disponibile in italiano in questa stessa cartella, qui (f.b.)

Non vi è reggitore di pubblica amministrazione che, tra i fattori di benessere, non ponga, come elemento di prima necessità insieme al pane, la casa, e che, per ottenere pane, casa ed un generale benessere, non si preoccupi di raggiungere un’armonica organizzazione di tutte le funzioni della vita attiva della collettività. Nascono così continuamente in ogni paese civile dei vasti piani per attuare in breve volgere d’anni il programma di tale organizzazione sociale ed economica e per risolvere il problema delle abitazioni, che assilla ogni paese del mondo. Lavoro e casa, due elementi strettamente coordinati fra loro, rappresentano due facce del poliedrico problema dell’attuale vita sociale, ed attendono sempre quella armonica soluzione d’insieme che, purtroppo, ben raramente è raggiunta. Così, ad esempio, è successo per il piano grandioso per la costruzione d’abitazioni in Germania del 15 novembre del 1940, piano preparato e seguito da ampi studi, e dettagliati progetti tecnici ed economici, e che impegnava un ingentissimo sforzo di energie e di capitali (oltre 60 miliardi di lire ai prezzi attuali possono essere calcolate le spese per le costruzioni del prossimo anno, indipendentemente dalle ricostruzioni causate dalla guerra, allora non . previste!). Però, tranne un rapidissimo cenno alla scelta del terreno fabbricabile ed alla densità delle nuove case, al solo scopo di ottenere una buona difesa passiva antiaerea, mancava in tale piano un’impostazione generale del problema, che, precisando i principi e gli scopi immediati ed ultimi, garantisse il raggiungimento di quell’armonia apportatrice del vero progresso all’intera collettività. Ora, mancando una sana impostazione del problema, impostazione eminentemente sociale-economica, dalla quale discende l’impostazione urbanistica, si può chiedere se tutte queste enormi energie e capitali saranno bene impiegati, o se, in ultima analisi, a parte un immediato benessere per il singolo inquilino della nuova casa, non si convertiranno per l’intera società in un danno, in un peggioramento della passata e dell’attuale situazione.

È stato appunto per la visione chiara del problema, scaturente da un principio etico chiarissimo e tendente a scopi ben definiti, che il messaggio natalizio del 1942 di Papa Pio XII destò non poca sorpresa e vivo compiacimento nel campo degli urbanisti, i quali sentirono proclamati e caldamente raccomandati con l’autorità dell’alto magistero, quali presupposti di un nuovo ordine sociale, dei principi eminentemente urbanistici, da loro lungamente caldeggiati, ma raramente fatti proprii dai vari reggitori di popoli.

È noto che tale messaggio pone come “origine e scopo essenziale della vita sociale la conservazione, lo sviluppo ed il perfezionamento della persona umana”. Da questo principio semplice e chiaro scaturiscono i precetti pratici per il raggiungimento dell’assetto sociale: il primo enunciato nel citato messaggio è il seguente, che testualmente trascrivo: “Chi vuole che la stella della pace spunti e si fermi sulla società, concorra da parte sua a ridonare alla persona umana la dignità concessale da Dio fin dal principio, si opponga a eccessivo raggruppamento degli uomini, quasi come masse senza anima”...

Ecco posto in primo piano, per la soluzione del problema sociale, il postulato che in urbanistica è studiato e risolto nello questione dell’inurbamento, questione che ha agitato gli urbanisti per vari decenni e che, salvo nei particolari, li ha trovati unanimi nella soluzione. Ma questa soluzione, se anche condivisa da quel politico che ha voluto esaminare questa faccia del problema sociale, non è stata generalmente raggiunta; anzi, da noi si è conseguito il risultato diametralmente opposto.

Si è anche gridato: “Sfollare le città!”, ma in realtà i piccoli centri, le vallate particolarmente, si spopolarono e le città vertiginosamente si ingigantirono. Le cifre della statistica parlano assai chiaro: l’inurbamento è un fenomeno universale, e lo si trova nelle regioni più impensate. Nell’Australia, ad esempio, il cinquanta per cento della popolazione vive nelle grandi città (di oltre cento mila abitanti)!

In Italia, all’inizio di questo secolo, gli abitanti nelle grandi città erano 3.206.000; dopo quarant’anni essi salirono a 8.643.000. Torino negli ultimi cento anni ha più che quintuplicato il numero degli abitanti raggiunto nei suoi primi diciannove secoli di prospera vita; Milano l’ha quintuplicato in meno di ottanta anni. La causa di questo rapidissimo raggruppamento di tanti individui è ben nota: con l’avvento della macchina a vapore, l’industria nacque e si sviluppò nelle città, luogo di incrocio delle ferrovie, indispensabili per il trasporto di carbone per l’energia, delle materie prime per la lavorazione, del prodotto finito per lo smercio; luogo di facile offerta di mano d’opera e di residenza dei primi industriali. Attirate dall’industria, le masse rurali affluirono alle città: il loro primitivo perimetro, rappresentato dall’antica cerchia delle mura, talvolta romane od anteriori ancora, che aveva subito un cauto allargamento con la cinta medioevale e quella dei bastioni, si dilatò rapidamente dalla metà del secolo scorso in successive cinte daziarie ed anelli di circonvallazione, conferendo alle città la caratteristica forma di espansione “a macchia d’olio”. Tutto questo ampliamento gravitò, soffocandolo, sull’antico nucleo che, tranne qualche malaugurato “sventramento” che sfigurò il più delle volte il nobile volto dell’antica gloriosa città, rimase nella intelaiatura viaria e nella consistenza edilizia, invariato. Il corpo urbano ingigantì in pochi decenni, il cuore rimase sostanzialmente quello dei secoli precedenti: con l’estensione della città i mezzi di trasporto, particolarmente i nuovi (tranvie ed automobili) aumentarono in proporzione ancora più rapida di quella degli abitanti e si ingolfarono nella ristretta rete viaria, attratti dalle nuove sedi amministrative e commerciali. Pure l’edilizia residenziale nel vecchio nucleo si intensificò, sia in elevazione che in estensione, si intristì, e non più aggiornata dalla moderna tecnica, che rendeva più appetibili le nuove case negli ampliamenti, fu abbandonata da buona parte dei cittadini più facoltosi ai più miserabili, che contribuirono sempre più a declassarla: diradamento e risanamento divennero problemi sempre più urgenti e meno risolti. Purtroppo, oltre che spugne di microbi, molti quartieri cittadini divennero sentine di vizi, e, un più grave del problema viario ed edilizio del corpo urbano, divenne il problema sociale, intellettuale e morale del singolo cittadino, particolarmente del nuovo inurbato.

Sradicato dalla sua terra, lontano dalla sua chiesa, dalla sua contrada, ove la sua famiglia aveva vissuto per generazioni fedele alle divine ed umane istituzioni, in fraternità di spirito e di lavoro con i compaesani, devoto ai suoi vecchi, premuroso che i figli conservassero la stima e la fiducia del vicinato, l’inurbato, trovatosi in un ambiente completamente nuovo, che in nulla gli ricordava l’antico, separato dalle istituzioni e dalle persone alle quali si sentiva affezionato, andò rapidamente trasformandosi non solo nelle sue attività produttive, ma anche nel suo intimo psicologico, intellettuale e morale. Generalmente privo di una sufficiente elevatezza spirituale e culturale, che gli avrebbe concesso di ancorarsi ai suoi principi e di esercitare il proprio senso critico su quanto vedeva, sentiva e leggeva, divenne facile preda del compagno più scaltro, dell’organizzatore più eloquente, del foglio più allettante ; non più a contatto con la natura, con la madre natura, nel libero lavoro dei campi, ma nel lavoro meccanico dell’officina sfibrante alle prese con la materia bruta, l’inurbato non trovò certo l’ambiente favorevole al suo sviluppo intellettuale: il buon senso rurale, che vince mille sofismi cittadini, fu sommerso dalle frasi fatte. Peggio ancora si verificò per il suo sviluppo morale; soffocata od isterilita venne in lui quella virtù che, ignorata o trascurata dal sociologo e dall’urbanista, è pur sempre onnipresente nel pensiero e nell’azione del rurale e dell’artigiano del piccolo centro: la bontà. Quella virtù che affiora sul volto di chi la possiede con il sorriso, che ben raramente si scopre nei consessi cittadini, restò per solito assopita, perchè non più abitualmente esercitata e ricambiata verso tanti sconosciuti, preoccupati solo da questioni economiche, incuranti dell’altrui alletto. Venne in città per star meglio; raramente realizzò il suo sogno; quasi mai divenne migliore; quasi sempre divenne per il suo stabilimento un “pezzo” del macchinario, per il pubblico ignoto un numero di matricola dell’anagrafe, della cooperativa, del partito. La sua personalità naufragò nell’oceano urbano, e di tale naufragio la collettività non poté certo avere vantaggio.

Già dalla fine dell’ottocento, e più ancora agli inizi di questo secolo, allarmati dai casi patologici dell’elefantiasi urbana, eminenti pubblicisti, sociologhi ed urbanisti particolarmente anglo-sassoni (Ebenezer Howard, Raymond Unwin) coadiuvati, se non preceduti da industriali avveduti e di buon senso (Lever, Cadbury) scopersero finalmente che, anziché attirare i rurali nelle grandi città per dar loro da lavorare, meglio era fermarli in campagna, portando loro il lavoro. Nacquero così le città giardino (Letchworth, Welwyn) in Inghilterra, ed altrove, i “satelliti”, organismi completi di carattere non solo residenziale ma anche amministrativo, culturale e produttivo, atti a vivere di una vita quasi del tutto indipendente dal primitivo nucleo. Contemporaneamente, intelligenti piani regolatori di grandi città industriali, particolarmente tedesche, impressero alla città una forma stellare, ampliandola solamente lungo le strade che radialmente uscivano dal nucleo centrale, o, meglio ancora, svilupparono attorno ad esso dei grandi sobborghi autonomi, separati dal primitivo nucleo cittadino da aree libere da costruzioni, riservate all’agricoltura o allo svago dei cittadini, con forma di corone circolari (Colonia) o di tanti triangoli, come di tanti cunei penetranti nel corpo umano.

Cosi l’espansione della “macchia d’olio” urbana venne arrestata: l’edilizia isotropa, massiccia e caotica cittadina venne interrotta, frazionata ed ordinata; il pericolo di un sempre più grave soffocamento per il primitivo nucleo venne cosi scongiurato.

Però queste varie concezioni di espansioni cittadine, tutte a schemi eminentemente radiali, non evitarono l’inconveniente della continua attrazione del centro esercitata su tutto il sistema metropolitano, con il conseguente pericolo di un sempre maggior intensificarsi tanto del traffico quanto dell’edilizia.

La malattia della City diveniva incurabile? La sua esistenza, con l’evolversi dell’arma aerea, non costituiva inoltre il più ambito obbiettivo per disorganizzare non la città soltanto ma tutto il potenziale bellico nazionale? Ed era proprio escluso che, con l’andar del tempo, i borghi autonomi od i satelliti, particolarmente se vitali ed efficienti, per necessità di ampliamento non si sarebbero saldati fra loro, allargando ed inspessendo cosi la cintura che già soffocava la città?

Da queste considerazioni, oltre che da logiche conseguenze di dottrine sociali, si concretò il nuovo tipo della città sovietica (Prof. Miljutin). Non più la metropoli gravitante su un centro, su un punto, bensì su un asse, lungo tutta una linea, percorsa da fluidissime arterie di traffico, ai lati delle quali, come tanti nastri paralleli, si affiancano ben caratterizzate e separate fra loro le varie zone dalle diverse funzioni (produzione, giardini, residenze ), libere di espandersi indefinitamente lungo l’asse. I percorsi quotidiani e comuni alla massima parte degli abitanti (dalla casa ai luoghi di lavoro, di acquisti, di studi, di divertimenti ecc.) avvengono trasversalmente ai nastri: brevi, frequenti e quindi comodi e non sovraccarichi di traffico; i percorsi di eccezione (per una minima parte della popolazione per motivi poco frequenti) avvengono lungo l’asse e sono favoriti da mezzi di trasporto rapidissimi e potenti.

Innegabilmente questo nuovo schema si dimostra molto allettante, poiché molti inconvenienti di carattere viabile, edilizio ed igienico vengono eliminati: però questa continuità, questa uniformità di zone si conformerebbe al nostro modo di vivere, al nostro assetto sociale, alle nostre esigenze spirituali? Sarebbe atta a salvaguardare, e potenziare la personalità dell’abitante? O non sarebbe più consono al nostro costume, alla nostra civiltà, il tentare di comporre i vantaggi della città radiale a satelliti con quelli della città sovietica assiale a nastri paralleli indefiniti? Perché non si potrebbe creare tanti piccoli centri, aventi ciascuno una autonomia assai spinta ed una caratteristica di funzione non unica ma predominante (amministrativa, culturale, militare, assistenziale ecc. ecc.) distribuirli lungo un asse, rappresentato da una vallata o da un corso di fiume ad andamento pressoché rettilineo, o da una importante direttrice di traffico in una regione ricca di risorse naturali e di attività economiche? Ogni piccolo centro, costituito essenzialmente dalle residenze e dalle sedi di pubblica utilità, potrebbe avere nelle vicinanze degli stabilimenti per adatte industrie: altre industrie di maggior importanza, o gruppi organici di industrie interdipendenti, potrebbero costituire da essi soli dei piccoli centri indipendenti posti lungo l’asse (mai attraverso ad esso, per non strozzarlo e non essere tagliati in due), separati ma non lontani dai centri residenziali. Il problema della dislocazione delle industrie è assai delicato; oltre alle esigenze tecnologiche, di trasporti, commerciali, di difesa antiaerea, di igiene ecc., occorre tener presente un lato della questione importantissimo: quello umano. Su questo richiama l’attenzione di quanti hanno a cuore il vero benessere sociale Pio XII nel suo messaggio: “Curino essi - sono Sue parole - che i luoghi di lavoro e le abitazioni non siano così separati, da rendere il capo famiglia e l’educatore dei figli quasi estraneo alla propria casa”.

Se noi esaminiamo l’attuale ubicazione delle industrie nelle nostre città, constatiamo che talvolta esse sono in mezzo alle abitazioni, con conseguente probabile danno all’igiene ed alla tranquillità degli abitanti, con l’intralcio delle loro dimensioni alle comunicazioni interne, con il pericolo permanente dell’offesa aerea e, con scarsissimi vantaggi ed abbondanti inconvenienti per un loro regolare funzionamento. Altre volte sono dislocate all’estremità opposta di quartieri operai, con conseguenti sacrifici per viaggi inutili e peggioramento della circolazione in genere ed in particolare di quella dei pubblici mezzi di trasporto nelle ore più critiche. Altre volte infine sono dislocate addirittura fuori e ben lontane dal centro di provenienza della mano d’opera impiegata. Così oltre all’inurbamento, oltre ai quotidiani molesti ed antieconomici attraversamenti cittadini, la cattiva dislocazione dell’industria provoca quelle grandi migrazioni diurne delle popolazioni rurali che si recano a lavorare nella metropoli; migrazioni temporanee, ma che sono sovente preambolo di migrazioni stabili nell’urbe. A dare un’idea dell’ordine di grandezza di questo grave disordine, cito alcune cifre affiorate da uno studio di piano regionale del 1938, eseguito per conto dell’Amministrazione provinciale di Milano: sono settanta mila le persone che ogni giorno trasmigrano in città, da una zona che supera i 40 chilometri di raggio, con un impiego medio di due ore di viaggio per ogni persona. È superfluo richiamare l’attenzione sugli inconvenienti economici, igienici, psicologici e morali per i singoli operai, di questi viaggi intrapresi tutti i giorni in tutte le stagioni, con qualsiasi tempo, con mezzi scomodi (biciclette, ferro-tranvie insufficienti, con orari sfasati, ecc.). Ma è più che opportuno il richiamo sulle tristi ripercussioni che questa mancanza di organizzazione ha sull’andamento della famiglia, sulla sua unità, e sull’assistenza ed affetto dei suoi componenti.

Ora non sarà difficile nel tipo di città proposto, trovare una buona ubicazione delle industrie corrispondenti ad ogni centro residenziale: distinte da questo, ma non molto distanti, qualora non siano nocive o necessitino di particolari servizi tecnologici e di trasporti, sparse e frazionate il più possibile (ricordiamoci che l’autotreno aveva, pure da noi, vinto la ferrovia anche dal lato economico, contribuendo efficacemente ad un diffuso decentramento delle industrie). Ad altre speciali industrie sarà sempre possibile assegnare particolari località (presso canali navigabili: per le industrie nocive, a valle delle residenze rispetto ai venti dominanti, ecc.), tali però da essere sempre facilmente raggiunte con comodi percorsi, dagli abitanti di uno o più centri. Non sarebbe cosi difficile realizzare l’ideale di urbanisti e sociologhi a questo riguardo: raggiungere dalla propria abitazione il luogo di lavoro con un comodo percorso a

Naturalmente tale percorso è in dipendenza alla vastità che si vuol assegnare a questi centri. Anche questa è una questione ampiamente dibattuta in urbanistica. I Russi progettano queste loro città assiali per oltre cento mila abitanti. Gli Inglesi per le loro città giardino proponevano prima trenta poi cinquanta mila abitanti; il tedesco Gottfried Feder, dopo una minutissima indagine ha recentemente proposto, per la città ideale, ventimila abitanti. Anche questa ultima città è una entità già notevole e complessa e supera per numero di abitanti i centri di parecchi capoluoghi di nostre provincie (Aosta, Cuneo, Grosseto, Chieti, Potenza ecc.).

Il criterio adottato dai più di creare degli aggregati umani di grandezza tale che i necessari pubblici organismi abbiano a funzionare in piena efficienza, non mi pare troppo convincente ed esclusivo. Più logico mi pare proporzionare l’organo alla funzione e non viceversa: l’ideale nel nostro caso sta nello stabilire l’ottimo numero di abitanti per ogni aggregato, ed a questo proporzionare i vari organismi, i vari “servizi” richiesti. E per stabilire questo numero di uomini mi pare migliore criterio assumere un metro prettamente umano. In un aggregato gli individui si amano, si aiutano, si comprendono, cercano insomma di essere migliori, quando si conoscono reciprocamente. Raramente si ha stima, fiducia, affetto verso un ignoto: l’estraneo ha generalmente minor ritegno a mal operare, minori stimoli alla rettitudine (anche nei recenti fatti di questo periodo turbinoso, raramente i nativi del luogo si sono abbandonati ad eccessi di odio e di ferocia). Ora l’esperienza insegna, per esempio, che chi ha cura d’anime o di corpi riesce ad abbracciare con la mente e con il cuore la massima parte degli abitanti di un aggregato non superiore ai cinque-seimila abitanti: qualora non si esiga una conoscenza profonda e duratura di tutta la popolazione, ma si ritenga sufficiente una conoscenza dei più notevoli membri di ogni famiglia (conoscenza facilmente estensibile, caso per caso, ai rimanenti componenti), allora tale numero potrà essere aumentato di un paio di migliaia. Ottomila abitanti ritengo essere l’ottimo per questi centri, per queste cellule delle grandi città. Quanto ai cosidetti “servizi”, agli organismi cioè di pubblica utilità e di notevole importanza che hanno da servire alla vita materiale della collettività, e al suo sviluppo e perfezionamento fisico, intellettuale e morale, ritengo necessari e sufficienti per un aggregato di ottomila persone la scuola e la chiesa. È bene sottolineare l’importanza della scuola (scuola elementare pubblica con le cinque classi), tanto più se, come avviene nelle nazioni più progredite, e come sarebbe molto conveniente .avvenisse ora nei nostri piccoli centri, la scuola dovesse costituire il centro di cultura fisica ed intellettuale (palestre, biblioteche, sale di conferenze, ecc.) non solo per i ragazzi dell’età scolastica, ma per l’intera popolazione.

Dell’importanza della scuola vi è un richiamo esplicito e nobilissimo nel messaggio pontificio: “che tra scuole pubbliche e famiglia rinasca quel vincolo di fiducia e di mutuo aiuto, che in altri tempi maturò frutti cosi benefici, e che oggi è stato sostituito da sfiducia colà ove la scuola, sotto l’influsso o il dominio dello spirito materialistico, avvelena e distrugge ciò che i genitori avevano istillato nelle anime dei figli”! Per trasferire questo richiamo nel campo urbanistico, occorrerà che il vincolo tra casa e scuola sia concretato con un’armonica fusione tra il quartiere residenziale e l’edificio scolastico, ben distanziato e proporzionato, costruito su terreno sicuramente o gradevolmente accessibile, sufficiente ed in giusti rapporti con le aree destinate alle altre pubbliche necessità. In un’analisi urbanistica avevo proposto l’edificio scolastico per circa 720-800 allievi (due aule maschili e due femminili di 36-40 allievi per ciascuna delle 5 classi): tale edificio dovrebbe conciliare le esigenze dell’insegnamento, della comodità e dell’economia. Ottocento allievi circa rappresentano appunto la popolazione scolastica di una intera popolazione di carattere cittadino di otto mila abitanti (La media delle percentuali degli alunni delle elementari sull’intera popolazione urbana è appunto di 10,02%, con un minimo per Torino e Milano del 6-7 per cento ed un massimo per Ferrara e Bari dell’11-12 per cento). Pure la chiesa parrocchiale con ottomila anime potrà già vivere di una vita florida e con la piena efficienza delle sue istituzioni ed organizzazioni, senza compromettere il contatto che i fedeli hanno da mantenere con il proprio pastore, personalmente responsabile verso Dio e gli uomini della salute del suo gregge. Questi due organismi hanno da costituire il nucleo spirituale dell’aggregato, e per l’efficienza della sua alta missione dovrà essere integrato da un giardino di quartiere, che lo protegga dagli inconvenienti della vita attiva dei cittadini, e sia di diretta utilità per gli abitanti dilla zona circostante, che si suppone di edilizia saggiamente intensiva, e quindi bisognosa di spazi a verde. A questo centro spirituale, ritenuto baricentrico rispetto all’intera popolazione, si potrà agevolmente pervenire a piedi dal punto maggiormente lontano in meno di cinque minuti (densità urbana di circa 180 abitanti per ettaro).

Per gli altri organismi di minor importanza di uso generale e quotidiano di carattere commerciale-amministrativo, richiesti da una popolazione di 8.000 abitanti, non credo che vi siano difficoltà di proporzionamento e di collocazione per un efficiente loro funzionamento.

È però ovvia l’osservazione che se i singoli aggregati fossero destinati ad una popolazione superiore agli ottomila abitanti, essi potrebbero essere dotati di tutti quei “servizi” che, pur non essendo di uso generale e quotidiano, rappresentano sempre una grande comodità per la popolazione: sono appunto questi edifici ed istituzioni che tanto fanno invidia al rurale e che per essi sovente si inurba (scuole medie o di specializzazione, centri finanziari, assistenziali, ricreativi, .ecc.).

Questo è pacifico: ma non ritengo difficile una soluzione a favore dei piccoli centri. Essa può consistere nel disporre due o più piccoli centri presso un comune nucleo costituito da tali “servizi” più complessi: questo nucleo ha da essere completamente isolato dai piccoli centri da zone vincolate a verde, preferibilmente boschive, il miglior elemento di separazione e di congiunzione.

A tali nuclei di “servizi” si potrà pervenire a piedi mediamente in dieci minuti, ed in un quarto d’ora circa dal punto più lontano del sistema. Tali percorsi, paragonati a quelli delle grandi città sono più che comodi ed economici, non richiedendo pubblici mezzi di trasporto. Ferro-tranvie con frequenti servizi di vetture del tipo di littorine, metropolitane, autostrade, autocamionali, ampie strade ordinarie e canali navigabili correranno esclusivamente su proprie sedi, anche distanziate fra loro, parallelamente all’asse; il percorso sarà fluidissimo non essendo rallentato da alcun ostacolo. La maggior parte degli abitanti dei piccoli centri si servirà dei mezzi di trasporto pubblici nei soli casi d’eccezione, quando cioè hanno da trasferirsi in altri centri, od a quelle grandi istituzioni amministrative centrali, bancarie, commerciali, di alta cultura, di specializzazione ospitaliera, teatri d’opera, campi di gioco per competizioni nazionali, esposizioni, aeroporti, stazioni di ferrovie di andamento trasversale al grande asse, ecc., tutti organismi che sarà bene accostare alle grandi vie di comunicazioni, isolati o conglobati, secondo i casi, ai centri residenziali.

Per quanto riguarda queste zone residenziali il messaggio pontificio contiene frequenti richiami ed offre saggissimi ammaestramenti, tutti di grande ed urgente attualità. Ma ritengo per ora soprassedere, rappresentando essi in certo qual modo un particolare nel quadro generale dell’impostazione del problema sociale. In quest’ora di ricostruzioni morali e materiali, urge conseguire i mezzi morali per bene impiegare quelli materiali; è questa l’ora di definire i programmi d’azione realmente morali e spirituali e non soltanto economici e tecnici. Il programma urbanistico consisterà non tanto nel rendere la vita dei cittadini più comoda, bensì di renderla migliore. La grande città per “l’eccessivo aggruppamento degli uomini, quasi come masse senz’anima”, corrompendo la dignità ed intaccando i diritti della persona umana, offuscando la luce degli spiriti e minando la sanità dei corpi, corrompendo la santità dei costumi famigliari ed allentando i vincoli della fraternità umana, ha rivelato troppi fattori negativi per il progresso della civiltà.

Senza rinunciare ad evidenti benefici del progresso industriale ed urbano, occorre dare nuove forme alle città e nuovi ordinamenti ai cittadini. Quali dovranno essere queste forme e questi ordinamenti ? Spetta ai sociologhi ed agli urbanisti approfondire tali studi; spetta a tutti gli uomini di buona volontà seguire l’esempio di Pio XII, che tali studi ha elevati.

La salute delle popolazioni delle città italiane, si legge a turno in quotidiani e periodici, è minacciata, come tutte le cittadinanze del mondo civile, dall’ammorbamento dell’atmosfera. Il problema, certo, è grave e urgente, anche perché va assumendo aspetti sempre nuovi e proporzioni via via più preoccupanti.

A dare l’allarme e a risvegliare l’interesse pubblico sono occorsi, negli ultimi anni, alcuni gravi episodi, entrati ormai a far parte, si può dire, della storia delle grandi calamità naturali. Il primo di questi risale all’inverno del 1930: in Belgio, nella vallata della Mosa, in seguito all’accumularsi del fumo di trenta stabilimenti industriali, compariva, lungo un’estensione di una ventina di chilometri, una densa nebbia. Giallastra di colore, con l’odore e il sapore propri dell’acido solforico, la nube portò lo sterminio al suo passaggio: mille persone venivano colpite da gravi affezioni polmonari, altre settanta ci lasciavano la vita. Accidenti analoghi, sempre a causa dello stesso fenomeno, si verificavano nell’autunno 1948 a Donora, negli Stati Uniti, dove moriva una ventina di persone, mentre il quaranta per cento della popolazione locale cadeva ammalata, e a Paza Rica, nel Messico, due anni più tardi.

L’episodio più tragico accadde nel dicembre del 1952, quando varie località delle isole britanniche, in particolare la regione londinese, rimasero per quattro giorni sotto una coltre di nebbia scura e pesante. Durante l’infuriare del fenomeno (gli inglesi si affrettarono a coniare un nuovo vocabolo, smog, da smoke, fumo, e fog, nebbia) a Londra si riscontrò, nello spazio di sei giorni, un aumento della mortalità di 4000 persone.

Se questi episodi (ovviamente noi ci siamo limitati qui a riferire quelli che più hanno colpito l’opinione pubblica) assumono il carattere di sporadiche catastrofi naturali, per il concorrere anche di molteplici fenomeni meteorologici (inversione termica, nebbia, stasi di vento), oggi nessuno dubita più che le attività industriali, il traffico stradale e le stesse moderne comodità domestiche delle grandi città siano fonte, per le sostanze nocive che diffondono nell’aria, di un inquinamento continuo e, alla fine, dannoso per la salute.

L’immissione nell’aria che respiriamo di sostanze estranee, individuabili in concentrazioni o per periodi tali da influire sul nostro benessere, avviene in un’infinità di modi, per opera sia della natura sia dell’uomo. Pensiamo alla sospensione di particelle di litosfera, di ceneri di vulcani, di cristalli di sale marino, di pollini o spore fungine; pensiamo al solleva mento della polvere stradale, costituita da particelle minerali, organiche e organizzate e alla diffusione di deiezioni essiccate.

Tuttavia l’inquinamento maggiormente nocivo alla salute umana è, senza dubbio, quello determinato dalla diffusione nell’aria di gas, vapori e particelle solide generati dalla combustione di determinate materie (ciminiere di fabbriche, comignoli di impianti di riscaldamento, tubi di scappamento di veicoli), o esalati da rogge, fontanili, canali e fogne scoperte, o derivati dalle diverse lavorazioni industriali. Il fenomeno è più grave per i grossi centri, dove gli effetti dell’industrializzazione, della motorizzazione e della densità del traffico stradale si fanno sentire in misura maggiore.

Gli elementi incriminati sono, in primo piano, i prodotti di combustione, i quali rappresentano, per così dire, il “fondo” di tutti gli inquinamenti aerei. La concentrazione nell’aria di questi prodotti, attesa anche la maggior facilità tecnica del loro dosaggio, è presa abitualmente come indice della contaminazione atmosferica.

Oggetto di continui studi è l’ossido di carbonio, che si origina dalla combustione incompleta del carbonio ed è contenuto in percentuale variabile dal 4 al 14 per cento nei gas di scarico dei motori a scoppio. Se può essere mortale negli ambienti chiusi, assai meno dannoso risulta nell’aria libera perchè, grazie alla sua estrema diffusibilità e ossidabilità, rapidamente si diluisce e scompare. È provato che il gas è pericoloso quando raggiunge la concentrazione dello 0,05 per cento, quale può osservarsi negli strati inferiori dell’atmosfera, nei punti di traffico più intenso. Bisogna però aggiungere che ancora non conosciamo con esattezza quanto danno possa venirci dall’inalazione pressoché continua dell’ossido di carbonio, in concentrazioni tali che senza procurare disturbi acuti, siano forse sufficienti a determinare una lenta intossicazione cronica.

Il più tipico e costante dei componenti gassosi nocivi nell’atmosfera libera è però l’anidride solforosa, che è esalata dai grossi impianti di riscaldamento, particolarmente quelli alimentati con carboni molto ricchi di zolfo. Si tratta del più micidiale nemico dei nostri polmoni, allorché la sua concentrazione nell’aria supera lo 0,01 per mille: nemico subdolo, per giunta, perchè le esalazioni solforose di modesta entità sfuggono alla segnalazione soggettiva, in secondo luogo perchè gli stessi dati denunciati dagli strumenti in una rilevazione istantanea non possono darci la misura del rischio cui gli individui sono esposti.

V’è poi il pulviscolo. Il pulviscolo è composto di particelle di carbone o di fuliggine, di residui carboniosi incombusti, di ceneri, di sostanze catramose, e una volta che si è diffuso nell’atmosfera vi rimane sospeso più o meno a lungo, a seconda della sua natura e delle con dizioni meteorologiche.

E non è tutto. Altri inquinamenti chimici dell’aria sono anche causati dai gas solfidrici, fluoridrici, cloridrici, nitrosi, ammoniacali, dal fosforo, dall’arsenico, dal cloro, dagli idrocarburi policiclici, dalle aldeidi: tutti residui e rifiuti, quantitativamente e qualitativamente diversissimi, delle lavorazioni industriali, nelle quali sono da vedersi altrettante sorgenti di contaminazione.

Se è pacifico che il mezzo più idoneo per eliminare o ridurre gli effetti di codesto inquinamento è la diluizione, il miglior alleato l’uomo lo trova dunque nel favore dei fattori fisici della stessa atmosfera: il vento, la pioggia, l’alta temperatura, l’alta pressione, disperdendo e, per l’appunto, diluendo le sostanze nocive presenti, ne diminuiscono ovviamente la pericolosità. Fattori negativi, tali da aggravare il pericolo dell’inquinamento, sono, al contrario, il freddo, la bassa pressione, l’aria stagnante e, più di ogni altro, la nebbia, poiché la nebbia, è risaputo, mantiene in sospensione le particelle di fumo e fissa i gas tossici solubili presenti nell’aria. Ecco perchè i maggiori danni l’avvelenamento dell’atmosfera li produce nella stagione invernale, durante la quale al “fango atmosferico” che copre le città come una cappa, si aggiunge il fumo dei camini delle case. Il che spiega perchè da noi il flagello è avvertito quasi esclusivamente nelle città del Nord, per essere oltrechè fitte di industrie, le più fredde e le più nebbiose.

L’effetto immediato, e più facilmente rilevabile, è la diminuzione della luminosità dell’aria e della frazione di radiazioni solari che arriva al suolo. Sappiamo, per esempio, che a Parigi la trasparenza dell’aria è diminuita, nel corso di trent’anni, in ragione del trenta per cento, e che le giornate nebbiose sono quasi raddoppiate. Ed è nota l’influenza che il solo affievolirsi dell’irradiazione solare può avere, a lungo andare, sullo stato generale della nostra salute.

Una dimostrazione indiretta del danno che lo smog procura ai nostri polmoni, ci è offerta dalle alterazioni a cui va soggetta la vegetazione. In un ambiente carico di anidride solforosa, le foglie ingialliscono e cadono avanti tempo, specie nel caso che si tratti di piante a foglie perenni.

Negli Stati Uniti si è potuto osservare che le piante verdi in fase di sviluppo subiscono alterazioni profonde, tra l’altro le pagine inferiori delle foglie assumono una colorazione nuova, a volte argentea a volte bruna, Codesta modificazione è stata anzi presa quale indice della tossicità dello smog nelle città maggiori delle Americhe e dell’Australia: alla prova, nessuna metropoli dei due continenti è risultata indenne. La crescita delle giovani piante è addirittura ridotta del cinquanta per cento, ed è questo un fatto che serve a darci un’idea concreta dell’effetto nocivo che l’invisibile nemico può avere sugli organismi viventi. Ed è ciò che più conta. Gli scienziati sanno infatti che l’inquinamento atmosferico ci avvelena; non sempre invece sono in grado di procedere a una discriminazione dell’azione nociva che le singole sostanze esercitano sugli apparati dell’organismo umano. Quel che è certo è che lo smog ci procura un sacco di disagi e di molestie, irrita gli occhi, la gola e le vie respiratorie, favorisce l’insorgere di cefalea, provoca nausea e tosse, si fa sentire sull’appetito, dà insonnia e irritabilità, produce dolori toracici. Le conseguenze di tali disturbi sono difficilmente calcolabili, quando si tratti di stimoli che perdurano e si ripetono nel tempo.

Dal punto di vista medico tuttavia l’aspetto più grave del problema è costituito dalle vere e proprie malattie che la contaminazione atmosferica può provocare e favorire. Anzitutto lo smog si ripercuote sulle vie respiratorie. Le particelle solide cadendo sulle mucose possono lederle; a loro volta le lesioni (delle mucose) facilitano l’assorbimento dei vapori tossici disciolti nell’aria e l’attecchimento di germi patogeni. Il danno alla respirazione si ripercuote poi direttamente sulle funzioni del cuore; infine l’assorbimento dei gas tossici può portare un nocumento imprevedibile a tutti gli organi e alle loro funzioni.

I rapporti fra morbilità e contaminazione dell’aria non sono ancora oggi completamente delucidati. Le statistiche quindi non possono dirci molto (notizie precise potranno darcele, semmai, dopo che sarà stato possibile condurre osservazioni prolungate, su vasta scala, e che si saranno raccolti dati attendibili sugli indici di inquinamento). Nondimeno i risultati approssimativi delle inchieste che sono state fatte fino a ora e le considerazioni generali dettate dall’esperienza, sono tali da consentirci una valutazione realistica del problema igienico.

Nell’inverno del ‘52 gli Uffici governativi inglesi rilevarono che i decessi per bronchite superavano di otto volte la media stagionale degli anni precedenti, quelli per polmonite di tre volte, e in sensibile aumento erano anche quelli per tubercolosi e cancro polmonare. Si poté osservare inoltre una netta correlazione fra la percentuale di anidride solforosa presente nell’atmosfera, e l’andamento della “morbilità “.

In America, ovunque si siano rese possibili precise rilevazioni, si è potuto assodare che esiste una corrispondenza largamente persuasiva fra indici di mortalità per malattie dell’apparato respiratorio e quartieri urbani sottoposti a inquinamento atmosferico. Un’indagine condotta nell’ambito di un ospedale su 180 ricoverati affetti da malattie polmonari, ha permesso di stabilire una stretta correlazione fra il decorso clinico del male e il grado dell’inquinamento dell’aria, determinato mediante prelievi eseguiti ogni ora. Un’altra inchiesta, promossa nella città di Los Angeles, ha dimostrato questo; che nelle zone cittadine dove l’aria è più inquinata, tra i sofferenti di forme cardiache si riscontra un frequente peggioramento clinico e una più alta mortalità

Un più recente studio esamina invece i rapporti che esistono tra contaminazione atmosferica e cancro. L’azione cancerigena delle ceneri, del catrame e di altre sostanze che inquinano l’aria che respiriamo è sicuramente sospetta, anche se non propriamente dimostrabile sull’uomo. Meglio documentata è la natura del danno che deriva dalla presenza di idrocarburi policlinici, e in particola re del benzopirene, che si contiene sia nel nerofumo sia nei gas di scappamento dei motori. E benché una parola definitiva non possa essere ancora pronunciata, è lecito affermare che l’aria delle città industriali, di traffico intenso, costituisce una fonte non trascurabile di sostanze cancerogene, che ha certamente parte nel sensibilissimo aumento di casi di cancro polmonare riscontrato negli ultimi decenni. Ne è una conferma il fatto che il cancro polmonare si manifesta con predilezione in Paesi economicamente progrediti, così come è più facile che insorga nei centri industriali e nelle città piuttosto che nelle campagne.

Oggi in tutti Paesi, non escluso il nostro, si vanno conducendo studi e inchieste sui rapporti tra patologia umana e avvelenamento dell’atmosfera nelle città. Ma fin da questo momento possiamo dire che il problema, diventato ormai universale, è tra i più urgenti, la purezza dell’aria che respiriamo essendo per l’uomo fondamentale. Non solo, ma come dicevamo all’inizio è destinato a farsi sempre più complesso, con aspetti nuovi. Domani non si tratterà più soltanto di diossido di zolfo liberato nell’aria dalla combustione di benzina e nafta, dovremo fare i conti con quantitativi sempre maggiori di residui liberati dal materiale di fissione atomica. Inoltre il problema va a collegarsi, sempre in tema di igiene e di sanità pubblica, con l’inquinamento delle acque di superficie - fiumi, laghi, mari - dovuto allo scarico di quantità sempre crescenti di rifiuti liquidi industriali.

È anzitutto un problema di educazione sanitaria, al pari di quello dei rumori, perchè soltanto la coscienza del danno che ne viene e delle possibilità di evitarlo può costituire il sicuro presupposto di un’efficace prevenzione. Problema, quindi, di responsabilità e di competenza sanitaria, anche se il controllo e le soluzioni pratiche devono essere necessariamente affidati ad appositi organi tecnici. Problema, infine, di carattere locale, perchè, se le leggi generali valgono a sottolineare la necessità di una sorveglianza e a fissare criteri di massima, le norme profilattiche devono rispondere a condizioni ed esigenze che variano da regione a regione, mentre l’applicazione può essere più opportunamente attuata attraverso regolamenti e ordinanze locali.

L’esempio di altri Paesi, come Germania, Inghilterra, Russia, Stati Uniti, dove vigono rigidi regolamenti d’igiene industriale, ci fa persuasi che una soluzione radicale del problema è fattibile. E gli stessi accorgimenti che sono in atto a Milano (dove funzionano alcune stazioni, mobili e fisse, per il prelevamento e il dosaggio giornaliero di campioni atmosferici) danno per dimostrato che è possibile difendersi efficacemente dall’invisibile nemico dell’uomo moderno che è diventato lo smog.

Luigi Piccinato, Prolusione: La figura dell’urbanista

Signore, Signori, Amici,

A queste mie parole, anzi ai lavori del nostro convegno, dovrebbe essere posta come base (e quindi sottointesa) una definizione volta a precisare l’ambito della sfera dell’operare urbanistico.

Dovremmo, a parer mio, definire come urbanista quel pianificatore che è capace di tradurre in un piano tecnico pluridimensionale il suo programma. Condizioni sine qua non per questa traduzione sono, da un lato, la capacità di risalire a una sintesi dall’analisi degli elementi di giudizio; dall’altro la capacità di operare questa sintesi in termini di espressione (in senso estetico).

Da tutto ciò discendono vari corollari.

Il primo è che l’urbanista è un pianificatore e che vi possono essere pianificatori che non sono urbanisti.

Il secondo è che l’urbanista opera nella multiforme sfera della tecnica e della conoscenza, ma solo al fine di giungere ad una sintesi che è il piano: e per far ciò si vale di tutti i mezzi che gli consentono di agire in tutti i campi e in tutte le dimensioni (edilizia, viabilità, legislazione, igiene, economia, vita sociale, ecc., ecc.).

Il terzo è che, se il piano è espressione, esso appartiene alla sfera del particolare e nona quella dell’universale; ossia che non esiste un unico piano urbanistico e scientifico che traduca inequivocabilmente e matematicamente un dato programma, ma bensì quest’ultimo può anche essere espresso contemporaneamente in vario modo da diversi piani, ciascuno dei quali rifletterà, più o meno chiaramente, il modo di vedere e di sentire dei vari urbanisti che li possono aver redatti. Ossia la sintesi espressa dal piano pluridimensionale pur valendosi di una tecnica rigorosa, appartiene più alla sfera dell’Arte (in senso vasto) che a quella della Scienza.

Questa definizione, con i suoi logici corollari, scaturisce da una esperienza abbastanza recente e, comunque, il porre a base dell’operare urbanistico il concetto fondamentale della pianificazione economico-sociale è posizione abbastanza nuova nel nostro Paese. Qui da noi fino a non molto tempo fa l’urbanistica si identificava con l’edilizia cittadina, con l’architettura delle città, con la tecnica della città, tendendo soprattutto a risolversi in una intuizione architettonica, sia pure in certo senso vastissima. Tale è stata posta nei compiti dei pochi edili-urbanisti italiani dello scorso secolo, tale in fondo nacque come disciplina, sia pure con più vasti concetti, nelle facoltà d’Architettura una trentina d’anni or sono.

Era questo certo un retaggio dello spirito individualista del Rinascimento non superato, come già invece in Francia attraverso l’Illuminismo e la grande Rivoluzione; aiutato in Italia dalla divisione politica dei Principati e delle Signorie, alimentato dallo spirito della controriforma e dalla assenza quasi totale, fino alla fine del secolo, del lievito dei grandi problemi sociali, posti in altri Paesi dalla rivoluzione industriale.

Invero quella meravigliosa creazione italiana del libero Comune, palestra feconda di contatti sociali, qui, proprio in Italia, morì troppo presto sotto il peso delle Signorie, forse perché, come ebbe a dire il Gramsci, incapace di tradurre il suo ordinamento corporativo in uno Stato. Ma in altri Paesi lo spirito comunale visse più a lungo, generò la base strutturale di tutte le infinite città della colonizzazione europea del basso medioevo e delle città Anseatiche, diede forza e vita a quella coscienza sociale comunale che fa sentire il risolversi del problema dell’individuo in quello della comunità, che permette la democratica partecipazione di tutti i cittadini alla vita politico-economica, che rinvigorisce il senso di responsabilità, che accerta infine in un quadro collettivo più vasto gli interessi economici dei componenti della comunità. Coscienza questa che si conserverà fino alla fine negli altri Paesi e che ha permesso ad esempio il compiersi ininterrotto, attraverso cinque secoli, del piano unitario di Amsterdam e che ci si rivela lungo la storia con segni inequivocabili anche nelle condizioni più difficili, sotto la pressione della autocrazia.

Ne è un segno per esempio il rescritto di Colbert (il creatore della rete stradale organica della Francia) con il quale, in occasione dell’approvazione del piano di Parigi del 1676, proibiva l’ampliamento della città fuori dei suoi baluardi “affinchè sia posto un limite all’ingigantirsi della metropoli, la quale non abbia poi a fare la fine di Babilonia, di Alessandria e di Roma, soffocate dalla loro stessa grandezza”.

E ne è un altro la bella lettera di Vauban a Luigi XIV scritta nei suoi ultimi giorni, quasi una confessione, nella quale egli dice: “Spinto dalla mia coscienza sento il dovere di dire alla Maestà Vostra come, nelle moltissime città da noi create, si sia sempre trascurato e tenuto in nessun conto la vita e le condizioni degli abitanti; di quel popolo cioè che pure ha portato e porta sulle sua spalle i pesi maggiori del regno”.

Per trovare un pur debole segno di tale coscienza in Italia, bisogna scendere alle soglie dell’ottocento, quando Ferdinando IV chiamava il Filangieri per il codice di vita della sua Ferdinandopoli; ma questa era una città da operetta, morta sul nascere, divertimento di sovrano, nata dalla scimmiottatura di Versaglia. E il sovrano riuscì a dar vita piuttosto al Reale Albergo dei Poveri, chiudendoci dentro i diecimila poveri della città di Napoli.

Non v’ha dubbio dunque che la Rivoluzione Industriale, con i suoi problemi acuti, e la grande esperienza colonizzatrice Americana contribuirono a trasformare questa latente coscienza sociale in un vero processo di sviluppo, specialmente nel mondo anglosassone: ed è lì che troviamo il primo delinearsi della figura del pianificatore.

E’ in Inghilterra (proprio a reazione del mondo del liberismo economico) che nascono i primi pensatori moderni, sotto la spinta di un primo socialismo, i quali pongono il problema di una nuova organizzazione economica della società capace di dar vita ad una nuova urbanistica e quello di una nuova urbanistica, capace di garantire una nuova economia. I primi furono gli apostoli del gruppo Ruskiniano che, in un certo senso, sfociarono nella concezione Howardiana; i secondi furono gli industriali del sapone, della cioccolata, del vetro che, all’opposto, ragionarono in termini di puro interesse economico personalistico.

Il tema di un’urbanistica sociale, ossia quello di un’urbanistica (che altra io non ne vedo) è stato dunque posto prima dai sociologi che dai tecnici; e proprio qui, nel mondo anglosassone, si è precisata più che altrove la figura dell’urbanista pianificatore quale ho proposto al principio. In questa atmosfera si è formato il pensiero di Patrick Geddes, quello di Mumford; in questa atmosfera sono nati, ancor prima che fossero proposti da una adatta legislazione, i primi piani regionali inglesi ed il piano della regione di New York, offerto in dono da un mecenate e, benché privo di qualunque sanzione giuridica, accettato spontaneamente.

L’attuale posizione dell’urbanistica in Inghilterra e in America è delineata dunque in un quadro nel quale si compongono da un lato le esperienze accademiche di singole figure di architetti urbanisti; dall’altro le esperienze empiriche di organizzazioni sociali. Gli uni e le altre affermano la base economico-sociale del contenuto del piano; e perciò stesso è possibile colà quella aderenza logica tra il piano e la società che garantisce la bontà e l’efficacia del piano stesso. Diversa invece la posizione dell’urbanista nei Paesi del mondo latino.

Qui è il tecnico urbanista che, per primo e da solo, pone questo principio, mentre intorno a lui vi è, si può dire, il vuoto. Appena ora si delineano in Francia, nell’America latina e in Italia quelle forze di pensiero che intravedono una unità dei fenomeni dell’economia e, perciò stesso, si pongono ad indagare questi fenomeni, preparando quel terreno fertile per l’operare urbanistico attraverso una pianificazione. Ma ancor oggi, di più, si pensa in termini puramente tecnici estetizzanti.

Nella Russia sovietica, all’opposto, la pianificazione ha preceduto, in un certo senso, l’urbanista e gli ha preparato la base, gli ha dato il quadro, gli ha consegnato una Società, superandolo nella rapidità. Semmai dunque, in Russia, è l’urbanista che tarda nel far aderire i suoi piani alla realtà della nuova società che sotto i suoi occhi si sta formando.

Per afferrare compiutamente la dualità: urbanistica - pianificazione (o ciò che è lo stesso, lo sforzo interpretativo da parte dell’urbanista verso la società per la quale egli opera) dobbiamo renderci conto che progresso non è civiltà e che quest’ultima altro non è che la capacità di servirsi del primo in termini etico-sociali; dobbiamo renderci conto che il vertiginoso moltiplicarsi negli ultimi quattro secoli, delle emergenti poste dal progresso tecnico ha proceduto molto più rapidamente che non la facoltà di tradurre in termini di civiltà la comprensione di tali emergenti. Per ciò stesso la società nostra è in crisi.

In verità la interpretazione ottimistica della Storia, posta dalla Francia del diciottesimo secolo con il postulato secondo il quale scienza e civiltà corrono sullo stesso binario, non ci sorregge più.

Noi oggi sappiamo per certo che, affinché quel postulato sia valido, occorre che tutte le facoltà umane si sviluppino proporzionalmente, camminando allo stesso passo; occorre insomma che il dominio razionale della società e dell’individuo sui propri impulsi marci alla pari con lo sviluppo tecnico. Ciò non si è più avverato dal Rinascimento in poi: e se ciò non è, la società stessa si disintegra. E quando una città è distrutta dalle bombe, ciò accade (come dice il Mannheim) perché il dominio tecnico sulla natura è molto più avanzato che non il conoscimento dell’ordine e del governo sociale.

Ora: per giudicare il livello etico-sociale della comprensione del progresso e il suo peso effettivo sulle questioni pratiche della vita della comunità, o (ciò che è lo stesso) per pesare la capacità urbanistica, non ci sono che due indici di misura: quello che segna la portata della capacità di previsione della gente e quello che mostra la portata del suo senso di responsabilità. Mai questi indici ci possono sembrare così bassi come oggi.

In realtà, la nostra società sta compiendo un lungo cammino: dallo stato della solidarietà della orda essa è passata alla tappa storica dell’uomo della concorrenza individuale; ed ora sta entrando in quella della solidarietà del gruppo superindividuale.

Da un lato l’uomo, che fino a ieri si sforzava nella lotta con i soli propri mezzi, giunge oggi a rendersi conto della necessità di unire i suoi capitali con i capitali degli altri, formando così i gruppi di capitali indispensabili nelle grandi imprese industriali. D’altro lato gli operai distaccati dalla terra, i produttori di eccedente economico, attraverso la collaborazione cooperativistica e le lotte sindacali, riescono ad intravedere un mondo socialmente più grande di quello del singolo individuo.

Quello stesso processo che ha spinto gli uomini alla competizione della concorrenza (che altro non è se non una previsione limitata a parti staccate del processo sociale) è causa oggi di una maggiore comprensione della interdipendenza dei fatti e tende a risolversi in una visione totale del meccanismo sociale. Insomma, il livello più elevato di ragione e di moralità sveglia, sia pure oscuramente, negli uomini in gara, una coscienza della pianificazione.

Siamo ancora nella tappa di sviluppo; ed ogni gruppo dominante si sforza di ottenere con ogni mezzo, anche brutale, per sé solo la possibilità di pianificazione: ciò che noi urbanisti chiamiamo pianificazione tendenziosa.

Di qui quel fenomeno strano e curioso, al quale assistiamo, dei vari piani particolari, staccati l’uno dall’altro, anzi contrastanti l’uno con l’altro.

In questo momento assurdo tutti pianificano, ma ancora nel proprio interesse che è individualistico, anche quando abbraccia una sfera più vasta di quella del singolo individuo, la sfera del gruppo.

Quella di oggi è dunque l’epoca della pianificazione tendenziosa a gruppi. Tutti pianificano: fanno i loro piani le città; gli Enti pubblici; le società private, i vari Ministeri; i Comuni e le Provincie; le bonifiche e le ferrovie; i Magistrati delle acque e i Provveditorati delle Opere Pubbliche; le grandi industrie e la Sanità ... ma tutti distaccati gli uni dagli altri, spessissimo anzi in lotta feroce tra loro.

In fondo tutta la nostra vita si svolge dentro a diversi settori pianificati. Ogni giorno milioni di bambini si levano al mattino alla stessa ora e vanno a scuola per studiare secondo programmi prestabiliti, su libri identici e pianificati; migliaia di treni e di piroscafi partono ed arrivano secondo i piani di orari nazionali ed internazionali. Tutti fanno piani e programmi: i padroni di casa, gli industriali, gli impiegati e gli operai ... persino la massaia agisce secondo un piano ed un certo programma quando esce per fare le sue compere!

Ma questi piani sono ancora staccati e tendenziosi: poiché, in fondo, tutti, statisti e teorici, pensano ancor oggi in termini di liberismo economico, mentre invece le istituzioni e gli organi stanno preparando, giorno per giorno e sempre più velocemente, il cammino verso una più vasta e vera pianificazione: verso la pianificazione dei pianificatori, verso il “piano dei piani”. Anche lo stato più liberale sta correndo sui binari della pianificazione ed i suoi organi lavorano pe preparare uno stato sempre più pianificato.

E qui si pone l’altro problema: quello della libertà; e si suole fare distinzione tra dirigismo e pianificazione, e si dice che lo stato deve accontentarsi di intervenire (in tutto s si vuole) ma non porre catene alla libertà.

Ma noi sappiamo che intervenire non è affatto ancora pianificare: intervenire è un fattore negativo o positivo, a seconda se incide semplicemente sulle forze sociali o se dirige le vere forze vitali senza reprimerle. Solo in questo caso l’intervento coincide con la pianificazione ed in questo quadro, e solo in questo, si può concepire la libertà.

In verità il mondo di oggi è ancora prigioniero (ben più di quanto lo fosse il mondo ellenico degli stati cittadini o quello medioevale delle città-stato) della complessità e della vastità dello sviluppo della tecnica: questo così grande fenomeno è ancora troppo grande per noi per permetterci di tradurlo in termini di civiltà e di società. E la sua complessità ha fatto sì che quella indispensabile capacità dello spirito di pensare la nuova serie complessa di azioni sia sempre più limitata ad una élite.

Occorre oggi, non solo creare una nuova e più vasta élite per una società di massa, quanto convertire questa capacità in una vera coscienza universale.

Questo è, appunto, il compito delle nostre università e quello dell’insegnamento dell’urbanistica. E la ragione del nostro convegno di docenti, da un lato, è quella di studiare i mezzi più idonei per preparare i pianificatori capaci di tradurre i programmi in piani tecnici pluridimensionali (ossia gli urbanisti); dall’altro, quella di cercare di universalizzare la capacità dello spirito di pensare e comprendere i complessi fenomeni interdipendenti della società. Ciò che è la base della pianificazione.

In questo quadro, e solo in questo, è possibile operare, ed è raggiungibile la vera, la sola libertà.

Il Presidente apre la discussione sulla prolusione del Prof. Piccinato, invitando i presenti a definire la loro visione dei compiti e della figura dell'urbanista.

Filippo Basile

Il Prof. Basile ritiene che la figura dell’urbanista come ancora è concepita oggi poteva corrispondere alle finalità che l’urbanistica si proponeva nel secolo scorso. Oggi invece questa disciplina, trascendendo i limiti della sistemazione delle città, si è gradualmente estesa fino a comprendere la sistemazione e la valorizzazione degli spazi, prevedendone l’attrezzatura e l’assetto in relazione alle loro caratteristiche e al loro funzionamento. Considera quindi che sia più appropriato adoperare il termine spazioletica per comprendere questa più vasta concezione. Ne consegue che l’urbanistica altro non è che una branca della suddetta dottrina e precisamente la spazioletica urbana, così come la ruralistica è la spazioletica rurale e la colonistica la spazioletica coloniale. Tale ripartizione è da ritenersi organica e armonica e queste considerazioni riflettono le esigenze evolutive della vita d’oggi e la crescente complessità dei problemi di organizzazione spaziale.

Il Presidente richiama i convenuti sul pericolo di estendere la discussione a campi che richiederebbero una trattazione più profonda di quella consentita dalla natura e dagli obiettivi del Convegno.

Giovanni Muzio

Il Prof. Muzio vorrebbe che fossero definiti i compiti dell’urbanista nel campo della pianificazione. Gli urbanisti dovrebbero avere come compito essenziale lo studio delle condizioni di vita dei cittadini e la ricerca dei mezzi per arrivare ad una pianificazione, lasciando ad altre persone il compito della organizzazione dei piani civili, economici e sociali. Il bilancio di vent’anni di urbanistica è piuttosto modesto, e troppi sono i piani redatti senza una vera base e mancanti di un criterio generale; è quindi necessario dimostrare con degli esempi validi quali devono essere le condizioni fondamentali di un piano urbanistico.

Plinio Marconi

Il Prof. Marconi mette in rilievo il dramma della formazione sociale moderna: la ricerca di un nuovo equilibrio tra le esigenze dell’individuo e quelle della collettività. Negli stati comunisti si pensa che la soluzione possa trovarsi nel collettivismo integrale, a costo di sacrificare ogni aspirazione individuale; ma l’individualismo, come il collettivismo, rappresenta una attitudine insopprimibile del nostro spirito. Dalla dialettica composizione dei due verso la quale tende il mondo contemporaneo scaturisce ogni forma sociale. In Italia l’eccessivo individualismo, contro il quale urta ogni provvedimento urbanistico, infirma molte concezioni moderne attinenti alla pianificazione. Sebbene sia possibile, adeguandosi alle condizioni di fatto e ai problemi concreti, ottenere qualche risultato positivo, non vi è dubbio che per giungere a soluzioni più radicali e più vaste sia necessario dare maggior peso agli interessi collettivi. Nell’ambito dell’evoluzione dell’organismo politico-sociale del nostro Paese è inevitabile continuare nella via fin qui pero corsa, senza perdere di vista però gli obiettivi urbanistici più naturali.

Piero Bottoni

L’Arch. Bottoni riprendendo le considerazioni esposte dal Prof. Muzio, sottolinea l’importanza del fatto che i piani vengano impostati con una chiara direttiva politica, sulla cui base l’urbanista sia in condizione di agire. La pianificazione non può essere suddivisa in settori tecnici particolari, in quanto il problema politico-economico-sociale deve essere risolto su un piano unitario e generale, tenendo presente le esigenze nuove che nascono con lo sviluppo della società, la quale sempre più sarà compenetrata di uno spirito umano.

Prof. Capocaccia

Il Prof. Capocaccia premette che, non essendo egli urbanista, trova nelle parole di Piccinato un’impostazione del problema che lo fa letteralmente rabbrividire: l’urbanista, a suo parere è artista, prima ancora di essere tecnico Se mai nella figura dell’urbanista si dovrebbero ritrovare congiunte quelle dello scienziato e dell’artista; ma non è concepibile che questa figura di artista possa essere subordinata a un programma di carattere politico. Il pericolo della pianificazione quale definita da Piccinato è quello di livellare le esigenze e i bisogni dell’individuo fino a socializzare ogni ora, ogni minuto. “La tecnica livellatrice soddisfa i bisogni più comuni e generali dell’individuo, ma il nostro spirito tende ad uno sviluppo in senso opposto. Il nostro compito dovrebbe essere quello di incoraggiare la natura e non metterci contro di essa: una volta soddisfatte le esigenze della tecnica, l’urbanista ha il dovere di aumentare questa individualizzazione e differenziazione umana, la cui libertà deve essere conciliabile con quella degli altri individui. È necessario valorizzare lo spirito che non può essere pianificato e che si differenzia anche quando l’uomo vive in una casa, in un quartiere; occorre in altre parole mantenere questo bellissimo disordine nell’ordine di cui la natura è maestra”.

Il Presidente ringrazia il Prof. Capocaccia, osservando che la sua argomentazione è caratteristica di un’impostazione non tecnica: il problema, per un tecnico, è appunto quello di soddisfare questi bisogni attraverso le difficoltà inerenti al contrasto tra spirito e materia; e nell’indirizzo da darsi alla scuola si riflettono appunto queste stesse difficoltà. Il Presidente invita quindi il Prof. Piccinato a riassumere la discussione e a concludere sull’argomento.

Luigi Piccinato

Il Prof. Piccinato si duole che le sue parole non siano state interpretate nella loro esatta portata. L’urbanista definito come pianificatore deve essere in grado di introdurre il suo piano tecnico in un programma, ma questo programma gli è fornito dalla società. Se non c’è la base di una società già concepita che sappia esprimere i suoi bisogni, è compito dell’urbanista il suscitare questo programma prima che esso sia formulato con esattezza. L’uomo urbanista è anche uomo politico in quanto antevede, intuisce, induce.

“Quanto ai limiti del contenuto dell’insegnamento della disciplina urbanistica, non posso non convenire che nelle nostre Facoltà e nei seminari facciamo fare ai nostri allievi faticose indagini, ricerche di dati e rilevamenti statistici, quale materiale da porsi come base fondamentale per la compilazione del piano regolatore. È chiaro che questo materiale dovrebbe invece essere fornito dagli uffici statistica specializzati in tali indagini, mentre spetta invece all’urbanista l’interpretazione dei dati stessi. Ma poiché gli uffici di statistica non sono ancora in grado di mettere a disposizione dell’urbanista i dati necessari (o per lo meno i dati elaborati nelle forme utili all’applicazione interpretativa urbanistica) dobbiamo logicamente sopperire a tale carenza e spingere i nostri allievi a compiere indagini ed esplorazioni. Ciò ha anzitutto un enorme valore propedeutico e rende cosciente l’allievo che, senza la premessa dell’interpretazione e dello studio della realtà, l’opera dell’urbanista risulterebbe vana esercitazione formalistica e astratta. In secondo luogo questa ricerca contribuisce ad approfondire la conoscenza dei fenomeni ed a formulare proprio in forma urbanistica quel corpus di schede, di dati e di indagini che oggi ancora sono esplorati e redatti con tutt’altro spirito che quello necessario al nostro lavoro e, come tali, a noi sono spesso inutili.

“Rispondendo al Prof. Capocaccia, invece, mi sento in dovere di raccomandare di non fare confusione, come talvolta si fa, tra pianificazione e dittatura; Sono due cose assolutamente diverse. La pianificazione non è in se stessa né buona né cattiva, né democratica né dittatoriale. Può essere una cosa o l’altra a seconda degli uomini e della società che la applicano.

Tanto meno si deve confondere pianificazione con standardizzazione. Gli esempi da me riportati (i treni, le scuole, le industrie, le massaie, perfino gli eserciti) volevano puntualizzare il fatto che noi tutti siamo inquadrati in certe pianificazioni particolari cosiddette tendenziose; ma manca all’opposto la vera, la sola pianificazione, che ha come base il piano generale, il piano dei piani. Tutt’altra cosa che standardizzazione !

“Quanto poi al preteso incidere della pianificazione nel quadro della libertà, non v’à che da riferire ancora una folta al concetto stesso di libertà, il quale non spazia affatto nell’assoluto (sarebbe in tal caso anarchia) ma trova sempre il suo quadro nei limiti dell’interesse generale collettivo e non in quelli dell’interesse soggettivo individuale. La pianificazione urbanistica, lungi dal sopprimere la libertà, da a questa la sua sfera, ne amplia il contenuto ed il significato.

L’attuale catastrofica alluvione del Polesine à un esempio probativo delle conseguenze di una non-pianificazione. Piani parziali hanno presieduto fino ad oggi alle arginature, alle bonifiche, alle strade, all’agricoltura: ma se il problema fosse stato affrontato attraverso il generale coordinamento li tutti i suoi fattori a mezzo di un piano totale dell’intera pianura padana, coordinando il rimboschimento, il tema idraulico, la irrigazione, i bacini idroelettrici, le bonifiche, gli insediamenti umani, le industrie, ecc., non saremmo arrivati a tanto disastro, e avremmo invece dato impulso a nuove energie e a nuove attività, a una più vasta economia entro la quale avrebbe potuto esplicarsi la libertà.

È dentro a questo quadro che opera l’urbanista. E se la società non è in grado oggi di offrirgli questo quadro sta a lui suscitarlo, comporlo, collaborare alla sua formazione. Formare l’urbanista in questo senso è il compito delle nostre Università: chiarire i mezzi per la sua formazione è il tema del nostro Convegno”.

Luigi Dodi

Il Prof. Dodi si richiama al problema della figura dell’urbanista definita nella prolusione del Prof. Piccinato, e propone che il Convegno si pronunci sull’opportunità di assegnare all’urbanista un compito più vasto che non sia quello esclusivamente tecnico, di fornirgli cioè, al di fuori della tecnica, una sua vera cultura. Questo dovrebbe essere il tema della seduta pomeridiana: il problema dell’estensione culturale mirante a formare un urbanista sociale capace di apportare, sia nel campo politico sia in quello amministrativo, un contributo decisivo alla creazione di una nuova coscienza urbanistico-sociale nel nostro Paese.

Prof. Pera

Il Prof. Pera desidera esprimere, anche se in ritardo, il suo pensiero nei riguardi della definizione della figura dell’urbanista. In questa figura si plasmano i compiti che vengono normalmente assegnati all’insegnamento della disciplina urbanistica; il Convegno si deve proporre di dare un orientamento più positivo a questo insegnamento e all’urbanistica nel senso lato della parola. I compiti dell’urbanista, almeno da quanto appare dalla discussione precedente, sono compiti eminentemente artistici e i suoi problemi sono di natura prevalentemente architettonica; in conseguenza la figura dell’urbanista tenderebbe ad essere prevalentemente artistica. Ma l’uomo urbanista deve affrontare nello svolgimento della sua attività, problemi non solo di natura artistica ma anche di natura tecnica, nel campo delle comunicazioni, dei trasporti, dell’igiene, ecc., e di questi problemi non à stato ancora parlato. La sistemazione dei vecchi centri, e in modo tutto particolare dei centri italiani, comporta problemi di natura igienica-economica o sociale che devono essere affrontati e risolti; l’urbanista quindi dovrebbe essere ad un tempo igienista, economista, sociologo. Se si tiene conto di questi multipli aspetti dell’attività dell’urbanista, si vedrà come il compito del docenti sia quello di formare urbanisti sufficientemente preparati ed informati su questi molteplici temi, che contribiscono a formare la complessa natura della professione.

Seduta di Sabato pomeriggio, 24 novembre

Il Presidente apre la seduta dando lettura delle numerose adesioni ricevute, tra le quali un telegramma del Ministro dei Lavori Pubblici, nel quale egli esprime i suoi migliori voti per il Convegno. Propone in seguito di riassumere oralmente la relazione a stampa della Segreteria e invita quindi l’Architetto Turin a voler brevemente riassumere la parte riguardante l’insegnamento nelle scuole estere, da lui curata.

Dopo il riassunto della relazione fatta dall’Arch. Turin e prima di iniziare la discussione sul primo tema del Convegno, il Presidente ritiene opportuno che si dia lettura delle relazioni pervenute, e invita quindi gli autori presenti a riassumere personalmente e colla massima brevità le loro relazioni.

Franco Berlanda, Relazione: Corso liberi di specializzazione

Si legge la relazione dell’Architetto Berlanda sul tema: “Corsi liberi di specializzazione”. In essa si riconosce la necessità urgente di istituire corsi di specializzazione urbanistica, per laureati in Ingegneria e Architettura. Per favorire la realizzazione pratica di tali corsi presso le Università si propone in un prossimo tempo la creazione di corsi liberi sul tipo delle numerose esperienze estere nello stesso campo. Il compito di questi corsi sarebbe quello di migliorare la preparazione individuale dei professionisti e di impostare la pratica del lavoro in gruppo. Gli scarsi risultati raggiunti dai numerosi concorsi per i piani regolatori delle piccole città dimostrano la necessità di una più vasta preparazione; simili lavori, invece, potrebbero essere vantaggiosamente realizzati come parte delle esercitazioni pratiche di detti corsi liberi, eventualmente integrati da visite e conferenze di altri studiosi. In un secondo tempo questi corsi potrebbero essere trasferiti presso le Università, contribuendo a perfezionarne le esperienze didattiche e metodologiche.

Partendo da queste considerazioni e tenendo presente che le difficoltà di ordine finanziario non dovrebbero costituire un ostacolo insormontabile, l’Arch. Berlanda invita il Convegno a sollecitare il Consiglio Direttivo dell’INU affinché provveda alla costituzione di un organismo autonomo collaterale di gestione temporanea che abbia il compito di promuovere corsi di lezioni regolari in varie città; pubblicare un corso di dispense; prestare la consulenza alle amministrazioni locali valendosi delle possibilità di produzione dei corsi sopradetti per completare con un lavoro pratico la preparazione teorica dei nuovi tecnici; raccogliere infine tutte le esperienze didattiche e metodologiche per meglio impostare l’auspicabile creazione della nuova scuola di specializzazione universitaria per urbanisti.

Gino Pratelli, Relazione: Dall’educazione alla scienza urbanistica

L’Ing. Pratelli presenta una relazione sul tema: “Dall’educazione alla scienza urbanistica”. Egli considera che l’insegnamento dell’urbanistica debba essere impartito secondo quattro diversi gradi di necessità: educativa; professionale-amministrativa, tecnica di collaborazione; tecnica di progettazione. Per quanto riguarda il primo di questi aspetti, si lamenta spesso la mancanza di una “coscienza urbanistica”. È evidente che le norme della convivenza umana hanno anche aspetti urbanistici e che con l’evolversi e con il complicarsi della vita collettiva e dei principi sociali il diritto stabilisce sempre nuove leggi e regolamenti, tra cui quelli della convivenza nelle sedi. Affinché le leggi sorgano e operino occorre siano precedute e affiancate da una educazione, la cui azione, per quanto riguarda il campo specifico dell’urbanistica, dovrebbe essere esplicata nelle scuole del ciclo dell’istruzione inferiore obbligatoria e nei licei classici-scientifici. Per quanto riguarda l’aspetto professionale, l’insegnamento dell’urbanistica dovrebbe essere impartito a tutti quei professionisti e funzionari che dovranno occuparsene, non tanto nei suoi aspetti tecnici, quanto in quelli amministrativi e giuridici. Nel terzo punto della relazione, l’autore mette in evidenza la necessità di una collaborazione di sempre più numerose categorie di specialisti nello studio preparatorio dei piani urbanistici. Le necessità dell’insegnamento presumono la determinazione delle forme di questa collaborazione, la quale sarà tanto più complessa quanto più progredita sarà la pianificazione stessa. Tra le varie specialità di esperti chiamati a collaborare nell’attività urbanistica, occupano un posto notevole i geografi che apportano il valido contributo dei loro studi sulla geografia urbana, sugli insediamenti, sulle dimore rurali, ecc. Bisogna però tenere costantemente presente che il comune obiettivo di queste diverse discipline non implica una comunità di impostazioni, e che la natura di questa auspicata collaborazione sarà estremamente complessa e richiederà un’accurata definizione. Per ciò che concerne infine gli aspetti tecnici della progettazione, questo sarà il compito specifico degli ingegneri e degli architetti. L’autore si dimostra favorevole alla creazione di corsi di aggiornamento, più adatti che non i corsi di specializzazione, ormai resi superflui dall’obbligatorietà dell’insegnamento dell’urbanistica nelle carriere d’ingegnere e d’architetto. La necessità di tale integrazione culturale si è resa evidente nei recenti convegni tecnici di diversa natura, i quali sono facilmente passati a considerare problemi riguardanti direttamente l’urbanistica.

Vincenzo Andriello, Relazione: Sulla necessità di formare urbanisti specializzati

Il Prof. Andriello dà lettura alla sua relazione a stampa dal titolo: “Sulla necessità di formare urbanisti specializzati”.

“Tra le parole più essenzialmente indicative dell’attitudine caratteristica della mente umana dei nostri tempi figura quella di “pianificare”. La nostra è un’età di piani e di programmi, più o meno necessari, più o meno attuabili; i risultati di questa attività, sono talvolta positivi, spesso discutibili, a volte puri virtuosismi brillanti ma inattuabili. Pianificare non è facile: oltre al personale intuito che deve guidare nella scelta delle migliori soluzioni, c’è bisogno di una conoscenza profonda del problema che si vuole affrontare, in tutte le sue forme e sotto tutte le sue manifestazioni. Più specificamente nel nostro campo la pianificazione comprende, come dice il Mumford, “... la coordinazione delle attività umane nel tempo e nello spazio fondata sui fatti noti riguardanti la terra, il lavoro e l’uomo”. Un’opera così complessa non può più estrinsecarsi coll’ausilio di un semplice tecnico, per quanto esperto e lungimirante; comunque sarà necessario integrare la preparazione di quest’ultimo con una serie di nozioni sociali, scientifiche, estetiche, economiche ed amministrative che gli diano chiara visione dello scopo che egli si propone. Numerosi studiosi stranieri concordano nel riconoscere la necessità di una serie di specializzazioni nel campo della pianificazione, così come si è verificato nel campo della medicina. La necessità di tale specializzazione appare evidente se si esaminano i tre stadi in cui si suddivide attualmente la fatica pianificatrice, e cioè il campo nazionale, il campo regionale e quello locale. Il pianificatore tecnico a cui sarà affidata la parte esecutiva dei piani, non potrà però impadronirsi del contributo dei suoi coadiutori (l’economista, il giurista, il geografo, i diversi esperti tecnici in agricoltura, in comunicazioni, ecc.) se con la sua precedente preparazione non si sarà messo in grado di comprendere e di delimitare l’entità e la portata dei fenomeni a cui tale contributo si riferisce. Il compito dell’urbanista è oggi molto più ampio e complesso di quanto s’intendeva fino ad una generazione fa. Con l’affermarsi delle nuove teorie che sostituiscono al concetto puramente tecnico ed architettonico della sede umana quello organico ed evolutivo, l’urbanista deve possedere l’attitudine a comprendere e ad interpretare i bisogni dei suoi concittadini. Solo immergendo tutta la disciplina urbanistica nello studio dei reali bisogni dell’uomo, sarà possibile evitare i pericoli di un punto di vista rigidamente tecnico o quello di una visione “cosmetica” (o, etimologicamente, ornamentale) egualmente sterile e superficiale.

È necessario conferire allo studioso quell’attitudine diagnostica che lo renda capace di afferrare a prima vista caratteristiche del caso che egli deve trattare. A tale scopo secondo il Lock, sono necessari tre stadi: il primo, di elementare civicità o “citizenship”, il secondo di investigazione o “survey”, il terzo infine di raccolta e di elaborazione delle scienze teoriche. In ogni momento sarà sempre necessario tener presente che lo studioso deve costituire un legame ideale tra il pubblico da una parte e le pubbliche amministrazioni dall’altra. Indipendentemente dall’opportunità dell’insegnamento dei principi urbanistici nelle altre Facoltà che non siano quelle di Architettura e Ingegneria, e della costituzione di appositi corsi post-laurea per coloro che s’indirizzano a carriere tecniche-amministrative, noi insistiamo sulla necessità assoluta di fornire ai laureati sia in ingegneria che in architettura un corredo completo di cognizioni sulla pianificazione oltre che su quella fisica, nonché su tutte le scienze ausiliarie”. II relatore propone un corso biennale suddiviso in due parti: una parte teorica comprendente un gruppo di materie culturali e uno di materia tecniche, e una parte pratica, consistente in applicazioni sulle materie del secondo gruppo.

Corrado Beguinot, Relazione: Sull’insegnamento e sull’istituzione di nuovi corsi

L’Ing. Beguinot, nella sua relazione: “Sull’insegnamento e sull’istituzione di nuovi corsi”, si riferisce innanzi tutto alla specializzazione, fenomeno che si osserva nello sviluppo di tutte le scienze durante gli ultimi due secoli, e che ha portato alla formazione di una quantità di materie di studio e d’insegnamento che prima erano semplici capitoli di altre discipline. Di fronte alle numerose manifestazioni di tale movimento, non c’è da stupirsi che gli studiosi di urbanistica sostengano che l’insegnamento della loro materia debba diffondersi ancor più nei vari rami di scuole ed essere maggiormente approfondito in quelle in cui viene attualmente impartito. L’urbanistica, racchiusa un tempo nella sua stretta definizione di “arte di costruire città”, ha seguito una grande evoluzione che ha esteso il suo campo d’interesse e le ha conferito dignità di scienza. Tuttavia esiste allo stato attuale una sensibile soluzione di continuità tra l’evoluzione della scienza, della tecnica e dell’arte urbanistica, da un lato, e le pratiche realizzazioni dall’altro; è necessario pertanto diffondere la coscienza urbanistica e superare l’incomprensione e gli ostacoli che si frappongono nell’attuazione pratica di questa disciplina. Nel campo delle proposte di ordine pratico il relatore considera opportuno estendere l’insegnamento dell’urbanistica nelle Facoltà di Ingegneria a due anni invece di uno; di impartire poche lezioni, in forma di premessa introduttiva di tale materia nelle scuole pre-universitarie; infine di sviluppare il concetto della diffusione della coscienza urbanistica in tutti i ceti della popolazione, in modo da rendere viva, attiva e palpitante la cosidetta politica urbanistica.

Il Presidente ritiene che sarebbe necessario concretare in forma un po’ meno vaga i concetti espressi nelle singole relazioni. Invita quindi i docenti ad esprimere la loro opinione sui vari punti del programma del convegno ed a proporre, sulla base della discussione degli elementi fondamentali, che dovrebbero costituire l’insegnamento dell’urbanistica, un migliore coordinamento dei programmi e dei piani di studio.

Giovanni Muzio

Il Prof. Muzio espone le sue idee a proposito dei programmi di studio delle Facoltà di Architettura e di Ingegneria, nelle quali può vantare una lunga esperienza. A suo avviso il numero delle materie di queste due carriere è eccessivo e sarebbe controproducente aumentarlo. Il compito della nostra scuola non è di fare degli urbanisti; dobbiamo solo cercare di intensificare questo studio per agevolare l’educazione degli urbanisti e creare le condizioni più propizie alla loro formazione. Il miglior mezzo per realizzare questi scopi sarebbe quello della creazione, presso le Facoltà di Architettura e di Ingegneria, di Seminari di Urbanistica post-laurea, i quali non dovrebbero necessariamente conferire un titolo di studio o un diploma di urbanisti. Attraverso questi istituti di urbanistica, ai quali sarebbero ammessi i migliori laureati delle facoltà, si potrebbe procedere a una raccolta preziosa di materiale ed a un coordinamento effettivo dello stesso, per una miglior comprensione dei problemi urbanistici. L’impostazione delle scuole straniere, tra le quali tipiche le americane, è una conseguenza della coscienza urbanistica dei Paesi; da noi l’attività di propaganda per la formazione di questa coscienza nel pubblico dovrebbe partire dalle nostre Facoltà, ma estendere la sua azione a tutti gli stadi dell’educazione, da quello elementare, attraverso il medio, fino all’universitario. Noi dobbiamo cercare d’intensificare lo studio dell’urbanistica istituendo dei laboratori, internati, o seminari di urbanistica in modo da ottenere una specie di specializzazione spontanea; da questi istituti dovrebbero poter uscire ogni anno due o tre urbanisti capaci di affrontare i problemi del nostro Paese.

Il Prof. Muzio si dimostra contrario alla creazione di corsi di perfezionamento, suggeriti da altri convenuti, perchè considera che questo genere di corsi viene per lo più frequentato da persone la cui sola ambizione è quella di aggiungere un titolo o un diploma al loro curriculum. Noi abbiamo bisogno di urbanisti esecutori, di funzionari dell’urbanistica: e questo è un compito che spetta più alle Facoltà di Ingegneria che a quelle di Architettura. Occorrono dei tecnici capaci di raccogliere e interpretare il materiale cartografico e statistico necessario all’urbanistica; questi tecnici non hanno bisogno di essere dei veri e propri urbanisti, in un senso creativo, ma piuttosto dei funzionari, dei veri e propri “sergenti dell’urbanistica”. Queste due premesse: la creazione di una profonda coscienza urbanistica e la ricerca del materiale di studio, sono le condizioni indispensabili per un effettivo progresso degli studi che qui ci interessano; senza di esse mancherà il tessuto fondamentale per una effettiva realizzazione dell’attività urbanistica.

Il Presidente ringrazia il Prof. Muzio per la sua brillante esposizione, frutto della sua nota esperienza e del suo maturato pensiero urbanistico condiviso da molti dei presenti, ed invita altri docenti ad esprimere la loro opinione in proposito.

Virgilio Testa

Prende la parola il Prof. Testa. Egli ricorda di essere l’unico, tra i presenti, dei professori della Scuola di Perfezionamento di Urbanistica creata a Roma negli anni 1935-1937; questo fatto però non gli impedisce di apportare la sua opinione sfavorevole alla creazione di una nuova scuola, di simili caratteristiche. Le scuole professionali di perfezionamento sono generalmente frequentate da un numero estremamente limitato di giovani, e la scuola di Roma non sfuggì a questo destino; nella società odierna i giovani professionisti hanno bisogno di vivere e di guadagnare e non possono quindi disporre del tempo necessario per gli studi cosidetti di perfezionamento. L’esempio delle borse di studio che così spesso vanno deserte conferma questa triste realtà. Si rende quindi necessario creare questo perfezionamento nel seno stesso delle scuole che formano gli individui chiamati domani ad affrontare e risolvere i problemi urbanistici, e inquadrare questo programma in quello più vasto di una riforma della scuola. In un certo senso noi possiamo fare a meno dell’urbanista, ma non della conoscenza delle nozioni urbanistiche; architetti ed ingegneri non possono svolgere coscientemente la loro attività senza avere la base di alcune nozioni fondamentali in proposito. È necessario integrare lo studio dell’urbanistica nelle Facoltà di Architettura e di Ingegneria e superare il semplice studio di acquisizione di un certo numero di nozioni o teorie, totalmente insufficienti per affrontare la realtà dei problemi urbanistici. Una delle lacune più frequenti, per esempio, nella formazione degli urbanisti, è quella riguardante i problemi di natura giuridica o amministrativa; troppi sono gli esempi di ingegneri ed architetti che affrontano problemi edilizi senza conoscere le norme o gli aspetti amministrativi che li regolano. Non esiste nell’insegnamento universitario italiano una materia obbligatoria di legislazione urbanistica. Nella Facoltà di Architettura di Roma, fra le molte materie, ce ne è anche una chiamata “materie giuridiche”, la quale per volontà specifica dei dirigenti della Facoltà è stata trasformata in “politica urbanistica”; ma è questo un corso complementare a carattere facoltativo. In altre parole si può dare il caso (ed è anche troppo frequente) di architetti che conseguono la laurea senza la conoscenza delle materie giuridiche e che, posti di fronte a problemi di questo carattere, sono costretti a ricorrere al consiglio di specialisti e legali. Le conseguenze di questa mancanza di nozioni tecniche amministrative possono essere disastrose; errori apparentemente insignificanti possono recare danni immensi ai privati o alla pubblica amministrazione, come lo dimostrano numerosi esempi quotidiani. In conclusione, il Prof. Testa si manifesta contrario, per il momento, alla creazione di corsi di perfezionamento, i quali potranno semmai venire in un secondo tempo, sulla base di una salda coscienza urbanistica. Occorre piuttosto intensificare l’insegnamento nelle nostre Facoltà ed estenderlo, oltre alla tecnica della progettazione urbanistica, alla vera e propria politica urbanistica, comprendente le nozioni fondamentali di problemi economici, amministrativi e giuridici, che stanno alla base di tutte le soluzioni urbanistiche.

Eduardo Caracciolo

Il Prof. Caracciolo ritiene che l’attività didattica degli Istituti universitari possa scindersi in due parti: una scientifica ed un’altra sociale. Gli elementi di studio sono purtroppo disparati e vengono esaminati successivamente in forma spesso caotica. Attraverso un disciplinamento dei nostri programmi di studio e un coordinamento più effettivo delle diverse attività degli istituti di insegnamento universitario, si dovrebbe poter conferire ai programmi di studio una certa concretezza pratica, tale da preparare i giovani al passaggio dall’attività speculativa dell’università a quella pratica della professione. È necessario stabilire un metodo di lavoro unitario e realizzare un effettivo avvicinamento degli insegnanti; a questo scopo si potrebbe creare ma commissione incaricata di pianificare i programmi di studio e di coordinarli sia dal punto di vista didattico che da quello strettamente scientifico. È questa una piccola proposta di carattere pratico che il Prof. Caracciolo presenta alla considerazione degli altri docenti.

Luigi Piccinato

Risponde il Prof. Piccinato, il quale riconosce di non possedere le doti forensi del Prof. Testa per poter legittimamente assumere la difesa degli urbanisti; si propone invece di portare un atto di accusa agli istituti che preparano gli amministratori e i giuristi. Se da un lato è giustificata la protesta per la mancanza di conoscenze della organizzazione amministrativa e legislativa nell’insegnamento degli istituti che preparano i tecnici, altrettanto ingiustificata e sentita è la carenza quasi totale della conoscenza dello spirito dell’urbanistica nelle sedi degli amministratori e dei giuristi. È appunto il tecnico urbanista che chiede nuova legislazione per poter realizzare i nuovi ordinamenti tecnici: è lui che puntualizza il suo fine tecnico, al quale il giurista deve apprestare il mezzo giuridico per raggiungerlo. Giuristi ed amministratori si difendono costantemente contro i postulati della nuova urbanistica, trincerandosi dietro i ”principi sacri” della legge del 1942, la quale pone dei limiti che non consentono a noi tecnici di raggiungere gli obiettivi indispensabili: noi domandiamo che essi si rendano conto del nuovo spirito della disciplina e dei nuovi nostri bisogni. Se non si vuol giungere ai corsi di specializzazione urbanistica, è indispensabile almeno che sia diffusa la conoscenza dello spirito dell’urbanistica e dei suoi postulati in tutte le altre discipline.

Prof. Pera

Il Prof. Pera procede a dar lettura della sua relazione contenente le proposte per il coordinamento e il miglioramento dell’insegnamento nell’attuale piano di studi. L’attuale insufficienza della preparazione tecnica e culturale richiesta agli urbanisti si deve attribuire prevalentemente al fatto che nelle nostre Facoltà d’Ingegneria l’insegnamento della tecnica urbanistica è stato introdotto circa venti anni addietro. Un ventennio ha rappresentato, nel campo urbanistico, un evolversi così rapido della situazione, un maturarsi dei problemi esistenti e di nuove esigenze, che l’insegnamento inizialmente sufficiente oggi appare totalmente inadeguato; peraltro questo fenomeno si osserva in tutti i campi dell’insegnamento tecnico.

Un primo passo diretto a mitigare l’inadeguatezza dell’insegnamento urbanistico alle necessità dei tempi correnti può essere compiuto attraverso un più stretto coordinamento dei corsi esistenti nelle Facoltà, mediante più intimi contatti con le materie affini (architettura tecnica, architettura e composizione architettonica, costruzioni stradali e ferroviarie, igiene, materie giuridiche, ecc.); mediante lo scambio dei programmi di corso tra i diversi docenti in modo da colmare le eventuali lacune; infine mediante la collaborazione dei docenti nelle applicazioni pratiche e nelle tesi di laurea. Tale integrazione è già in corso di realizzazione presso la Facoltà di Ingegneria di Pisa, e ha portato a risultati veramente notevoli. Per giungere ad una sempre più perfetta integrazione culturale dei futuri urbanisti, si potrebbe arrivare, nel campo applicativo conclusivo delle tesi di laurea, all’inserimento di un esperto per ogni materia affine, in tal modo che ogni problema possa venire trattato e sviscerato sotto i suoi molteplici aspetti. Accanto a questo più stretto coordinamento dei corsi esistenti si potrebbe conseguire un miglioramento culturale procedendo a sfrondare il corso base da tutto ciò che ne abbrevia e ne riduce il necessario sviluppo. Con questa duplice azione sarebbe possibile giungere ad una più completa e perfetta preparazione degli urbanisti che si vanno maturando nelle nostre scuole.

Ludovico Quaroni

Il Prof. Quaroni, dopo aver polemizzato con gli assertori della identità tra architettura ed urbanistica, ed aver portato come prova della sua tesi la totale assenza dal convegno di coloro che sostengono appunto quella identità, passa ad esaminare l’insegnamento dell’urbanistica nelle Facoltà di Architettura. “Scopo principale delle Scuole di Architettura è quello di formare la coscienza dell’architetto. Ma quale altra via si potrà seguire per raggiungere questo scopo se non quella di portare la mentalità dello studente a contatto con quella che è la realtà della vita per la quale dovranno dare il loro contributo di lavoro? L’insegnamento dell’urbanistica dovrebbe essere appunto questa azione di sensibilizzazione alla vita degli uomini senza la quale è impossibile progettare; l’urbanistica è la preparazione all’architettura. Purtroppo, però, il tempo a disposizione è pochissimo, e viene tutto impiegato a smantellare la costruzione artificiosa dell’architetto astratto operata in tre anni di insegnamento a base esclusivamente scientifica o artistica, senza posto per l’uomo”. Pur dichiarandosi d’accordo col Professor Testa sulle materie giuridiche come insegnamento fondamentale, reagisce però alla proposta di questo di cambiare il nome della materia in “politica urbanistica “.

Cesare Valle

Il Prof. Valle desidera associarsi a quanto ha detto il precedente oratore sulla durata dei corsi di urbanistica, così come alle proposte dei professori Testa e Piccinato per quanto riguarda le lacune dei presenti programmi di insegnamento. È evidente che occorre da un lato che gli organi amministrativi capiscano i principi dell’urbanistica, dall’altro che i nostri tecnici conoscano gli aspetti amministrativi, legislativi, ecc. I vantaggi che da tale approfondimento delle nozioni legislative risulterebbero per la pratica professionale sono troppo evidenti perchè vi sia bisogno di insistervi. In un altro piano di considerazioni, si osserva spesso una profonda incomprensione tra architetti e ingegneri, tutte le volte che si debbono affrontare insieme problemi di carattere generale; questa incomprensione è tanto più nociva in quanto ha luogo tra professionisti i quali hanno bisogno di più frequenti contatti nel campo dell’attività urbanistica. La natura dell’urbanistica esula oramai dal piano urbano, e ogni sua nuova estensione implica maggiori e più profondi contatti tra l’architetto-urbanista da un lato e le diverse specializzazioni di ingegneri dall’altro. Purtroppo questa collaborazione non si manifesta nemmeno nel campo dell’insegnamento dove malgrado le numerose materie comuni ad ambedue le discipline, ogni Facoltà costituisce un compartimento a sé. È necessario eliminare fin dalla base questo fenomeno di incomprensione reciproca e di naturale diffidenza tra architetti ed ingegneri, che è evidente in tutti gli stadi dell’insegnamento, particolarmente nelle Commissioni miste per l’esame delle tesi di laurea. Per riassumere, la nostra azione si deve esplicare in due campi: 1° estendere l’insegnamento dell’urbanistica e delle materie affini di natura amministrativa, giuridica, ecc., dove ciò sia possibile; 2° estendere l’insegnamento delle nozioni fondamentali e dei principi dell’urbanistica a tutte le specializzazioni dell’ingegneria affinché il fenomeno d’incomprensione sopra osservato tenda a sparire e dia luogo invece ad una valida collaborazione sul piano del lavoro comune.

Luigi Dodi

Il Prof. Dodi - senza contraddire quanto proposto dal collega Prof. Muzio - ritiene che l’insegnamento dell’urbanistica nelle Facoltà di Architettura potrebbe essere facilmente portato a tre anni, senza con questo aumentare il numero totale di materie. Difatti il corso di scenografia potrebbe esser fuso in un unico corso con quello di urbanistica, trasferendo in tal modo la trattazione di alcuni problemi dal 4° al 3° anno. Per quanto riguarda l’estensione dell’insegnamento e della conoscenza dell’urbanistica nelle altre Facoltà, il Prof. Dodi si dichiara perfettamente d’accordo sulla necessità di tale provvedimento e cita in proposito una sua personale esperienza, acquisita durante un corso di lezioni di urbanistica impartite, presso il Commissariato di Sanità e d’Igiene, a medici il cui interesse per i problemi della materia si è dimostrato addirittura appassionato. Per ultimo il Prof. Dodi si preoccupa della tendenza, osservabile presso ingegneri civili edili, ad identificare l’urbanistica con l’edilizia cittadina. L’urbanistica è una disciplina di carattere formativo sociale, e non soltanto un ammasso di cognizioni; ed è preoccupante il fatto che i giovani laureati in ingegneria si credano in grado di affrontare, da un punto di vista urbanistico, senza la necessaria base colturale generale, la soluzione di problemi stradali, edilizi, ferroviari, ecc.

Cesare Chiodi

Il Prof. Chiodi confessa la sua perplessità di fronte allo svolgimento della discussione che, partendo dalle alate premesse del Prof. Piccinato, è a poco a poco discesa alla considerazione di problemi pratici ed a difficoltà minute dell’insegnamento dell’urbanistica nelle nostre scuole. Occorre riportare il problema su un campo molto più largo ed impostare la questione da un punto di vista urbanistico generale e non solo tecnico. Vogliamo estendere l’insegnamento in altre scuole? È da augurarsi che si vada formando una certa coscienza urbanistica, ma siamo proprio convinti che quattro o cinque lezioni di urbanistica in un corso di legge, di medicina o di agraria, possano veramente formare una “coscienza urbanistica”? È da temere che l’urbanistica insegnata al di fuori del nostro diretto controllo possa portare a risultati diversi da quelli che noi vorremmo e che Piccinato auspica. Occorre anzitutto che gli insegnanti esperti nella scuola esaminino l’essenza fondamentale di questa disciplina, per poi passare a considerare quali siano gli elementi che debbono formare parte del suo insegnamento. Il Prof. Chiodi si associa al Prof. Piccinato nella visione più ampia, sociale ed umana dell’urbanista, ma tiene a far presente che questi concetti debbono essere impartiti a giovani che pur essendo nell’età migliore per apprendere, forse non posseggono ancora la maturità necessaria per assimilare a fondo tali principi. “La scuola ha certi suoi limiti naturali: essa può insegnare i metodi di lavoro, ma non può insegnare a fare il lavoro. In qualunque campo un giovane laureato è un inesperto per definizione e per età; e se questo è vero per tutte le discipline, quanto più vero sarà per l’urbanistica che richiede da chi la pratica una conoscenza del mondo che i giovani - beati loro! - ancora non hanno. Le nostre aspirazioni sono forse un po’ esagerate; si potrà discutere se invece di un anno sarà meglio farne due o tre, se l’insegnamento dell’urbanistica debba essere esteso a tutte le scuole d’ingegneria civile (sperando che cessi l’assurda divisione dell’ingegneria civile in civile edile, idraulica, e trasporti, ecc.). Che cosa hanno imparato questi ingegneri dei trasporti nella loro pseudo specializzazione ? Nulla che noi non fossimo in grado di fare ai nostri tempi senza bisogno di un titolo speciale. È da sperare per prima cosa che la scuola d’Ingegneria Civile torni ad essere una scuola d’Ingegneria Civile unica, e che quel tanto di urbanistica che è giusto insegnare agli ingegneri debba essere realizzato con un senso di misura e di opportunità”. Tenendo presente le inevitabili limitazioni imposte dall’insegnamento da impartirsi ad una determinata categoria di tecnici, si potrà discutere la convenienza o no di insegnare l’urbanistica in due otre anni. Il Prof. Chiodi si dimostra favorevole piuttosto a un corso di due semestri distribuiti su due anni ; questo sistema permetterebbe allo studente di assimilare più proficuamente le nozioni apprese nel primo corso. È d’uopo tener presente la limitazione dei compiti dell’insegnamento e i pericoli dell’estensione di questa disciplina a categorie di persone che non sono in grado di assimilarne i principi culturali più profondi, come per esempio i periti tecnici o i geometri. Tutt’al più si potrà, nella parte relativa alle costruzioni, insegnare ai geometri quello che dell’urbanistica può servire a questo scopo; ma è consigliabile osservare la maggior prudenza in questo campo.

Sono parimenti evidenti le difficoltà che s’incontrano per la realizzazione pratica dei corsi di perfezionamento o di specializzazione. A meno che questi corsi, tenuti presso gli Istituto di Urbanistica, siano corredati da borse di studio, essi correranno la stessa sorte di tutti gli altri corsi per laureati delle nostre Università, i quali sono frequentati da laureati che non hanno ancora trovato un impiego e che disertano il corso man mano che riescono a trovare una sistemazione. “Per concludere: lasciamo pure che altri insegnamenti facciano, se credono, delle incursioni nel campo urbanistico, ma dal nostro canto tentiamo di sviluppare, nei limiti di tempo e di capacità, tutto ciò che già si fa nelle nostre scuole. Guardiamoci soprattutto dal mettere l’urbanistica in mano a tecnici e periti che non sono in grado di fame il miglior uso”.

Giovanni Michelucci

Interviene il Prof. Michelucci per chiarire la posizione critica di alcune specializzazioni di Ingegneria, ad esempio gli ingegneri industriali, i quali dopo un anno di architettura tecnica si credono senz’altro in diritto di firmare progetti di architettura, protetti dalla legge e forti della loro convinzione di poter assolvere a questo compito sulla base della loro scarsissima preparazione. Un simile fenomeno (e anche su maggior scala) si osserva tra gli ingegneri civili: c’è da domandarsi quindi se impartendo loro un anno di urbanistica essi non si sentiranno in condizione di realizzare progetti urbanistici, così come si ritengono in grado di praticare l’architettura sulla base di un solo corso in materia. La superficiale conoscenza di una disciplina porta alla pericolosa presunzione di saper fare, e questo è un problema molto più generale e caratteristico di tutta l’attività dell’ingegneria. Il problema urbanistico è estremamente complesso, e il Prof. Michelucci si dichiara profondamente perplesso circa l’insegnamento di questa disciplina: a rigore egli ammette di non insegnare afflitto l’urbanistica!

Per quanto riguarda il problema di estendere l’insegnamento dell’urbanistica in altre scuole, il Prof. Michelucci rammenta la sua esperienza presso la Scuola di Servizio Sociale di Firenze, i cui allievi, dopo due anni d’insegnamento, dimostravano un grandissimo interesse per l’urbanistica e perfino un notevole spirito critico. I risultati di queste esperienze così riuscite si vedranno più tardi nell’attitudine che questi laureati dimostreranno nei confronti dei problemi di carattere urbanistico che essi dovranno affrontare. Questo fatto è senz’altro positivo; ma è pur sempre necessario tener presente i limiti di questo interesse e i pericoli inerenti a uno sconfinamento in campi e discipline dei quali si posseggono solo nozioni sommarie.

Nel caso specifico delle Facoltà d’Ingegneria, vi è il problema degli Ingegneri Industriali che, a differenza degli altri Ingegneri, arrivano al corso di Architettura Tecnica senza alcuna preparazione in materia; essi si trovano così a dover realizzare il progetto di una casa, o a volte perfino di un ospedale, senza nessuna delle conoscenze fondamentali dei caratteri distributivi o elementi costruttivi degli edifici.

PARTECIPANTI AL CONVEGNO

Erano rappresentate le seguenti Facoltà di Architettura:

Firenze – prof. Ludovico Quaroni, Ordinario e Direttore dell’Istituto; arch. Giorgio Cuzzer; arch. Elisa Scapaccino

Milano - prof. Luigi Dodi – Ordinario; prof. Mario Morini; prof. Ezio Cerutti; arch. Benvenuto Villa; arch. Alberto Battigalli

Napoli - prof. Giulio Andreoli - Dir. del Seminario “A. Calza Bini”; prof. Mario Zocca - Direttore dell’Istituto prof. Gino Cancellotti; prof. Raffaele D’Ambrosio; arch. Anna M. Pugliese; arch. Arturo Rigillo; arch. Giuseppe Muzzillo

Roma - prof. Plinio Marconi - Ordinario e Direttore dell’Istituto; prof. Giorgio Calza Bini; prof. Michele Valori; arch. Emilio La Padula

Torino - prof. Giorgio Rigotti

Venezia - prof. Giovanni Astengo

e i seguenti Istituti delle Facoltà d’Ingegneria di

Milano - prof. Vincenzo Columbo - Istituto di Tecnica Urbanistica

Napoli - prof. Domenico Andriello - Direttore dell’Istituto di Tecnica Urbanistica

Padova - prof. Giuseppe Tombola – Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica

Roma - prof. Federico Gorio - Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica; ing. Domenico A. Durante - Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica

Trieste - prof. Piero Bottoni - Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica

Sono inoltre intervenuti:

prof. Vincenzo Di Gioia; arch. Ardea Ferrero - del Ministero dei LL.PP.

prof. Franco Ventriglia - dell’Istituto di Costruzioni stradali e Ferroviarie della Facoltà di Ingegneria di Roma

prof. Corrado Beguinot - Direttore del Centro Studi di Pianificazione Urbana e Rurale, presso la Facoltà di Ingegneria di Napoli

arch. Costanza Rispoli - del Centro Studi di Pianificazione Urbana e Rurale, Facoltà di Ingegneria di Napoli

All’inaugurazione ed alla chiusura dei lavori erano altresì presenti i Professori della Facoltà di Architettura di Napoli

prof. Franco Jossa - Preside e Ordinario di Scienza delle Costruzioni

prof. Marcello Canino - Ordinario di Composizione Architettonica

prof. Ferdinando Chiaromonte - Ordinario di Elementi Costruttivi

prof. Roberto Pane - Ordinario di Caratteri Stilistici e Costruttivi dei Monumenti

Hanno inviato la loro adesione :

prof. Cesare Chiodi - Direttore dei Corsi di Aggiornamento di Tecnica Urbanistica presso il Politecnico di Milano

prof. Eugenio Fuselli - Direttore dell’Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica della Facoltà di Ingegneria di Genova

prof. Enrico Mandolesi - Istituto di Architettura e Tecnica Urbanistica della Facoltà di Ingegneria della Università di Cagliari.

Comitato Organizzatore

prof. Ludovico Quaroni - Direttore dell’Istituto di Urbanistica della Facoltà di Architettura di Firenze

prof. Mario Zocca - Direttore dell’Istituto di Urbanistica della Facoltà di Architettura di Napoli

arch. Arturo Rigillo - Assistente ordinario presso l’Istituto di Urbanistica della Facoltà di Architettura di Napoli, segretario del Convegno

L’Azienda Autonoma di Soggiorno, Cura e Turismo ha messo a disposizione la Sua organizzazione per assicurare la ricettività e la migliore accoglienza ai Convenuti; col personale interessamento del Suo Presidente On. Tommaso Leonetti e del Direttore Conte Gelasio Gaetani ai quali va il nostro ringraziamento.

In alto Û

DEL CONVEGNO

Venerdì 20 marzo

Ore 9.30 – inaugurazione dei lavori, saluto della Facoltà di Architettura di Napoli ai Convenuti;

ore 10 – relazioni dei singoli Istituti sul lavoro compiuto in base ai deliberati del Convegno di Firenze;

ore 13 – vermouth d’onore offerto dalla Facoltà di Architettura;

ore 15.30-19.30 – discussione sulle Relazioni.

Sabato 21 marzo

Ore 9.30-13.30 – programma di attività futura;

ore 16.30 – chiusura dei lavori e discorso conclusivo del prof. Plinio Marconi;

ore 17.30 – inaugurazione della Mostra dei progetti degli allievi della Facoltà di Architettura di Napoli;

ore 19 – cocktail all’Albergo Vesuvio offerto dall’Azienda Autonoma di Soggiorno, Cura e Turismo di Napoli

APERTURA DEL CONVEGNO E RIUNIONE DEL 20 MARZO 1959 – MATTINO

Il prof. Mario Zocca, dichiarando aperto il convegno, legge anzitutto il telegramma pervenuto da parte del prof. Chiodi: “Spiacente non poter partecipare convegno invio miei cordiali saluti”. Indi l’adesione del prof. Fuselli: “Vi prego di accettare la mia adesione anche se prevedo di non poter intervenire”, e quella del prof. Mandolesi: “Causa impegni didattici et viaggio istruzione studenti impossibilitato intervenire convegno prego scusarmi - Distinti saluti Mandolesi”. Dà poi la parola al prof. Andreoli nella Sua qualità di Direttore del Seminario di Urbanistica.

ANDREOLI: Ringrazio tutti i Docenti di Urbanistica qui presenti e quelli che hanno fatto pervenire la loro adesione, per aver voluto accettare lo invito al convegno rivolto dall’Istituto di Urbanistica dell’Università di Napoli, non soltanto per il rilievo spirituale che una così qualificata adunanza conferisce alla Facoltà che l’ospita, ma ancora per l’attualità che il nostro convegno presenta in questo momento nella nostra città. Infatti, oggi Napoli, come anche altre città d’Italia, si trova di fronte a problemi di Urbanistica dai molteplici aspetti. Problemi che si presentano sotto forme veramente poliedriche, che potrei dire multidimensionali, con vari caratteri, varie luci, che s’intersecano, e sopratutto con le varie integrazioni dei gruppi di ricerca, quali il Seminario di Urbanistica, il Politecnico con i suoi due gruppi di Istituto di Tecnica Urbanistica e di Centro per la pianificazione, ed infine l’Istituto di Urbanistica della nostra Facoltà con il lavoro dei tre docenti: Cancellotti, d’Ambrosio e Zocca. Il lavoro di questi diversi centri di studio e di ricerca sta veramente formando, a poco a poco, quello che mancava nella nostra città cioè una coscienza urbanistica, un senso dei problemi urbanistici. Noi ci troviamo per l’Urbanistica ad uno stadio paragonabile a quello nel quale ci trovammo verso il 1912, per i problemi aeronautici. Cioè sentiamo la necessità di avvicinare la grande massa, e principalmente i nostri studenti ai modi di risolvere i problemi specifici, ai modi di concepirli, al linguaggio ed al pensiero urbanistico, a quello che può essere tradizione da un lato e problemi nuovi dall’altro. Come è stato fatto notare altre volte, diventa assurdo ritenere che dei semplici amministratori, non confortati dalla collaborazione culturale, tecnica ed artistica degli urbanisti, possano trovare soluzioni adeguate ai complessi problemi della città . È perciò in questo spirito che sono veramente grato al prof. Zocca per avermi dato la possibilità di partecipare a questo convegno scambiando queste poche parole con voi.

JOSSA - Ho il piacere di portare ai convenuti il saluto della Facoltà di Architettura. Tutti i docenti di questa Facoltà, che si onora di ospitare il vostro convegno, augurano la migliore riuscita dei lavori. Personalmente voglio esprimere il mio compiacimento per il proposito, che stamane realizzate, di tenere un convegno specifico per la vostra disciplina che potrà perciò essere proficuo e concreto; e per il quale formulo i miei più cordiali voti di augurio e di buon lavoro.

ZOCCA: Ringrazio il prof. Andreoli ed il Preside prof. Jossa e tutti i presenti, e poiché già siamo in ritardo sul tempo stabilito vorrei entrare subito nel problema da trattare. Abbiamo avuto un primo convegno a Siena nel 1951, durante il quale si è dibattuto sui problemi dell’insegnamento dell’Urbanistica, che ebbe più un carattere di congresso per il numero degli intervenuti. Però esso non ebbe più seguito; poi per iniziativa del prof. Quaroni l’anno scorso ci fu una piccola riunione riservata ai rappresentanti dei vari Istituti di Urbanistica delle Facoltà di Architettura e d’Ingegneria con uno scopo più modesto, cioè per un lavoro di coordinamento di mezzi strumentali. Si erano anche stabiliti alcuni punti principali di questi mezzi strumentali sui quali discutere. Dunque, un primo mezzo era quello della conoscenza dell’organizzazione, dell’attrezzatura degl’istituti come organizzazione scientifica e anche i loro programmi; il secondo riguardava la bibliografia, cioè l’attrezzatura bibliografica, la classificazione di questo materiale per poter stabilire degli scambi tra i vari Istituti (quindi materiale bibliografico, diapositive ecc.). Poi si è passato ad argomenti di lavoro, di vera e propria attività: uno riguardava lo studio dei centri storici, come risultato di un lavoro di ricerca; un altro riguardava la simbologia, cioè i metodi di graficismo; questo argomento è importante perchè può riguardare anche l’attività professionale. Successivamente si trattò del nostro linguaggio; noi abbiamo un glossario della Federazione Internazionale di Urbanistica al quale abbiamo lavorato; purtroppo più che revisionarlo si sarebbe dovuto fare ex novo. C’erano ancora altri problemi, per esempio quello degli studi relativi ai nuovi quartieri, gli studi in genere sugli insediamenti, tutti aspetti della nostra attività di Istituti che possono venir fuori da questi scambi. Si convenne cioè che ogni Istituto potesse divenire il centro di un determinato ramo a cui facessero capo altri Istituti: come ad esempio si fa per gli studi di geografia. Questo era il primo punto che avrebbe potuto portare a un risultato conclusivo per stabilire anche rapporti con altri Istituti ed enti, o addirittura con centri di attività pratica, come il Consiglio delle Ricerche. Sono argomenti molto importanti, ma adesso occorrerebbe almeno arrivare alla soluzione conclusiva su ciò che si era deciso di fare a Firenze: avere dei programmi a lunga scadenza, ed affrontarli gradualmente. Dunque ora si tratta di vedere l’attività di ogni Istituto in relazione a quello che si era deciso di fare amichevolmente poiché il nostro non è un organismo che impegna ed impone. Penso dunque che il tema sia l’attività dei vari Istituti in relazione al convegno di Firenze. Adesso credo si possa apri re la discussione e prego il prof. Marconi di assumere la Presidenza.

Il prof. Marconi accettando la presidenza del Convegno ringrazia e prega quindi il prof. Andriello di voler prendere la parola per illustrare ai colleghi cosa si è fatto per il glossario internazionale.

ANDRIELLO: Posso ragguagliare su quello che mi ero assunto di fare e cioè la raccolta dei termini. Anzitutto vi è stato, in sede internazionale, un fatto nuovo. Sono stato chiamato a rappresentare l’Italia in seno al nuovo Comitato di coordinamento del glossario internazionale. Abbiamo tenuto delle riunioni all’Aia l’8 e il 9 gennaio. Erano presenti rappresentanti del Lussemburgo, dell’Italia, della Francia, della Spagna, dell’Olanda, dell’Inghilterra. Si è constatato che l’attuale edizione del glossario internazionale soffre di alcuni errori e quindi la necessità di correggerli. Indi si è deciso di fare, d’accordo con l’UNESCO e con l’U.I.A. un nuovo glossario. Di prendere ciò che tali Istituti avevano preparato in materia di abitazioni e di inserirlo nel glossario internazionale. Si è deciso inoltre di estendere linguisticamente il glossario stesso al Portogallo e alla Russia. Comunque saranno fatte delle edizioni in cui si terranno come base le tre lingue ammesse della Federazione Internazionale, che sono l’inglese, il francese e il tedesco, mentre le altre quattro si differenzieranno. Il Comitato quindi, dopo aver scelto le materie di raccolta, si aggiornerà al prossimo Congresso di Perugia. In questo periodo i vari rappresentanti si scambieranno il materiale raccolto per i vari settori loro affidati. È infatti proprio in questi giorni a Napoli il rappresentante spagnolo, che ha già tracciato lo schema di raccolta per le sue materie. Tali materie hanno rapporto con quelle a me affidate, ed egli è qui proprio per concordare il suo lavoro con il mio, così come si farà in rapporto alle materie demandate ad altri. Ho anche comunicato al Presidente della Commissione di Studi dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, prof. Samonà, che avrei ragguagliato la Commissione su questi elementi; ed ho anche manifestato il desiderio che si formasse un piccolo comitato, qui in sede, che ci consentisse di decidere la materia vocabolo per vocabolo. Sembra si voglia fare questo glossario nella forma della classificazione decimale. Si è detto anche di corredare la spiegazione di ciascun termine con una figurina, per quei termini di difficile interpretazione, ma ciò sarà ancora oggetto di discussione. La prossima riunione del Comitato si avrà a Perugia in occasione del Congresso Internazionale. Non ho altro da aggiungere se non la preghiera per i colleghi d’adoprarsi, sollecitamente, per questa raccolta di termini.

MARCONI : Ringrazio il prof. Andriello per quanto ci comunica e prego coloro che volessero interloquire sull’argomento di voler prendere la parola.

QUARONI: Vorrei chiedere ad Andriello che cosa intende per “parte italiana”.

ANDRIELLO: La parte italiana s’intende solo tematica e cioè i concetti generali, i piani, la terra e il suolo, geografia, geologia, il clima, economia, politica dell’alloggio e politica fondiaria, finanziamento, discipline tecniche dell’Urbanistica, discipline tecniche della costruzione, abitazione, architettura, il risanamento, la protezione civile, gli spazi liberi e gli spazi verdi, la circolazione, gli ambienti storici e monumentali. Questa è la tematica di cui noi raccoglieremo i vocaboli. Aggiungo che la Federazione Italiana della Strada, la quale mi pare stia facendo anche un glossario stradale specifico, ha chiesto di far parte del nostro Comitato parte di sua competenza.

QUARONI: Sarei grato ad Andriello se volesse mandarci, come prima collaborazione, un elenco dei glossari esistenti ed una breve notizia sui lavori che si stanno svolgendo.

ANDRIELLO: Posso assicurare Quaroni che provvederò a quanto mi richiede. Voglio intanto dare notizia della istituzione presso l’Istituto di T.U. del Politecnico di Napoli di uno schedario paesistico per il quale sono state distribuite le apposite schede, e sollecito anche per questo la creazione di un piccolo comitato in sede per lo spoglio delle schede stesse.

MARCONI: Alla Facoltà di Architettura di Napoli era stata demandata l’inchiesta sull’organizzazione e sulle attrezzature dei vari Istituti di Urbanistica. Prego quindi i Proff. Zocca e d’Ambrosio di voler relazionare sull’argomento.

ZOCCA: Noi abbiamo iniziato la raccolta di notizie sulle condizioni generali degli Istituti, cioè attrezzatura, attività scientifica e organizzazione bibliografica; riferirà quindi d’Ambrosio sul lavoro svolto.

D’AMBROSIO: Noi abbiamo studiato un questionario che consentisse di raccogliere le notizie concernenti le dotazioni e le attività degli Istituti di Urbanistica e di Tecnica Urbanistica. Questo questionario risponde ad una triplice esigenza: la prima quella di dare una informativa generale sull’Istituto, La seconda: quella di dare una immediata nozione delle possibilità di quell’Istituto nei vari campi, e infine la terza: quella di fornire delle specificazioni in merito alle notizie del secondo gruppo. Per queste tre parti si è visto che era possibile arrivare a delle tabellazioni; più precisamente per la prima parte è stata formulata una scheda di sintesi, per la seconda e terza parte è stata considerata la necessità di poter giungere a delle tabellazioni di notizie in modo da aver subito una visione panoramica di raffronto.

Inoltre in una quarta parte infine si è lasciata al compilatore stesso della scheda la possibilità di esprimersi nei termini e nei modi ritenuti più opportuni. È nato quindi lo schema di coordinamento tra gli Istituti di Urbanistica che abbiamo inviato a voi tutti. La prima parte cioè la scheda A, è quella che riguarda l’organizzazione generale, il personale e un breve riassunto generale. In questa scheda apparirà il nome del titolare della cattedra o del professore incaricato, degli assistenti, il numero medio degli studenti, il numero dei locali e poche altre notizie che è possibile sintetizzare. Il questionario B invece è quello dal quale bisognerà trarre le tabellazioni; esso è diviso in categorie: B1 - B2 - B3 ecc. che riguardano i vari aspetti dell’Organizzazione dell’Istituto. Il questionario C è quello delle specificazioni ed infine il questionario D, più personale, che consente la possibilità di osservazioni, suggerimenti e note. Quindi attraverso i questionari B e C si ottiene una visione panoramica, il quadro generale della situazione dell’Istituto. Attraverso il questionario D si dovrebbe arrivare ad esprimere delle opinioni; quindi non un questionario informativo, ma di proposte. Naturalmente di queste ultime formulazioni occorrerà fare una rielaborazione,che renda possibile raffronti ed accostamenti tra le varie proposte. Oltre all’inchiesta sul la situazione dei vari Istituti, avevamo il compito specifico di studiare uno strumento idoneo alla informazione immediata, cioè uno schedario. Preso contatto con la Remington abbiamo studiato, in collaborazione, uno schedario specifico per l’informazione Urbanistica. Lo schedario in questione è stato impiantato in questo modo: ogni notizia dà luogo a tre registrazioni, una per autore, una per località,ed una terza per argomento. Per cui anche con una notizia sommaria si potrà, attraverso questo schedario, giungere alla informazione esauriente.

Consultando, ad esempio, la scheda di una determinata località, troveremo in essa l’elenco di tutte le opere attinenti. Il carattere delle varie opere è indicato con un codice a colori, riportato sotto la scheda. Si ha così la possibilità di leggere immediatamente per un determinato argomento quali informazioni lo schedario è in grado di produrre. Si tratta non di uno schedario di raccolta, ma per così dire “attivo” capace di fornire le informazioni più vaste. Indirizzando la ricerca sarà possibile, creando tale schedario, costituire un vero e proprio centro di informazioni al quale potrà ricorrere chiunque. Questo è quanto, noi, di Napoli abbiamo fatto dopo l’incontro di Firenze.

ANDREOLI : Il tipo di scheda illustrato da d’Ambrosio è certo molto pratico, ma consiglierei di usare accanto a queste schede anche un tipo di scheda perforata. La scheda perforata permette di poter aggruppare in qualsiasi momento le notizie. La I.B.M. potrebbe fornire le schede e fare il lavoro di selezione, così , ripeto, in qualsiasi momento possono essere colte tutte le notizie, sia analoghe, sia specifiche, ecc.., quindi io propongo una scheda sussidiaria.

Si discute sui vantaggi della scheda perforata ed il prof. Columbo illustra i vantaggi di una semplice scheda colorata usata presso l’Istituto del Politecnico di Milano.

MARCONI: I vari sistemi proposti sono certamente tutti apprezzabili, ma io proporrei di adottarne uno solo, per cui, dopo un accordo in tal senso, pregherei l’Istituto Urbanistico di Milano di volere fornire copia della scheda definitivamente scelta agli altri Istituti.

QUARONI: Convengo con il prof. Marconi sull’ adozione di un unico sistema, per cui penso che se ci sono degli Istituti interessati bisognerebbe che si riunissero allo scopo di esaminare i problemi della schedatura, per affidare poi ad un gruppo più ristretto, ad esempio ad un solo Istituto, lo incarico di provvedere alla formulazione e addirittura alla preparazione, alla stampa ed alla distribuzione delle schede a tutti gli altri Istituti.

Uno degli aspetti del problema è quello del modulo, bisognerebbe arrivare ad un modello adottato da tutti; quanto poi al riempimento delle schede, si era già convenuto nel precedente convegno che non vi è un Istituto che possa far questo per tutti gli altri e si era d’accordo di affidare ad ogni Istituto un settore particolare. Bisognerebbe quindi tener conto di quello che già è stato fatto e studiare ciò che può farsi d’ora in poi. Per proseguire si potrebbe tener conto di ciò che è stato realizzato all’Istituto di Milano ed accordarsi perchè il lavoro d’ora in poi venga svolto per sezioni.

Il prof. Zocca prospetta le due fasi di realizzazione dello schedario cioè quella già realizzata a Milano e quella che potrà realizzarsi con la collaborazione dei diversi Istituti.

MARCONI: Penso che la questione dovrebbe essere dibattuta in modo più circostanziato e cioè interpellando i tre o quattro Istituti adatti allo scopo. Abbiamo già l’Istituto napoletano e quello milanese per cui si può formare allo scopo una piccola commissione e vedere se c’è qualche altro che voglia aggregarsi.

Intanto decidiamo senz’altro che l’Istituto di Milano e quello di Napoli si accordino per definire la questione sulla base del lavoro già fatto e tenendo conto delle proposte avanzate.

La proposta del prof. Marconi è accolta. Il Presidente invita a proseguire la discussione sugli altri argomenti.Per cui passando alla cartografia ed allo studio dei centri antichi invita il prof. Mario Zocca a riferire sull’ argomento.

ZOCCA: È in via di attuazione, sebbene ancora allo stadio embrionale, da parte degli Istituti di Napoli, Palermo e Genova uno studio in merito ai centri antichi. Tale studio ha per oggetto la parte cartografica e il notiziario storico, e,da parte dell’Istituto napoletano, si stanno organizzando ricerche sistematiche, specialmente nella provincia di Caserta.

Si accenna ad un eventuale collegamento con le Facoltà di Ingegneria per il lavoro di raccolta del- le notizie.

MARCONI: Su questo argomento, per quanto riguarda Roma, devo dire che non siamo ancora veramente a punto, poiché la Facoltà si è trovata in condizioni d’una estrema carenza di mezzi. Tutta via ora abbiamo ottenuto, dopo non trascurabili sforzi, nuovi ambienti ed un poco di attrezzatura tecnica. Abbiamo un’aula che è tutta dedicata all’Urbanistica, abbiamo una macchina di proiezione per l’Istituto. Tuttavia le precarie condizioni della Facoltà a cui ho accennato, non hanno vietato di formare un notevole materiale documentario di carattere generale topografico ed economico, interessandosi particolarmente di quei comuni del Lazio, per i quali sono stati fatti dei Piani Regolatori.

L’anno scorso abbiamo pubblicato un fascicolo per alcuni comuni del Lazio e adesso sta per uscirne un secondo.

Passando ora ad un argomento che tocca da vicino il precedente, invito i convenuti a mettersi di accordo su alcuni elementi fondamentali di carattere tecnico riguardanti vari settori: per esempio la rappresentazione cartografica e la simbologia nella stesura dei piani regolatori, che allo stato attuale io ritengo sia un po’ complicata. Vi mostrerò nel nostro incontro del pomeriggio, uno schema che riporta sia lo stato attuale del territorio, sia il piano nei suoi elementi essenziali Penso che tale sistema sia ottimo per la preparazione dei giovani. In secondo luogo è auspicabile che si raggiunga l’unificazione nel campo delle indagini, avendo presente che è necessario polarizzare l’attenzione degli studenti su indagini essenziali e che gli studenti stessi non siano distratti da indagini non producenti; mettere a fuoco cioè i problemi che interferiscono più profondamente nella vita dei centri urbani e che possono essere parametri determinanti nelle soluzioni di piano regolatore. Anche su questo punto, ripeto, sarebbe bene che noi studiassimo il già fatto per elaborare il da farsi. Ciò potrà essere oggetto della discussione di domani. C’è infine un terzo punto su cui vorrei richiamare l’attenzione di voi tutti e cioè la necessità di stabilire un regolamento urbanistico-edilizio tipo. Nella stesura dei piani regolatori noi attribuiamo ai terreni determinate utilizzazioni; siamo tutti d’accordo sul fatto che queste utilizzazioni siano precisamente definite da un regolamento, ma è altrettanto necessario che anche nell’insegnamento questi concetti siano trasferiti con precisione.

Noi distribuiamo ai nostri ragazzi tre tabelle: una dedicata alle indagini, una alla simbologia, una terza al regolamento urbanistico tipo.

Questo è quanto, alla nostra Facoltà , abbiamo fatto dopo il Convegno di Firenze del marzo 1958.

Devo soltanto aggiungere che abbiamo raccolto molto materiale, sia di carattere compositivo su vari quartieri, sia di piani regolatori. Ma tale materiale ancora non è stato utilizzato per formare delle schede.

ANDREOLI: È stato posto ora un problema specificamente didattico ed è un problema che mi sono posto altre volte. E cioè l’allievo deve essere portato ad una conoscenza, per quanto è possibile completa, per cui tutti gli aspetti dei problemi urbanistici devono essere determinati; ma è necessario tenere presente che l’allievo deve essere guidato oltre che alla comprensione di un fatto esistente, alla previsione di fenomeni che non si sono ancora verificati. Per raggiungere tale scopo vi sono due metodi, escludendo quello matematico che non consiglio;nel primo metodo l’esame di una città o di una sistemazione urbanistica in genere è fatto a grandi linee e successivamente si studiano i particolari aspetti della vita e dei problemi del centro oggetto di studio. Nel secondo metodo si può partire da un esempio non definito un centro ideale, e trattarlo sotto tutti gli aspetti; qualsiasi dei due metodi s’adotti, però , mi permetto di darvi un consiglio; cioè d’impostare, in conferenze, in seminari, in colloqui, quella ch’è la ricerca operativa, che dovrebbe porsi i seguenti postulati: in un certo problema quali sono gli elementi interessanti? e quali sono le variabili che possono determinare il tipo di soluzione? e fino a che punto queste variabili sono essenziali? Poiché se non si fa questa analisi preliminare l’insegnamento o cade nel formalismo o nel tradizionalismo.

MARCONI: Oltre che del lavoro svolto dai vari Istituti vorrei che si parlasse anche della situazione nella quale ci troviamo come autori di piani e come suggeritori di azioni di pianificazione ai nostri giovani. Vorrei che si puntualizzasse tale situazione, anche in base a certi elementi di fatto che sono emersi dopo l’approvazione di alcuni piani e che possono indurre a formulare delle critiche circa il modo con il quale i piani sono codificati dalla legge.

Si potrebbe quindi vedere qual’è lo strumento giuridico più opportuno da porre in atto per l’ordinato sviluppo urbanistico delle nostre città, tenendo conto delle situazioni che si sono prodotte. Ciò si potrà ottenere prendendo in esame quei piani già approvati (quindi in atto) e per i quali siamo in grado di verificare l’idoneità delle soluzioni proposte. Ciò ho anche proposto quale tema per il prossimo convegno di novembre dell’INU, e cioè effettuare delle indagini da svolgere nell’ambito degli autori dei piani e delle amministrazioni che sono in possesso di questi strumenti e che devono adoprarli. Tuttavia per il convegno dell’INU si sono prese poi altre decisioni, perchè si è ritenuto che questo anno si dovranno trattare problemi di altro carattere che può definirsi “visivo”. Ma è anche di grande interesse per noi esaminare alcuni problemi specifici, poiché in questo momento ci sono in Italia più di trecento piani regolatori, alcuni già redatti, approvati e in via di esecuzione, altri ancora in istruttoria. Per cui sulla base delle esperienze che si cominciano ad avere si potranno individuare probabilmente i criteri di modificazione di alcuni aspetti di questi piani, in modo da poter adottare in seguito degli strumenti più adatti. È evidente che si devono poter trarre delle conclusioni da quanto si è fatto sino ad oggi. Per cui ciascun autore di piani esponendo le proprie esperienze,potrebbe formulare delle utili proposte, specialmente nei riguardi di modificazione della metodologia oggi individuata ed adottata. Ma intanto, ritornando sugli argomenti all’ordine del giorno dopo Napoli e Roma, prego i rappresentanti dell’Istituto di Firenze, di voler prendere la parola.

QUARONI: Noi di Firenze avevamo preso l’impegno di portare avanti un certo studio sui nuovi quartieri e sui nuclei residenziali e l’abbiamo portato avanti abbastanza. Abbiamo qui al riguardo del materiale che potremo farvi vedere nella riunione pomeridiana.

Praticamente questo nostro studio consiste nel cercare di uniformare un sistema di disegno abbastanza comodo e un sistema di calcolo delle superfici per ottenere una confrontabilità tra i vari progetti. Avremmo potuto far di più se gli architetti progettisti avessero risposto tutti alle nostre richieste. Abbiamo però già un notevole numero di progetti elaborati nel senso che ho precisato e ne avremo ancora altri pronti alla fine di giugno di questo anno. Ci sarà così possibile procedere ad un primo confronto e determinare alcuni dati. Il lavoro è questo: allo studente del primo corso viene assegnato, come tema, lo studio di un quartiere o già realizzato o progettato o in corso di esecuzione. Con un certo metodo piuttosto rigoroso nei formulari di partenza, ma che deve poi adattarsi alla variabilità dei casi specifici, lo studente è condotto man mano ad effettuare un determinato esame; oltre a ciò lo studente ridisegna la planimetria con un sistema unificato e ci consegna il lucido con allegato un formulario che viene calcolato con un sistema pure esso unificato. Nella riunione pomeridiana mostrerò appunto i risultati e come essi vengono da noi utilizzati sul piano didattico. Sarebbe molto interessante per noi avere dei suggerimenti da altri per modificare e migliorare il sistema.

Con tale lavoro ci proponiamo di formare un archivio di tutti i progetti dei quartieri realizzati in Italia, ed estenderlo possibilmente in seguito anche all’Estero.

L’archivio raccoglie quindi da una parte il lavoro critico svolto dallo studente, dall’altra i dati forniti dai realizzatori.

L’Istituto di Firenze ha anche cercato di fare un nuovo esperimento, o meglio cercherà di farlo, di attività urbanistica: ha ottenuto un incarico di piano regolatore dal comune di Alberobello. Questo piano presenta certamente uno straordinario interesse, per cui penso che, con buon profitto, possano lavorarci anche gli studenti. Non so come questo esperimento si concluderà , poiché già sono sorte, data la novità della cosa, delle difficoltà.Tuttavia credo che questo potrebbe essere un aspetto interessante del lavoro di un Istituto di cui si debba tener conto; lo stesso professar Valle, nel Consiglio dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, ha fatto presente che il Ministero avrebbe potuto fare qualcosa per conferire agli Istituti degli incarichi di lavoro di carattere urbanistico. È necessario avere presente che, sotto il profilo economico, le disposizioni vigenti stabiliscono che parte dell’introito di tali attività deve essere versata al bilancio generale dell’Università.

Però la cosa potrebbe, forse col tempo, per certi casi particolari, essere producente, senza tuttavia ledere gli interessi delle categorie professionali.

MARCONI: Voglio far presente che v’è in pratica una difficoltà : questo lavoro chi lo presenta? chi lo discute? Certamente però quanto ci ha detto Quaroni è molto interessante.

QUARONI: Indubbiamente sarebbe una cosa interessante, specialmente con l’intervento del Ministero dei Lavori Pubblici, fare per esempio delle esercitazioni, anche sovvenzionate, per scaricare un po’ gli studenti di notevoli spese, specialmente di viaggio. Naturalmente queste esercitazioni dovrebbero essere coordinate tra noi perchè si possa ad un certo momento confrontare i vari risultati con evidente profitto didattico.

MARCONI: Ciò è giusto anche perché spesso le spese nel lavoro degli urbanisti e dei nostri studenti sono impegnative e sarebbe bene sollevare questi ultimi da tale carico.

QUARONI: Comunque volevo dire che gli Istituti dovrebbero sì essere interessati a questo genere di ricerche, ma più per ricerche collaterali al piano regolatore che non al piano stesso. Infatti quest’ultimo è veramente un lavoro di rapporti tra l’urbanista e l’autorità, ma ci sono anche tanti aspetti di indagine e di ricerca che un progettista incaricato non può sempre svolgere in pieno e questo è appunto il caso di Alberobello.

MARCONI: È certamente molto interessante studiare una composizione in un ambiente così caratteristico.

QUARONI: Se gli Istituti di Urbanistica e quelli di Tecnica Urbanistica potessero agire, nello svolgimento delle indagini preliminari ai piani, come enti impersonali, se ne avvantaggerebbero sia i professionisti, sia gli stessi Comuni.

Il Presidente prof. Marconi invita a proseguire la discussione sugli argomenti all’ordine del giorno.

Prende la parola l’Ing. prof. CERUTTI: Illustrerò brevemente le possibilità didattiche dell’Istituto della Facoltà d’Ingegneria di Milano.

Abbiamo appositi locali per i corsi di Urbanistica, dove gli allievi possono esercitarsi con profitto poiché presso questa sezione si trovano i dossier riflettenti la situazione di quasi tutti i centri della Lombardia, materiale sia a carattere storico, sia concernente la situazione esistente nei vari centri. I lavori relativi a questi dossier sono eseguiti dagli stessi allievi ed, in un certo senso, hanno un carattere vario dal punto di vista dell’utilizzazione. Noi facciamo usare agli studenti per l’indagine sui comuni della Lombardia tre schede: una scheda storica, una scheda tecnica ed una scheda con la quale si rilevano i presupposti tematici del Piano Regolatore. Questo metodo adottiamo già da quattro anni e sono stati con esso rilevati duecentocinquanta comuni.

Il prof. MARCONI chiede chiarimenti sul sistema di raccolta del materiale.

CERUTTI: Viene raccolto per ragioni di spazio in formato ridotto, comunque è tutto incasellato e ordinato. A noi interessa la documentazione di ciò ch’è avvenuto nel passato nelle singole città.

Devo lamentare, per la verità una carenza di assistenti i quali essendo in numero ridotto sono impossibilitati a provvedere alla gran massa di lavoro esistente (3 corsi di Urbanistica con circa 300 allievi) cui non si può sopperire con i soli assistenti di ruolo. Ricordo che il nostro Istituto si articola su tre corsi di Urbanistica: I Corso, II Corso e Corso complementare.

QUARONI: A mio avviso sarebbe molto interessante parlare con approfondimento dei nostri problemi didattici, ma penso che parlare solo di essi non è sufficiente. Si deve certamente discutere anche su quanto pone in evidenza Cerutti ma mettiamo in ordine ciò con gli altri argomenti in discussione.

Il Presidente invita a continuare la discussione sugli argomenti all’ordine del giorno.

ASTENGO: È veramente molto interessante considerare il rapporto tra noi e le pubbliche amministrazioni. A queste noi, Istituto di Venezia, ci siamo affiancati e mentre da una parte riceviamo molto materiale cartografico, diamo una contropartita di importanti dati da noi raccolti e una cartografia da noi redatta con una simbologia chiara e riconosciuta. Altro notevole materiale in possesso del nostro Istituto è quello delle diapositive, materiale tutto catalogato e schedato.

DODI: Prego di scusarmi se intervengo per una questione non compresa nell’ordine del giorno dei lavori. Vorrei informare i colleghi di ciò ch’è accaduto ad Assisi dove il Comune ha in un primo tempo deliberato e fatto suo il Piano Regolatore elaborato dall’arch. Astengo. In seguito, dopo la presentazione delle osservazioni, il Comune stesso, invece d’informare il progettista invitandolo a rivedere il piano, ha senz’altro deliberato nuovamente rigettando il piano stesso.

Propongo pertanto di presentare ricorso al Consiglio di Stato, non per la parte che concerne lo interesse dell’arch. Astengo, ma per quanto riguarda la palese infrazione alla legge, e per la tutela della dignità della categoria professionale.

Il Presidente prof. Marconi si dichiara d’accordo con. il prof. Dodi, ed invita a proseguire la discussione sugli argomenti all’ordine del giorno dando la parola al prof. Gino Cancellotti dell’Università di Napoli.

CANCELLOTTI: Circa la parte didattica vera e propria dirò che qui a Napoli siamo in tre e svolgiamo tre corsi di Urbanistica: d’Ambrosio per la parte che concerne la Tecnica, o meglio le Istituzioni di Urbanistica, Zocca per la Storia ed io per la Composizione. Come metodo di studio adotto nel mio corso quello che il prof. Marconi adotta aRoma.

Agli studenti, da vari anni, assegniamo quale tema il Piano Regolatore, anche perchè vogliamo collezionare il materiale per avere la serie di tutti i comuni. Fin da quando era Direttore dell’Istituto il Sen. Calza Bini abbiamo sempre fatto fare Piani Regolatori di centri della Campania, o talvolta dei Comuni di provenienza degli allievi; ciò aveva anche lo scopo di raccogliere materiale d’indagine statistica per il Piano Regionale della Campania. Abbiamo affissa ad una parete dell’Istituto una grande carta della Campania nella scala di 1:100.000, sulla quale controlliamo lo svilupparsi del lavoro relativo ai vari centri. A questo proposito dirò, che noi mettiamo subito gli studenti a contatto con le Amministrazioni Comunali e con i professionisti locali, per ottenere delle indagini il più possibile aderenti alla realtà.

Spesso per i centri non molto lontani, ci rechiamo sul luogo per poter meglio seguire, guidare l’allievo e controllare il metodo di lavoro e i criteri. Per le analisi il sistema che abbiamo ripreso dall’Istituto di Roma, risulta efficiente, ma non trascuriamo di dare agli studenti qualche consiglio per adattare lo schema stesso ad una situazione specifica modificando o aggiungendo qualche categoria d’indagine, quando è necessario.

PUGLIESE: Per il regolamento edilizio ad esempio, spesso incontriamo delle difficoltà , in quanto in genere ci interessiamo di Comuni a carattere agricolo nei quali i tipi edilizi sono, come è ovvio, completamente diversi da quelli di un centro urbano.

Per il Seminario di Urbanistica della Facoltà di Architettura di Napoli riferisce il prof. D’Ambrosio.

D’AMBROSIO: Il Seminario di Urbanistica della Facoltà di Architettura ha tenuto sinora otto incontri, nei quali si sono trattati specifici argomenti con l’intervento di specialisti in materia. Uno di tali argomenti è stata la legge Urbanistica e il risultato delle discussioni è stato raccolto in un fascicolo, distribuito in occasione del Congresso di Bologna. È in preparazione un programma più ampio per l’anno 1959-60, poiché solo ora il Seminario ha potuto avere una dotazione sia pure modesta che gli consente di organizzare certe attività.

Nel programma è compreso un incontro fra i coordinatori dei quartieri C.E.P. e i loro collaboratori che saranno invitati ad affrontare il tema “l’esperienza di progettazione dei quartieri coordinati”. Nell’occasione in collaborazione con l’I.A.C.P. di Napoli e con il Ministero dei Lavori Pubblici sarà organizzata una mostra sui progetti dei quartieri C.E.P. Inoltre contiamo di organizzare una mostra di studi sulla città di Napoli condotti dai nostri studenti.

MARCONI: Ringrazio il prof. d’Ambrosio per quanto ci ha detto e sono certo che il lavoro così articolato sarà molto proficuo. Intanto poiché dobbiamo rivederci nel pomeriggio e data l’ora tarda penso che sia bene sospendere la discussione.

La continuazione della seduta viene rinviata al pomeriggio.

In alto Û

SEDUTA POMERIDIANA

MARCONI: Proporrei che il prosieguo della discussione svolta stamani, circa i compiti che si prefiggono di svolgere gli Istituti, sia rimandata a domani in modo da riprendere gli argomenti. Vorrei invece che per entrare subito in un campo di utilità concreta, tanto dal punto di vista dell’insegnamento quanto da quello della prassi professionale, mettessimo a fuoco alcuni punti specifici. Uno è quello del modo di trattare la grafia dei piani regolatori sia per quanto attiene alla definizione dello stato attuale che per quello che riguarda la definizione delle nuove strutture del piano. Esiste già una simbologia, che quasi tutti adottiamo, ma io penso che essa sia troppo complessa e che si debba adottare una maggiore elasticità e forse una maggiore esemplificazione. Il secondo punto è quello delle indagini che, per quanto mi concerne, io svolgo sullo schema avuto da Milano e che ho adottato, sul quale però si dovrèbbe discutere per arrivare anche su questo punto ad una opinione concorde. Il terzo punto è quello del regolamento urbanistico-edilizio da adottarsi nei casi in cui non sono possibili quelle strutture più libere ottenute con piani particolareggiati. Questi pare siano di difficile adozione, infatti molti comuni che hanno adottato dei piani regolatori generali si sono invece avviati a fare a meno dei piani particolareggiati. Sotto questo aspetto penso perciò che è necessario elaborare dei piani generali che abbiano indicazioni sufficientemente precise. Tanto più che su questo tema è stata recentemente emanata dalla Direzione Generale per l’Urbanistica e le Opere Igieniche del Ministero dei LL.PP. una circolare su “procedura e termini per il rilascio delle licenze edilizie” (prot. N. 6557) che vi prego di considerare con attenzione. L’emanazione di questa circolare accentua la necessità di arrivare a piani generali che già prevedano con sufficiente autonomia e approssimazione quella che è la struttura dei piani. Infatti essa si pronuncia implicitamente anche sull’applicabilità delle misure di salvaguardia sin dall’adozione del piano generale e non soltanto per i piani particolareggiati come qualche Amministrazione locale aveva interpretato. Vale adire che le Amministrazioni, per i due anni dall’adozione del piano, possono sospendere il rilascio delle licenze di costruzione in contrasto con le indicazioni del piano generale stesso. La circolare precisa inoltre che non si tratta di rigetto delle domande di licenza bensì di sospensione e che non può rifiutarsi una richiesta di licenza edilizia per il motivo che la progettata costruzione sia in contrasto con un piano regolatore o con un regolamento edilizio non ancora approvati e quindi non operanti. A tenore di questa circolare i Comuni sono tenuti quindi, trascorsi i due anni dall’adozione del piano generale, a rilasciare le licenze per costruzioni anche non conformi al piano adottato ma non ancora approvato. Di tutto ciò io vi pregherei di prendere atto o per iniziare una azione intesa a far respingere tale concetto, oppure per cercare di adottare nei nostri piani delle strutture che si prestino ad accoglierlo; ciò è molto importante in questo periodo di fervida pianificazione.

Comunque voglio aggiungere ancora che, siccome in effetti la prassi dei piani stabilisce per quasi tutte le zone determinati vincoli e caratteristiche metriche (lasciamo stare il centro che è una questione a parte da trattare con piani particolareggiati), per le zone esterne all’abitato bisognerà sapere fin dove esse sono lontane dall’interesse edilizio. Per tutto il resto bisognerà dare degli azzonamenti, dei reticoli stradali piuttosto ben determinati, quasi capillari. Nell’ambito di questi stabilire tuttavia la rete viaria principale e consentire che, ove si voglia, si possa fare un piano di lottizzazione di un comprensorio anche più vasto di un isolato, rispettando le strade principali e, se si vuole, modificando le altre dando inizio su questa base a dei piani consensuali di lottizzazione. Dove non si può arrivare a tanto, avrà valore quella maglia stradale già definita nel P.R. e quei vincoli di zona, come si faceva nell’anteguerra. Fuori dei limiti dell’espansione urbana vi dovrà essere invece l’indicazione delle zone rurali o del verde agricolo vincolato.

Il prof. Cerutti interviene per mozione d’ordine,affermando che il dibattito non è pertinente al carattere della riunione che deve interessarsi dell’insegnamento e del riordinamento degli Istituti.

MARCONI: In verità si è esorbitato dai temi della riunione, ma fino ad un certo segno; poiché quello che accade nella vita professionale è una delle fondamentali conoscenze che ci consentono di dare un giusto indirizzo all’insegnamento, principalmente in ordine al metodo per i piani regolatori.

CERUTTI: Il nostro scopo è certamente quello di trovare un procedimento di pianificazione elastica che consenta nel tempo gli adattamenti alle situazioni che vanno determinandosi. Ora questo indirizzo fu evidentemente già alla base della legge urbanistica del 1942 poiché essa parla di piani regolatori generali e precisa che i piani particolareggiati vanno redatti di tempo in tempo al momento più opportuno,in funzione delle necessità. Ora se noi ammettiamo per buona l’ultima circolare ministeriale praticamente riproponiamo negativamente un problema che abbiamo per tanti anni cercato di risolvere e che alfine ha avuto una soluzione positiva.

Ma vi è un altro aspetto peculiare per il quale il Comune deve sentirsi impegnato ad una partecipazione attiva a quella che è l’attuazione della pianificazione. Infatti il piano generale, come è noto, non impone nessun obbligo di carattere economico ai Comuni. Per cui, se si passa di colpo dal piano generale a dei piani di lottizzazione, quale è il momento in cui il Consiglio Comunale dovrà approvare la spesa e provvedere a reperire i fondi per la realizzazione dei servizi inerenti ai piani particolareggiati?

MARCONI: Tutto ciò è molto chiaro, ma io volevo soltanto dire poco fa che, anche in questa sede sarebbe stato utile dare un’occhiata ai regolamenti edilizi. Ora vorrei che ci si scambiasse delle idee sui tre punti prima indicati, cioè la simbologia, il regolamento edilizio e le indagini. Poi Quaroni vorrà parlarci degli studi sui quartieri iniziati a Firenze.

QUARONI: Oltre ai problemi interessanti i quartieri, ci sono i problemi che riguardano i centri storici e infine la classificazione bibliografica e del materiale didattico. Ora io voglio chiedere questo: tutti questi punti sono più o meno gli stessi dei quali discutemmo a Firenze e che ci eravamo quasi distribuiti dando semplicemente ad ognuno l’incarico di approfondire un pochino il problema per poi stabilire il da farsi. Oggi siamo in condizioni di poter dire qualcosa di più: per quanto mi riguarda dirò che bisognerebbe stabilire che una, o due Facoltà, per ognuno di questi punti si prendono l’incarico di approfondire la materia fino all’eventuale normalizzazione. Però tutti gli altri istituti possono partecipare a tale Lavoro, perché sarebbe bene che ci fosse in definitiva un criterio generale.

MARCONI: Stamani, infatti, per alcuni argomenti abbiamo già definita tale questione, particolarmente per la bibliografia, ed abbiamo detto che se ne sarebbero occupati gli Istituti di Milano e di Napoli.

QUARONI: Volevo dire a proposito della bibliografia che sarebbe opportuno completarla con la classificazione delle diapositive, delle fotografie e dei films,con le raccolte cartografiche antiche e moderne e studiare i sistemi di conservazione del materiale.

MARCONI:Quali sarebbero le categorie di materiale da classificare?

ZOCCA: Sarebbero la bibliografia con le riviste, ecc.; poi la cartografia, le fotografie e le diapositive.

QUARONI: La Facoltà di Ingegneria di Roma ha già adottato un sistema di classificazione.

ZOCCA: Anche noi abbiamo una classificazione per soggetto e stiamo organizzando quella per località.

QUARONI: Un’altra cosa che vorrei anticipare è la seguente: uno di noi ha fatto uno studio ed è riuscito a determinare per un certo argomento le foto più interessanti per poi farne un certo elenco; esso può dar luogo ad una certa serie di diapositive, per cui può dare copia dei soggetti agli altri, s’intende secondo l’interesse dei ricercatori.

Indi il prof. Quaroni accenna alla necessità di scambiarsi informazioni sui tipi di apparecchi fotografici per stabilire il formato delle diapositive.

MARCONI: Riassumendo: occorrerebbe sapere di ciascun Istituto quali dispositive possiede e di che formato.

QUARONI: Ciò è molto utile, però è bene sapere più ciò che si deve fare, che ciò che s’è fatto, poiché si sa che c’è un lavoro svolto in passato e del quale potremo utilizzare qualcosa, ma è urgente organizzare qualcosa per il futuro.

MARCONI: Le decisioni circa i diversi compiti da distribuire ai vari Istituti si potranno prendere domattina quando saranno presenti tutti i rappresentanti. Intanto credo che si può passare a mettere a fuoco i quattro o cinque problemi a cui abbiamo accennato o proporne degli altri. Io per esempio ho portato con me lo schema che diamo agli studenti per lo studio del piano regolatore: lo possiamo discutere insieme, ma se desiderate esaminarlo con calma, in seguito, nelle diverse sedi, non trovo nulla in contrario.

PUGLIESE: Noi che l’abbiamo già adottato in diversi casi potremmo esporle quello che abbiamo rilevato.

MARCONI: Bene, poiché io desidero perfezionare questi schemi; in modo da giungere a qualcosa di efficiente che possa essere adottato da tutti, anche perché reputo di grande vantaggio una chiarezza di linguaggio comune nella pianificazione.

QUARONI: Vorrei pregare il Presidente di fare un programma dei lavori.

D’AMBROSIO: Ricordo che tra pochi minuti dovremo intervenire all’apertura della Mostra dei lavori degli allievi del nostro Istituto. L’inaugurazione ufficiale avrà luogo domani con l’intervento del Rettore Magnifico prof. Pontieri e delle altre Autorità.

QUARONI: Penso che vi sono due principali argomenti di cui ora possiamo discutere. Uno è quello della distribuzione tra noi di questi sei temi di lavoro.

MARCONI: Credo che siano più di sei, perché stamani ne abbiamo trattati altri. Provvediamo, comunque, a stendere l’elenco.

QUARONI: Per quei centri storici che possono avere anche un interesse diretto per i piani paesistici c’era, mi pare, la proposta di un’indagine a parte. Si era proposto anche di fare dei rilevamenti della parte storica delle città o di piccoli centri, cosa che ha tutto un altro carattere dal rilevamento generale per un piano regolatore.

ZOCCA: Certamente, ma un rilevamento per lo studio storico deve anche collegarsi con la parte cartografica e deve avere una documentazione, oltre che nello spazio, anche nel tempo, che presenti i vari aspetti del centro o del quartiere nelle diverse epoche.

Il prof. Marconi interviene per identificare le categorie di problemi trattati e ne stende una prima suddivisione per materie, che sarà poi completata nel prosieguo della riunione.

QUARONI: Abbiamo sino ad ora discusso del lavoro degli Istituti, ma noi siamo riuniti qui anche per altro e penso che si dovrebbero individuare gli altri gruppi di problemi e distribuirli tra noi.Ad esempio è certamente molto utile esaminare il problema della riforma delle Facoltà per quanto riguarda l’urbanistica e le materie affini, perché da quanto mi risulta non sarebbero stati apportati sensibili cambiamenti.

ASTENGO: Vorrei proporre, se l’elenco degli argomenti di lavoro per i vari Istituti si ritiene chiuso, di discutere ora quali sono gli obiettivi delle singole Facoltà in vista della riforma degli studi universitari.

Dopo breve discussione si decide di stendere un elenco definitivo delle assegnazioni di temi per i vari Istituti. Le assegnazioni definitive risultano dal prospetto riportato alla pagina che segue.

GRAFIA DEI PIANI. Roma (Arch.); Milano (Arch.);

METODI DI RILEVAMENTO E DI ELABORAZIONE NECESSARI ALLO STUDIO DEI P.R. Napoli (Sem.); Venezia (Arch.); Trieste (Ing.);

IDEM PER I CENTRI STORICI E ZONE DI PARTICOLARE INTERESSE PAESISTICO. Napoli (Arch.); Napoli (Ing.); Milano (Arch.); Trieste (Ing.);

NORME URBANISTICHE E EDILIZIE. Roma (Arch.); Firenze (Arch.);

DOCUMENTAZIONE SUI CENTRI RESIDENZIALI. Firenze (Arch.); Roma (Arch.);

RACCOLTA E CLASSIFICAZIONE DEL MATERIALE DIDATTICO. Roma (Ing.); Napoli (Arch.); Milano (Ing.);

GLOSSARIO INTERNAZIONALE. Roma (Ing.); Napoli (Ing.); Genova (Ing.);

TRAFFICO E COMUNICAZIONI. Padova (Ing.); Napoli (Ing.); Napoli (Sem.); Roma (Ing. Istituto Trasporti).

QUARONI. Ora passeremo ad un secondo punto: quale si vuol trattare per primo? La riforma della Facoltà o il lavoro organizzato? cioè degli incarichi dati agli Istituti per ricerche particolari o addirittura per quel lavoro professionale che porti gli studenti ad un contatto più diretto con la realtà urbanistica?

ANDREOLI: A questo proposito vorrei far presente che i Politecnici ricevono sistematicamente dall’industria incarichi di ricerche e di studi. Sarebbe quindi auspicabile che gli Enti locali si avvalessero dell’opera degli Istituti di Urbanistica, cosa che potrebbe essere molto utile da un doppio punto di vista – 1° per un’opera di consulenza di cui potrebbero avvantaggiarsi i gruppi dirigenti - 2° con le ricerche commesse dai vari enti gli allievi potrebbero formarsi una cultura pratica e concreta.

QUARONI: Se mi è permesso vorrei aggiungere un terzo punto interessante, la possibilità cioè che si avrebbe di legare maggiormente gli assistenti agli Istituti, perché troverebbero così una retribuzione e forse, quarto punto, quello di consentire un utile agli Istituti, Ma per questo ultimo vi sono le limitazioni cui ho già accennato.

ANDREOLI: Condivido pienamente, tale apporto creerebbe una schiera di giovani che potrebbero lavorare con entusiasmo e anche senza rimetterci le spese.

QUARONI: Comunque sarebbe interessante sentire se c’èqualche pregiudiziale negativa.

A questo punto il prof. Andriello fa presente che potrebbero aversi delle opposizioni da parte degli Ordini professionali, o Associazioni sindacali.

QUARONI: Però c’è sempre da opporre agli Ordini quanto segue: cioè che in effetti non si toglie del lavoro ai professionisti, poiché il professionista singolo invece di lavorare a suo nome lavora con l’incarico dato all’Istituto. D’altra parte difficilmente si otterranno delle grandi masse di lavoro da determinare una posizione pregiudiziale da parte degli Ordini Professionali.

MARCONI: Per quanto mi riguarda, prescindendo dalla mia qualifica di professionista singolo, penso che questa reazione invece potrebbe esserci. Intanto gli Istituti non possono fare, per esempio, i piani regionali per i quali è consentita solo una azione di consulenza al Ministero. Penso tuttavia che nessuna eccezione potrebbe essere sollevata se gli Istituti svolgessero solo lavoro di indagine, lavoro che in effetti non può svolgere il singolo professionista.

D’AMBROSIO: Vorrei informarvi che alcuni anni or sono questa Facoltà e per essa l’Istituto di Composizione Architettonica, ebbe un incarico notevole, per l’importo di circa un miliardo, relativo alla progettazione del Centro degli Studi di Caserta, per conto dell’Amministrazione Provinciale. In quella occasione il prof. Canino chiese autorizzazione al Ministero e all’Ordine professionale ottenendo da entrambi pareri favorevoli.

QUARONI: Io vorrei chiedere: se non ci fosse la preoccupazione degli ordini sareste favorevoli tutti?

Tutti rispondono affermativamente.

QUARONI: Allora possiamo ammettere in linea di massima che ogni Istituto può accettare i suddetti incarichi dopo aver sentito il parere degli Ordini Professionali e del Ministero. Se mettiamo sulla bilancia da una parte la massa del lavoro professionale distribuito e dall’altra ciò che potrà venire agli Istituti, ci accorgeremo che quest’ultima è una quantità minima. Mentre d’altra parte l’interesse delle Università consiste nella buona preparazione dei tecnici e ciò dovrebbe interessare anche le categorie professionali.

MARCONI: Io penso che questa cosa potrebbe estendersi pericolosamente a danno del singolo professionista.

DODI: Gli Istituti dovrebbero sì preoccuparsi della preparazione di ottimi tecnici, ma sarebbe poco producente se dovessero assumersi dei lavori veramente professionali.

In parte io concordo con quanto è stato obbiettato, perché un conto è mettere sul mercato quello che praticamente si può produrre con le attuali organizzazioni in un Istituto universitario,cioè un lavoro di ricerca, e un conto è rispondere ad una richiesta professionale.

QUARONI: Qui mi sembra che si debba dissipare un equivoco: è chiaro che noi presumiamo che il Direttore di un Istituto, quando accetta un incarico, vagli prima di tutto il valore culturale del lavoro e specialmente i suoi aspetti didattici e morali; per cui non si può affermare che ad un certo punto l’Istituto si trasformi in uno “studio tecnico professionale”.

ZOCCA: La cosa fondamentale è questa: in un piano oltre la fase di progettazione c’è tutta quella parte di contatti amministrativi e politici che l’Istituto certo non può svolgere, sarebbe quindi opportuno limitare l’azione dell’Istituto alla parte di studi per l’impostazione dei piani.

CERUTTI: L’Università o l’Istituto non elaborerebbe dei piani regolatori in concorrenza a lavori professionali, per cui tutto ciò che si è detto è perfettamente accettabile salvo quanto riguarda i rapporti professionali, a meno che non si segua la prassi di chiedere preventivamente all’Ordine Professionale una autorizzazione.

Per quanto riguarda poi il valore del lavoro realizzato negli Istituti, se esso dovesse suscitare osservazioni per eventuali deficienze penso che queste potrebbero essere corrette con evidente utilità didattica.

GORIO: Dobbiamo tener conto che bisogna distinguere quella che è l’attività svolta dagli altri Istituti da quello che potrebbe essere la richiesta per noi. Perché, mentre per gli altri Istituti il richiedente ad es. un’industria) desidera una risposta assolutamente obiettiva, per noi il richiedente ha già una serie di preconcetti e di orientamenti per cui effettivamente la risposta da parte nostra è molto difficile. Quindi, secondo me, bisognerebbe discriminare, nell’accettare questi incarichi i temi che sono di carattere culturale e scientifico da quelli che sono di tipo professionale, e considerare che un piano regolatore per diverse ragioni è certo molto difficile da eseguire in seno ad una Facoltà.

DODI: Comunque in base a certe esperienze fatte in proposito io sarei portato allo scetticismo.

Condivido in pieno il concetto secondo il quale lo Istituto può svolgere opera di ricerca, mentre penso che si troverà certo imbarazzato nell’opera successiva di creazione. Tuttavia riterrei di lasciare ogni Istituto libero di regolare la seconda fase come crede, vagliando obiettivamente i singoli casi come ha accennato Quaroni.

Direi che è possibile stabilire il principio che gli Istituti possano svolgere lavoro di indagine e di consulenza che nella prima fase non necessita del parere degli Ordini professionali. Per l’eventuale seconda fase vi dovrà essere un preventivo accordo con gli Organi a cui si è accennato.

QUARONI: Sarei del parere che possiamo concordare tutti sulla proposta Dodi che mi sembra la più concreta, per cui penso che questo argomento sia chiuso. Ora restano ancora due problemi da discutere: l) l’organizzazione eventuale nostra 2) la riforma dell’insegnamento dell’urbanistica.

Vogliamo discutere prima l’uno o l’altro?

Dopo breve discussione si decide rinviare il prosieguo del dibattito al mattino seguente con il seguente ordine del giorno:

l) Organizzazione fra gli Istituti 2) Riforma dell’insegnamento.

In alto Û

RIUNIONE DEL 21 MARZO 1959 – MATTINO

QUARONI: Sarà bene che io riassuma ciò che si è detto nella riunione di ieri sera: ci si era proposti di esaminare l’opportunità di organizzarci in una forma associativa che metta tutti gli Istituti o, per essere più esatti, quegli Istituti che l’accetteranno, in condizione di formare una certa organizzazione che possa:

1°) - valersi di una segreteria che potrà essere fissa a rotazione;

2°) - poter essere in grado di parlare in nome di tutti gli altri per chiedere delle sovvenzioni per gli studi A. B. C. ecc. di cui abbiamo parlato ieri ed eventualmente per l’attrezzatura. Vi è il problema dello Statuto di questa Associazione. O addirittura cominciare con lo stabilire, se si ritiene opportuno istituire questo legame fra di noi. Credo che a questo punto si possa aprire la discussione.

ASTENGO: Vorrei sapere se esiste qualcosa di simile in altre Facoltà.

QUARONI: Precedenti ne esistono molti. Vi sono vari centri, ad esempio quelli dello studio di certi caratteri particolari della geografia, non vi è però una federazione di tutti gli Istituti. Ma da informazioni che ho assunto presso il Ministero mi risulta che non vi è nessuna pregiudiziale alla formazione di un Ente federativo. Occorre prima una esatta e assoluta informazione data al Ministero stesso tramite un documento steso notarilmente, dopo di che l’autorizzazione potrà essere concessa.

ASTENGO: Cosa succederebbe dei patrimoni dei vari Istituti, per i quali, d’altra parte, credo che ogni decisione spetti ai Consigli di Amministrazione delle singole Università?

QUARONI: Chiarisco: la formula citata non comporta la unificazione di tutti gli Istituti in uno solo. Ogni Istituto resta quello ch’è, e solo per alcune particolari ricerche o studi aderisce a questo centro. Quindi il patrimonio di questo Centro Studi non ha niente a che vedere con quello dei singoli Istituti ch’è inalienabile.

GORIO: Trovo la proposta interessantissima, ma mi pare ch’è prematuro giungere nella situazione attuale ad una associazione vera e propria. Penso che si dovrebbe formare un piccolo Comitato che studi lo Statuto dell’Associazione o che due Facoltà comincino a far da pilota formando tra loro un’organizzazione alla quale poi possano aderire gli altri Istituti.

Nonostante il titolo, e forse anche nonostante le intenzioni, il testo che segue non è in senso stretto una critica al movimento della Città Giardino. Almeno al tipo di movimento che si studia nelle università, e che sta alla base di buona parte dell’urbanistica del Novecento. Trystan Edwards scaglia i suoi ironici strali sulla suburbanizzazione “romantica”, come la chiama lui, ovvero quanto lentamente si sostituirà agli ideali originari del movimento. O forse, questo sarà il ritorno all’ordine dopo il grande tentativo di Howard, Unwin, Adams e compagni, per costruire il loro riformista “sentiero pacifico” usando una parola d’ordine di facile presa. E di facile manipolazione, si comprenderà poi, fino al massiccio snaturamento.

Del resto basta scorrere questo articolo (scritto più o meno agli albori del movimento), per scoprire già maturi tutti i tratti da immaginario piccolo borghese che sono ancora vivissimi anche nelle pubblicità notturne delle seconde case immerse fino al collo e oltre in un dilagante e amorfo verde, nelle fasce anonime e di risibile qualità residenziale di spiagge, colline, ex zone agricole malamente “urbanizzate”. Si colgono sottopelle già in questi primi anni del Novecento i timori per quanto avverrà più tardi: l’automobilismo di massa, e il dilagare di quella che allora era solo una nuova moda quasi esclusivamente londinese, ma che oltreoceano in forme diverse già consumava ampie porzioni di suoli metropolitani (la Garden City di Long Island, New York, è del 1870 circa).

In conclusione, un testo in qualche modo “profetico”, anche senza caricarlo di una consapevolezza che certo gli manca, attaccato com’è ad alcune questioni importanti, ma non certo socialmente pervasive, come la progettazione edilizia di case a buon mercato. Lo stesso Edwards, negli anni Trenta sarà più esplicito col suo opuscolo A Hundred New Towns for Britain, dove sostiene la necessità di mantenere alte densità e impostazione urbana al programma di ricostruzione e decentramento che già si sta delineando. Ma questa è un’altra storia. (fb)

Titolo originale A Criticism of the Garden City Movement– Traduzione di Fabrizio Bottini

Un grande filosofo una volta disse che colui il quale ha come interesse prevalente la regola, anziché l’eccezione, va molto più in là nella conoscenza. Intendeva che quando una cosa è solo particolare o accidentale, e non rappresenta qualche principio generale, non vale la pena di studiarla. Se un certo modo di vivere è auspicato perché siano soddisfatti i bisogni di alcune particolari persone, i loro capricci possono essere oggetto di privata curiosità, ma non di interesse pubblico. Si può ragionevolmente sostenere che questo è un paese libero, e a un uomo non si può proibire di vivere nel tipo di abitazione che più gli aggrada, per quanto eccentrica possa apparire ad altri. Se può farlo in modo non invadente, si salverà dalle critiche più aspre. Le persone possono anche trasgredire le nostre più sacre convenzioni morali, ammesso che lo facciano in segreto e paghino ai vicini un tributo di ipocrisia. Ma quando si manifestano orgogliosamente e pubblicamente, l’importanza delle loro azioni si moltiplica per mille; perché in questo caso è lo stesso valore delle convenzioni ad essere chiamato in causa, e quella che prima era considerata solo un’eccezione tenta di elevarsi al livello di regola. I creatori delle Città Giardino sarebbero profondamente insultati se qualcuno suggerisse che le loro più alte ambizioni siano simili a quelle di un comune uomo d’affari, che esercita il suo riconosciuto diritto di soddisfare una modesta domanda, e di compiacere gli innocui capricci di pochi. Ma quando essi proclamano da alti pulpiti che il loro movimento non è per stravaganti e fissati, ma si fonda su principi universali, nessuno può essere accusato di attaccare le libertà umane se chiede che questi principi siano sottoposti a qualche tipo di accurato esame.

Ci dicono che si tratta di un importante movimento nazionale, e che questi pochi villaggi e sobborghi, che tanto poco assomigliano sia alla città che conosciamo, sia al tradizionale villaggio agricolo, sono i pionieri di centinaia di simili che verranno. Il richiamo è seducente, ed espressi in termini come questi: “Venite via dalla città. Lì la gente morirà per mancanza d’aria. Venite in campagna e vivete in un cottage circondato dal suo piccolo giardino. Le nostre città di oggi non simboleggiano la gloria della nostra razza, ma sono orribili monumenti al fallimento. I nostri antenati ci si spostarono per negligenza. Ma noi oggi non abbiamo scuse. Almeno possiamo evitarle, perché godiamo di strutture di trasporto sconosciute prima. Nonostante per il tempo presente siamo obbligati a sopportare le città come sgradevole necessità, ai loro margini fonderemo i nostri sobborghi fatati, dove gli uomini possano allungare le membra con agio in un dolce paradiso di riposo, lontano dall’empio turbinare e stress del traffico, dall’odore dei loro simili che conducono anguste esistenze dentro infelici comunità. Ma in questa azione, per quanto benefica possa essere, stiamo solo facendo un compromesso con Satana. Essa non rappresenta pienamente il nostro scopo. Quando se ne presenterà l’occasione costruiremo una città del tutto nuova, autosufficiente, e senza nessuna delle caratteristiche delle vecchie, che sinora sono state la nostra rovina. Non ci saranno orride file di case tutte esattamente l’una uguale all’altra, perché l’uniformità è sempre il marchio della stupidità e della noia. Pensando alle diverse classi sociali, non dimenticheremo il lavoratore manuale. Anche se non possiamo sempre dargli una casa isolata, possiamo comunque offrirgli il diletto di un’abitazione a schiera, che è solo di poco meno incantevole. Dobbiamo ad ogni costo eliminare le aspre restrizioni della città. Avremo alberi e verde in abbondanza, naturalmente. Siamo emersi dalla natura un giorno, lasciateci tornare”.

Se si accettano queste proposte, la nostra civiltà dovrà essere sottoposta davvero a trasformazioni di enorme importanza. Significherebbe che il movimento Romantico, che ha sperimentato tante avverse fortune in passato, ha trionfato completamente. Prima di cercare di considerare attentamente in dettaglio i termini della questione, lasciateci immaginare come un membro delle più esclusive sette dell’architettura accademica potrebbe considerare questo appello. Susciterebbe in lui quasi sicuramente una risposta caustica. “Le grandi città” potrebbe dire “sono state create nei tempi passati, e continueranno ad essere considerate un importante risultato. La vostra idea, di non aver niente da imparare dall’impostazione formale che vi compiacete di chiamare monotona, e su cui si è spesa una quantità incalcolabile di genio, è non poco presuntuosa. Il vostro odio per la misura e la disciplina nel progetto non è un segno di originalità, come bizzarramente pensate, ma nasce da debolezza mentale. Inoltre, l’organizzazione degli edifici nella più stretta correlazione reciproca, non ha fallito nel rispondere ai più urgenti bisogni dell’umanità. Ha formato un ambiente dove si risponde alle esigenze del commercio, fiorisce la cultura, sono assicurate le piacevolezze della vita sociale. Nelle città troviamo le strade affollate, alloggi contigui e concentrati insieme, l’imponente piazza, la vasta facciata. La società non abbandonerà queste cose tanto in fretta. Siamo emersi dalla natura un giorno; e ce ne staremo lontani in futuro”.

Il movimento della Città Giardino è stato iniziato da un gruppo di riformatori sociali. Il suo scopo originario era di attenuare alcune gravi malattie che minacciavano e tuttora minacciano il nostro benessere nazionale. Appariva ovvio, ad essi, che molte migliaia dei loro concittadini soffrivano la vita nei quartieri sovraffollati delle nostre città, e che chiedevano un rimedio a questo stato di cose. Avevano opinioni nette, anche riguardo agli aspetti estetici dell’Urbanistica. Le Città Giardino dovevano essere non solo sane, ma anche belle. Sino ad un certo punto è possibile separare gli aspetti sociali, e quelli estetici, del problema.

Cominciamo dall’aspetto sociale. Nessuno può giungere a sane conclusioni sull’architettura, a meno di considerare sempre come dogma il fatto che l’uomo è più importante della sua abitazione. Se qualcuno la pensa in altro modo, è un idolatra. Dunque, se si può provare che davvero nessuna casa è più salubre di quella unifamiliare di moderate dimensioni, agli architetti dovrebbe essere proibito di progettare le nobili abitazioni in linea, e molti degli altri edifici grandi e monumentali, che danno alla comunità che li ospita un così grande senso di dignità e potere. Ma dobbiamo chiederci se davvero la necessità di questo sacrificio è certa. Se fosse così, non solo le familiari strade dell’East End di Londra dovrebbero essere demolite il più presto possibile, ma anche nel West End, migliaia di abitazioni considerate di lusso e ora molto ambite, sarebbero dichiarate insalubri. Gli abitanti di Grosvenor Square sarebbero obbligati alla caccia di un alloggio più sano. Dovremmo demolire le conigliere di Park Lane. Ora, nel criticare le nostre città spesso si confonde il problema dell’aerazione con quello del sovraffollamento. In alcuni casi l’abitazione può essere malsana perché è impossibile far entrare aria e luce nelle stanze, a causa di gravi carenze costruttive; ma in altri casi può risultare che la casa sarebbe di qualità eccellente se le si fosse consentito di adempiere al suo scopo originario, di soddisfare le necessità di una sola famiglia, anziché i bisogni di cinque o sei. È assurdo condannare un tipo di edificio per quello che gli accade per puro caso, e di strapazzare l’architetto per gli errori del politico. Affrontando le questioni dell’igiene, occorre contrastare la città corrente col sobborgo giardino realizzato in modo estensivo, a densità di 25-30 abitazioni per ettaro. Prendiamo in considerazione in primo luogo gli alloggi delle classi più povere, di persone abituate a pagare un affitto di circa cinque scellini. Si tratta di un prezzo più alto di quanto la maggior parte di esse si possa davvero permettere, e spesso così le famiglie sono obbligate ad una alimentazione insufficiente. Si dovrebbe pensare, dunque, che il loro primo desiderio non sia un cottage molto grazioso, ma un alloggio che gli dia la massima comodità per il denaro che spende. Il bisogno urgente non è un tipo di casa molto diversa da quella che abita da sempre, ma una un po’ più grande, con stanze ariose dove tre bambini possano dormire senza danni per la loro salute. È l’orribile ammucchiarsi di bambini in piccole stanze, a mettere a rischio la loro crescita. Ma bisogna confessare che, nonostante ci siano molte case a buon mercato nei sobborghi giardino, l’economia è stata orientata nella direzione sbagliata. Nell’adottare uno stile pittoresco, si sono acquisite alcune delle peggiori caratteristiche di insalubrità degli edifici medievali; per esempio il piano superiore è stato collocato nel tetto, e ha soffitti bassi e inclinati con abbaini che lasciano entrare poca luce nelle stanze. L’effetto esterno può avere un certo fascino per il pittore di paesaggi, ma è difficile considerare case del genere un buon esempio di edilizia del ventesimo secolo. Che valore ha, avere abbondanza di aria fresca all’aperto, se i nostri romantici ci impediscono di respirarla? Se si sostiene che non è possibile permettersi stanze di forma più razionale, la risposta ovvia sarà che è invece possibile fare a meno delle maggior parte dei lucernari e piccoli abbaini, e mezze travi fittizie in legno, e di tutti gli altri orpelli medievali di cui queste case sono piene. La salute degli abitanti viene prima. Un altro suggerimento che porterebbe a considerevoli economie, è che le case siano costruite in schiere, di preferenza lunghe. È ovviamente un grosso risparmio, se la maggioranza delle case ha solo due pareti esterne. Con questo tipo di organizzazione esse sono meno propense all’umidità e, anche, più calde in inverno e fresche d’estate. Immaginatevi la gioia del selvaggio preistorico quando scoprì questa cosa! Come deve aver battuto le mani per la gioia! Si potrebbe quasi dire, che quando la sua capanna finì di essere isolata, quando molte di esse furono radunate insieme, questo fu uno dei più grandi passi in avanti della civiltà dall’inizio del mondo.

E allora agli urbanisti delle città giardino che cercano l’economia ci si può permettere di consigliare di provare con le vie. Non è un salto nel buio. È una cosa già tentata prima. Le vie sono strade con una fila continua di case su entrambi i lati, e non devono essere in nessun modo monotone. È possibile esprimere intelligenza e spirito nella loro progettazione, senza indulgere in abbellimenti costosi. E ci sono tanti costi in meno per le reti dell’acqua, della fognatura, del gas. Chi lo vuole, un eccesso di tubi! Allora, evitando le stravaganze, possiamo offrire al lavoratore manuale una casa comoda che stia nelle sue possibilità, che abbia stanze di forma e altezze decenti. Per gli scopi dell’aerazione non è obbligatorio che ogni stanza di dimensioni normali abbia una finestra su più di un lato. Con la porta e la cappa del camino c’è abbastanza corrente. Anche nei sobborghi giardino si vedono spesso case con la superficie di un’intera parete priva di finestre: per quanto riguarda la ventilazione, la casa avrebbe anche potuto non essere singola.

Il sostenitore del sobborgo giardino ha un atteggiamento duplice verso i lavoratori. Vorrebbe che chi lavora in città vivesse in periferia, così che almeno la sera e nei fine settimana possa godere almeno alcuni dei vantaggi della vita di campagna. Ma è anche ansioso di riportare un certo numero di persone alla terra, e a stabilircisi definitivamente. Per quanto ammirevoli possano essere questi obiettivi, il modo in cui è stato proposto di raggiungerli ignora completamente i noti istinti del lavoratore, sia in città che in campagna, e nella tradizione del suo passato. Vale la pena di prestare una certa attenzione a un fatto piuttosto importante, che mostra come talvolta i membri delle classi povere mostrino quasi inconsapevolmente la propria disapprovazione per i benintenzionati progetti di chi li vorrebbe riformare. Se uno speculatore costruisce cottages per lavoratori ai margini di un quartiere industriale, capita sovente che essi non vengano affittati e restino vuoti. Ma quando c’è una casa disponibile, anche di scarsa qualità e collocazione, in pieno centro, sarà presa immediatamente, e molte richieste saranno respinte. Quali le cause di questo fenomeno? Non c’è il caso che l’uomo comune ami la compagnia dei suoi simili e voglia stare al centro delle cose? Questo modo di vivere in case rade e sparse è profondamente innaturale. Non c’è bisogno che ogni casa sia isolata, come se l’intero pianeta fosse un ospedale per malattie infettive. Quando Aristotele informò i suoi contemporanei sul fatto che l’uomo e animale sociale, forse non stava dicendo una cosa scontata, ma una verità difficile, che molte persone in tutte le epoche hanno mancato di comprendere. Siamo davvero come api, che devono accalcarsi insieme. Il lavoratore è ben contento di stare un una schiera di abitazioni, di stare sulla porta di casa e parlare coi vicini, e vedere gli altri vicini sull’altro lato della strada. Tutto quello che chiede sono case e strade migliori. Questo forse può essere deplorevole, e forse dovrebbe essere sua ambizione quella di avere un cottage indipendente, ed essere come il mitico Inglese nel suo castello. Può essere diventato pavido di spirito, e non albergare più in petto l’amore per l’indipendenza. D’altra parte, è possibile che dopotutto abbia ragione lui, e che sbaglino i suoi detrattori. Non è molto diverso dai membri delle classi più fortunate, nel fatto di voler stare vicino ai teatri, alle sale da musica, ai cinema, alla piscina pubblica, al parco e a tutte le altre attrazioni che può offrire una città, di cui le più importanti, e di gran lunga, sono la gran folla umana e l’aspetto luminoso e attivo della città. A Londra ci sono file di case lussuose di fronte a magnifici giardini, e a me no di cento metri di distanza stanno indescrivibili catapecchie. Gli abitanti delle prime non hanno alcuna intenzione di abbandonare la città. “Anche noi ci rifiutiamo di lasciarla” gridano gli uomini delle catapecchie. Le nostre città dovrebbero essere tanto belle che chiunque vorrebbe starci dentro. Se sono insalubri, dobbiamo renderle salubri. Se sono tropo rumorose, dobbiamo fare i passi per renderle meno rumorose. Se sono troppo fumose, dobbiamo eliminare i fumi. In fondo, cos’è un sobborgo? La stessa parola “suburbano” implica in qualche modo una seconda scelta, un atteggiamento mentale ristretto e farisaico. Ciò può derivare dal fatto che molti sobborghi sono privi dei peggiori difetti della città, come la polvere o il sovraffollamento, ma non hanno niente della distinzione di un nobile edificio, anche quando è macchiato di fuliggine. Ma di tutti i tipi di sobborgo, forse il più scadente e deprimente è il classico Sobborgo Giardino. Non ha né l’affollato interesse della città, né il fascino quieto della campagna. Non ha né i vantaggi della solitudine, né quelli della società. E si devono sottolineare anche i maggiori inconvenienti di questo modo di vivere. Il lavoratore non vuole attraversare grandi distanze per incontrare amici quando è finita la giornata lavorativa. Alcuni di questi sobborghi sono tanto grandi che c’è bisogno di tram per gli abitanti, ma non si possono utilizzare senza sacrificare l’aspetto rustico tanto desiderato. Visto che le persone di mezzi limitati non hanno carrozze private o automobili, non dovrebbero avere alloggi sparpagliati e lontani l’uno dall’altro.

Esaminiamo ora la proposta di riportare parte della popolazione alla terra. Una delle cause della depressione agricola in questo paese è la mancanza di abitazioni adatte per lavoratori. Si supporrebbe quindi che essi fossero lasciati all’uso indisturbato dei cottages dove già vivono. Ma questo non accade, e sarebbe desiderabile che i dirigenti del movimento Romantico dei nostri giorni potessero contenere le attività criminali dei membri del ceto medio che, nel proprio zelo ad essere tutt’uno con la natura, sono costantemente in cerca di piccoli cottages da fine settimana, e mettono così il lavoratore fuori dalla propria casa. Ma anche coloro che vogliono promuovere l’agricoltura creando villaggi giardino, a causa delle proprie inclinazioni Romantiche, stanno in una certa misura ostacolando i bisogni dei lavoratori. Non hanno considerato elementi importanti della natura umana. Getterebbe un po’ di luce sull’argomento un’occhiata all’Inghilterra com’era prima dell’avvento dell’era industriale. Scopriremmo che nonostante ci fossero parecchie fattorie isolate in tutta la campagna, la gran parte della popolazione era raccolta in una moltitudine di piccoli villaggi, e in quasi ogni villaggio, per quanto piccolo, c’era una via commerciale principale. Cosa illustra, questo, se non l’inveterato desiderio dei lavoratori di vivere nella più stretta prossimità l’uno con l’altro? Ovunque possibile, le case erano costruite a formare vie. Non c’è ragione per cui dovremmo ignorare questa tradizione, che ha dalla propria parte sia l’economia che la convenienza.

Questo per quanto riguarda le classi povere. Si assumeva, da parte dei fondatori di Città e Sobborghi Giardino, che quanto piaceva a loro sarebbe piaciuto anche agli altri. Erano ispirati da una grande passione per la natura. Vediamo sino a che punto è probabile che riescano a soddisfarla. Si può calcolare facilmente che se questo sviluppo estensivo diventasse la regola, entro un certo periodo di tempo ci sarebbe poca vera e propria campagna disponibile. Questo fatto sta iniziando ad essere noto, ci sarà una reazione contro questo modo di edificare, e si scoprirà che chi ama davvero la natura è chi ama la città. Verrà l’epoca in cui il terreno destinato alle case sarà drasticamente ridotto, in modo tale da lasciare che le bellezze della natura possano essere destinate al godimento pubblico. Questa regola è altamente necessaria, perché oggi vediamo piccole case sorgere di continuo nei punti più attraenti. È molto bello, per chi arriva primo. Se una dozzina di spettatori stanno in piedi sparpagliati in vari punti di un teatro, avranno una vista eccellente, ma se lo fanno tutti il vantaggio sparisce. In questo movimento si mostra uno spirito di individualismo estremo: un individualismo che a volte va contro i suoi stessi fini. Molti vogliono case isolate circondate da un giardino proprio. Ciascuna è diversa da quella vicina, e anche le varie stanze vogliono affermare sé stesse. In genere possiamo dire dall’esterno quale è il soggiorno, quale la cucina, e così via. Ma se non c’è qualcosa che la metta in risalto, uno sfondo sul quale ogni casa possa brillare, la sua individualità cessa di esistere. La gente può amare esprimersi, e amare la natura, ma essere incapace di creare bellezza. Possono ottenere poco più dell’opportunità di guardare, dalla finestra di una vistosa stanza da bagno, la natura che hanno dissacrato.

Si ritiene popolarmente che basti amare gli alberi, i fiori e i tramonti per aver diritto di dissertare d’arte. È una grottesca illusione. Prostrarsi di fronte a cose alla cui bellezza l’uomo non ha in alcun modo contribuito, è di solito un segno di decadenza mentale. Ammirare gli alberi non richiede alcuno sforzo, nessun esercizio, nessuna capacità di giudizio. C’è una grande sdolcinatezza alla base del concetto di “Città Giardino”. Con metodi facili, otteniamo risultati dozzinali. Una città può avere dei giardini al suo interno, e si può esprimere del genio nel modo in cui essi sono organizzati. Il verde, subordinato al lavoro dell’uomo, ne enfatizza la bellezza. Ma in una “Città Giardino” il verde viene per primo, e la città arriva dopo. Questa è regressione.

È una cosa pericolosa, quando la gente si mette a costruire una città senza percepire la particolare qualità e bellezza che insita nelle città, a costruire case aggregate senza considerare in che modi questa aggregazione debba influenzare il loro progetto, e l’ha influenzato nel passato. Se c’è una casa isolata in un contesto naturale, ed è il principale oggetto di interesse se ci si avvicina ad essa, è consentita una grande individualità formale; e questo vale per un grande numero di case, ciascuna sul proprio terreno, a tale distanza da non confliggere l’una con l’altra. Ma quando si hanno tante piccole villette che possono essere viste simultaneamente, l’effetto è di agitazione estrema. Non conta quanto singolarmente le case possano essere graziose (e alcune delle case nei Sobborghi Giardino sono molto graziose se le si considera isolatamente): devono essere modificate perché possano entrare in relazione con quelle vicine. Questa necessità non si poggia su una teoria che chiunque ha il diritto di mettere in discussione, ma su un fatto psicologico. Quando ad una unità di percezione corrisponde una unità dell’oggetto percepito, l’atto di osservare è reso piacevole, perché si accompagna ad una pace mentale. Ci sono due classici modi in cui una pluralità di case può essere trattata, e nessuno dei due è stato adottato nei Sobborghi Giardino. Nel primo modo, le case sono mantenute separate, ma si affacciano sulla strada. Predominano semplici forme rettangolari , linee orizzontali, e sono comuni tetti piani. L’altro metodo è di avere strade definite da case continue, e in questo caso l’unitarietà può essere di ordine superiore. Ma non è una soluzione, quella di sparpagliare indiscriminatamente case singole dei più disparati progetti, o anche in gruppi di quattro, o sei, o otto, come si fa comunemente, e contare su un po’ di cespugli per dare l’effetto di una composizione. E in molti degli edifici dei sobborghi giardino si intuisce un vero odio per la progettazione. Anche quando si adotta uno schema formale come una breve schiera o i tre lati di un quadrangolo, l’autore opta per l’insolito, per evitare il formalismo almeno nei prospetti; appiccicherà abbaini dappertutto, e le finestre del piano superiore non avranno nessuna rassomiglianza con quelle di sotto, come se i suoi canoni estetici derivassero da una interpretazione troppo letterale del testo: “Non lasciare che la mano destra sappia cosa fa la sinistra”. Ma se gli edifici non mostrano una struttura nella propria forma, se sono inclini ad essere un po’ allegri, in ogni caso le loro caratteristiche generali rappresentano l’uniformità stessa. Una sola nota li pervade tutti: quella della domesticità di campagna. Abbiamo reso domestiche chiese, sale comuni dei villaggi, banche, negozi.

Sono tutti edifici costruiti nel ventesimo secolo, ma non sono moderni. Questo movimento per la Città Giardino esprime un grande disprezzo per il passato. Il Romanticismo è una rivolta contro la civiltà a causa dei grandi mali che sembrano connaturati in essa. Si assume che, se solo potessimo mettere da parte convenzioni e artifici, tutto andrebbe per il meglio. Gli slums sono cresciuti nelle città, quindi le città devono essere condannate. Questo atteggiamento di impazienza esprime stanchezza di spirito e mancanza di senso della storia.

Vai al secondo articolo di questa polemica, pubblicato nel gennaio 1914

Titolo originale A Further Criticism of the Garden City Movement – Traduzione di Fabrizio Bottini

Nel numero di luglio di questa Rivista, mi sono avventurato in una breve critica al movimento per la Città Giardino, e dato che quella critica è stata oggetto di alcuni commenti, mi è stato permesso dalla cortesia del Direttore di sviluppare ancora un po’ l’argomento. I principali capi di imputazione contro le città giardino, erano che il tipo di insediamento proposto non porta a bellezza, efficienza, economia. È distruttivo della bellezza per due ragioni. In primo luogo porta a deturpare la campagna, col risultato che sempre meno persone saranno in grado di trarre godimento dalle bellezze della natura; in secondo luogo, le case che sono state costruite sinora nei sobborghi e villaggi giardino sono poco adatte ad essere viste in gruppo, perché le loro numerose sporgenze e abbaini le qualificano come case di campagna, che potrebbero figurare molto bene se ciascuna fosse collocata da sola in un proprio paesaggio, e fornita di un ambiente adatto di alberi, prati, siepi. L’effetto non è di spaziosità, perché ciascuna abitazione sembra voler espandere sé stessa, ma non le è consentito, e per questa ragione molti trovano un’esperienza estetica deprimente una visita ai sobborghi giardino. Questo tipo di insediamento non conviene, perché aumenta senza necessità la dimensione urbana, rendendo più difficile per gli abitanti comunicare fra loro; è evidentemente diseconomico, perché è molto più conveniente costruire grosse concentrazioni di case e strade, che non edifici singoli organizzati in modo simile.

Sembra comunque, a molti, che queste considerazioni debbano essere considerate nulla di fronte al basso tasso di mortalità delle città giardino. In un importante articolo sul Manchester Guardian del 14 ottobre, l’autore esprime un certo grado di approvazione sugli aspetti estetici dei miei capi di imputazione, ma è convinto comunque che le statistiche sulla mortalità costituiscano “una formidabile giustificazione al movimento”. Ci viene riferito che per Manchester, Liverpool, e Bethnal Green, i tassi sono rispettivamente del 19,9; 20,3; 25,0 per mille; mentre per Bournville, Letchworth e Hampstead esso sono del 5,7; 4,8; 4,2 per mille. Ora, queste statistiche sembrano a prima vista piuttosto evidenti, ma guardiamole più da vicino per vedere cosa esse realmente dimostrano. Si scopre, che esse ci raccontano soltanto qualcosa che chiunque già sapeva prima, ovvero che se si piantano le persone come vegetali in campagna, i loro tassi di mortalità saranno con scarsa probabilità più alti di quelli di una strada sovraffollata in uno slum. Ma non è questo il punto in questione. Siamo interessati a capire se l’obiettivo di liberare le città dalla congestione non possa essere raggiunto in modo più spedito con qualche altro metodo, diverso da quello suggerito dai promotori del Movimento per la Città Giardino. Alcuni propagandisti sono molto lenti nel riconoscere che ci possono essere due cure per lo stesso male, e che il mettere in discussione un metodo, non significa mostrare approvazione per il male. Esiste una mancanza di candore, alla quale i riformatori sociali sono particolarmente propensi, e spesso essi insinuano che chiunque non accetta la loro panacea deve essere necessariamente un reazionario.

Il bisogno più urgente, è quello di mettere a disposizione un numero molto maggiore di abitazioni, perché si possa prevenire il sovraffollamento. Dobbiamo chiederci come, data una certa quantità di denaro da spendere, possiamo realizzare il maggior numero di abitazioni salubri. Se i piccoli e pittoreschi cottages, ciascuno circondato dal suo terreno, in un sobborgo giardino, sono più economici degli alloggi multipli da affitto in centro città, quanto più conveniente sarebbe il consto medio delle abitazioni, in luoghi dove il terreno si può ottenere a basso prezzo, se esse potessero organizzarsi secondo la vecchia formazione per strade e grossi gruppi? Aumentiamo la dimensione delle città e costruiamone delle nuove anziché, nel nostro odio per ciò che è male nelle città, essere ciechi di fronte alle loro innumerevoli virtù! È piuttosto probabile che se ci si potessero procurare statistiche relative a quelle porzioni di Londra, Birmingham, Manchester, dove le case sono costruite correttamente e non occupate da quantità di persone maggiori di quanto non fossero progettate per contenere, si scoprirebbe che il tasso di mortalità non si confronta sfavorevolmente con quelli di Letchworth o Port Sunlight. Statistiche come queste possono essere difficili da ottenere, ma nessuna altra cosa potrebbe aver peso in questa controversia. C’è un’altra ragione per cui la comparazione di cifre, tanto cara ai sostenitori della città giardino, è davvero priva di valore. Le carenze alimentari sono una causa altrettanto importante di morte prematura, come quelle di aerazione. In un luogo come il sobborgo di Hamspead, la proporzione dei molto poveri è molto inferiore di quanto non sia a Poplar, Lewisham, Bermondsey, Shoreditch, Stepney, Burnley, Liverpool o Stockport. La maggior parte degli abitanti di Hampstead Garden Suburb sono evidentemente del ceto medio, e consumano i propri quattro pasti al giorno con perfetta regolarità. A Bayswater ci sono migliaia di persone altrettanto sane.

Un articolo intitolato “Una difesa del Movimento per la Città Giardino”, comparso nell’ultimo numero di questa Rivista, contiene alcune affermazioni che sembrano fondarsi su un lieve fraintendimento delle questioni in gioco. Se ho espresso il parere che nelle piccole e pittoresche case “sono stati inseriti alcuni dei peggiori e più insalubri elementi dell’edilizia medievale”, non è una risposta l’affermare che “ogni finestra ha almeno 60 gradi di illuminazione”. La difficoltà è che gli abbaini sono spesso tanto piccoli, e i soffitti tanto inclinati, che molta poca luce e aria possono penetrare nella stanza. Chiunque può trovare parecchie di queste stanza da letto a Letchworth o Hampstead. Quando ci viene detto che “si è giunti al progetto dei Garden City Cottages solo dopo che molti architetti avevano partecipato a due distinte mostre, nel 1905 e 1907, organizzate specificamente sul tema”, questo non cambia in alcun modo la questione. La cosa più probabile è che gli architetti in questione siano stati obbligati, come spesso accade, di rinunciare alle migliori idee per compiacere i committenti. Si richiedeva di progettare qualcosa di ordinario e meretricio, e dunque si è progettato qualcosa di ordinario e meretricio. Queste mostre di cottages sono la rovina dell’architettura e non producono nulla, se non reazione. È impossibile realizzare qualcosa di nuovo nel progetto di un’entità così piccola come il cottage per il lavoratore, e i tentativi per essere originali in questo caso portano solo alle eccentricità. É nella strada, nella piazza, e nelle altre grandi formazioni che si trova l’opportunità per grandi risultati artistici, e il fatto che queste ultime siano non solo piuttosto salubri (provveduto che si eviti il sovraffollamento), ma anche molto più economiche del cottage isolato, dovrebbe raccomandarle ai riformatori sociali.

Il mio critico afferma che c’è qualche incongruenza nell’inserire nello stesso testo riferimenti ai “101 ammennicoli medievali di questi cottages” e al “grande disprezzo del passato espresso dal Movimento per la Città Giardino”. Ma non c’è nulla di incongruente. Gli “ammennicoli medievali” sono caratteristiche inappropriate, una incomprensione del passato che si dimostra proprio nell’usarli. Il villaggio medievale ha molta più coesione del sobborgo giardino tipo, con la sua orribile orgia di abbaini. D’altra parte, gli innumerevoli esempi di case singole di città, pur rappresentando – come fanno – un alto standard di architettura domestica, non hanno avuto alcuna influenza sui progetto degli edifici nei sobborghi giardino, senza contare il fatto che questi ultimi sono così vicini l’uno all’altro da poter apparire tollerabili alla vista solo se assumessero quelle forme rettangolari che danno adito, sino ad un certo punto, al mantenimento di una linea. Questi principi sono stati scoperti molto tempo fa, e nessuno deve vergognarsi di affermarli, anche a rischio di venir chiamato “un dogmatico della specie peggiore”, o “un appiccicamento architettonico al passato”. Il progresso consiste nell’edificare su fondamenta che sono già state gettate. Naturalmente, se la rottura delle regole estetiche è produttiva per la bellezza, è tempo di metterle in discussione, ma quando porta a bruttezza e dissonanza, come nelle città giardino, ci sarà dato il permesso di sostenere che le regole sono degne di considerazione. Da un certo punto di vista, molti degli esperimenti della città giardino saranno di grande servizio all’architettura, perché saranno esempi standard di cosa va evitato. Saremo così portati ad apprezzare di più le bellezze possedute dalle nostre città, e scopriremo i meriti di molte delle nostre strade, tanto quiete, dignitose, appropriate, che possiamo passarci attraverso senza essere consapevoli di nulla tranne una sensazione di agio che non ci prendiamo la fatica di definire. Le persone inizierebbero a scorgere virtù mai notate prima in Regent Street, nei quartieri a stucco di Londra, o nelle architetture civiche dei nostri antenati del diciottesimo secolo.

I difensori del Movimento per la Città Giardino citano South Square e “Wordsworth Walk” a Hampstead come esempi di “controllo e disciplina nel progetto”. È difficile trovare molte tracce di “controllo e disciplina” in questa piazza. Visto che si era adottato uno schema formale in pianta, ci si sarebbe naturalmente aspettati un prospetto altrettanto formale, e invece a ciascuna casa si dà un trattamento separato nelle finestre, col risultato che l’effetto complessivo della facciata è un guazzabuglio. Se l’architetto avesse voluto che considerassimo ciascuna casa come entità a sé, e questo fatto fosse stato espresso non solo nel prospetto, ma anche in pianta e nella disposizione delle coperture, non ci sarebbe stato motivo di critica. Ma così come stanno le cose, la forma regolare della pianta, sui tre lati di un rettangolo, ci obbliga a leggere tutte le case all’unisono, come se esse fossero parte di una solo composizione; ma le loro caratteristiche sono tali da non ammettere di considerarle così. Nei fatti, questa piazza è la semplice parodia delle imponenti piazze di Parigi, Londra, Edimburgo, Liverpool, e altri luoghi. E per quanto riguarda “Wordsworth Walk”, sembra che sia stata disegnata sulla carta senza rapporti con il suo stare posata a terra. Qui abbiamo raddoppiati i gruppi di cottages pittoreschi, con un percorso in mezzo; ma, sfortunatamente, a causa dell’inclinazione del terreno su cui è realizzata, un gruppo di cottages è considerevolmente più in alto dell’altro, così l’effetto generale è di penzolamento estremo. In più, è discutibile se qualunque gruppo informale di case sia adatto a far parte di uno schema geometrico, per quanto semplice. È un’ingiustificabile miscela di formale e informale, l’introduzione di un elemento di rigidità in un sistema tollerabile solo quando si metta da parte ogni nozione di rigidità. Quando un soldato abbigliato in modo strettamente convenzionale sta sull’attenti, non c’è alcuna incongruità; ma se uno spazzino fa lo stesso, la trascuratezza del suo aspetto è indebitamente messa in rilievo. Il fascino dell’informale sta nella sua involontarietà, nell’essere il prodotto del caso. Talvolta è piacevole attraversare strade dove non esiste un aspetto ordinato, perché in queste strade (se non c’è agitazione) ci si può soffermare in totale riposo dello spirito, per quanto riguarda l’architettura; ma quando voi raddoppiate un gruppo informale di case, come è stato fatto a “Wordsworth Walk” e in molti altri casi a Letchworth e Hampstead, è evidente che la sistemazione d’insieme è deliberata, col risultato che cominciate a criticarla come tale. Ma proprio in quanto tale, non regge l’esame per un singolo istante; non c’è abbastanza intelligenza in essa ed è totalmente priva di coesione: come è naturale, visto che il progettista stava tentando di cogliere il fascino dell’inconsapevole, da casuale.

Ho avuto occasione di esprimere il parere che nelle città giardino “viene prima il giardino, e poi la città”, i loro difensori dicono: “Il fatto è che stanno assieme nelle corrette proporzioni e correlazioni l’una con l’altra ... e nella maggior parte delle comunità britanniche la città viene prima e il giardino viene raramente, quando c’é”. Si può ammettere che non ci siano giardini a sufficienza nelle nostre città, e che questo sia dovuto in gran parte alla trascuratezza nel periodo di crescita più rapida, seguito alla rivoluzione industriale nel secolo scorso. Ma bisogna insistere sul fatto che i nostri grandi romantici furono in parte responsabili per questa trascuratezza. Al tempo della loro nascita, l’interesse popolare nell’arte prese forma di intensa ammirazione della natura e della pittura di paesaggio; Walter Scott e Ruskin riportarono gli uomini al Medio Evo, così che essi pensarono più a chiese gotiche e a castelli in rovina, che non ai possenti risultati che la parola “città” suggeriva. Durante quell’epoca fatale, si costruì su molti spazi aperti delle nostre città, su molte vecchie piazze del mercato, e allo sviluppo urbano era consentito di avanzare a grandi passi senza traccia di controllo. I promotori del movimento per le città giardino, con il loro odio per le città e la santificazione della natura, sono pure dei Romantici. Gli uomini i cui antenati spirituali provocarono tanti misfatti nelle nostre città, non sono gli uomini che le salveranno. In realtà, alla maggior parte di questi propagandisti, la città come la consideriamo noi non appare degna di alcuna redenzione, e quindi stanno realizzando luoghi di fuga da essa chiamati “Città Giardino”. Un piccolo cottage in campagna: questo è il popolare richiamo. Si assume che tutti possiamo avere un cottage in campagna, e nello stesso tempo tutelare la campagna. Ma quando costruite villini in queste quantità, e tanto vicini da distruggerla, la campagna, il risultato è una città, è in questo caso le abitazioni dominano la natura, e dovrebbero esprimere questo fatto assumendo le grandiose forme dell’architettura civica familiari a tutti. La frase “Città Giardino” suggerisce una moltitudine di case tanto vicine l’una all’altra da doverle chiamare città, e ancora un carattere tale da essere davvero dominate dal verde, negli spazi tra loro, col risultato che la prima impressione avvicinandosi è quella di un parco, o di un bellissimo giardino, punteggiato da edifici. Il promotori della città giardino promettono ai propri clienti un ambiente rustico che non è possibile avere in queste condizioni, e il tentativo di mantenere una finzione di rusticità, quando non ci sono le condizioni, è causa di un tipo di sviluppo che non merita di essere chiamato moderno, o avanzato, ma è di fatto una retrocessione di rango, un affondare nell’organizzazione primitiva di capanne che ha preceduto l’epoca in cui gli uomini furono capaci di architetture continue. A questo si arriva, mettendo prima il giardino, e poi la città.

Avevo affermato che un tipico sobborgo del nuovo genere non avesse “né l’affollato interesse della città né il tranquillo fascino della campagna”, e i miei critici replicano che “la frase ‘affollato interesse della città’ è piuttosto ambigua in questi tempi di quartieri degradati e sporca congestione”. Questo atteggiamento è tipico di molti riformatori sociali; sono così impegnati a tempo pieno nello studio di ciò che è brutto, squallido, mediocre, da non aver occhi per ciò che è nobile. Uno pronuncia la parola “città” e il loro pensiero non vola verso Atene, Roma, Firenze, Venezia, Parigi, Francoforte, Norimberga, Winchester, Oxford, Edimburgo, o anche alle nostre piccole cittadine di campagna tanto famose per la loro bellezza. No, loro pensano a Bermondsey o a Poplar. Se qualcuno parla del fascino delle strade, loro pensano immediatamente a Whitechapel Road, o all’ultima fila di casupole speculative: mai a Regent Street, o a Boulevard Des Italiens. Mi sono riferito alla società che vive nelle città, intendendo che la civilizzazione, così come la conosciamo, è il prodotto della vita urbana, e i miei critici esclamano, “Quale società? Sicuramente non la stanca e pretenziosa atmosfera sociale di una Balham o la rispettabilità snob di una Streatham?”. Stupefacente! Questa frase dovrebbe essere appesa, stampata su una targa, in tutte le sale pubbliche di Balham e di Streatham come esempio della persuasiva eloquenza dei sostenitori della città giardino. Si sarebbe supposto che in un movimento nuovo come il loro anche reclute da posti come Balham e Streatham sarebbero state le benvenute. Anche le personalità più grandi hanno dovuto talvolta inchinarsi, per ottenere i propri scopi. È sempre la vecchia storia: la prosperità si porta appresso l’orgoglio! Ma è ancora possibile affermare che chiunque si prenda il disturbo di visitare questi sobborghi, e studiarne l’aspetto fisico, la generale modestia, l’espressione facciale degli abitanti, troverà che essi sembrano altrettanto intelligenti dei nobili residenti di Letchworth o Golder’s Green. Ma forse è sbagliato dare troppa importanza a questo sfogo (contro Balham e Streatham). Bisogna ricordarsi quel piccolo episodio dell’Iliade, dove si racconta che Ajace ebbe una lite con Agamennone, mostrando tanto poco autocontrollo da massacrare un intero gregge di pecore. Questo è il modo in cui a volte gli innocenti soffrono insieme ai colpevoli!

Si può sostenere che il movimento per la città giardino è servito al suo scopo. Era sin dall’inizio un movimento settario, che traeva origine dalla protesta contro il sovraffollamento delle nostre città. Ci sono ampie prove che la coscienza popolare ora è pienamente consapevole della gravità dei mali causati dalla scarsità di abitazioni, e a questo risultato i sostenitori della città giardino hanno grandemente contribuito. Ma se Hampstead e Letchworth sono indubbiamente più salubri di Poplar, molti riconosceranno che essi non rappresentano il migliore, né il più economico, tipo di insediamento. Una città ben sistemata, senza fumi e quieta, con il traffico ben controllato, con strade e case organizzate in modo compatto; una città che ha sufficienti parchi, piazze e altri spazi pubblici, ma che contiene anche una considerevole popolazione in un’area relativamente piccola; una città compatta, con un numero limitato di case singole abbastanza grandi poco all’esterno, e immediatamente dopo una natura illimitata: questo è un ideale che pare più attraente della diffusa monotonia della Città Giardino.

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L’Urbanistica non ha sempre fortuna in Italia.

Nell’epoca podestarile i piani regolatori erano un campo fertile per le esercitazioni e le improvvisazioni di estrosi amministratori, con dannose ripercussioni anche nel campo giuridico per la varietà e la discordanza degli indirizzi e delle norme delle singole leggi speciali di approvazione dei piani delle diverse città.

Vi era allora la comoda giustificazione della mancanza di una vera e propria legge urbanistica e della insufficienza della vecchia legge del 1865.

Per porre ordine in tanta confusione e per consolidare finalmente in un testo organico i principi giuridici e le norme procedurali e pratiche destinate a disciplinare questa complessa materia venne varata 1a legge 17 agosto 1942 che costituiva e costituisce ancora - salvo qualche necessario ritocco formale - un congegno giuridico e tecnico ben studiato ed atto a indirizzare e consolidare una dottrina ed una prassi urbanistica anche nel campo del diritto e della procedura.

Ma a questo punto intervenne la Costituente, la quale volle sancito nella nuova Costituzione il principio che la facoltà normativa nella materia urbanistica fosse delegata all’Ente Regione (art. 117).

Indulgendo alle tendenze del momento i nostri legislatori non si accontentarono di assecondare il legittimo desiderio della periferia di uno snellimento delle pratiche procedurali attraverso un decentramento delle funzioni esecutive, ma vollero senz’altro andare molto più in là impegnandosi anche sul terreno normativo.

Ammesso il principio che gli Enti regionali possono legiferare nel campo urbanistico ne deriva inevitabilmente una discordanza nella giurisprudenza e nella procedura che certamente non giova alla fondazione di una dottrina costante in una materia già di per sé nuova e incandescente e come tale non ancora entrata nella coscienza del pubblico, degli amministratori, dei magistrati.

Un piano regolatore non consta solo di vistosi disegni. Per dare esecuzione ad un programma urbanistico non bastano un bel progetto e della buona volontà. Occorrono pure norme di legge che consentano di modificare, nell’interesse superiore della collettività, situazioni di fatto e di diritto, imporre vincoli, limitare il diritto di proprietà o disciplinarne l’esercizio, conguagliare o compensare benefici e danni fra i singoli, riequilibrare insomma quel complesso di rapporti giuridici ed economici che dalla esecuzione di un piano viene alterato.

Se nel nostro Paese si consente ad ogni Regione di legiferare a suo talento è facile intuire quale confusione ne possa derivare e come ci si allontani dalla auspicata formazione di una coscienza o di un giure urbanistico. Né giova molto l’osservare che la legislazione regionale dovrà pur sempre ispirarsi alle direttive della legislazione nazionale, perchè, delle due, l’una o la facoltà normativa è circoscritta a puri oggetti di dettaglio, ed allora è destinata ad esaurirsi in essi, o tale facoltà incide anche nei principi informatori generali ed allora la confusione è inevitabile.

Qualche prima avvisaglia ci fa opinare per questa seconda ipotesi.

E già si profilano pure nuovi e maggiori sviluppi dei concetti sanciti dalla Costituzione.

Prima ancora che l’ordinamento regionale sia stato istituito, vi è qualche provincia che - valendosi della particolare situazione di alcune nostre regioni - già sta allestendo la sua legge urbanistica provinciale.

Ne ho sott’occhio una e, se debbo lodare l’impegno e la diligenza colla quale gli Amministratori provinciali hanno assolto il loro compito, non posso non esprimere la mia viva preoccupazione per il profilarsi di una situazione di cui non mi pare si siano sufficientemente considerati i pericoli.

La legge provinciale sull’urbanistica e sii piani regolatori di cui si tratta è accompagnata da un’interessante ed esauriente relazione nella quale senz’altro viene subito nettamente affacciato il problema che si erano posti i promotori della nuova proposta di legge e cioè : se fosse opportuno muoversi sulla linea della legge nazionale o se, traendo ispirazione, in piena libertà, da recenti sviluppi dottrinali e da esempi legislativi di altri stati (p. e.Svizzera e Inghilterra) si dovessero battere vie completamente nuove.

Nel caso attuale è prevalso il primo concetto: non pertanto il dilemma si è posto e si porrà domani a tutte le altre Province o Regioni, e non è da escludere che taluna di esse sia indotta ad abbandonare la linea della legge nazionale e sia proclive a trarre ispirazione in piena libertà dalle leggi di un altro stato vicino o lontano, orientale od occidentale, democratico o totalitario.

Inoltre vi è da domandarsi, anche dal semplice punto di vista dell’economia legislativa, quale convenienza vi sia nell’avere una legge urbanistica nazionale (la vigente del 1942 o quell’altra qualsiasi che il Parlamento Nazionale avesse il tempo e la buona volontà di varare) se ogni Regione o Provincia potrà con piena libertà non tenerne conto.

La nuova legge provinciale che ho sott’occhio, non arriva, come si è detto, all’abbandono delle direttive della legge nazionale, introduce però alcune modificazioni che non sono di semplice snellimento burocratico o di adattamento a situazioni locali, ma incidono nettamente in alcuni tradizionali istituti giuridici della nostra legislazione: per esempio nella materia delle espropriazioni per pubblica utilità.

Intanto si dichiara apertamente che le disposizioni della legge fondamentale dello Stato del 25 gennaio 1865 relativa alle espropriazioni per pubblica utilità saranno applicate finché la Regione non avrà diversamente provveduto e questa mi pare che sia una interpretazione molto estensiva e assai preoccupante delle facoltà che la Costituzione consente alla Regione.

Mi è difficile immaginare, in una materia tanto complessa e delicata e di fondamentale portata nei riguardi della concezione e della interpretazione del diritto di proprietà, quale è quella delle espropriazioni per pubblica utilità, una molteplicità di indirizzi, di principi e di norme variabili da regione a regione o da provincia a provincia del nostro Paese e mi auguro che ciò non sia mai.

Ma intanto la citata legge provinciale anticipa l’applicazione di criteri contrastanti colle leggi nazionali.

Cito il caso tipico della retrocessione dei beni espropriati e non adibiti allo scopo per cui l’espropriazione era stata chiesta ed ottenuta.

La retrocessione è ammessa dagli artt. 60 e 63 della legge 25 giugno 1865 e dall’art. 18 (ultimo comma) della legge 17 agosto 1942.

La legge provinciale in esame “avuto riguardo al permanente bisogno di beni immobili che hanno i Comuni, specie alla periferia, in vista di allargamenti edilizi attuabili in futuro, anche se finora impediti da circostanze particolari, e se riflette alle oscillazioni del valore della moneta per cui non sarebbe equa la semplice restituzione dell’area da una parte e del prezzo dall’altra” nega senz’altro il principio della retrocessione, sopprimendo nel proprio testo tutto ciò che a questo riguardo fa legge nazionale del 1942 stabilisce.

Nessuno è più di me convinto, e non da oggi, della opportunità di dare ai Comuni i mezzi per crearsi le necessarie dotazioni (impropriamente chiamate demani) di aree per agevolarne lo sviluppo, ma che l’abolizione del diritto di retrocessione - a parte le altre discutibili motivazioni giustificative sopra riportate - possa essere invocato anche a questo scopo in una legge locale in contrasto colle disposizioni delle leggi fondamentali dello Stato mi sembra assai pericoloso.

Che, se ciò fosse ammesso, si avrebbe il caos giuridico proprio in una materia estremamente delicata.

Il criterio autonomistico provinciale affiora anche là dove la nuova legge tratta dei piani territoriali.

In contrasto colle tendenze dei pianificatori più avanzati, che vorrebbero che i piani territoriali derivassero da un piano urbanistico nazionale, ed in difformità dalla legge del 1942, che demandava al Ministero dei lavori pubblici la compilazione di tali piani appunto in previsione di un coordinamento nazionale, la legge provinciale che stiamo esaminando stabilisce invece che l’iniziativa dello studio sia di stretta competenza della Giunta provinciale e che l’approvazione avvenga per deliberazione del Consiglio provinciale.

Essa non prevede neppure, in ordine al coordinamento nazionale, una preliminare intesa colle Amministrazioni statali interessate, come opportunamente prevede la legge del 1942.

E ciò è evidentemente assai poco prudente, perchè non è possibile lo studio di un piano territoriale (destinato ad inserirsi in un piano nazionale) senza un preliminare affiatamento con gli Organi Centrali aventi governo e gestione di strade, ferrovie, trasporti, acque, ecc., se non si vuoi ricadere negli errori lamentati nel passato ed ai quali le disposizioni della legge del 1942 miravano appunto a riparare.

La legge particolare, che abbiamo sott’occhio, introduce pure alcune varianti alla legge nazionale, che incidono sul contenuto stesso e sulle caratteristiche tecniche dei piani regolatori.

Essa abbandona ad esempio il concetto, stabilito dalla legge nazionale, che il piano regolatore generale di un Comune debba considerare la totalità del territorio comunale. Non è il caso di ripetere ancora i motivi per i quali gli studiosi di urbanistica hanno sempre sostenuto la necessità di una visione completa del problema urbanistico di un Comune, visione alla quale gli stessi limiti territoriali amministrativi costituiscono uno spazio troppo angusto. Il che non vuole affatto dire che tutta l’area del Comune debba essere urbanizzata e coperta di una ideale rete di strade e di isolati fabbricabili, bensì proprio l’opposto.

È solo la visione generale del piano che può garantire la non fabbricazione o una disciplinata e moderata fabbricazione rada fuori dalle aree urbanizzate. Il che non sembra essere stato rilevato dagli estensori del progetto di legge provinciale, che nella relazione scrivono: “La legge nazionale chiama piano generale quello che considera la totalità del territorio comunale; la città di X ... per avere un piano regolatore generale dovrebbe quindi estenderlo a tutti i sobborghi; egualmente per ogni nostro Comune rurale che sia provvisto di prati e boschi in montagna, il piano generale dovrebbe comprendere anche le zone dove un edificio non sorgerà mai”. Ma è appunto per garantire le caratteristiche di quelle zone nelle quali non debbono sorgere gli edifici che anche esse vanno comprese nel piano generale e come tali tenute sotto controllo dall’autorità comunale coi mezzi che la legge prevede e consente!

E così di articolo in articolo noi vediamo smantellata da questa legislazione locale l’edificio giuridico della legge urbanistica nazionale.

Basti ricordare ancora che la legge provinciale, che stiamo scorrendo, modifica persino le sanzioni penali stabilite dalla legge del 1942, cosicché entro il territorio dello Stato italiano, la medesima infrazione può avere sanzioni penali diverse solo che si valichi la molto simbolica linea di un confine provinciale.

Ci permettiamo di fare queste osservazioni non tanto come critica specifica del progetto di legge che ci è occorso di esaminare, quanto per segnalare dubbi e pericoli di portata più generale.

Più sopra abbiamo riportato il richiamo che gli estensori della nuova legge fanno alla legislazione svizzera. Non so a quale legge cantonale intendessero richiamarsi perchè in Svizzera la legislazione urbanistica è di competenza cantonale.

Ma proprio nel recente Congresso di Rabat della Unione Internazionale Architetti furono i nostri colleghi svizzeri a segnalare la situazione difficile, di fronte alle necessità della vita moderna, derivante alla Svizzera dalla molteplicità della sua legislazione urbanistica, ad auspicare la formazione di una unica legge federale ispirata ai concetti unitari degli altri Stati europei.

È per lo meno strano che proprio noi che siamo arrivati, attraverso un lungo periodi di studio e di discussioni, alla formulazione di una legge organica nazionale, si faccia ora un passo indietro, ritornando ad un particolarismo locale che è inconciliabile coi moderni indirizzi urbanistici, intesi ad una visione sempre più vasta organica e generale dei problemi della viabilità, dei trasporti, delle abitazioni, delle industrie e della difesa delle caratteristiche e delle risorse locali, che formano l’essenza dell’urbanistica.

Soprattutto preoccupa la deleteria influenza che le deviazioni particolari possono esercitare sul consolidarsi della tecnica, del diritto, del costume nel campo urbanistico.

Pensiamoci fin che siamo in tempo.

Nota: in questa stessa sezione "Testi per un Glossario" sono disponibili altri scritti di Cesare Chiodi (fb)

Testo dal sito US Department of Transportation, Federal Highway Adiministration, sezione storica - Titolo originale, Edward M. Basset; The Man Who Gave us “Freeway” – traduzione di Fabrizio Bottini

Il concetto di parkway, dedicata alla guida per motivi di tempo libero, incarnava molte idee progettuali che sarebbero state integrate nelle expressways, compresa un’ampia fascia di rispetto, il controllo degli accessi, l’eliminazione degli incroci a livello con altre strade, e corsie separate a mescolarsi alle caratteristiche del paesaggio. Portando un passo più in là il concetto di parkway, si deve a un avvocato newyorkese di nome Edward M. Basset l’aver coniato il termine “ freeway”, a descrivere una infrastruttura urbana ad accesso controllato basata sull’idea della parkway, ma aperta al traffico commerciale.

Basset era nato a Brooklyn, diplomato allo Amherst College nel 1884, e aveva insegnato a scuola mentre frequentava la Law School della Columbia University. Si laureò nel 1886, e iniziò la libera professione nel 1892.

Nel 1916, Basset sviluppò la prima ordinanza integrale di zoning degli Stati Uniti, a regolare usi, altezze, superfici delle costruzioni. Da qui, è talvolta chiamato “Il Padre dello Zoning Americano”. Il suo impegno pubblico comprende un breve servizio alla House of Representatives (1903-1905), la nomina da parte del Governatore Charles Evans Hughes alla Public Service Commission (1907-1911), e le posizioni di consigliere nello Zoning Committee di New York, nel Regional Plan of New York and its Environs, e nella City Planning Commission. In quanto membro dello Advisory Committee on City Planning and Zoning, Basset fu nominato dal Segretario al Commercio Herbert Hoover alla carica di presidente della National Conference on City Planning.

Basset vedeva le “ freeways” – strade per il flusso libero del traffico – come adattamento di molti dei concetti della parkway, a servire il trasporto anziché il tempo libero. Là dove le parkways erano dedicate alla ricreazione, la freeway serviva alla mobilità. Per marcare la distinzione, Basset delineò tre tipi di grandi arterie:

Basset, scrivendo in qualità di presidente della National Conference on City Planning, spiegò questi concetti in un articolo, The Freeway: a New Kind of Thoroughfare, pubblicato nel febbraio 1930 da The American City:

”Tutti sanno che le nuove vie e strade pensate per incrementare la capacità di traffico veicolare gradualmente vengono ad ingombrarsi, in alcuni punti, fino a limitarla. Ciò è causato dalla crescita delle strade di attraversamento, degli accessi privati, nuove officine, stazioni di servizio, spazi per le attività commerciali e i parcheggi delle automobili. Man mano il traffico diventa più intenso, aumentano gli ostacoli, col risultato che una strada intesa ad accogliere traffico veloce lo vede ridotto a molto meno della capacità progettata. Anche quanto si eliminano gli incroci a livello più importanti, le corsie d’accesso, le officine e stazioni di servizio, i negozi e le auto parcheggiate sono causa di grandi limitazioni.

Una parkway consente un flusso di traffico più libero, perché le vie laterali e le corsie d’accesso private non possono entrarci, e le officine, stazioni di servizio e negozi non possono allinearsi sul ciglio. I proprietari frontisti non hanno diritto di aria, luce, accesso sulla parkway . Per essere chiari, occorre pensare alla parkway come a un parco allungato. È ben noto che le autorità possono realizzare attorno a un parco una recinzione o un muro, lasciando solo ingressi pubblici. Comunque, una parkway non è destinata a un uso generale: visto che è un parco allungato, deve essere utilizzata per scopi di tempo libero, e di conseguenza il traffico è limitato a questi tipi di veicoli.

Avvertiamo sempre più il bisogno di un nuovo tipo di grande strada, che sia come una highway nel poter contenere sia traffico commerciale che per il tempo libero, ma che sia come una parkway nel poter prevenire l’ingombro dei suoi margini. Non abbiamo un nome, per una strada di questo tipo. Non abbiamo una legge, in questo paese, che regoli una strada di traffico di questo tipo. Se si potesse trovarle un nome, questo nuovo tipo di grande strada entrerebbe immediatamente nella pratica e nella terminologia della pianificazione urbana. Suggerisco di chiamarla freeway . È una buona e breve parola anglosassone. Ricorda la libertà dagli incroci a livello, dagli accessi privati, da fabbriche e negozi. Non avrà marciapiedi e sarà libera da pedoni. In generale, consentirà un libero flusso di traffico veicolare. Può essere adatta alle parti più intensive delle grandi città, per il passaggio ininterrotto di una gran numero di veicoli”.

Il figlio e socio di studio di Basset, Howard, insieme all’urbanista Latham C. Squire spiegherà ulteriormente il concetto in un articolo, A New Type of Thoroughfare: The “Freeway”, pubblicato ancora da The American City nel novembre 1932. La freeway, raccontano, sarà di immediata utilità pratica per gli accessi ai ponti “dove il traffico concentrato verrebbe liberato da usi superflui e parassiti”. Le freeways sarebbero anche pratiche per strade di circonvallazione, consentendo al traffico di passaggio di aggirare i distretti terziari e commerciali, e diminuire la congestione locale. L’articolo riassume i vantaggi del concetto di freeway:

“1. Il libero flusso di traffico è garantito in modo permanente perché non è consentito alcun accesso locale, eccetto in alcuni punti ben posizionati. Saranno messe a disposizione probabilmente tre o quattro corsie in ciascuna direzione, eccetto dove si aggiunge una ulteriore corsia alle entrate e uscite dei freeway business centers , e agli incroci con altre arterie. Il freeway business center risolve il problema della perdita di tempo necessaria per uscire dalla strada verso un centro commerciale di quartiere per acquistare cibo o altri generi.

2. La freeway è il tipo più sicuro possibile di grande strada. È interamente eliminata l’interferenza del traffico locale. Il freeway business center nel mezzo della carreggiata non è accessibile al traffico locale, ed è progettato secondo criteri di comodità, bellezza, sicurezza.

3. La freeway incrementa i valori delle proprietà. Gli schermi di alberi e arbusti collocati su entrambi i lati della carreggiata forniscono il mezzo migliore per attutire i rumori del traffico, e nascondono completamente la vista della strada. In tal modo le proprietà laterali sono rese altamente desiderabili ad uso residenziale. La stretta prossimità a una freeway è un sicuro vantaggio.

4. Gli automobilisti sulla freeway , naturalmente, avranno bisogno di rifornimenti di ogni tipo, come benzina, olio, ricambi, pasti, farmaci, ecc. Tutto si può acquistare nei freeway business centers posti nel mezzo della freeway a intervalli di quindici chilometri sul tracciato. Saranno progettati in modo che negozi e stazioni di servizio siano invisibili dal tracciato, attraverso piantumazioni adatte, e organizzati in modo che l’accesso dalla freeway non interferisca in alcun modo col libero flusso del traffico. Per questi business centers non si prevede nessun accesso locale. Sono ad uso esclusivo dei viaggiatori sulla freeway .”

La sicurezza si poteva aumentare in vari modi. La maggior parte delle corsie era larga tre metri, ma quella esterna raggiungeva i cinque. Questo aiutava l’automobilista “timido”, che avrebbe altrimenti avuto paura di uscire di strada. Sulle curve (con raggio di 300 metri), una “striscia a parco” impediva di “tagliare all’interno” sul lato sbagliato della carreggiata dopo la curva. Piccoli alberi piantati nelle strisce a verde avrebbero impedito di essere abbagliati dal fari del traffico in arrivo. Nei rettifili, una stretta striscia di alberi, larga due metri, con basse ondulazioni, poteva essere posizionata sulla mezzeria ad impedire “scivolamenti laterali” e scontri frontali. L’articolo suggeriva anche l’uso di pareti o recinzioni lungo la fascia di rispetto, per impedire a persone o animali di sconfinare sulla carreggiata.

La freeway avrebbe risolto anche il problema delle attività commerciali lungo la strada. La regolamentazione dei bordi stradali nei centri rurali e suburbani era stata dibattuta “negli ultimi otto o dieci anni”. L’articolo spiegava:

“I margini delle più trafficate strade statali e di contea oggi non sono desiderabili per un uso residenziale, per due ragioni: primo, a causa del rumore e della confusione provocati dal flusso continuo di traffico; secondo perché quasi invariabilmente, in particolare nei centri rurali, la presenza sporadica di usi commerciali come cartelli pubblicitari, chioschi di hot-dogs, stazioni di servizio, officine di riparazione e simili, l’ha resa ancora più indesiderabile. Nelle comunità rurali la domanda per questi usi commerciali non è grande a sufficienza da coprire che una piccola porzione delle proprietà frontiste. Dunque, se il resto delle proprietà non è appetibile a usi residenziali e non può essere venduto per altri usi, molte volte non c’è mercato per nessuna utilizzazione. Il risultato è quello che è stato chiamato motor slum”.

L’articolo a questo proposito cita Benton MacKaye, l’ecologista pianificatore regionale considerato “Padre dello Appalachian Trail”:

“Il motor slum in aperta campagna è, oggi, una macchia vistosa quanto il peggiore degli antichi slums industriali urbani”.

L’articolo afferma che a evitare di creare “un nastro, lungo chilometri, di motor slums” la freeway è un approccio “più efficiente”.

In chiusura, l’articolo riassume il valore della nuova strada:

“La freeway si svilupperà come una expressway di tipo ideale; arteria di traffico libero e costante, economicamente solida, dotata di bellezza e fascino: una combinazione ideale”.

Nota: il testo di Benton MacKaye sul "road slum" citato, apparso su The New Republic nel 1930, è disponibile per chi fosse interessato anche in italiano, nella sezione "strade" del mio sito (fb).

Un articolo di G.C.Argan (Urbanistica e architettura, in Le arti, 1938, pp.365-73) e quello del Calzecchi (Urbanistica e Monumenti, in Costruzioni, n.165, 1941), mi inducono a qualche riflessione sui problemi da loro prospettati.

Il fatto che muove le molte discussioni su questo argomento è senza dubbio questo: l’accelerazione del processo sociale, con le complesse e urgenti trasformazioni di vita da esso implicate, pone molte delle nostre città onuste di storia di fronte alla necessità di modificazioni o adattamenti rapidi e sostanziali.

Non cade dubbio (per quanto, in troppi casi particolari, ci sarebbe assai da discutere ...) sulla legittimità delle esigenze di natura economica e sociale che sollecitano tali modificazioni nella struttura delle nostre vecchie città, ma non c’è neppure alcun dubbio sulla legittimità di tutelare e di risparmiare dalla distruzione edifici o ambienti storici, che non rappresentano soltanto delle entità artistiche o spirituali, ma sono altresì dei beni economici, valori insomma dei quali è compartecipe, in forme dirette o indirette, l’intera collettività.

E’ doloroso, è angoscioso il vedere come, nel passato e nel presente, l’incontro di queste due esigenze sia stato sentito tanto spesso con mancanza di responsabilità sociale; come si sian potuti produrre e si producano gli episodi di Milano, Bologna, Piacenza, Firenze, qualificati con tanto vigore e ragionevolezza dal Calzecchi nei loro aspetti non solo antiartistici, ma antiurbanistici; esempi ai quali si potrebbero aggiungere quelli di Padova, Torino, Napoli, Roma, Lucca, Brescia, Vicenza, e tanti, troppi altri.

Ciò spiega le preoccupazioni sempre più frequenti sia di definire la natura, i compiti e i limiti dell’Urbanistica, sia di sollecitare, proporre e attuare provvedimenti pratici capaci e adeguati alla risoluzione dei concreti problemi che si presentano nelle nostre città.

L’Argan si preoccupa soprattutto di dare una definizione d’indole generale dell’urbanistica nei confronti dell’architettura come arte. In sostanza, egli dice questo: l’urbanistica non è creazione propriamente artistica, ma problema di cultura e di metodo, cioè critico e storicistico. L’urbanista «deve individuare il valore dei diversi fatti storici, riconoscendone l’identica legittimità». Di fronte al fatto che le città non sono sorte secondo schemi unitari (come quelli ideali dell’Alberti o del Filarete), ma si sono storicamente configurate, ogni volta che si presenti il caso di necessità della coesistenza di antico e di moderno, l’urbanista, che è critico, come deve comportarsi? Premesso che «i caratteri economici dell’urbanistica sono da coordinare con quelli estetici» e che l’urbanistica, sempre in quanto critica, comprende il restauro, le conciliazioni ambientali e simili, l’urbanista, scartata la soluzione neoclassica, nella quale a parere dell’Argan ciascun organismo «è soltanto una funzione plastica relativa a un generale ordinamento prospettico», ed è perciò astratta, deve fare in modo da giungere alla «esistenza simultanea di diversi elementi architettonici in uno spazio costruito attraverso una prospettiva non più geometrica, ma mentale, che ogni contingenza riduca, se non all’unità suprema dell’arte, all’unità di quel piano di cultura e di gusto che legittima l’arte contemporanea».

L’Argan così si esprime perché ha in mente di confutare ancora una volta la mentalità, purtroppo non in tutti sorpassata, dei rifacimenti o completamenti «in stile», e vuol giustificare teoricamente la possibilità dell’inserzione di edifici od organismi nuovi in complessi antichi ed espressi da diversi gusti ed esigenze. Quanto all’argomento fondamentale al quale affida tale giustificazione, vale a dire la presunta «unità di quel piano di cultura e di gusto che legittima l’arte contemporanea», esso non può essere accettato, ad evidentiam, come un dato; ed esigerebbe per la convinzione ulteriori specificazioni. Direi anzi che possa essere un argomento di tal genere soltanto a patto di essere esaurientemente aperto e definito.

L’Argan inoltre restringe volontariamente il suo sforzo di chiarimento al problema esclusivamente estetico, e formulato in termini molto generali, della possibilità della architettura moderna di convivere in modi artisticamente legittimi con quella antica.

Per raggiungere questo risultato, si tratterebbe, se bene intendo il suo discorso assai involuto, di riportare sul piano ordinario di considerazione storico-critica, di gusto adeguato alla qualità intrinseca di ogni fenomeno artistico (col quale tutti noi reagiamo quando ci troviamo di fronte a un complesso ambientale o monumentale, isolandone idealmente, per la comprensione, le singole compiute espressioni formali), anche i fatti di coesistenza che avvengano ai nostri giorni fra architetture antiche e nuove. Una formazione urbana di coesistenza di antico e nuovo non dovrebbe esser così lasciata al caso, vale a dire che quella operazione di «prospettiva mentale» dovrebbe presiedere e non seguire alla formazione urbanistica; l’Argan si augura anzi che anche per l’architetto creatore che si trovi a inserire la sua opera in un ambiente artisticamente preformato, tale «dato urbanistico» o di «prospettiva mentale» sia premessa essenziale, sullo stesso piano dei dati naturali o sociali. Anche la riaffermazione di questo punto di vista, pur di sempre bisognevole ricordo nel suo limite particolare, è da considerare acquisita.

Il Calzecchi è in sostanza sullo stesso piano, ma anziché preoccuparsi di giustificare astrattamente la palese (se pure entro certe condizioni) possibilità di convivenza di antico e di nuovo, rileva ciò che è avvenuto in casi storicamente concreti. Non c’è bisogno di difendere o di assalire l’architettura moderna; meglio vedere, fuor di questa inutile polemica, che cosa avviene in realtà. Di regola, si osserva l’assoluta intolleranza (che non fu propria, in genere, degli architetti del passato) da parte degli ingegneri e architetti attuali per ogni coordinazione con le architetture o gli ambienti architettonici storici. Ciò produce, in nove casi su dieci, degli effetti gravissimamente dannosi sull’aspetto delle nostre città. Con l’aggravante che molto spesso, con questi interventi radicali, se si risolvono privati e privilegiati interessi, non si risolvono affatto quei problemi pratici - di traffico, di economia, di commercio, ecc. - in nome dei quali le discussioni e le ricostruzioni sono state attuate. Perciò, conclude il Calzecchi, se la conservazione dei monumenti artistici e degli antichi ambienti costituisce ancora un interesse materiale e ideale per la collettività, coloro che sono da essa demandati a esercitarne la tutela devono prima e più di ogni altro investirsi dei problemi pratici dell’urbanistica, affinché le riforme considerate necessarie nelle nostre vecchie città avvengano con un equilibrio che non comprometta, le une a scapito delle altre, né le ragioni storico-artistiche, né quelle economiche. Occorre perciò frustrare ogni interesse particolaristico, per tener conto soltanto, con responsabilità adeguata, dell’interesse comune.

Non si può ragionevolmente dissentire (tralasciamo di proposito punti secondari) da queste osservazioni principali dell’Argan e del Calzecchi, che confluiscono nel punto comune della salvaguardia necessaria dei monumenti e degli ambienti artistici e storici del passato, pure in coordinazione con le esigenze economiche e con la legittimità di espressioni architettoniche del nostro tempo. Da questa premessa è possibile dedurre una serie di norme di conciliazione, forzatamente più o meno elastiche, e specificamente negative, che possono limitare, correggere, coonestare, in certe condizioni, casi particolari. E sarebbe già, senza dubbio, un’acquisizione di notevole portata, e altamente augurabile in confronto a ciò che si vede.

Ma quel che si sente di insufficiente, di provvisorio, e direi di evasivo, nelle soluzioni proposte, deriva in sostanza dalla indeterminatezza in cui si lascia, come di solito, la nozione stessa di «urbanistica». Su questa, a mio parere, dovrebbe convergere lo sforzo di chiarimento, anziché accettarla ed usarla come un dato esterno, o di già sicuro e preciso adoperamento. Senza questo chiarimento, ogni integrazione che si tenti fra i problemi di architettura, antica o moderna, e quelli di urbanistica, manca allo scopo, per la genericità, la approssimazione o l’oscurità in cui è lasciato uno dei termini essenziali.

Quanto dico potrà maravigliare, chi pensi che sull’urbanistica esistono persino vasti e poderosi «Trattati». Tuttavia, anche riportandosi a questi, è facile osservare che il riferimento al concetto di urbanistica non passa mai, o quasi mai, alcune specificazioni tecniche, provvedimenti, proposte e soluzioni puntuali, lasciando nell’astratto o nell’indefinito la forza o le forze determinanti, fondamentalmente condizionali.

Le teorie più diffusamente emergenti e note della tecnologia urbanistica raggruppano, grosso modo, i problemi e i compiti urbanistici in alcuni punti:

1) Analisi dell’aspetto storico-artistico del piano e dell’alzato delle città (implicante la conservazione dei monumenti e dell’ambiente, talora del paesaggio), e fissazione dei criteri estetici andamentali delle trasformazioni edilizie e urbane.

2) Studio dei dati topografici locali e regionali, geografici, climatici, ecc.

3) Studio delle generatrici dei piani urbani, della «funzione urbana» e della «dinamica urbana», in rapporto alle determinanti economiche e politiche; stesura dei piani regolatori.

4) Studio della rete stradale, dei problemi del traffico, della tecnica dei servizi pubblici, ecc.

5) Identificazione dei centri di vita politica, religiosa, commerciale, amministrativa, tecnica, industriale, ecc., e distinzione delle parti funzionali dell’agglomerato urbano (stadi, parchi, zone industriali e annonarie, zone di abitazione e di riposo, comunicazioni, servizi, ecc.).

6) Studio delle esigenze di igiene urbana.

7) Sfruttamento dei dati statistici.

8) Legislazione.

9) Problemi di specifica tecnica edilizia.

10) Calcolo delle esigenze sociali, economiche, politiche, che motivano la trasformazione urbana.

Si badi che questo è un decalogo soltanto per caso: si potrebbe senza dubbio aggiungere qualcosa, qualche punto rifondere in un altro, e via. Qui si è voluto soltanto presentare, ricavandolo dalle stesse definizioni, l’insieme dei compiti riconosciuti come proprii e connecessari dagli urbanisti. Si noterà la loro latitudine, espressa anche dalle definizioni generali più correnti della «scienza urbanistica»: «complesso delle discipline che hanno per oggetto i vari aspetti della vita degli agglomerati urbani», o «studio generale delle condizioni, delle manifestazioni, e delle necessità di vita e di sviluppo delle città».

Tale latitudine non è in sé stessa illegittima, qualora si tenga fermo che quel «complesso di discipline» o «studio generale» vogliono soltanto esprimere gli oggetti specifici di preparazione tecnica, di competenza professionale dell’architetto urbanista. Si ritiene giustamente necessario che questi, prima di tracciare, ad esempio, un piano regolatore, consideri tale serie di problemi, e in relazione ad essi progetti ed attui provvedimenti correlativi.

Ma assumere questo insieme di asserzioni meramente tecnologiche come il concetto stesso di «urbanistica», o peggio riferirsi ad esse come a definizione di esauriente, pacifica chiarezza, non è legittimo. Ed è facile provarlo. Basti osservare ad esempio che, se i motivi sociali, economici e politici che originano le trasformazioni urbanistiche, e i mezzi per effettuare tali trasformazioni, possono essere sullo stesso piano nella mente e nell’attività tecnico-esecutiva dell’urbanista, non lo sono però in sé stessi, com’è evidente. Questa distinzione è necessaria.

Anzi, si può senz’altro affermare che, se la tecnica urbanistica, entro i limiti dello sviluppo e del progresso dei suoi mezzi, può rappresentare, in quanto tecnica, una costante, il fattore etico-politico è per eccellenza la variabile. Perciò, quando si consideri che l’importanza della variabile storica, del fattore etico-politico sulle realizzazioni tecniche è determinante, e che l’inverso non avviene (ne sia prova il fenomeno più vasto in questo senso: il carattere impresso all’architettura dalla vita economico-sociale negli Stati Uniti d’America), occorrerà dunque definire anzitutto, e con la massima chiarezza, il primo motore, l’insieme di forze sociali-economiche-politiche che pone e risolve il problema della trasformazione urbanistica. Dico risolve, perché il concreto risultato di una attuazione urbanistica può essere diversissimo, a seconda della qualità del fattore etico-politico che la informa. Non può cader dubbio, ripeto, sul fatto che sia la tecnica urbanistica ad adeguarsi in forme consone alla forza sociale storica che sollecita la trasformazione urbanistica.

Tutto questo mi pare semplice buon senso; ma prima di passare a illustrarlo con qualche sommaria esemplificazione, mi sembra utile ricapitolare i punti essenziali a cui si è giunti.

Parlare di urbanistica fuori di una determinata concezione etico-politica, non ha senso. L’urbanistica non è semplicemente una tecnica, per quanto, come ogni iniziativa spirituale e storica, abbia la sua necessaria tecnica. Qualunque sistematica che prescinda da questa proposizione è inetta, per astrazione, a contenere o a risolvere il problema, dimostrandosi soltanto come una guida o un programma tecnologico, per uso empirico.

In relazione poi ai saggi da cui siamo partiti, ritengo opportuno aggiungere queste obbiezioni, che non dirimono i punti giusti in essi contenuti, ma vogliono piuttosto integrarli e inverarli rispetto al problema qui posto.

Assorbire o isolare il problema urbanistico soltanto o prevalentemente nell’aspetto estetico (Argan-Calzecchi) è certo sempre utile, necessario a chiarirne ulteriormente alcune esigenze; ma limitarlo ad esso risulta parziale e insufficiente, rispetto alla totalità del fenomeno quale noi lo consideriamo qui. Giacché non mi sembra esauriente, anche in linea semplicemente «scientifica» o descrittiva, il dire: si è volontariamente limitata la nostra attenzione a risolvere un problema parziale; poiché di tale soluzione particolare si presuppone il raccordo con un ben chiaro concetto generale, che è appunto quello che a mia opinione non si può considerare tale. D’altro canto la critica dell’avvenuto e la sollecitazione di provvedimenti atti ad ovviare i lamentati errori (Calzecchi), dovrebbe logicamente sboccare in una proposta circostanziata di legislazione, per avere tutto il suo valore; altrimenti non si può che lottare sul terreno del provvisorio e del casuale, e senz’armi, o con armi diseguali; s’intende, rassegnandosi a risultati condegni.

Ma una proposta effettiva di legislazione non può basarsi su considerazioni di dettaglio, su circostanze parziali o fortuite, su particolari tecnici, su esigenze polemiche, su argomenti esclusivamente negativi o limitativi, non può implicare soltanto fatti o problemi frammentari. Anche basandosi sui rilievi fatti dall’Argan e dal Calzecchi, che pure restano validi e precisi, si finirebbe al più per restringersi a una regolamentazione, in cui il problema stesso della tutela non potrebbe essere risolto organicamente e positivamente nei suoi aspetti necessari; una soluzione piena o almeno sufficiente non può trovarsi, è evidente, fuori dalla correlazione con la definita qualità della innovazione urbanistica, dunque con il movente etico-politico di essa.

Dunque, una proposta effettiva di legislazione, in quanto vuol dare carattere esecutivo, organico e generale, a un insieme di principi ritenuti di comune interesse per la collettività, non può ignorare la forma dello stato, non può disinteressarsi dal definire quelle condizioni e fini, quella costituzione della socialità, che pongono in modi specifici il problema urbanistico.

Per convincersi della necessità di questa premessa, basti dare un’occhiata alle varie leggi in materia urbanistica che sono attive in Europa e in America: si vedrà che esse risultano, nella loro varietà, dalle forze e dalle tendenze delle varie forme di socialità. Diverse le concezioni e le realtà etico-politiche, diverse anche le concezioni urbanistiche. Anche se alcune, molte applicazioni o soluzioni tecniche dei problemi urbanistici sono simili o eguali, credo che sia tutt’altro che pacifico affermare, per esempio, che l’urbanistica sia simile o eguale in Inghilterra e in Germania, in Danimarca e in Bulgaria. Si intenda bene che le differenze non dipendono tanto dalla diversa (chiamiamola così) struttura naturale di quelle collettività, quanto da ciò che esse socialmente e politicamente sono, e intendono essere nel procedere storico del mondo. Mi sembra che torni ora opportuno, per maggiore chiarezza, mostrare con qualche esempio sommario la connessione fra l’urbanistica e il suo principio etico-politico. Ciò può farsi in due modi, cioè sia provando le nostre osservazioni su fenomeni storici o su realtà esistenti, sia verificandole in ordine a ipotesi o programmi di socialità, che per comodo di esposizione e con riguardo sufficiente alle esigenze del nostro problema particolare, fisseremo in forme estremamente riassuntive, comprensive quanto antitetiche, ma insieme caratteristiche.

Cominciamo dai primi. Consideriamo per esempio l’urbanistica in Germania dopo l’avvento al potere del regime hitleriano, e delle ideologie nazionalsocialiste. Al centro del problema urbanistico sono due elementi (si veda per tutto questo il volume del Wernert su L’Arte nel III Reich, 1936): gli edifici pubblici e le strade. Soltanto intorno a queste due affermazioni preminenti gravitano, subordinandosi ad esse, le altre innumeri esigenze dell’edilizia privata o collettiva: le quali, o sono state sottoposte ad alcune norme estetiche di carattere limitativo (che colpiscono, come è noto, alcune forme architettoniche sorte nel dopoguerra, indicate come non tedesche - e facile è vedere l’ingerenza di questi o simili provvedimenti nel problema urbanistico), o non sono state rinnovate con originalità di intenti e di mezzi (vedasi ad esempio il quartiere operaio di Britz, a Berlino). Sono state spesso sottolineate dai teorici e dai responsabili le ragioni di stato, politiche e militari, le quali hanno presieduto alla costruzione della rete autostradale di migliaia di chilometri, che ha subordinato alla sua effettuazione una quantità di problemi urbanistici relativi (questo, di fatto come di diritto), e condizionato persino la costituzione di un corpo di «Architekte der Landschaft». Senza voler più che accennare alla costruzione pur significativa di una quantità di grandissimi edifici statali o del partito N.S., richiesta dalla nuova conformazione dello Stato (e si ammetterà che tale attività edilizia, quando sia sistematica e vasta, incida spiccatamente sull’aspetto urbanistico), occorre menzionare però una serie di edifici e di organismi tipici, sorti in tutto il paese, necessari perché le masse popolari possano in modi adeguati ergersi in quelle unanimità di volontà, di sentimento e d’azione, che sono tanto caratteristiche dell’ordinamento della nuova Germania: enormi stadi, colossali arene e sale, giganteschi anfiteatri, e specialmente i «Thingstätte», destinati alle rappresentazioni di massa dei «Thingspiele», moltiplicatisi in tutta la Germania.

Si metta insieme tutto questo, si pensi agli «architetti di masse» del Ministero della Propaganda, che fissano e dispongono non solo i grandi spazi necessari, ma lo stesso ordinamento e allenamento periodico delle masse che in essi dovranno sfilare, disporsi, cantare inni, salutare, ascoltare i discorsi dei capi, nei riti e nelle cerimonie in cui il «Volksgenosse» si immerge nel sentimento della sua emanazione dal «Deutschtum»; si aggiungano tutte le implicazioni di varia natura recate da questo insieme di fatti e costumi, immediatamente e irrevocabilmente, sulla struttura della vita collettiva e urbana; e si comprenderà agevolmente che l’urbanistica, nel III Reich, ha questi caratteri in virtù della costituzione e della volontà dello Stato; né se ne possono considerare, almeno di valore sensibile o importante, di diversi.

E ora, cambiamo continente, trasportiamoci negli Stati Uniti d’America, e consideriamone alcuni fenomeni urbanistici altrettanto tipici (per i quali mi riferisco all’eccellente volumetto del Carbonara L’Architettura in America, 1939). Questo, come in genere tutti gli studi dedicati all’architettura americana, suggerisce intanto una osservazione preliminare, che ha il suo significato: non vi si parla mai di edifici «pubblici», intendendoli come quelli dove si concentra e si svolge la vita politica, governativa e amministrativa. Né in se stessi, né in quanto possano implicare un vivo problema urbanistico. Forme caratteristiche dell’architettura americana non sono queste, come non lo sono, per altro esempio, le chiese, ma sì le abitazioni, gli ospedali, le scuole, gli edifici per la produzione, il commercio, il consumo. E questo perché? Perché è caratteristica della vita sociale americana la riduzione delle attività di governo a meri servizi amministrativi, che non richiedono nessuna speciale affermazione, nessun prestigio. Ciò vuol dire anche, naturalmente, che nelle contingenze urbanistiche si tiene sempre pochissimo conto di questo fattore; al quale, invece, in altri paesi, ne vien dato uno assai elevato, quando non eminente.

Ma vediamo un fenomeno anche più caratteristico. E’ noto come gli americani, quando sentono e praticano in ogni ramo di attività sociale il «teamwork», la collaborazione nel lavoro, altrettanto conservano, per ragioni storiche ed etico-politiche, una vigorosissima volontà di libertà individuale, sia sotto forma di «self-governement», che di volontà di piena realizzazione ed espansione della propria vita. Ciò si riflette, urbanisticamente parlando, nella spiccata, insopprimibile tendenza generale degli americani a fruire di una casa individuale isolata: si calcola che negli Stati Uniti la percentuale di abitazioni di questo tipo oscilla fra il 40 e il 70% secondo i vari Stati, cifra di per se stessa enorme, e dimostrativa della profondità e della larghezza della esigenza. Ci sono poi altri sintomi significativi di questa volontà o tendenza generale. Fra essi, basti menzionare le sempre più larghe manifestazioni di opinione, che partono non solo dalle classi più interessate del popolo, ma dagli stessi industriali e da molti statisti, in pro del principio (che forse ha la sua lontana origine nel George) che il possesso della terra per la casa (come quello dell’aria, dell’acqua e dei suoi derivati, primo fra tutti l’elettricità) è un diritto primordiale di ogni uomo. Come si reagisca contro i vincoli storico-sociali che limitano ancor fortemente la possibilità di un simile possesso diretto, lo mostrano vari fatti di vasta portata: per esempio i villaggi numerosissimi di case mobili a rimorchio, la diffusione delle case prefabbricate montabili su terreni pubblici, e d’altro canto le iniziative del governo federale, e di costruire case adatte a persone di piccolo reddito, che nel limite dell’economia realizzino quei vantaggi di isolamento e di prossimità alla terra cui l’americano medio aspira, e di creare dei villaggi semirurali, le «greenbelt towns», collegate con mezzi di trasporto economici e rapidi coi grandi centri urbani e industriali. L’ideale-limite è la «Broadacre City Usonia» di F.L.Wright, che raccoglie e potenzia i bisogni e le tendenze diffuse in una visione anticipatrice, ma limpida e precisa, pratica. E, si badi, alla base di questo profondo rivolgimento, che va accentuando sempre più la sua pressione, non sono ideali astratti o ipotesi dottrinarie, ma convinzioni radicate di comune utilità economica. A questo proposito è significativo come, in nome del maggior rendimento della produzione industriale decentrata e autonoma e dell’osmosi diretta fra industria e agricoltura, i grandi capitani d’industria, come il Ford, coincidano con le aspirazioni degli operai e dei tecnici.

Non vi sarà bisogno d’altre citazioni e conferme, credo, per illustrare come l’insieme di queste aspirazioni, nell’articolazione complessa e vasta delle iniziative e dei mezzi multiformi, ponga e determini l’urbanistica americana secondo condizioni e soluzioni nettamente speciali. E si potrebbe continuare di questo passo citando altri esempi, da Kalun a Kharkow, da Lechtworth a Littoria; ma qui non si cerca l’abbondanza delle prove o dei riferimenti, ma soltanto quel che di essi è sufficiente per schiarire un concetto. D’altronde, si potrebbe far ricorso anche ad esempi assai più delimitati e parziali: mi limiterò a ricordare, a proposito della sistemazione del centro di Milano, alla quale il Calzecchi muove così appropriate e giuste critiche, che questo problema fu risolto in base a un concetto erroneo e impreciso, per allora e in seguito, che si ebbe dalla funzione della città e conseguentemente del suo «centro». A rileggere e a meditare ciò che scriveva il Cattaneo, quasi cent’anni fa, proprio su tal problema, ci si rende conto che la soluzione da lui proposta, mentre aveva per obbiettivo principale di risolvere un problema di ambiente architettonico, attingeva da considerazioni di natura economica dei limiti tali per cui, se anche tale soluzione fosse stata attuata, non avrebbe compromesso come la posteriore, lo sviluppo moderno, industriale e commerciale, della città. Giacché quella del Cattaneo non era una proposta - che allora era già stata fatta - di un centro permanente e determinante, ma di una semplice sistemazione intorno al monumento più significativo della città, il Duomo. Valutando bene le esigenze e possibilità attuali, si poteva poi incontrare con agio e libertà quelle probabili del processo storico; mentre le effettuazioni urbanistiche poi avvenute non ebbero (non conta che fossero proposte da professionisti architetti) che la giustificazione assai scarsa e di interessi privati, e di anacronistico prestigio, e di approssimativo estetismo.

Venendo alla seconda serie di esempi, sarà inutile distendervisi, dopo quanto si è detto finora. Grosso modo, parlando molto in generale come è lecito in questo caso, distinguiamo le forme di organizzazione sociale in due ipotesi-limite: chiameremo la prima, in cui si affermi particolarmente il principio di autorità dello stato, centrlistico-gerarchica, e la seconda, di criteri opposti, periferico-autonomistica. Nella concretezza della vita storica, non incontreremo forse mai forme così assolute e pure di socialità, naturalmente, per quanto elementi di esse compaiano su per giù in ogni Stato moderno; ma, come ripeto, a noi preme ora soltanto di persuadere che l’urbanistica non può prescindere dal fattore etico-politico, e perciò è lecito, nell’occorrenza, schematizzarlo. Non occorrerà spender parole per dimostrare che sia luna che l’altra di quelle possibilità di quelle possibilità di organizzazione sociale comporterebbero orientamenti e fenomeni (non solo nel campo strettamente politico, ma economico, amministrativo, culturale, privato, ecc.) tanto esclusivi quanto antitetici, e in ogni modo tali da implicare attuazioni urbanistiche, detto in senso più generale, altrettanto esclusive.

E’ chiaro allora che l’aspetto storico delle città, il traffico, il decentramento o l’accentramento, e simili, non hanno né possono avere quella autosufficienza generica che loro si conferisce (alla pari con tanti altri problemi e mezzi specificamente tecnico-esecutivi) nelle ordinarie trattazioni di urbanistica e nell’opinione comune. Essi acquistano significato e realtà soltanto in rapporto ai fattori etico-politici di cui sono espressione diretta; anzi, a parità di mezzi come a parità di problemi, le soluzioni urbanistiche - come si è anche storicamente mostrato - possono essere per questa ragione, nella loro essenza, diametralmente opposte.

Titolo originale: Town-Planning - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Sotto i migliori auspici, si è svolta questa settimana a Londra un’importante conferenza sull’Urbanistica. L’incontro è stato organizzato dal Royal Institute of British Architects, e lo sforzo è stato, crediamo, commisurato alle migliori tradizioni dell’Istituto. Anche se non si tratta in senso stretto del nostro campo, visto che l’urbanistica è, nel miglior senso del termine, questione di interese generale, crediamo ci sia consentito qualche commento in materia.

A guardare la grande, sbalorditiva raccolta di disegni appesi alle pareti della Burlington House, appare evidente come gli urbanisti possano essere classificati grosso modo come orientati a due linee particolari di lavoro. Alcuni concentrano i propri sforzi nell’abbellimento, trasformazione, glorificazione delle città esistenti; i membri dell’altro gruppo si applicano ai più quotidiani bisogni della gente. Se quest’ultima categoria è di origine relativamente recente e concentrata nelle nazioni di cultura Occidentale, per quanto riguarda la prima non c’è nulla di moderno. Si tratta semplicemente dello sviluppo moderno di un movimento, talvolta sbilanciato verso l’utilitarismo, talvolta verso lo spettacolare, che esiste dall’alba dei tempi.

L’ambizione dei moderni appartenenti a questa classe che aspirano a distinguersi, è di produrre piani generali che partono da un grande punto centrale, o da una serie di centri interconnessi. Questa idea è vecchia quasi come il mondo. Con tutta probabilità, il primo congresso di urbanistica di cui sono disponibili gli atti è quello tenuto “in una pianura nella terra di Shinar”, in cui la principale risoluzione prese forma nelle parole “Andiamo, e costruiamo una città e una torre ...”. Lo scopo principale di questa torre, richiedeva fosse facilmente accessibile da tutte le parti della città, così si può dedurre che le strade dovevano irradiarsi da essa in tutte le direzioni. È evidentemente un piano dominato da un elemento centrale, e il prototipo di molte delle idee di oggi. Ma questo movimento democratico originario non ebbe successo, e di conseguenza, fino a tempi relativamente recenti, l’urbanistica come movimento popolare rimase dormiente. Il lavoro comunque non si fermò, ma divenne, anziché movimento popolare, interesse per pochi.

Ci sono testimonianze di tentativi coronati dal successo, di fare urbanistica su grande o piccola scala in ogni parte del mondo: magnifiche concezioni di grandi menti, spesso realizzate in modo tanto grandioso da rimanere ancor oggi oggetti di ammirazione. I tesori degli imperi Greco e Romano spiccano, forse, più in alto, e formano i resti di piani che, tenendo conto delle condizioni dell’epoca in cui si sono evoluti, erano probabilmente insuperabili. Le prodigiose idee dell’Antico Egitto sono fonte incessante di meraviglie. E gli esempi non si limitano a queste terre. Hanno avuto spazio in tutti i paesi dove ha posato piede la civiltà. Nonostante il piano di tipo Orientale di regola sia organizzato da un differente punto di vista e il risultato di conseguenza radicalmente diverso da quello Occidentale, alcuni degli esempi dell’Est sono comunque magnifici. Nei resti di Fatehpur Sikri, la grande creazione di Akbar, il cui desiderio era di farne una capitale degna delle pompe di corte, ci sono alte concezioni, che pochi uomini oserebbero tentare di mettere in pratica. Il felice trattamento del forte a Agra, l’area circostante il Taj Mahal, o i domini della moschea di Aurungzeb a Benares, sono ciascuno a modo proprio dei successi. Nelo stesso modo, la China può vantare grandi risultati, mentre il Giappone mostra nelle varie epoche città di grande splendore, pianificate in modo pratico e realizzate durante il breve periodo della vita di singoli promotori. Per esempio, Kamakura, costruita dal grande Shogun Yoritomo, era famosa per la sua magnificienza tanto quanto Osaka, realizzata più tardi dall’eroe nazionale, Hideyoshi, e famosa per la sua dimensione e i grandiosi edifici. Ma col passare del tempo e l’ascesa e declino delle dinastie, queste città, originate e realizzate per il capriccio di dittatori, sono o completamente cambiate in carattere, o hanno seguito la sorte dei loro grandi fondatori. La solidità dell’Egitto sta sepolta in un sudario di sabbia e macerie. Le glorie di Babilonia e Ninive sono svanite. I palazzi dell’India sono deserti. L’imponente splendore della corte di Akbar, per qualche ragione mai scoperta, si ritirò dalla città su cui aveva riversato tanta copia di pensieri, già durante la vita del suo fondatore, e ora il luogo è silenzionso come il suo mausoleo a Sikundra. Dell’orgoglio di Kamakura resta poco più di qualche viale, e il famoso Daibutsu, mentre le glorie di Osaka ora sono coperte dalla più vasta messe di ciminiere che si possa trovare in un paese dell’Oriente.

Ma se molte famose opere sono ora relegate nell’oscurità, lo spirito dura ancora. Anche se non arriva da padroni oppressori, o da despoti benevoli, la pianificazione su vasta scala è ancora un lavoro apprezzato. La modificazione delle città esistenti attrae gli architetti tanto quanto la progettazione di nuove, e apre un campo tanto vasto da non porre alcun limite all’immaginazione. È una cosa abbastanza facile riprogettare, per esempio, tutta Londra su un tavolo da disegno, cancellando con una gomma tutte le zone congestionate, e disegnare al loro posto ampi viali fiancheggiati da imponenti masse di edifici. È piuttosto facile sognare grandi prospettive, o lasciar vagare la fantasia a risistemare parchi e rive. Questi esercizi sono interessanti, ma non sono in nessun modo una cosa nuova; solo a Londra se ne sono fatti innumerevoli. I suggerimenti di Wren da questo punto di vista sono ben noti, e i piani elaboratamente concepiti da Sir John Soane per abbellire la Metropoli sono ancora conservati al museo di Lincoln’s Inn Fields. Ma i progetti di Soane fecero la stessa fine di altri, precedenti e successivi, e per la stessa ragione. La trasformazione della città è soprattutto un problema di spesa, e gli aspetti pratici di qualunque proposta devono necessariamente essere considerati. Nei tempi antichi non era difficile emanare un editto che ordinava, se necessario, la spietata distruzione di interi quartieri, se stavano ad ostacolare trasformazioni che qualche signore aveva preso a cuore. Oggi le cose sono diverse. Bisogna prendere in considerazione il trasferimento degli abitanti, e l’intero piano deve essere organizzato con dovuta attenzione alle proprietà. Non mancano certo, esempi di miglioramenti che diventano alla fine un problema, e di errori di giudizio simili commessi da importanti uffici.

Nelle questioni di riforma urbana, sembra operino due scuole di pensiero. Qualcuno sarà orientato ad ottenere strade ampie e dritte, e per questo scopo, nel suo sognante entusiasmo, si scaverà un percorso (sul tavolo da disegno) attraverso aree edificate, senza riguardi per le spese, col solo obiettivo di ottenere una “bella prospettiva” che termina in un capolavoro di architettura monumentale. Qualcun altro, insisterà sulla conservazione degli edifici antichi, con l’opinione che non si tratti mai di ostacoli allo sviluppo, salvo che nella mante di chi li considera tali. Il Professor Baldwin Brown chiama i piani del primo tipo “ clean slate and paper projects”, e crede che i monumenti storici debbano essere il punto centrale, con i piani a svilupparsi attorno ad essi. Qui, naturalmente, siamo di fronte alla discussione su cosa sia un monumento storico. Nelle grandi città, ci possono anche essere le condizioni per avere un’opinione esperta sul tema, ma cosa possono fare le piccole? Non esiste un’autorità centrale per giudicare, e gli amministratori locali, per quanto possano essere persone di valore, nella maggior parte dei casi non hanno alcun concetto dei valori archeologici, né degli aspetti artistici. Probabilmente, è per dare un aiuto in questi casi che Mr. Leonard Stokes, Presidente della Royal Institution of British Architects, negli ultimi giorni, ha sostenuto l’idea del despota benevolo che direbbe: “È cosa giusta, e sarà fatta”, o “Diventerà necessario fra non molto, e bisogna provvedere”. Nei progetti famosi del passato, il responsabile è stato in gran parte un singolo individuo. Ora, soffriamo il mescolarsi di molte e non allenate personalità. Nei tempi passati, gli urbanisti erano gli stessi signori: uomini di grandi idee. Ora quel lavoro è lasciato alle decisioni di uomini comuni. Un tempo i “si” e i “no” dell’urbanista erano assoluti, ma chi troverebbe un censore in grado di misurarsi coi bisogni moderni? Ma di un’autorità del genere esiste il bisogno quando, in mancanza di cognizioni e gusto, le città diventano tanto orribili nel cosiddetto interesse della comunità.

Il desiderio di una lunga prospettiva spesso supera, nei piani degli entusiasti, altre considerazioni che dovrebbero avere un certo peso. E spesso il rischio è di esserne poi travolti. Qui a Londra, che tanto spesso è oggetto di piani di trasformazione, l’atmosfera della città non è molto adatta a magnifiche lontananze. Le brevi distanze qui vanno molto lontano, e se le strade ampie sono da apprezzarsi in qualunque modo, l’idea che ne ha di solito l’artista o architetto assorto nella creazione sul suo tavolo da disegno può essere molto diversa da quella, pratica, di quello che è “l’uomo della strada”. Una via diritta può perdere la sua bellezza se è troppo lunga, e nello stesso modo non è possibile obiettare a nessun cambio di direzione, se è ben studiato. Se una curva è organizzata a largo raggio, e chiamata “ fine sweep”, può anche essere accettata da i più esigenti, come una delle migliori scelte d’effetto. Si può osservare, come spesso si fa, che la strada dritta è la migliore perché rappresenta quella più breve fra due punti dati. Ma questo è vero solo quando accade che i due punti si trovino sulla strada in questione. Come ognuno sa, le città degli Stati Uniti sono organizzate per blocchi rettangolari senza, di solito, nessuna strada diagonale. L’idea è la semplicità in persona. Non c’è niente di più facile per ricordarsi le direzioni: “Tanti isolati dritto e poi tanti isolati a destra o a sinistra”. Ma non ci sono scorciatoie, bisogna sempre aver a che fare con i due lati di un triangolo, e da qui deriva l’uso frequente del tram, da e per il centro, con il suo biglietto a tariffa urbana, per distanze che noi ci vergogneremmo di percorrere se non a piedi.

Oggigiorno, gli Stati Uniti si vantano di possedere una scuola di progettazione urbana in cui la pianificazione spettacolare di ampi spazi è paragonabile solo alle dimensioni del paese. Non si esita davanti alle più radicali trasformazioni, e non sono rari i piani per la completa riforma di intere città. Sulle pareti della Burlington House si possono ora vedere disegni provenienti dall’America, su spazi progettati e rappresentati su questa immensa scala. Come esempi di abilità in entrambe queste direzioni, i disegni sono piuttosto eloquenti, e di particolare efficacia quelli di Mr. Jules Guerin. Qui, la Chicago che sarà giace distesa ai nostri piedi, con magnifiche strade e viali, una superba costa a parco, con ampie propaggini protese dentro il lago a formare il porto. Questa scala di progettazione, bisogna ammetterlo, non deve sorprendere in un paese dove si intraprendono ricostruzioni come quelle delle stazioni di New York.Per apprezzare in pieno le proposte in mostra alla Burlington House bisogna avere una visuale a volo d’uccello sulla città. Pochi, al livello del suolo, potrebbero sperare di cogliere l’idea. Un’idea grandiosa, ma dopotutto le belezze dovrebbero essere anche commisurate in qualche modo alla nostra vita. Quando le cose diventano troppo vaste sono anche un po’ noiose, e all fine opprimenti.

Se questi piani si devono valutare a volo d’uccello (un punto di vista che, nella vita, pochi uomini sono in condizione di sperimentare) perché la loro bellezza possa dispiegarsi, Mr. J. Burns dovrebbe farci salire in cima al Monument per vedere quanto siano brutte certe parti di Londra. La postazione è certamente ottima per alcuni scopi, ma se si deve riprogettare Londra perché appaia bella sia sopra che sotto il livello del terreno, oltre che dall’alto, non è necessaria solo un’ideale lavagna pulita, ma prima di qualunque altra cosa gli architetti dovrebbeo imparare daccapo come confrontarsi con coperture e retri, cortili e camini, per cui ora non si fa niente di utile. Non c’è dubbio, che si possa far molto per rendere Londra migliore, più bella, più adatta ad una vita sana, ma cosa sia meglio fare è difficile da decidere. È facile parlare in generale, raccomandare l’abolizione delle stazioni di testa dalla zona della Metropoli, o la soppressione dei viadotti ferroviari, l’apertura di ampie strade, e via dicendo. Ma questi, e altri piani di maggior utilità, sono possibili sono spendendo grosse cifre di denaro pubblico, la cui erogazione non può avvenire senza la garanzia di adeguati ritorni. La ri-pianificazione (sic) delle città esistenti può anche essere un problema relativamente facile, per gli architetti. Nella pratica, le possibilità di ricostruzione sono limitate dalla capacità delle amministrazioni di sostenere il relativo carico economico. Le strade ampie da sole non risolvono il problema. La famigerata Bowery di New York è un po’ difficile da definire come ampia via, e il nostro East End fornisce un esempio simile di grandi strade progettate su ampia scala, e fiancheggiate da case in cui le condizioni di vita sono ben lontane dagli ideali a cui mirano i riformatori urbani.

Detto questo, bisogna aggiungere che è stato fatto molto a Londra in termini di ricostruzione, e che molte altre città d’Inghilterra sono eminenti esempi sia di pianificazione generale che di ri-pianificazione; ad esempio, Bath, che può vantarsi di una vasta e illuminata progettazione. Ma molto resta ancora da fare. Non si potrebbe forse trovare una città più adatta per incominciare, di quella resa familiare da George Eliot col nome di St. Ogg’s. A St. Ogg’s le strade non sono che una serie di strettoie, tortuose e squallide, mentre nascoste all’interno giacciono, fra spianate terrose e mattoni sgretolati, stanno se non gemme di architettura almeno tesori archeologici, in forma di antiche sale che risalgono ai tempi di John of Gaunt, o come dice qualcuno a epoche precedenti, Normanna o Sassone.

Qualche volta, l’opportunità di una ricostruzione può venire da una grave calamità. Casi di questo tipo sono numerosi, anche ai tempi nostri. L’occasione però, bisogna ammetterlo, non sempre è stata colta. Ma di regola una ricostruzione può procedere solo lentamente e con cautela. D’altra parte, le aree urbane esterne sono più plasmabili nel verso giusto, e qui si dovrebbero incoraggiare le costruzione secondo linee salubri e di ampie vedute. Quando si pensa che, secondo Mr. J. Burns, ogni quindici anni in questo paese si aggiungono aree urbane per una dimensione pari a quella del Buckinghamshire, si capirà l’importanza di questo problema. Si è iniziato un movimento salutare, e in questo non siamo secondi a nessuno nel Continente negli sforzi per offrire agli abitanti un ambiente di vita migliore. Gli esempi di questi sforzi appesi alla pareti della Royal Academy, sono vari. Comprendono le città giardino d’England, e per l’estero si va dal progetto per Kalgoorlie agli schemi della nuova Khartoum, da Prince Rupert in Canada ai Cinnamon Gardens di Colombo, alle periferie di Singapore. E se chi ne è in grado sta per essere fornito di un ambiente migliore e più aperto che in passato, per la vita di uomini e donne, è anche giusto che chi non sa farlo da solo sia assistito in una direzione simile. Quindi è del tutto coerente con gli ideali del movimento, se sulle pareti della Burlington House appaiono progetti per una città giardino dei ragazzi. Questa idea, ora sviluppata in pieno, è il risultato di una lunga esperienza al villaggio per ragazze del Dr. Barnardo a Barkingside. Il nuovo villaggio per ragazzi consisterà di 28 case su 20 ettari di terreno a Woodford Bridge (un contrasto, rispetto ai grandi isolati della Stepney Causeway). Il progetti sono dell’architetto W. A. Pite, che ha così avuto il privilegio di ideare uno dei migliori villaggi giardino in corso di realizzazione. Il piano merita successo, perché ad esempio invece di cambiare vita quando le abitudini sono già formate, si parte già da giovani con un’idea nuova, e nessuno dubita che salutari principi di vita possano essere instillati nei giovani che vivono in un ambiente del genere, piuttosto che nell’East End di London, facendoli così cittadini migliori di quanto avrebbero altrimenti avuto la possibilità di essere.

Nota: La versione originale di questo testo (insieme a molti altri preziosi contributi storici) è disponibile al sito gestito dal professor John Reps alla Cornell University . Per qualche comparazione, storica e non, consiglio di vedere, almeno su questa stessa sezione di Eddyburg, i testi di Patrick Abercrombie del 1910 su Chicago e Washington, e l'excursus storico-urbanistico nella "voce" enciclopedica curata da Giovanni Astengo (fb)

Chi siamo, dove andiamo, cosa vogliamo? Sembra un dilemma degno del migliore Snoopy, nel bel mezzo della sua notte buia e tempestosa, e invece è una domanda che forse bisognerebbe farsi più spesso. Una domanda in buona parte alla base del singolarissimo “progetto di pianificazione regionale” di Benton MacKaye proposto di seguito. Un testo forse troppo poco conosciuto in Italia, ma che ad esempio già trent’anni or sono Francesco Dal Co definiva “originale sintesi tra la sorgente scienza regionalista e la “filosofia della natura” del pensiero trascendentalista” . Forse fin troppo originale, verrebbe da dire, e soprattutto antitetico al filone principale e vincente del pensiero legato alla pianificazione territoriale: non propone sistemi più efficienti per la residenza, la produzione, i trasporti, ma un diverso rapporto fra tempo di lavoro e tempo liberato, fra produzione e natura, fra individuo e società. Detto in estrema sintesi, questo filone di pensiero regionalista, che discende logicamente da Patrick Geddes anche se con particolarissimi accenti americani, è lontano mille miglia dalla logica efficientista che negli stessi anni Venti vede svilupparsi questa branca della pianificazione territoriale soprattutto al servizio dell’efficienza produttiva metropolitana: dal bacino carbonifero della Ruhr, ai primi studi di Raymond Unwin sulla Greater London, al piano regionale di New York coordinato da Thomas Adams, tutti i maggiori sforzi metodologici e organizzativi si focalizzano sulla “produzione di ricchezza”. MacKaye si sofferma invece a chiedersi: che ce ne facciamo adesso, di tutta questa ricchezza?

Naturalmente c’è molto di più, nel suo breve “progetto di pianificazione regionale”, a partire dal trauma della guerra mondiale appena finita, dal dramma della disoccupazione e del parallelo spopolamento delle campagne, e conseguenti dissesti (frane, inondazioni). C’è anche un’idea socialista di sviluppo, in un’epoca in cui la parola non suona vagamente oscena all’orecchio americano, per cui curiosamente in questo 1921 si usa in modo ripetuto lo slogan New Deal . C’è soprattutto, la consapevolezza di parlare di una piccola cosa come i campi da “giovani esploratori”, ma dal piccolo spunto nasce un ragionamento complesso, che si conclude significativamente con un dilemma pure tipico di questi anni: abbiamo evocato forze gigantesche, dove e come le vogliamo guidare? MacKaye, e più tardi insieme a lui i compagni della Regional Planning Association of America , evocano in qualche modo l’idea di Ebenezer Howard, di preparare gli spazi fisici ad una più libera società del futuro. Contemporaneamente, oltre oceano, un architetto svizzero con grandi capacità di comunicazione sta guardando dall’alto del suo ufficio le stesse, grandi forze dormienti della metropoli e della società. Anche lui ha una ricetta per trasformare quegli spazi. Ma questa è un’altra storia. (fb)

Un sentiero sugli Appalachi. Progetto di pianificazione regionale, Journal of the American Institute of Architects, ottobre 1921 (An Appalachian Trail: a Project in Regional Planning, traduzione di Fabrizio Bottini)

Qualcosa è cresciuto, in questi anni duri, qualcosa che nel frastuono della guerra è andato perso per la consapevolezza pubblica. È il lento e calmo svilupparsi dei campi per il tempo libero. Non si tratta di qualcosa di urbano, né di rurale. Sfugge all’attivismo dell’uno, e alla solitudine dell’altro. Sfugge anche alla maledizione, comune ad entrambi: l’alta tensione della lotta economica. Qualunque comunità affronta un problema “economico”, in vari modi. Il campo lo affronta attraverso la cooperazione e il mutuo aiuto, altri attraverso la competizione e la mutua spoliazione.

Noi esseri civilizzati, urbani o rurali, siamo potenzialmente indifesi, some canarini in gabbia. La capacità di confrontarci direttamente con la natura, senza il riparo della confortante barriera della civilizzazione, è uno dei consapevoli bisogni dei tempi moderni. È lo scopo del movimento degli “esploratori”. Non che si voglia tornare allo stato dei nostri antenati del Paleolitico. Noi vogliamo la forza del progresso senza le sue miserie. Vogliamo le comodità senza le vanità. La capacità di dormire e cucinare all’aperto è un buon passo in avanti. Ma lo “scouting” non deve fermarsi qui. Si tratta solo di un finto passo fuori dalla nostra condizione di canarini. Bisogna colpire molto più a fondo di così. Dovremmo ricercare la capacità non solo di cucinare il cibo, ma di raccoglierlo con meno aiuti – e meno intralci – dalle complessità del commercio. E tutto questo sta diventando giorno per giorno di importanza pratica crescente. Praticare lo “scouting”, dunque, ha connessioni naturali con il problema della vita.

Un nuovo approccio al Problema della Vita

Il problema del vivere, alla base, è un problema economico. E questo da solo è brutto abbastanza, anche in un periodo di cosiddetta “normalità”. Ma la vita è stata considerevolmente complicata ultimamente, in vari modi: dalla guerra, da problemi di libertà personali, e da “minacce” di un tipo o dell’altro. Si sono creati aspri antagonismi. Stiamo subendo la pessima miscela di alti prezzi e disoccupazione. È una condizione mondiale: risultato di una guerra mondiale.

Lo scopo di questo breve articolo non è quello di soffermarsi al livello di queste grandi questioni. La cosa più vicina ad una sfacciataggine del genere, sarà quella di suggerire posti a sedere più comodi e più aria fresca per coloro che devono affrontarle. Un grande professore una volta disse che “l’ottimismo è ossigeno”. Stiamo caricandoci di tutto l’ossigeno possibile, per il grande compito che ci sta davanti?

”Aspettiamo” ci dicono, “fin quando sarà risolto questo maledetto problema del lavoro. Poi avremo tutto l’agio di fare grandi cose”.

Ma supponete che mentre stiamo aspettando, l’occasione per fare sia passata?

Non c’è bisogno di dirlo, che dovremmo lavorare sul problema del lavoro. Non solo la questione “capitale e lavoro”, ma il vero problema del lavoro: come ridurre l’ingrata fatica quotidiana. Sforzi e fatiche della vita dovrebbero, aumentando gli apparecchi che risparmiano lavoro, formare una porzione sempre minore della giornata e dell’anno lavorativo medio. Tempo libero e fini più alti dovrebbero formare una porzione crescente della nostra vita.

Ma questo tempo libero, significherà davvero qualcosa di “più alto”? È una bella domanda. L’arrivo del tempo libero creerà da solo un problema: si “risolve” quello del lavoro, e nasce quello del tempo libero. Sembra non ci sia scampo, dai problemi. Abbiamo trascurato di migliorare il tempo libero che sarebbe nostro come risultato della sostituzione di pietra e bronzo con ferro e vapore. Molto probabilmente siamo stati imbrogliati sulla massa di questo tempo libero. L’efficienza dell’industria moderna è stata collocata al 25 per cento delle sue ragionevoli possibilità. Può essere una stima troppo alta, o troppo bassa. Ma il tempo libero che riusciamo ad avere, è forse utilizzato secondo un’efficienza più alta?

L’approccio comune al problema del vivere si rapporta al lavoro piuttosto che al gioco. Possiamo aumentare l’efficienza del nostro tempo di lavoro? Possiamo risolvere il problema del lavoro? Se si, possiamo ampliare le opportunità per il tempo libero. Un approccio nuovo, invertirebbe questo processo. Possiamo incrementare l’efficienza del nostro tempo disponibile? Possiamo sviluppare le opportunità del tempo libero come aiuto per risolvere il problema del lavoro?

Un’energia non sfruttata: il nostro tempo disponibile

Quanto tempo abbiamo a disposizione, e quanto potere esso rappresenta?

La grande massa del popolo che lavora – lavoratori dell’industria, dell’agricoltura, casalinghe – non hanno tempo messo da parte per “vacanze”. L’impiegato di solito ha un permesso di due settimane, pagato, ogni anno. Gli impiegati del Governo hanno trenta giorni. Gli uomini d’affari abitualmente si concedono due settimane o un mese. I coltivatori possono stare lontani dal lavoro per una settimana o più alla volta, sostituendosi l’un l’altro. Le casalinghe possono fare lo stesso.

Per quanto riguarda il lavoratore dell’industria – in fabbrica o in miniera – la sua “vacanza” media è sin troppo lunga. Dato che è “congedo senza stipendio”. Secondo recenti statistiche ufficiali, il lavoratore industriale medio degli Stati Uniti, in tempi normali, è impegnato circa quattro quinti del tempo: diciamo 42 settimane l’anno. Le altre dieci settimane è occupato a cercare occupazione.

Proporzionalmente il tempo davvero disponibile per l’Americano medio adulto appare, quindi, davvero scarso. Ma una buona quantità ha a disposizione (o si prende) circa due settimane l’anno. Il lavoratore industriale durante le stimate dieci settimane fra i due lavori deve naturalmente continuare a vivere e mangiare. I suoi risparmi possono consentirgli di farlo senza eccessive preoccupazioni. Potrebbe, se si sentisse di risparmiare tempo dalla sua caccia al lavoro, e se fossero disponibili strutture adatte, passare due delle sue dieci settimane in una vera vacanza. In un modo o nell’altro, quindi, l’adulto medio in questo paese potrebbe dedicare ogni anno un periodo di circa due settimane a fare cose di sua scelta.

Qui c’è un enorme energia non sfruttata: il tempo disponibile della popolazione. Supponiamo che anche solo l’un per cento fosse dedicato a uno scopo particolare, come l’aumento delle strutture per la vita comune all’aria aperta. Si tratterebbe di più di un milione di persone, che rappresentano oltre due milioni di settimane all’anno. È l’equivalente di 40.000 persone occupate a tempo pieno.

Una base da campo strategica: la linea degli Appalachi

Dove potrebbe, questa forza imponente, fissare il suo campo strategico? I terreni da campo, naturalmente, hanno bisogno di zone naturali. Fortunatamente in America ce ne sono ancora disponibili. Sono zone non costruite, o poco costruite. Eccetto negli Stati Centrali le aree che rimangono naturali sono per la maggior parte fra le catene montuose: Sierras, Cascades, Montagne Rocciose a ovest, e i Monti Appalachi a est.

In varie aree del paese sono state destinate ampie zone all’uso per campeggi e altri scopi simili. Molte di queste sono nell’ovest, dove si collocano ampie zone di proprietà dello Zio Sam. Sono lo Yosemite, lo Yellowstone e altri Parchi Nazionali, che coprono circa due milioni e mezzo di ettari. È stato compiuto uno splendido lavoro, adattando questi parchi all’uso. Anche il sistema delle Foreste Nazionali, che copre circa cinquanta milioni di ettari – principalmente all’ovest – è attrezzato a scopi di tempo libero.

È stato attivato un grande servizio pubblico in questi Parchi e Foreste, per la vita all’aria aperta. Sono stati chiamati “campi da gioco per il popolo”. E lo sono, per la gente dell’ovest, e per quelli dell’est che si possono permettere tempo e soldi per un lungo viaggio in una carrozza Pullmann. Ma i terreni da campo, per essere della massima utilità alla gente, dovrebbero essere il più vicini possibile ai centri di popolazione. E questo significa all’Est.

Accade fortunatamente che ci sia, lungo la parte più popolata degli Stati Uniti, una fascia piuttosto continua di terreni poco edificati. Sono contenuti entro una serie di catene che formano i Monti Appalachi. Parecchie aree di Foresta Nazionale sono state acquisite in questa fascia. Le montagne, che in parecchie occasioni possono competere con i panorami dell’Ovest, stanno a un giorno di viaggio da centri che contengono più di metà della popolazione degli Stati Uniti. La regione si estende attraverso i climi del New England e della cotton belt; comprende popoli e ambienti del Nord e del Sud.

La linea del crinale teorico degli Appalachi si affaccia sulla maggior parte delle attività nazionali. Le aspre terre di questo crinale formano la base strategica per un campo nazionale del gioco e del lavoro.

Pensiamo ad un gigante, ritto sul crinale di queste montagne, con la testa che sfiora le nuvole fluttuanti. Cosa vedrebbe dal suo punto di osservazione, passeggiando per tutta la lunghezza della catena da nord a sud?

Partendo dal Monte Washington, il punto più settentrionale a nord-est, l’orizzonte mostra uno degli antichi territori di caccia degli Stati Uniti, i “Northwoods”, terra di abeti puntuti che si estende dai laghi e fiumi del Maine settentrionale a quelli degli Adirondacks. Passando attraverso le Green Mountains e i Berkshires fino ai Catskills, il gigante vedrebbe per la prima volta l’est affollato: una catena di fumose città-alveare che si estende da Boston a Washington e contiene un terzo della popolazione dello spartiacque Appalachi. Oltre il Delaware Water Gap e il Susquehanna, sulle pittoresche pieghe degli Alleghany oltre la Pennsylvania, noterà altre colonne di fumo: i grandi impianti fra Scranton e Pittsburgh che sputano la materia base dell’industria moderna, ferro e carbone. Per contrasto e respiro, passa oltre il Potomac vicino a Harpers Ferry, e si spinge nei boschi selvaggi degli Appalachi meridionali, dove trova conservati molti degli aspetti dei tempi di Daniel Boone. Qui trova insieme sul Monogehela il carbone nero del bitume e quello bianco dell’energia idrica. Continua lungo la grande divisione dell’Ohio superiore, e vede scorrere acque infinite, a volte in terribili inondazioni, acque capaci di generare immense energie idroelettriche e di portare la navigazione verso corsi d’acqua minori. Guarda oltre il Natural Bridge e sui campi di battaglia attorno a Appomatox. Si trova infine nel mezzo della grande fascia boscosa di Carolina. Ora sta in cima al Mount Mitchell, il punto più alto a est delle Montagne Rocciose, e conta sulle sue lunghe e grandi dita le opportunità che ancora aspettano di essere colte, lungo la linea di crinale che ha appena percorso.

Per prime, annota le possibilità per il tempo libero. Lungo gli Appalachi Meridionali, lungo i Northwoods, e anche lungo gli Alleghanies che serpeggiano fra le fumose città industriali di Pennsylvania, vede ampie aree di foreste intatte, terre a pascoli, corsi d’acqua, che con attrezzature adeguate e tutela potrebbero far respirare una vera vita agli sgobboni delle città alveare lungo la costa Atlantica e altrove.

Per seconde, annota le possibilità per la salute e il recupero. L’ossigeno nell’aria di montagna lungo il crinale degli Appalachi è una risorsa naturale (e una risorsa nazionale) che irraggia verso il cielo il suoi enormi poteri salutari, di cui solo una piccolissima percentuale è usata per il recupero umano. È una risorsa che potrebbe salvare migliaia di vite. I sofferenti di tubercolosi, anemia, malattie mentali, attraversano l’intero spettro della società umana. Molti di loro sono senza prospettive, anche quelli economicamente garantiti. Stanno in città, e anche in campagna. Perché il coltivatore, e specialmente la moglie del coltivatore, non sfugge allo stritolamento della vita moderna.

La maggior parte dei sanatori esistenti sono perfettamente inutili per coloro che soffrono di malattie mentali: le più terribili, di solito, fra le malattie. Molti di questi malati potrebbero essere curati. Ma non solo attraverso una “terapia”. Hanno bisogno di ettari, non di medicine. Migliaia di ettari di queste terre di montagna dovrebbero essere dedicati a loro, e intere cittadine r progettate e attrezzate per le cure.

Subito dopo le possibilità per il tempo libero e le cure, il nostro gigante annota, come terza grande risorsa, le possibilità della fascia degli Appalachi per l’occupazione sulla terra. Questo solleva un problema che sta diventando urgente, grave e prioritario: la redistribuzione della popolazione.

La popolazione rurale degli Stati Uniti, e degli Stati Orientali adiacenti agli Appalachi, è ora scesa sotto quella rurale. Per l’intero paese è crollata dal 60 per cento del totale nel 1900, al 49 per cento nel 1920; per gli Stati Orientali è caduta, nello stesso periodo, dal 55 al 45 per cento. Nel frattempo l’area pro capite di terra coltivata è scivolata, negli Stati Orientali, da 1,35 ettari a meno di 1 ettaro. È un restringimento di circa il 28 per cento in 20 anni: negli Stati dal Maine alla Pennsylvania è stato del 40 per cento.

Nella fascia degli Appalachi ci sono probabilmente 10 milioni di ettari di pascoli e terre agricole che aspettano di essere messi a frutto. Qui c’è spazio per un’intera nuova popolazione rurale. Qui c’è un’opportunità – se solo se ne potesse trovare il modo – per quella contro-migrazione dalla città alla campagna che si è tanto spesso invocata. Ma il nostro gigante che riflette su questa risorsa è abbastanza giudizioso per sapere che il suo uso dipende da un nuovo patto per il sistema agrario. Lo sa se si è mai chinato a dare uno sguardo agli occhi infossati del “cracker” in Carolina, o dello “hayseed” nelle montagne verdi.

Il territorio a foreste, come quello agricolo, potrebbe dimostrarsi un’opportunità per l’impiego permanente all’aria aperta. Ma ancora ciò dipende da un nuovo patto. La forestazione deve sostituire la devastazione dei tagli indiscriminati per legname, e la conseguente occupazione occasionale. E questo il gigante lo sa se ha guardato ai taglialegna senza fissa dimora “non me ne frega niente” dei Northwoods.

Queste sono le visuali, queste le opportunità, viste dallo spirito osservante dal crinale degli Appalachi.

Le potenzialità di un nuovo approccio

Poniamo ora all’osservatore saggio e preparato la particolare questione che ci sta di fronte: quali sono le possibilità di un nuovo approccio al problema della vita? È praticabile, e vale lo sforzo, lo sviluppo di una vita comunitaria all’aperto, come uscita e pausa dalle varie pastoie della civilizzazione commerciale? Dall’esperienza di osservazioni e riflessioni sul crinale, ora è possibile dare una risposta.

Ci sono parecchi possibili guadagni, da un approccio simile.

Primo, ci sarebbe “ossigeno”, che sta per parecchio ottimismo. Due settimane trascorse davvero all’aria aperta – ora, quest’anno e il prossimo – sarebbero un po’ di vita vera per migliaia di persone che sarebbero sicure di averne prima di morire. Avrebbero un po’ di divertimento, indipendentemente dal “risolvere problemi”. Questo non recherebbe alcun danno ai problemi e aiuterebbe le persone.

Poi c’è un problema di prospettiva. La vita, in due settimane sulla cima di una montagna, mostra tante cose sulla vita nelle altre cinquanta settimane giù in basso. Queste ultime potrebbero anche essere viste nel loro insieme, a parte il caldo, il sudore, le irritazioni, Ci sarebbe l’occasione di tirare un respiro, di studiare le forze dinamiche della natura, e le possibilità di scaricare un po’ su di loro il peso portato ora dalle spalle degli uomini. Il rilassato studio di queste forze potrebbe produrre un più ampio, misurato, illuminato approccio ai problemi dell’industria. Che apparirebbe nella sua vera prospettiva: uno strumento per la vita, e non un fine in sé stessa. Una vera separazione della vita ricreativa e non industriale, sistematicamente da parte del popolo e non spasmodicamente da parte di pochi, dovrebbe enfatizzare la propria distinzione da quella industriale. Dovrebbe stimolare la domanda per ampliare l’una e ridurre l’altra. Dovrebbe immettere nuovo entusiasmo nel movimento sindacale. Vita e riflessioni di questo tipo dovrebbero porre in luce il bisogno di andare alle radici dei problemi industriali, e di evitare pensiero superficiale e azioni precipitose. Il problemi del coltivatore, del minatore di carbone, del taglialegna, potrebbero essere studiati intimamente e con minima parzialità. Un approccio di questo genere dovrebbe dare l’equilibrio che porta alla comprensione.

Infine, questi sarebbero nuovi elementi per soluzioni costruttive. L’organizzazione di una vita da campo di genere cooperativo tenderebbe a risucchiare popolazione dalle città. Venuti da visitatori, non vorrebbero più tornare indietro. Diverrebbero desiderosi di stabilirsi in campagna, di lavorare all’aperto, di giocare all’aperto. I vari campi avranno bisogno di rifornimenti. Perché non produrre cibo, oltre che consumarlo, su un piano cooperativo? Campi per la produzione di alimenti dovrebbero venire come conseguenza naturale. C’è anche bisogno di legname. Si dovrebbero incoraggiare operazioni su piccola scala nelle varie Foreste Nazionali degli Appalachi. Il governo ora afferma che ciò è parte della sua politica forestale. La vita da campo stimolerebbe la forestazione così come una migliore agricoltura. L’occupazione, in entrambe, tenderebbe ad aumentare.

Quanto queste tendenze possano svilupparsi, nemmeno l’osservatore più accorto potrebbe dirlo. Si dovrebbe procedere passo dopo passo. Ma le tendenze almeno si sarebbero stabilite. Sarebbero canali tracciati verso realizzazioni nel campo della vita: tagli trasversali a quelli che ora portano ad una distruttiva cecità.

Un progetto di sviluppo

Sembra, dunque, che alla fine valga la pena di dedicare qualche energia per trovare un modo migliore per l’uso del tempo libero. Il tempo disponibile per l’uno per centro della nostra popolazione sarebbe equivalente, come calcolato sopra, all’attività continuativa di circa 40.000 persone. Se questa gente fosse sul crinale, e tenesse gli occhi aperti, vedrebbe le cose che poteva vedere il gigante. A ben vedere, una forza di 40.000 persone sarebbe di per sé un gigante. Potrebbe percorrere la linea del crinale e sviluppare le varie opportunità. È questo il lavoro che proponiamo: un progetto di sviluppo delle opportunità, per il tempo libero, la salute, il lavoro, nella regione degli Appalachi.

Il progetto è per una serie di comunità dedicate al tempo libero attraverso la catena montuosa degli Appalachi, dal New England alla Georgia, collegate da un sentiero percorribile a piedi. Lo scopo è quello di costituire la base per uno sviluppo più esteso e sistematico della vita comunitaria all’aperto. È un progetto di architettura residenziale e comunitaria.

In questo saggio non viene proposto un piano per organizzare o finanziare il progetto. L’organizzazione è materia di dettaglio, da affrontare con cautela. Il finanziamento dipende da interessi pubblici di carattere locale nelle varie regioni interessate.

Ci sono quattro caratteristiche principali del progetto Appalachi:

1 – Il Sentiero

L’inizio di un sentiero degli Appalachi esiste già. È iniziato a comporsi da parecchi anni, in diversi luoghi lungo la linea. Si è fatto un lavoro particolarmente buono nel costruire sentieri da parte dello Appalachian Mountain Club, nelle White Mountains in New Hampshire, e da parte del Green Mountain Club in Vermont. Quest’ultima associazione ha già costruito il Long Trail, nei più di 300 chilometri attraverso le Green Mountains: quattro quinti della distanza dalla linea del Massachusetts a quella del Canada. È un progetto che logicamente sarà ampliato. Quello che le Green Mountains sono per il Vermont, gli Appalachi sono per gli Stati Uniti dell’est. Quello che si ipotizza, quindi, è un “lungo sentiero” sulla completa estensione della linea teorica di crinale degli Appalachi, dalla cima più alta al nord alla cima più alta a sud: da Mount Washington a Mount Mitchell.

Il sentiero si dividerà in sezioni, ciascuna consistente preferibilmente in una porzione ricadente in uno Stato, o un suo sottomultiplo. Potrebbero sorgere difficoltà per l’uso di proprietà private, specialmente nelle terre agricole lungo gli attraversamenti tra una catena montuosa e l’altra. Potrebbe essere talvolta necessario ottenere una concessione dallo Stato per l’uso dell’esproprio. Queste questioni potrebbero facilmente risolversi, premesso che ci sia sufficiente interesse pubblico locale per il progetto nel suo insieme. Le varie sezioni dovrebbero trovarsi sotto una specie di controllo generale federale, ma in questo saggio non si fanno ipotesi riguardo a tale forma organizzativa.

Non tutto il percorso di una sezione può naturalmente essere realizzato in una volta. È una cosa di parecchi anni. Al massimo, i lavori intrapresi in una singola stagione dovrebbero completare un segmento utilizzabile, come fino in cima o attraverso una vetta. Una volta completato, dovrebbe essere aperto all’uso locale e non attendere il completamento di altre sezioni, Ciascuna porzione costruita dovrebbe, naturalmente, essere mantenuta in modo rigoroso, senza consentirne il degrado per disuso. Un sentiero ha l’utilità del suo segmento minore.

Il sentiero potrebbe essere reso, a ciascuno stadio di realizzazione, di immediato valore strategico nella prevenzione e lotta agli incendi boschivi. Stazioni di guardia potrebbero venire localizzare ad intervalli lungo il percorso. Un servizio forestale antincendio potrebbe essere organizzato in ciascun segmento, e mantenersi in contatto coi servizi dei governi Federale e Statale. Il sentiero diverrebbe così una linea di lotta contro gli incendi.

2 -Campi rifugio

Si tratta delle abituali strutture parallele dei sentieri che sono state realizzate nelle White e Green Mountains. Sono gli attrezzi d’uso del sentiero. Dovrebbero essere collocati a distanze opportune, tali da consentire un comodo trasferimento di una giornata dall’uno all’altro. Dovrebbero essere sempre attrezzati per dormire e alcuni per servire pasti, come nel caso degli chalets svizzeri. È richiesta una rigida regolamentazione per essere sicuri che queste attrezzature siano usate, e non abusate. Per quanto possibile l’apertura e costruzione del sentiero e dei campi rifugio dovrebbe essere fatta da lavoratori volontari. Per il volontario “lavoro” è davvero “gioco”. Lo spirito di cooperazione, come è comune in queste imprese, dovrebbe essere continuamente stimolato. Tutta l’opera dovrebbe essere condotta senza profitti. Il sentiero deve essere ben vigilato: contro il ladro e contro il profittatore.

3 - Gruppi di Comunità

Sorgeranno naturalmente da rifugi e locande. Ciascuno consisterà in un piccolo gruppo sul o vicino al sentiero (magari sulla riva di un lago) dove è possibile vivere in abitazioni separate. Una comunità del genere può occupare un certo spazio, cinquanta ettari o magari di più. Questo dovrebbe essere comperato e mantenuto come parte del progetto. Di esso non si dovrebbero vendere singoli appezzamenti. Ciascun campo sarebbe una comunità proprietaria del proprio spazio, e non un’impresa immobiliare. L’uso delle abitazioni private, come altre fasi del progetto, dovrebbe avvenire senza profitti.

Questi campi comunitari dovrebbero essere accuratamente progettati in anticipo. Non si dovrebbe consentire che divengano troppo popolosi, il che sarebbe contrario allo stesso principio per cui sono stati creati. Più persone dovrebbero essere sistemate in più gruppi, non in gruppi più grandi. C’è spazio, senza affollarsi, nella regione degli Appalachi, per una popolazione parecchio numerosa alloggiata in questi campi. La loro localizzazione dovrebbe formare un elemento portante della pianificazione e struttura regionale.

Queste comunità sarebbero usate per vari tipi di attività non-industriali. Potrebbero eventualmente organizzarsi per scopi particolari: tempo libero, cura, e per l’istruzione. Si potrebbero istituire scuole estive o campi didattici stagionali, e organizzare corsi scientifici viaggianti e sistemati nelle varie comunità lungo il percorso. L’accampamento comunitario dovrebbe diventare qualcosa più di un “campo da gioco”: dovrebbe stimolare qualunque filone di impegno non-industriale all’aperto.

Campi per l’alimentazione e l’agricoltura

Questi non si potrebbero organizzare da subito. Verrebbero più tardi, come sviluppo successivo. Il campo agricolo è il naturale sviluppo di quello comunitario. Qui con lo stesso spirito di cooperazione e azione concertata, i cibi e prodotti consumati nella vita all’aria aperta saranno seminati e raccolti.

I campi per l’alimentazione e l’agricoltura possono essere fondati come comunità speciali nelle valli adiacenti. Oppure combinati coi campi comunitari, aggiungendo terre agricole circostanti, Il loro sviluppo potrebbe fornire un’opportunità concreta di sperimentare praticamente una questione fondamentale nel problema di vivere. Sarebbe il modo di provare il “ritorno alla terra”. Sarebbe una possibilità per chi è ansioso di sistemarsi in campagna: aprirebbe una possibile fonte di impiego nuovo, e di cui si avverte il bisogno. Comunità di questo tipo sono ben rappresentate dalla Hudson Guild Farm in New Jersey.

Legna da ardere, legname vario e da costruzione sono altri bisogni di base per campi e comunità lungo il sentiero. Anche essi possono essere coltivati nei boschi come parte dell’attività di campo, anziché acquistati al mercato del legname. Il nucleo di una attività del genere è già stato attivato a Camp Tamiment, in Pennsylvania, su un lago non lontano dal percorso proposto per l’Appalachian Trail. Il campo è stato stabilito da un gruppo di lavoro di New York City. Hanno realizzato una segheria su un appezzamento di 800 ettari e hanno costruito i capanni della comunità col proprio legname.

I campi agricoli possono essere supplementati da campi legname tramite acquisizione (o affitto) di terreni boscosi. Dovrebbero naturalmente essere gestiti con criteri di forestazione così da avere una certa quantità costante di legname in crescita. La questione potrebbe essere sviluppata attraverso un contratto di vendita legname a lungo termine col Governo Federale riguardo a qualcuna delle Foreste Nazionali degli Appalachi. Anche questa sarebbe un’opportunità di occupazione stabile, solida, salubre all’aria aperta.

Elementi di un fascino drammatico

I risultati che si possono ottenere nella vita da campo e di esplorazione, sono patrimonio comune di quanti ci sono cresciuti. La comunità di campo è santuario e rifugio dalla competizione quotidiana della vita produttiva. Essenzialmente, è un ritrarsi dalla logica del profitto. La cooperazione sostituisce l’antagonismo, la fiducia il sospetto, l’emulazione la competizione. Un sentiero sugli Appalachi, con i suoi campi, le comunità, le sue sfere di influenza lungo la linea del crinale, dovrebbe con una ragionevolmente buona gestione riuscire in questi obiettivi. Che hanno al proprio interno gli elementi di un profondo, drammatico fascino.

Il fascino della vita da scout può essere il più formidabile nemico del fascino del militarismo (una cosa da cui questa nazione è minacciata tanto quanto le altre). Si avvicina moltissimo, tra le altre cose sinora ipotizzate, ad offrire quanto il professor James una volta definì un “equivalente morale della guerra”. Fa appello agli istinti primordiali di eroismo combattente, di servizio volontario e lavoro per una causa comune.

Istinti che sono forze racchiuse in ogni essere umano, e che chiedono uno sbocco. Questo è oggetto di giuramento per il ragazzo o la ragazza del movimento scout, ma non dovrebbe limitarsi ai giovani.

La costruzione e tutela di un sentiero sugli Appalachi, con le varie comunità, interessi e possibilità, potrà essere almeno uno di questi sbocchi. C’è un lavoro per 40.000 anime. Il sentiero potrebbe essere realizzato, letteralmente, come linea di battaglia contro il fuoco e le inondazioni,e anche contro le malattie. A battaglie come queste, contro i nemici comuni dell’uomo, manca sempre – e vero – la “botta” che evoca l’uomo contro l’uomo. C’è solo un motivo: la pubblicità. Il militarismo è stato reso colorato, in un mondo di grigiore. Ma la cura della campagna, che instilla la vita da scout, è un elemento vitale in qualunque protezione della “casa e patria”. Ciò che già esiste, può essere reso spettacolare. Qui c’è qualcosa che vale la pena di mettere in scena.

Nota: dello stesso autore è disponibile sul mio sito un saggio del 1930 che riprende in modo pure inusuale un altro tema allora di estrema modernità: le autostrade. Lo Appalachian Trail, anche se non sembra aver segnato sinora in modo indelebile la cultura della pianificazione, è comunque una grande iniziativa tangibile, viva e operante. Trovate informazioni soprattutto al sito della Appalachian Trail Conference

Un ultimo, curiosissimo link è quello con il sito della Royal Holloway University of London, Department of Italian, dove un testo biografico-critico su Benton MacKaye è usato come esercizio di traduzione dall'inglese in italianovalido per gli esami della sessione 2000. (fb)

Silvio Ardy , Proposta di creazione di un Istituto Italiano di Urbanesimo e di Alti Studi Municipali, Congresso Internazionale dell'Urbanesimo, Torino 28 maggio 1926, IV Tema, S.A.V.I.T. Società Anonima Vercellese Industria Tipografica, MCMXXVI. Il testo integrale, con una nota introduttiva di Fabrizio Bottini

INDICE

Che cos’è l'Urbanesimo

. premessa

. i fenomeni urbanistici

. se l'Urbanesimo sia una scienza

Come lo si coltiva all'estero

. sguardo generale

. l'Union Internationale des Villes

L'urbanesimo in Italia

. enti, esposizioni, congressi

. l'Urbanesimo in Italia è soprattutto in azione

. necessità di un Ente Nazionale di coltura urbanistica

L'Istituto come scuola

. l'Istituto della Sorbona

. considerazioni

L'Istituto Italiano (nella II parte)

. i criteri informatori

. inquadramento fra gli attuali Istituti d'insegnamento superiore

Il programma

. corso comune

. sezione tecnica

. sezione amministrativa

. ordinamento della scuola

. diplomi

L'Istituto come Associazione Urbanistica (nella parte III)

. servizi generali

. servizio di consulenza

. dei Soci, del Consiglio Generale e della Presidenza

Bilancio dell'Istituto

Conclusione

Nota introduttiva

Introducendo la sua raccolta di saggi sulle origini dell’urbanistica moderna italiana, qualche anno fa Giulio Ernesti descriveva così la fine degli anni Venti: “L’architetto urbanista forzava ed esaltava il ruolo fondamentale della componente artistica, la preponderanza dei valori estetici, sino ad ipotizzare l’assorbimento dell’urbanistica nella sfera dell’architettura, a considerarla parte dell’architettura e quindi di sua specifica competenza. Era possibile così negare la necessità di istituti particolari e sostenere come sufficiente l’insegnamento che dell’urbanistica veniva impartito nelle scuole di architettura”.

”Istituti particolari”: come quello, appunto, proposto da Silvio Ardy a Torino nel 1926, avversato dal sindacato fascista architetti che vede anche e soprattutto nell’urbanistica l’occasione per una nuova visibilità sociale e potere professionale. Del resto, l’immagine pubblica degli uffici municipali non usciva benissimo dalle sfide urbanistiche dei primi anni del Novecento: la modernizzazione aveva lasciato molte profonde e indesiderate tracce nelle principali città italiane, e gli apparati tecnici e amministrativi dei Comuni (forse senza tutte le colpe), erano in qualche modo visti come i responsabili dei ritardi nell’affrontare l’emergenza. Ardy riconosce anche questi aspetti, ma vuole rilanciare ruolo e competenze dei civil servants italiani, attraverso la nuova disciplina complessa dell’Urbanismo, modellata soprattutto sul modello francese delle alte scuole amministrative.

È un approccio complesso, e per molti versi sorprendente nell’accostare competenze che per il lettore di oggi appaiono difficilmente conciliabili, ma che a ben vedere rappresentano ancora un possibile riferimento, non solo di tipo storico, per riflettere sul rapporto fra interesse pubblico, ricerca, professione, città. La figura che si afferma, come ben sappiamo, è quella dell’architetto libero professionista, legato o meno alla cultura comprensiva internazionale dei CIAM (che rappresenta per lustri pur con ovvie lacune il portato positivo di questa tendenza), e l’ipotesi di Ardy per un super-tecnico urbanista pubblico rimane in ombra, come pura testimonianza. Ha scritto Luigi Falco che questo è “il segno dell’inversione della tendenza che aveva fino ad allora visto predominare i tecnici municipali, ed è il primo segnale dell’emergere della nuova figura degli urbanisti professionisti”, divenuti poi, dal secondo dopoguerra ai nostri giorni, gli urbanisti tout court, lasciando le altre, numerose figure attive nel campo disciplinare in una posizione defilata. Resta, con tutte le eccezioni e sottolineature del caso, il valore non solo testimoniale della proposta di Ardy, che forse meglio di altri individua, se non altro, il ruolo strategico di una figura complessa, probabilmente di carattere manageriale e/o di apparato organizzativo, modernamente assimilabile ad un centro studi anziché ad uno studio/bottega professionale, in altre parole più adatto ad affrontare la complessità di quanto non si siano dimostrate, sul lungo periodo, le pur alte intuizioni e intenzioni della cultura architettonica coeva.

Non un “modello”, quindi, né un’occasione mancata, ma certo una ricca fonte di spunti di riflessione, che vale la pena di proporre integralmente al lettore di oggi, in forma comparata con altri “profili” di urbanista. (Fabrizio Bottini)

CHE COS'E' L'URBANESIMO

Premessa

Esiste in Italia, fin dal 1895, un Regio Istituto Nazionale di Archeologia, che ha il pregevole compito - e lo assolve egregiamente - di coordinare e promuovere gli studi dei gloriosi avanzi del passato, la ricerca dei ruderi di Città sepolte che testimoniano della nostra più lontana civiltà.

Non esiste ancora in Italia un Istituto che coordini e promuova gli studi per il più razionale sviluppo delle Città moderne e per il loro buon governo edile, igienico, sociale, mentre tutti i grandi e medi centri della penisola stanno seguendo un ritmo di fervido rinnovamento, prodigandosi in nuove opere grandiose che sopravanzano le antiche, e portandosi ad un altissimo livello di civiltà che può ben chiamarsi romana grandezza.

L'Istituto Italiano di Urbanesimo non è stato ancora nè attuato nè concepito, e sarà grande onore di questo Congresso avergli dato un soffio di vita.

I fenomeni urbanistici

Ma che cos'è l'Urbanesimo?

E' per esso come per il Diritto: nasce cioè con la consociazione umana. Dal momento in cui più famiglie si riuniscono nello stesso angolo della terra per procacciarsi il cibo ed aiutarsi nella difesa delle belve o dai vicini, questa forma primordiale di convivenza genera digià dei bisogni, delle aspirazioni, delle norme e consuetudini che la vita fisica impone, se anche è appena abbozzata quella morale e non è ancora nata quella intellettuale.

Così, a rigore, uno spirito primitivo di urbanesimo si sprigiona anche dal pagus, poiché a scegliere il luogo ove i nomadi si son fermati hanno contribuito la vicinanza del corso d'acqua, la posizione alta e difendibile sulla roccia, la prossimità di boschi per la caccia e per la legna, i terreni fertili da coltivare, le vie di comunicazione per qualche primo scambio di prodotti.

E' tuttavia con l' urbs che si sviluppa veramente l'arte di costruire e orientare le Città, che si ricerca il miglior terreno per la fondazione, si traccia la cerchia delle mura, si scelgono le posizioni più adatte per il tempio, il foro, il circo, le terme, il palazzo pretorio, le prigioni, si cotruiscono gli acquedotti e le cloache, si aprono le grandi vie selciate.

E quando una organizzazione sociale comincia a delinearsi, da un lato si afferma con più precise tavole il Diritto, dall'altro si sviluppa rapidamente, e per la forza stessa delle cose, l'arte urbanistica, che deve provvedere nel miglior modo a tutti i servizi - materiali, morali ed intellettuali - di cui ha bisogno la popolazione; anzitutto per non emigrare, per non ribellarsi, per non perire - interesse supremo anche dei tiranni -, in secondo luogo per prosperare nei commerci, per crescere in generazioni robuste, atte alla potenza militare, per raggiungere lo splendore delle lettere e delle arti.

Ma non mai come nella turbinosa vita della Città moderna l'arte del buon governo sociale si è dimostrata così difficile.

In una civiltà che non è mai stata così complessa, e che pertanto richiede di venir sempre più e sempre meglio ordinata, il progresso raggiunto dall'industria, dal commercio, dalle comunicazioni, da ogni ordine di scienze e di arti e dalla morale stessa, impone l'immediata inderogabile soluzione di problemi tecnici, sanitari, amministrativi, economici, sociali, che tutti attengono non solo al benessere della cittadinanza, ma alla sua stessa conservazione.

I fenomeni urbanistici giganteggiano, ed a stento li segue l'arte urbanistica, non ancora e dappertutto la scienza.

Un primo fenomeno preoccupante è quello dell'inurbamento: la grande industria svuota le campagne ed attira nuova popolazione alla Città, che non ha sempre l'attrezzatura sufficiente per riceverla.

Occorre pensare all'ampliamento dell'edilizia, su piani organici e suscettibili di ulteriore sviluppo, lasciare spazi verdi, disciplinare il sorgere febbrile degli edifizi, acquisire al demanio comunale vasti terreni per combattere il caro-terreni, commisurare la qualità delle case alla potenzialità economica dei ceti medi e popolari, promovendo la costruzione di case operaie, di città giardino, di quartieri per impiegati e professionisti; e nel contempo dettare norme per l'igiene e l'estetica di ogni tipo di abitazione. Indi occorre provvedere queste nuove zone di mercati, di scuole, di comunicazioni, di illuminazione, di tutti i servizi stradali, di uffici di polizia e di stato civile, dei servizi sanitari e di assistenza.

Un secondo fenomeno è il progresso intellettuale e morale, che impone un nuovo trattamento della Città e della Cittadinanza.

Per restare nel campo edilizio, le nuove generazioni male si alle vecchie case malsane degli antichi quartieri: sventramenti e sistemazioni nel centro medesimo della città si rendono necessari; la formazione di quartieri signorili, di quartieri d'affari, di Città degli studi diventa un canone dell'arte urbanistica. Nuovi centri cittadini vengono ricavati per decongestionare il traffico degli antichi: si abbattono gallerie, si innalzano ascensori, si gettano dei ponti, si abbattono storiche mura, si creano corsi, passeggiate e giardini.

Dal lato igienico si moltiplicano le cure per prevenire, isolare e curare le malattie contagiose, sia degli uomini che degli animali; la polizia degli alimenti richiede vigilanza oculatissima; i mercati e i macelli vengono riformati con nuovi criteri; l'eliminazione dei rifiuti domestici è oggetto di assillanti studi.

Dal lato sociale ai grandi bisogni di un'imponente popolazione si va incontro con istituti che l'autorità pubblica continuamente crea od incoraggia: dagli asili d'infanzia agli Uffici di collocamento, dal ricovero dei vecchi indigenti ai dormitori pubblici, dagli alberghi popolari ai posti di pronto soccorso, è infinita la serie dei servizi e delle provvidenze che alla Città fanno carico.

Nel campo economico sono i servizi industriali in cui essa interviene, quasi sempre direttamente, perché la loro estrema importanza per ogni ordine di cittadini le comanda di non lasciarli in balia delle private speculazioni: la fornitura del gas, dell'energia elettrica, dell'acqua, talora di importanti alimenti, come il pane, il latte, il ghiaccio, la carne congelata; il problema delle comunicazioni, i servizi di trams, di autobus, di linee metropolitane, di funicolari, di vaporetti, di vetture o automobili pubbliche; ed il problema della circolazione.

Nel campo colturale, otre ai nuovi moderni edifici delle scuole primarie, è lo studio dei bisogni ambientali, delle aspirazioni, della composizione stessa dei vari ceti cittadini che occorre compiere per sapere quali ordini di scuole secondarie, professionali, superiori creare o mantenere o sviluppare.

E tutto questo movimento, quest'azione, questo formidabile sviluppo di vita urbana devono essere regolati da un organismo centrale direttivo, il quale ha pure i suoi problemi interni da risolvere, anzitutto quelli giuridico-amministrativi, in secondo luogo quelli finanziari.

Un errore, un ritardo, un cattivo funzionamento di quest'organo possono provocare gravi sciagure, la paralisi di un dato servizio, la decadenza generale della Città: un nuovo ritrovato, un nuovo impianto, un tempestivo benefico intervento possono portare lenimento a pietose miserie, scongiurare pericoli sociali, dare un vivo impulso alla vita economica cittadina.

Se l'Urbanesimo sia una scienza

Per cui possiamo ora rispondere alla domanda che ci siamo in principio rivolti. Senza volerci avventurare in definizioni che siano modelli di docimastica, possiamo ritenere che l'Urbanesimo sia quella scienza che studia lo sviluppo edilizio, demografico e sociale delle Città ed il progresso dei servizi pubblici locali.

I due grandi pilastri su cui poggia questa scienza di avanguardia sono dunque l'edilizia e la demografia: l'urbs e la civitas.

Ma - si dirà - è veramente l'urbanesimo una scienza nuova? O, per avventura, il suo contenuto non è già quello di altre scienze?

L'obbiezione ha una parvenza di fondamento come, a ben guardare, l'ha per altre grandi correnti del pensiero umano, alle quali pure il carattere di scienza è stato giustamente riconosciuto.

La scienza urbanistica infatti si vale di tutte le atre scienze: dell'igiene come dell'economia politica, dell'ingegneria come del diritto, e vive con esse una feconda vita di relazione. Ma essa non è un semplice mosaico di altre discipline: perché le scevera, le elabora e le amalgama per armonizzarle in un tutto ispirato ad un'unica accezione: la vita urbana.

Non è dunque una fibra completamente nuova che ne forma il tessuto, ma è la colorazione che la distingue da tutte le altre. E noi di un colore nuovo da dare a questa complessa materia abbiamo veramente bisogno: sentiamo la necessità di uomini che vedano le policrome discipline sotto il colore unico del buon governo della Città: di reggitori che tutte le scienze e tutte le arti sappiano sfruttare per giungere al supremo interesse civico di avere delle cittadinanze ordinate, laboriose, sane, bene alloggiate, favorite di ogni mezzo per il loro benessere, sì da farne meravigliosi perfetti strumenti per le sempre crescenti fortune della Patria.

COME LO SI COLTIVA ALL'ESTERO

Sguardo generale

Non possiamo affermare che in tutti gli altri Paesi l'arte urbanistica sia già divenuta una scienza. Riconosciamo questo merito soltanto alla Francia, perché essa ha creato l'unico Istituto di alta coltura urbanistica - di cui avremo occasione di parlare largamente - non accontentandosi dell'Associazione Urbanistica. Questa Associazione però esiste in quasi tutti i più importanti Stati e si può dire manchi solo da noi.

Ora, se un'Associazione non può svolgere ancora un'opera didattica diretta, essa serve mirabilmente però a quegli scambi intellettuali fra gli studiosi ed a quell'azione viva nella pubblica opinione che a poco per volta preparano il nascere della scienza.

Non deve certo stupire se la Germania, la Francia, l'Inghilterra, gli Stati Uniti hanno affrontato prima di noi le spinose questioni che sono imposte dai grandi agglomerati urbani. Berlino e Parigi hanno ciascuna 4 milioni di abitanti, Londra ne ha 7 e New York ne ha quasi 8, mentre la nostra città più popolosa non arriva al milione: la creazione di grandi sobborghi, di Città satelliti o Città giardino è stata dunque per esse uno sbocco inderogabile.

Oltre a ciò, nei Paesi della grande industria le Città sorgono rapidamente e quasi per generazione spontanea attorno alle caminiere delle fabbriche, e l'applicazione dei postulati urbanistici ha luogo sotto la spinta della necessità. Da noi vi sono rarissimi esempi di Città affatto nuove: Messina che va ricostruendosi dopo il terremoto, le cittadine delle Terre Liberate, la Città dell'Aniene, Ostia, Mussolinia.

Comunque bisogna apertamente riconoscere che l'attività urbanistica è all'estero assai più sviluppata.

In tutti i campi si tengono Esposizioni e Congressi, il più delle volte internazionali.

Per l'anteguerra, senza risalire alle particolari mostre del Muncipio di Parigi nelle Esposizioni del 1889 e del 1900, occorre ricordare le Esposizioni dello «Städte Bau» di Dresda (1903), di Berlino (1910), di Düsseldorf (1912), quella di «Town Planning» a Londra (1910), accompagnata da una importante Conferenza e seguita nel 1911 da una manifestazione di carattere permanente, la «Cities and Town Planning Exhibition» presentata a Londra, Edimburgo, Dublino e Belfast.

Ed ancora a Düsseldorf, nel 1922, aveva luogo una interessante Esposizione dei piani regolatori.

Del dopoguerra basti ricordare per l'igiene l'Esposizione ed il Congresso di Strasburgo del 1923, organizzati da quell'«Institut d'Hygiène et de Bactériologie» per il centenario di Pasteur, in cui fu ampiamente trattata, fra l'altro, la questione delle spazzature domestiche; e la imminente Conferenza-Esposizione di Vienna per trattare dei problemi dell'abitazione e dell'ordinamento edilizio; conferenza che tien luogo alle precedenti del 1913 (Parigi), 1914 (Londra), 1919 (Bruxelles), 1920 (Londra), 1922 (Parigi), 1923 (Gothenbourg), 1924 (Amsterdam), e 1925 (New York), tutte organizzate da quella «Federation Internationale de l'Amenagement des Villes, des Campagnes et des Cités-Jardins», che raggruppa l'analoga «Association Française», la «Societé des Urbanistes Belges», la «Stadtsingeniörkkontoret di Göteberg, la «International Federation for Town and Country Planning and Garden Cities» di Londra, ed altre consimili.

Vienna, del resto, passa per una delle grandi capitali meglio ordinate, ed il suo piano regolatore è stato testè adottato dalla Città di gerusalemme per il suo ulteriore sviluppo.

Dal canto suo l'Unione delle Città Polacche, che già nel 1925 ha tenuto una Mostra a Posen, ha organizzato per Maggio e Giugno - contemporaneamente cioè alla Mostra di Torino che ci ospita - una analoga Esposizione Edilizia.

Un'altra Esposizione di Attività Municipale - sulla falsariga di quella di Vercelli del 1924, che le ha fornito tutti gli elementi - si sta preparando a Bukarest.

Anche nei piccoli Stati nordici del resto, come la Svezia, la Norvegia, la Danimarca, la Finlandia, gli studi urbanistici sono assai in onore, e corrispondono al senso d'ordine, alla cura dell'igiene, al benessere economico, alle minori preoccupazioni politiche di quei popoli.

Una visita d'istruzione potè essere, nel 1921, effettuata con profitto dai più autorevoli membri e Funzionari del Consiglio Municipale di Parigi alla Città di Stoccolma, per rendersi conto di quei servizi amministrativi, sanitari, scolastici, edilizi e di beneficienza.

L'Union Internationale des Villes

Ma, fra tutti gli Enti urbanistici stranieri, merita di essere maggiormente illustrata per la sua attività ed importanza l'«Union Internationale des Villes et Communes», che ha sede a Bruxelles, ed alla quale l'Italia ha in questi ultimi anni aderito.

Essa, contando nelle sue file quasi tutte le Unioni Nazionali d'Europa, oltre ad alcune del Nord America e ad una quantità di Città isolate, ed essendo in relazione con le Unioni Nazionali degli altri continenti, rappresenta il più grande sforzo per il coordinamento ed il progresso dell'attività comunale nel mondo.

Delle Unioni affigliate sono fra le più salde quelle della Francia, dell'Italia, del Belgio, dell'Olanda, della Polonia, della Svizzera, della Finlandia, della Svezia, della Norvegia, della Rumenia, della Cecoslovacchia, del Canadà: ma essa sta per guadagnare anche quelle dell'Inghilterra, della Germania, degli Stati Uniti, del Giappone.

L'Union persegue i suoi scopi anzitutto con le «Tablettes documentaires», indicazioni periodiche e sistematiche di studi urbanistici generali o particolari e di opere, che essa pubblica nella sua rivista «Les Sciences Administratives»; in secondo luogo, coi suoi Congressi.

Importantissimi sono stati i tre Congressi sinora riuniti.

Il primo, quello di Gand del 1913, ha, secondo noi, gettato veramente le basi dell'urbanesimo. Esso era diviso in due Sezioni: «L'arte di costruire le Città» e «L'organizzazione della vita comunale», ed era accompagnato da una esposizione documentaria.

Vi parteciparono 161 Città di tutti gli Stati, fra cui 5 italiane: Roma, Napoli, Torino, Firenze, Vercelli; e 50 Associazioni, fra cui 3 italiane: l'Unione Statistica delle Città Italiane (Firenze), l'Istituto per le Case Popolari ed Economiche di Milano e la Società Umanitaria, pure di Milano.

Nella prima Sezione furono presentate e discusse 30 Relazioni, di cui nessuna italiana; nella seconda 33, di cui una italiana: quella del Prof. Ugo Giusti per l'Unione Statistica.

Dopo la lunga parentesi della guerra, la serie dei Congressi fu ripresa, e si tenne il 2° ad Amsterdam nel 1924. Assai meno importante del primo, vi parteciparono 75 Città; fra cui solo Milano, delle italiane, mandò i suoi rappresentanti: e vi fu discussa in modo particolare la questione dell'organizzazione dei rapporti fra le Città di tutto il monda attraverso le loro Unioni Nazionali e dello sviluppo delle reciproche informazioni; nonché quella della collaborazione dei Municipi all'opera dei grandi organismi internazionali, specie in materia d'igiene, di sanità e di provvidenza sociali.

Il 3° Congresso, imponentissimo, ebbe luogo a Parigi nel 1925 e raccolse 700 delegati, rappresentanti 35 Stati e 300 Città, di cui 25 Capitali. La partecipazione italiana fu notevole. Oltre all'Associazione dei Comuni Italiani, che l'aveva organizzata, ed all'Unione Statistica, presenziarono il Congresso i rappresentanti di Roma, Milano, Torino, Bologna, Firenze, Perugia, Alessandria, Vercelli e del Comitato della Mostra Italiana di Attività Municipale.

I temi, per il cui svolgimento furono presentate relazioni italiane che apparvero fra le migliori, furono cinque, di cui due di carattere organizzativo, e gli altri tre a carattere veramente urbanistico: «Il regime municipale nei diversi paesi», «La politica fondiaria dei Comuni e la sua influenza sul problema dell’abitazione» e «Le grandi agglomerazioni urbane».

L'URBANESIMO IN ITALIA

Enti, Esposizioni e Congressi

Esiste in Italia una scienza dell'Urbanesimo?

Rispondiamo: esistono degli studiosi. Dall'archivista che ricostruisce le linee perimetrali della sua città nei secoli, all'amministratore tecnico che studia appassionatamente la miglior direzione di un piano di ampliamento; dal privato benefattore che si dedica alla creazione di un suo grande Asilo Modello, al demografo che indaga la composizione di un particolare strato sociale; dall'Ingegnere Municipale che cerca la soluzione di aspre difficoltà per una nuova rete di fognatura nel suo Comune, al funzionario cui è stato confidato l'impianto di un moderno ufficio del Lavoro e di Previdenza, tutti studiano isolatamente una parte specifica della scienza urbanistica a un dato effetto locale, superando con encomiabili sforzi le difficoltà che offre la mancanza di una vera scienza; pochi tessono, olteché per sè, per gli altri in un determinato campo; nessuno raccoglie, coordina queste membra sparse - economiche, amministrative, tecniche, sociali - in una grande teoria urbanistica, che deve pur formare il substrato necessario per lo studio del buon governo delle Città, il terreno di coltura per lo sviluppo di queste stesse particolari discipline.

E' dalla sintesi che scaturisce più ordinata, più efficace, più vitale l'analisi; è di armonia che vivono non solo gli uomini e le cose, ma tutte le creazioni intellettuali e scientifiche.

Soltanto la vita primordiale è individuale: la vita civile è collettiva, si basa sulla organizzazione e sullo scambio.

Ora, in Italia non esiste ancora nè un Istituto, nè un'Associazione Urbanistica.

Qual è dunque lo stato attuale dell'Urbanesimo nel nostro paese?

L'Associazione dei Comuni Italiani, la Confederazione degli Enti Autarchici, l'Unione Statistica delle Città Italiane si occupano in parte di urbanesimo, pubblicando pregevoli Riviste e Bollettini propri, indicendo Congressi, partecipando a quelli internazionali.

L'ultimo convegno nazionale dell'Unione Statistica, tenutosi a Roma nel Marzo 1925, ebbe ad esempio per temi: Gli Atti dello Stato Civile - L'ordinamento degli Uffici Municipali di Statistica - Numeri indici del costo della vita - Sviluppo della Statistica Municipale.

Il Segretario dell'Unione Statistica, Prof.Giusti, ed il Segretario dell'Associazione dei Comuni, Dottor Verratti, hanno pubblicato recentemente una apprezzatissima, coscienziosa «Indagine sulle acque potabili nei Comuni del Regno». Recente e istruttivo è pure il loro studio dell'anno scorso sui Bilanci dei principali Comuni italiani.

Una manifestazione squisitamente urbanistica e completa in ogni sua parte fu la I° Mostra Italiana di Attività Municipale, tenuta in Vercelli nel 1924 (imitata poi da quella Polacca del 1925 e da quella Rumena del 1926) alla quale concorsero tutte le principali Città Italiane con la dimostrazione dei loro servizi, e che sollevò tanto entusiasmo fra gli Amministratori, i Funzionari, gli studiosi ed il gran pubblico stesso, da far nascere l'idea di ripeterla a base internazionale.

L'idea fu accolta dall'Union Internationale des Villes, e la nuova grandiosa manifestazione, assicurata dall'Italia, sta preparandosi a sorgere.

In occasione della Mostra 1924 furono tenuti a Vercelli i Congressi Nazionali degli Amministratori Tecnici ed Ingegneri Municipali, dei dirigenti delle Aziende Municipalizzate, del Dazio e dello Stato Civile.

Ottima la partecipazione italiana al già citato Congresso dell'Union Internationale des Villes, tenutosi a Parigi nel Settembre 1925: sia per il numero di delegati, sia per la presentazione degli elaborati sui diversi temi, che nel complesso superarono per organicità e per importanza quasi tutti quelli delle altre Nazioni. Uno dei temi, forse il più importante, «Il regime municipale nei diversi Paesi» era stato anzi proposto dagli italiani alla Conferenza preparatoria di Basilea, e cura dell'Avvocato Molinari e del Dott. Verratti ne era stato il questionario: degli stessi fu la relazione.

Sul tema «La politica fondiaria dei Comuni e la sua influenza sul problema delle abitazioni» chiara e lodevole fu la relazione dell'Avv. Testa di Roma; ed in fatto di piani regolatori eccellente impressione suscitò quella dell'Ing. Chiodi «Come viene impostato dalla Città di Milano lo studio del suo nuovo piano di ampliamento» con opportuni riferimenti a Parigi, a Vienna, a Bruxelles.

Così sul tema «Le grandi agglomerazioni urbane» la miglior relazione fu indubbiamente quella italiana, presentata da Municipio di Milano e stesa dall'Avv. Visconti.

Altri Congressi e Mostre su argomenti particolari di interesse urbanistico non sono mancati in Italia: basti accennare alla riuscitissima Mostra Didattica di Firenze (1925), alla Mostra Internazionale della Strada ed al V° Congresso Internazionale della Strada che si terranno a Milano nel prossimo Settembre: basta guardarci attorno, in questa magnifica II° Mostra Internazionale di Edilizia, che ci ospita, e ricordare il gruppo di Congressi che l'accompagnano e la illustrano, di cui specialmente quelli dell'Edilizia e dell'Igiene hanno col nostro maggiori affinità.

Qui a Torino sta poi felicemente sorgendo, per iniziativa della Confederazione Nazionale Inquilini, un Istituto che potrà avere un grande avvenire e grandi benemerenze: l'Ente Nazionale delle Città giardino, che si propone di svolgere la propria attività in ogni città d'Italia.

E' quasi superfluo infine accennare alla veramente gloriosa «Associazione Italiana per l'Igiene» che con tutti i suoi mezzi ha saputo acquistarsi titoli alla riconoscenza degli italiani, e gli igienisti raduna ogni anno a Congresso.

Non abbiamo inteso con questo di dare un quadro completo, ma soltanto un saggio delle più recenti manifestazioni collettive che attengono all'urbanesimo in Italia.

Impossibile dare anche un sommario elenco della letteratura urbanistica, che tratta di svariatissimi oggetti. Ma, a dimostrazione dell'importanza assunta anche da noi dagli studi delle singole discipline, accenniamo alle più importanti Riviste Tecniche, sanitarie ed amministrative.

Riviste e Bollettini Municipali - Sono fra i più ricchi e portano il più cospicuo contributo all'arte urbanistica, illustrando con genialità di esposizione e spesso con suggestivo senso d'arte le iniziative, i progetti, le realizzazioni delle rispettive Città, e presentando pure periodiche minutissime statistiche mensili della vita municipale:

- Capitolium, Rassegna di Attività Municipale del Governatorato di Roma - Città di Milano - Rivista della Città di Venezia - Il Comune di Genova - Bollettino del Comune di Napoli - Bollettino dell'Ufficio del Lavoro e della Statistica della Città di Torino - Il Comune di Bologna - Il Comune della Spezia - Il Comune di Ravenna - La Città di Brescia, etc.

Sono pure assai interessanti, specie dal punto di vista statistico:

- Bollettino Statistico del Comune di Firenze - Bollettino Statistico del Comune di Trento - Bollettino dell'Ufficio del Lavoro e della Statistica del Comune di Trieste - Bollettino Demografico del Comune di Foggia - Bollettino Statistico del Comune di Padova - Bollettino di Cronaca amministrativa e di Statistica del Comune di Verona - e pubblicazioni analoghe di Como, Varese, Cremona, Alessandria, etc.

Riviste Tecniche:

- Ingegneria, Organo della Associazione Nazionale Ingegneri e Architetti Italiani - Monitore Tecnico - La Casa - Le Strade - L'Architettura Italiana - I Lavori Pubblici - Giornale di Biliografia Tecnica Internazionale, etc.

Riviste d'Igiene:

- L'Igiene Moderna - L'Italia Sanitaria - Il Progresso Sociale del Mezzogiorno - Annali d'Igiene - Il Policlinico - La salute e l'igiene nelle famiglie - L'Igiene d'oggi - L'igiene e la vita.

Riviste Amministrative:

- Il Corriere dei Comuni - Il Rinnovamento Amministrativo - La Rivista degli Enti Locali - Il Comune Italiano - La Rivista dei Comuni d'Italia - L'Autonomia Comunale - L'Amministrazione Locale - Rivista Amministrativa Piemontese - Il Funzionario Comunale - Lo Stato Civile Italiano - Annuario Statistico Italiano.

- Rivista di Finanza moderna - Rivista di Amministrazione e Finanza - Rassegna Tributaria - Rivista Italiana di Ragioneria - Rivista di Amministrazione e Ragioneria.

- Manuale Astengo - Rivista Amministrativa del regno - Il Foro Amministrativo - La Giustizia Tributaria.

- Rassegna della Previdenza Sociale - La Croce Verde, etc.

L'urbanesimo in Italia è soprattutto azione

E' detto in una pubblicazione dell'Istituto d'Urbanesimo francese che in Francia le applicazioni della scienza urbanistica sono singolarmente in ritardo sulla scienza stessa.

Il contrario accade in Italia, dove l'arte urbanistica è largamente applicata, mentre ancora non si può dire che esista la scienza.

E veramente meraviglioso è il risveglio edilizio e sociale delle nostre belle Città italiane, degno non soltanto di un grande popolo che cresce di mezzo milione all'anno, ma dell'avvenire imperiale, nel senso più squisitamente morale, cui si va rapidamente preparando.

Fuse da un cinquantennio nell'unità nazionale dal Risorgimento, esse avevano perduto un poco della loro magnifica individualità, che fu la ragione prima della loro storia, non soltanto politica, ma intellettuale; mentre il commercio e l'industria progredivano, mentre l'agricoltura si perfezionava, sopita sembrava, per gli inciampi degli organismi centrali e per le difficoltà finanziarie medesime in cui si dibattevano esse e lo Stato, la loro attività edilizia ed urbanistica.

Ma oggi, in questa splendida ripresa di tutti i valori nazionali, cui gli altri popoli assistono ormai con chiara ammirazione, è lo Stato medesimo che le incita a valersi dei risanati bilanci: è la madre che tende ancora la mano ai suoi figli, perché, non paga di aver assicurata loro la vita di ogni giorno col tranquillo lavoro, vuole ch'essi si elevino a nuovo civile splendore.

E allora vediamo lo stesso Capo del Governo, dopo avere innalzato l'Urbe immortale alle sue vere funzioni ed alla sua vera degnità di Capitale, tracciare al Governatore, nell'atto di insediarlo, le linee della formidabile rinascita, perché Roma, centro di attrazione universale, ritorni faro di nuovissima civiltà e ritrovi il suo fulgido cammino.

E non soltanto la grandiosità dell'impresa, ma la sua stessa rapidità dovrà ricordare la maniera romana.

Molto si era fatto già in tre anni, dal 1923 al 1925, per togliere la Capitale ad uno stato di disagio di cui tutte le Amministrazioni si erano sempre invano lagnate col Governo.

Ora, in cinque anni si dovrà svolgere per Roma questo imponente programma:

1. - Opere destinate a risolvere contemporaneamente problemi della circolazione nell'interno della città e problemi di assetto edilizio.

2. - Opere destinate a promuovere lo sviluppo delle costruzioni per nuove case secondo determinati criteri di agevolazione a favore di gruppi produttori:

a) Inizio del quartiere dell'Artigianato.

3. - Opere destinate ad assicurare un assetto decoroso ad alcuni istituti di cultura:

a) Completamento degli edifici dell'Università.

b) Sede dell'Accademia di Belle Arti, della Scuola Superiore di Architettura e del pensionato artistico.

c) Nuovo palazzo per le esposizioni a Valle Giulia.

4. - Opere destinate a promuovere la liberazione di antichi monumenti e l'assetto di alcune zone di grande interesse archeologico:

a) Liberazione del Teatro Marcello.

b) Assetto del Foro Olitorio e della Piazza della Bocca della Verità.

c) Primi lavori di liberazione dell'area del Circo Massimo.

d) Sistemazione della regione della Via Appia Antica.

Milano, dalla tenace volontà realizzatrice, si è costituita un formidabile programma di opere pubbliche per 700 milioni, da svolgersi pure in cinque anni:

Nuove case popolari per 50 milioni; case per i dipendenti comunali; pavimentazione di strade, quali in granito e quali in asfalto; costruzione di nuove strade, acquisto di altri 12 potenti compressori, sviluppo della fognatura, per un complesso di 100 milioni; esecuzione del piano regolatore con larghi espropri e sistemazione di interi quartieri al centro; completamento della Città degli studi.

Dieci nuovi impianti di sollevamento dell'acqua potabile, di cui quattro pressoché ultimati in Città e sei per servire gli 11 Comuni recentemente aggregati, con una spesa di 12 milioni; nuovo macello, costruzione del tubercolosario; nuovo Palazzo degli Uffici municipali; nuovo Palazzo di Giustizia; nuovo Osservatorio Astronomico; Palazzo degli Archivi; Museo Industriale; Galleria d'Arte moderna.

Quanto al problema delle comunicazioni, che nella metropoli lombarda investe enorme importanza, non solo continuano i lavori della nuova Stazione centrale ferroviaria, ma si pensa a nuovi scali merci ed a nuove linee alla periferia.

Anche il servizio tramviario sta per ricevere un potente impulso con nuove linee di autobus elettrici od a benzina, nuove linee tramviarie, di cui una di circonvallazione più eccentrica dell'attuale, e la riforma del materiale con vetture a grande capacità ed a quattro motori.

Nè per attuare questo suo gruppo di moderne iniziative Milano ha creduto di disfarsi, come qualcuno proponeva, di qualche suo importantissimo servizio industriale municipalizzato; ma ha scelto la via del prestito, giustamente confidando per l'ammortamento nelle sue ricche risorse contributive.

Segnaliamo poi, fra i numerosissimi provvedimenti di ordine urbanistico del Municipio di Milano che è impossibile elencare, il particolare studio del problema della circolazione, ch'essa ha cercato anche di volgarizzare con una Mostra e con proiezioni cinematografiche, e l'istituzione di un servizio di ordinamento professionale per limitare il numero degli spostati.

Napoli sta risolvendo coraggiosamente i suoi leggendari problemi che formarono sempre la base di vane promesse politiche in materia di larga platonica letteratura.

In attesa di portare a termine il piano regolatore con un finanziamento di 80 milioni, l'Amministrazione ne ha disposto lo stralcio per alcune zone, per aprire nuove vie e valorizzare larghi territori vicini al centro. I progetti per il Rione Arenella (24 milioni), il Rione Materdei (5 milioni), la nuova via Ponti Rossi Capodichino (2 milioni), la nuova via Posillipo Alta Moggia Canzanella (1 milione e mezzo), e la nuova via Piazza Arenella-Due Porte (1 milione), sono approvati; due tronchi della nuova via Posillipo Alto (6 milioni) sono in corso. Si pensa pure all'ampliamento della fognatura (12 milioni).

Per le Case popolari si sono ottenute a mutuo 60 milioni.

Per l'edilizia scolastica occorre notare che per 40.000 sui 50.000 alunni di Napoli il Comune, in mancanza di fabbricati proprii, affittava case private e inadatte. Ora per 10.000 alunni sono in corso di costruzione moderni edifici scolastici; per gli altri 30.000 si stanno progettando, con una spesa di 50 milioni; e ciò varrà anche a mitigare la crisi degli alloggi, poiché le case private saranno restituite all'uso di abitazione.

Per ingrandire il suo territorio, Napoli dal 1918 sta provvedendo anch'essa alle necessarie aggregazioni dei piccoli Comuni contermini.

Sta inoltre per iniziare la nuova grande via litoranea da ovest ad est (4 milioni) per decongestionare il traffico di Piazza Municipio, Via S.Carlo, Piazza S.Ferdinando, Piazza Plebiscito e Via Cesario Console.

Genova, che troppo ristretta nel suo vecchio territorio si è testè annessa 19 Comuni contermini, portando la sua popolazione a quasi 600.000 abitanti, sta febbrilmente adattandosi al nuovo posto che le viene a spettare fra le Città italiane.

Il fervore delle opere pubbliche, dei risanamenti, delle demolizioni di colline, delle grandi passeggiate a mare, è per Genova una tradizione; da quando, trent'anni fa, si spianava l'antica Via Giulia per farne la moderna Via XX Settembre, sino a pochi anni or sono, quando si apriva la superba strada del Lido.

Ma ora essa deve pensare agli accresciuti bisogni proprii e dei Comuni aggregati, qualcuno dei quali, come Sampierdarena, costituisce un centro demografico di 50.000 abitanti, e tutti sono saturi di vita industriale e svolgono una intensissima attività economica.

Il piano regolatore, uno dei più difficili per la varietà delle zone, per le pendenze, per l'angustia della lingua di terra ove si stringe Genova vecchia, fra le colline e il mare, procede tuttavia in vari punti, come nella zona di Albaro; si studia l'allargamento della Via Carlo Felice, nel cuore della Città, e si progetta una strada di allacciamento fra la Stazione Principe e la Via Milano, preventivata in 3 milioni.

La fognatura segue le fabbricazioni delle nuove zone. Si sta costruendo la grande diga dell'acquedotto di Val Noci, il quale costerà 30 milioni. Per le case popolari e relative strade si lavora già per 50 milioni. Nuove strade sono continuamente necessarie per seguire le costruzioni incessanti, che ormai hanno raggiunto quasi il culmine delle colline: 4 milioni costa soltanto la Via Napoli, che si svolge sulle alture; 15 milioni costeranno le due nuove gallerie fra le Piazze Corridoni e Corvetto.

Si progettano per 2 milioni gli edifici per i servizi generali, l'autorimessa e il piano caricatore della nettezza urbana.

Procede la costruzione del grandioso Ospedale di S.Martino, i cui due ultimi padiglioni sono costati oltre 2 milioni.

Le scuole di ogni ordine - che per Genova costituiscono un giusto titolo di orgoglio - vennero accresciute dal 1922 ad oggi di 5 caseggiati, del costo di 10 milioni, arditamente superandosi gravi difficoltà per le fondazioni su terreno a forte pendenza. Altre due scuole sono in progetto, e più di 3 milioni il Municipio ha speso per collocare la R.Scuola di Ingegneria Navale nel bel palazzo Cambiasio di Albaro.

In Piazza di Francia infine si sta progettando, col Monumento ai Caduti, un grande Palazzo dell'Arte e dello Sport della grande Genova.

Quanto alle comunicazioni, v'ha in progetto, oltre ad un'autorimessa per gli autobus, (2 milioni), la costruzione della Metropolitana, da Sampierdarena a Quarto dei Mille, preventivata in 150 milioni.

Torino, che veramente conserva tutta la sue regalità, grande centro intellettuale e industriale, tranquillo e operoso, sta procurando nuova copia di energia alle sue fabbriche mercè la grandiosa derivazione del torrente Orco, da cui ricaverà 150 milioni di Kwo, con una spesa di 100 milioni di lire. E nuovi impianti termici di riserva sta apprestando per la propria azienda Elettrica Municipale.

L'aumento di materiale mobile e nuovi depositi per l'Azienda Tramviaria (5 milioni), la sottostazione per l'alimentazione della rete tramviaria (5 milioni), l'aumento di potenzialità dell'Acquedotto, la costruzione del pontone fisso lungo il Po per la linea aerea con Trieste, nuovi Lavatoi pubblici, nuove scuole (13 milioni), il nuovo Archivio di Stato (2 milioni e mezzo), i nuovi impianti ai mercati (1 milione), fanno parte del grandioso programma.

L'acquisto di nuove autoinnaffiatrici, nuovi pozzetti raccoglitori delle spazzature, nuove pavimentazioni in asfalto o in congelamento bituminoso nelle strade cittadine; l'allargamento di Via Roma ed il risanamento dei fabbricati laterali, la sistemazione di nuove vie e nuovi cavalcavia ferroviari; nuovo ponti sul Po e sulla Stura; nuovi canali di fognatura bianca e nera (circa 5 milioni all'anno), la deviazione di altri (2 milioni e mezzo), l'Asilo infantile modello, le «Scuole Materne», il nuovo Ospedale e le nuove Cliniche Universitarie (52 milioni di cui 23 del Comune), il nuovo Mattatoio (45 milioni), l'edificio della Colonia Marina a Loano (3 milioni), le Case Popolari: 4000 locali, il progetto della Città giardino, costituiscono altrettante iniziative che tornano di alto onore alla bella Città subalpina, come la lotta contro l'accattonaggio ed altri importanti provvedimenti sociali.

Anche per Palermo è recentemente venuto, nonché l'indicazione, l'aiuto del Governo, che nel suo programma di resurrezione del Mezzogiorno ha voluto comprendere fra le prime la grande Città siciliana, facendole concedere dal Consorzio di Credito per le opere pubbliche un mutuo garantito dallo Stato di 300 milioni per opere di miglioramento igienico-sanitario, ed assegnandole 11 anni di tempo per eseguirle.

Ed ecco l'elenco dei lavori che verranno compiuti:

Ricostruzione e sistemazione di strade (35 milioni); Risanamento dell'abitato e piano regolatore (105 milioni); Case ultrapopolari (28 milioni); ricostruzione dell'antica fognatura della Città e costruzione della nuova nei nuovi rioni (47 milioni); Nuovo Macello (12 milioni); Sistemazione del Lazzaretto e dello Stabilimento di Disinfezioni (3 milioni e mezzo); Bagni popolari (3 milioni e mezzo); Nuovi edifici scolastici (35 milioni); Nuovi edifici per servizi sanitari municipali (4 milioni); Istituti scientifici e cliniche (27 milioni).

Bologna pure ha nel suo immediato programma di rinnovamento cittadino:

Il completamento delle opere relative al vecchio piano regolatore e di ampliamento, e lo studio del nuovo piano di ampliamento per la zona collinosa in cui la Città va espandendosi; l'esecuzione di una razionale rete di fognatura, l'assetto definitivo degli Istituti Superiori e delle cliniche, e l'esecuzione di tutte le opere stradali ed edilizie inerenti, nuove Scuole Professionali, nuove Scuole Elementari, Scuole all'aperto e Colonie scolastiche per i fanciulli gracili.

Ed ancora:

L'ampliamento della rete tramviaria, l'aumento della portata dell'acquedotto del Setta (in corso di esecuzione) ed il coordinamento dei diversi acquedotti cittadini, la trasformazione dell'illuminazione cittadina a gas in elettrica, il nuovo aerodromo e la nuova Piazza d'Armi, le nuove caserme alla periferia, il nuovo Cimitero.

Venezia, regina dell'Adriatico, non dorme sugli allori della sua storia.

In condizioni naturalmente assai difficili per il disimpegno in forma moderna dei più vitali servizi, essa ha cercato e cerca di superare ogni ostacolo, provvedendo anzi all'impianto di nuovi servizi nelle isole di Burano, Murano e Pellestrina che si è recentemente annesse.

Il maggior titolo d'onore per Venezia in questo periodo è certamente la colossale opera di formazione della Zona Industriale, del Quartiere Urbano e del Porto Commerciale Marghera, in cui sono stati investiti circa 500 milioni, per ricavare, la posto di una regione malarica, saldi terreni e profondi canali, innalzarvi numerosi ed importanti stabilimenti industriali e dare vita ad una vera Città nuova e moderna. Trasformazione che fa onore, otreché a Venezia, all'ingegno ed all'iniziativa italiani.

Degna di nota è pure la politica edilizia del Comune, che, oltre a concedere premi di costruzione, ha acquistato la Piazza d'Armi per erigervi case, e si prepara a fabbricare i vasti terreni che possiede al Lido. Ed al nuovo quartiere di Sant'Elena stanno sorgendo 3800 nuovi locali per cura dell'Istituto Autonomo delle Case Popolari.

Abbiamo inteso sinora dare soltanto degli esempi della formidabile attività urbanistica delle principali Città italiane che sono alla testa della vita nazionale. Ne daremo ora pochi altri di Città minori, scelti nelle più varie regioni d'Italia, ed anche qui non per formare un elenco, ma per dare un'idea dello sviluppo urbanistico dei medi e piccoli centri.

Alessandria ha trovato nella munificienza di un suo cittadino, l'illustre Senatore Borsalino, la soluzione di due gravissimi problemi che si erano ormai fatti indilazionabili: l'acquedotto già in corso, che costerà 4 milioni, e la fognatura, di prossimo inizio, che ne costerà 8. Sta provvedendo poi alla costruzione del nuovo macello e di un mercato coperto, per 5 milioni.

Verona ha compiuto la sistemazione del suo Castelvecchio, adattandolo a Museo, a Pinacoteca e a Casa della Musica. Ma essa sta creando anche una superba Passeggiata ai Colli, sul tipo del famoso Viale di Firenze.

Trento vuole rinnovare con sistemi moderni la sua rete di fognatura (20 milioni), ha in corso di approvazione il piano regolatore, che già applica alla periferia; sta costruendo il nuovo tronco della strada per l'altipiano di Lavarone, con ponti e viadotti; costruirà un nuovo edificio scolastico al Fersina (4 milioni) ed un Foro Boario. Ha in costruzione un nuovo gruppo di case economiche per 8 milioni.

Di Parma basta ricordare il grandioso lavoro della fognatura, già in corso, ed il quartiere giardino per impiegati ed operai.

Lucca ha compiuto il suo nuovo Acquedotto Urbano (10 milioni) ed ha in costruzione la fognatura dinamica per le acque nere a tipo separatore (3 milioni e mezzo). Ha pressoché ultimati lo Stabilimento dei Bagni Popolari, l'ampliamento del Cimitero Urbano (1 milione mezzo) e gruppi di case popolari (5 milioni).

Ha inoltre in progetto un piano di sistemazione del centro cittadino, con galleria centrale (6 milioni), un piano di ampliamento fuori delle antiche mura (5 milioni), Edifizi scolastici (3 milioni), lavori stradali e impianti di illuminazione (2 milioni), ed il Palazzo delle Poste e Telegrafi (2 milioni e mezzo).

Vicenza ha costruita nell'ex Piazza d'Armi 8 nuove Case Popolari, ed altre per 3 milioni ne costruirà presso Porta Nuova e San Rosso. Altre case per gli impiegati sorgeranno presto. Ha Provveduto e sta provvedendo alla sistemazione edilizia del suo centro cittadino e di altre zone, creando nuove strade e quartieri di villini, e studiando il piano di ampliamento. Ha restaurato la «Casa della Scuola» e nuovi edifici scolastici.

Progetta un nuovo Mercato coperto, con annessi magazzini e abitazioni, nuove strade, una Borsa Merci, un Campo di atterraggio, un Campo Sportivo ed il nuovo Cimitero. Sta studiando infine la sua fognatura, da eseguirsi per zone.

Treviso ha trasformato il suo impianto di illuminazione a gas in elettrico, ha municipalizzato il servizio del gas, ha in corso l'esecuzione dell'acquedotto (4 milioni), sta pensando alla Città-giardino sull'area dell'ex Raffineria, all'apertura di un nuovo pubblico Giardino all'ex Ciclodromo; ha costruito case operaie anche a S.Angelo e nuovi padiglioni per i Cronici.

Savona ha in progetto Case Popolari per 8 milioni.

Casale sta sistemando la strada di circonvallazione con selciati e rotaie in granito (2 milioni).

Vercelli ha in corso i progetti del nuovo piano regolatore, dello sventramento del quartiere del Carmine, della fognatura, dell'arginatura del Sesia, di nuove Scuole; ha costruito e sta costruendo Case Popolari, sta rimodernando il suo Macello, ha acquistato materiale modernissimo per l'estinzione degli incendi e per l'innaffiatura delle strade.

Asti ha eretto un nuovo Mercato coperto ed un nuovo edificio scolastico, provvede al piano regolatore e di ampliamento della zona Sbocchi Nord, e sistema le sue strade.

Busto Arsizio, fra le più progredite cittadine industriali che fanno corona a Milano, sta provvedendo al miglioramento di tutti i suoi servizi, che è impossibile enumerare. Citiamo soltanto i nuovi Caseggiati scolastici, le Colonie Alpine e Marine, il nuovo Palazzo della Corte di Assise, l'allargamento del Cimitero, la nuovo arteria per la Stazione Ferroviaria, ecc.

Ed a titolo di onore segnaliamo le opere pubbliche in corso in una sola cittadina del Mezzogiorno, Molfetta: Fognatura (5 milioni), Risanamento della Città vecchia (2 milioni), nuovo Macello (2 milioni), nuovo Palazzo di Città (2 milioni), nuovo quartiere popolare (4 milioni), Piazzale della Stazione (1 milione).

Il Mezzogiorno, del resto, ha trovato la sua ora, ed è in pieno risorgimento. Una statistica ci informa che nel solo mese di Marzo vi sono state terminate ben 104 opere pubbliche, e sono stati disposti 215 appalti, concessioni e lavori in economia per un importo di 113 milioni.

Questo, a grandi tratti, l'imponente movimento urbanistico delle Città Italiane, dal solo punto di vista delle opere pubbliche. Altrettanto ci sarebbe da segnalare sotto l'aspetto amministrativo e sotto quello delle istituzioni sociali. Basterebbe sfogliare un solo periodico: Il progresso sociale del Mezzogiorno, organo del Comitato per la propaganda della previdenza nell'Italia Meridionale, per sentirsene orgogliosi.

Necessità di un Ente Nazionale di Coltura Urbanistica

Riteniamo dunque non solo maturo il tempo, ma singolarmente propizia l'ora per la creazione di un Istituto Nazionale di Urbanesimo e di Alti Studi Municipale. Riteniamo anzi ch'essa ne indichi la necessità:

1°) perché occorre oramai, di fronte a così varia e diffusa attività urbanistica, immettere un flotto continuo di sangue nuovo negli organismi municipali, creando, con apposita scuola, degli amministratori e funzionari di alta competenza, i quali dovranno oggi coadiuvare, più tardi sostituire i predecessori, portando nella soluzione dei vasti problemi urbani univesalità di concezione, razionalità di attitudini e modernità di postulati scientifici.

«Una grande Città» scriveva or non è molto, rendendo conto di un primo periodo della sua gestione, il Generale Donato Etna, Commissario straordinario di Torino - uno dei grandi centri meglio ordinati in Italia - «in cui il magnifico incremento delle industrie e dei commerci, l'incessante sviluppo edilizio, il culto delle arti e delle scienze, il continuo crescente benessere, determinano ognora nuove esigenze, richiede nell'amministrazione della pubblica cosa una costante e vigilante cura, una chiara, larga visione dei problemi immediati e mediati, un ininterrotto studio di sempre maggiori e più acconce provvidenze».

Ora, se alla mancanza, in genere, di studi speciali ha potuto supplire finora l'esperienza intelligente di lunghi anni di pratica professionale, che ci ha dato valentissimi Amministratori e Funzionari ed opere mirabili, oggi che il ritmo accelerato dell'urbanesimo pulsa senza tregua, è urgente e indispensabile preparare questi uomini nella scuola, sì che immediatamente essi possano gettare sulla bilancia della rinascita nazionale la loro forza intellettiva, la loro giovinezza entusiasta, la loro volontà creativa.

2°) perché occorre pure un centro di raccolta, di elaborazione e di divulgazione dei dati scientifici e delle applicazioni pratiche che possono servire a meglio indirizzare l'attività municipale - che si svolge in un campo difficilissimo e con incalcolabili conseguenze sociali - nonché un organo tecnico di consultazione per i centri minori, che non dispongono di personale specializzato.

E' giunto il tempo di nazionalizzare anche la produzione intellettuale dei Municipi; cioè di considerare acquisito alla Nazione tutto ciò che di meglio in ciascuno di essi si studia, si compie, si innova, perché altri possa valersene, e sia possibile, con un largo generoso scambio, attuare in tutto il Paese nuove civili conquiste.Tratteremo prima dell'Istituto come Scuola, poi dell'Istituto quale Associazione Urbanistica.

L'ISTITUTO COME SCUOLA

L'insegnamento organico e razionale dell'urbanesimo non ha luogo attualmente che in Francia. L'Italia sarà dunque il secondo Paese che lo introdurrà fra i suoi studi di alta coltura.

Negli altri Stati le varie discipline che concorrono a formare la scienza urbanistica sono insegnate separatamente nei diversi Istituti d'istruzione superiore.

Nella Svezia, ad esempio, che abbiamo già citato come un buon ambiente di studio, la parte tecnica è insegnata alla Scuola Tecnica Superiore di Stoccolma ed all 'Istituto Chalmers di Gothenbourg: la parte amministrativa ed economica all 'Istituto per gli Studi di Previdenza sociale e di Politica comunale della Capitale.

In Inghilterra v'è, annessa alle Università di Londra e di Liverpool, una Facoltà speciale per i piani regolatori della Città ed i progetti municipali, oltre alle ordinarie facoltà di Ingegneria, e per la parte amministrativa la « London School of Economics».

In Polonia, dove esiste una fiorente Associazione Urbanistica, si sta studiando una Scuola speciale di scienze amministrative e comunali, in cui molto posto sarebbe riservato allo studio dell'Urbanesimo.

Lezioni di urbanesimo vennero recentemente tenute presso la Scuola Tecnica Superiore di Vienna.

Scuole speciali, che sono ben lungi dal comprendere tutta la materia, esistono in altri Paesi: la Verwaltungs Akademie di Berlino, la Facoltà di Scienze Sociali ed Economiche di Colonia, la Scuola Libera di Scienze Politiche a Parigi.

L'Istituto della Sorbona

L'Institut d'Urbanisme invece, annesso alla Facoltà di Diritto della Sorbona, rappresenta il più completo ed armonico centro di studi in questa materia.

Sorto nel 1919 come «Scuola di Alti Studi Urbani» per cura del Consiglio Generale del Dipartimento della Senna, fu da questo ceduto nel 1924 all'Università di Parigi.

Ha per iscopo di preparare dei buoni Funzionari Comunali e Provinciali. Vi sono ammessi i laureati o diplomati di Istituti superiori, i diplomati dei licei e collegi femminili, ed anche coloro che, sprovvisti di tali titoli di studio, a giudizio del Consiglio dei Professori dimostrino una coltura generale sufficiente per seguire l'insegnamento.

Il numero degli allievi fu di 294 nel 1919, di 64 nel 1920, di 183 nel 1921, di 326 nel 1922, di 181 nel 1923, di 153 nel 1924-25, dei quali molti di nazionalità straniera, nessuno italiano.

L'insegnamento, impartito da Docenti scelti fra Professori Universitari, fra gli specialisti che i loro studi e lavori hanno imposto alla pubblica attenzione e tra i Funzionari in servizio od a riposo, comprende due anni di studio, con 115 ore di lezione ciascuno e 12 corsi di conferenze.

Esso è unico per tutti gli allievi, e si divide in 5 Sezioni, corrispondenti ciascuna ad un Corso fondamentale, al quale sono annesse delle Conferenze destinate ad approfondire lo studio di determinate questioni.

Una prima Sezione è dedicata alla Evoluzione delle Città, cioè allo studio dell'origine e delle trasformazioni subite.

Una seconda alla Organizzazione sociale delle Città, studia cioè la popolazione dal punto di vista demografico e sanitario, economico, intellettuale e morale.

Una terza si occupa della Organizzazione Amministrativa, ed espone la teoria della responsabilità del Comune e dei suoi agenti. Vi sono annesse conferenze sulla «Banlieu» (sobborghi) parigina, sulla organizzazione speciale delle Capitali, sulla vita municipale all'estero.

Una quarta Sezione studia l'Organizzazione economica, cioè l'utilizzazione della terra, le conseguenze dello sviluppo industriale moderno, il plus-valore dei terreni; nonché la ragione economica delle Città-giardino. Ne fanno parte conferenze sulla Municipalizzazione dei pubblici servizi.

Un'ultima Sezione ha per oggetto infine l'Arte e Tecnica della Costruzione delle Città, cioè i piani di miglioramento, di abbellimento, di estensione. Comprende delle conferenze sull'«Arte dell'Ingegnere Municipale», sulle strade, sulle fognature.

Il diploma rilasciato agli allievi, dopo la favorevole prova in tutti gli esami e lo svolgimento di una tesi finale, è assimilato a quelli degli Istituti Superiori per i concorsi agli impieghi della Prefettura della Senna e ad altri pubblici Uffici.

Una speciale Sezione di perfezionamento amministrativo è riservata agli impiegati comunali e provinciali, od anche a chi possegga una istruzione sufficiente a seguirne l'insegnamento.

Considerazioni

Esposti così brevemente gli scopi e l'ordinamento dell'Istituto della Sorbona, occorre dichiarare, con tutta lealtà ed ammirazione, che esso ha per così dire scritto le tavole di fondazione di questa nuova scienza, e non v'è studioso al mondo che non gli debba grandissimo onore.

Per il nostro Paese noi riterremo consigliabili alcune varianti.

L'Istituto Francese si rivolge ai laureati di qualsiasi Facoltà - medicina come ingegneria, legge come lettere e filosofia o storia naturale - ed anche ai semplici diplomati dei licei e dei collegi femminili, e li chiama a sè per farne degli urbanisti.

Nessun dubbio che l'urbanesimo come scienza possa essere assimilato da coloro cui gli studi superiori di qualsiasi ramo, (meglio quelli secondari) abbiano conferito la necessaria maturità intellettuale: come arte però esso non ha luogo ad essere praticamente applicato se non da parte di coloro che ad una funzione urbanistica effettivamente dovranno dedicarsi.

Quali sono queste funzioni? Quelle degli alti Funzionari Municipali anzitutto: Segretari, Ragionieri, Ingegneri, Architetti, Ufficiali Sanitari dei grandi e medi Comuni. Per cui saranno in prevalenza i laureati od i laureandi in Legge, in Scienze Sociali, in Scienze Politiche, in Studi Commerciali, in Ingegneria, in Architettura, in Medicina che potranno praticamente profittarne.

Ne profittano certamente anche gli Amministratori elettivi, ufficio che tutti possono essere chiamati a coprire: ed allora, in considerazione che le loro funzioni, per quanto tecniche, sono pur sempre transitorie e parziali in relazione alla completa attività della persona, noi ammetteremo anche i diplomati delle Scuole Secondarie in qualità di Uditori.

Ma per i Funzionari - che possiamo definire Amministratori fissi e specializzati - non si può a nostro avviso, richiedere meno di una preparazione superiore e specifica, della quale gli studi urbanistici non sono che una integrazione e un coronamento.

Osserviamo infatti che dei 62 allievi che l'Istituto francese ebbe nell'anno scolastico 1924-25, (esclusa la Sezione di perfezionamento amministrativo) soltanto 5 erano già impiegati municipali e 16 studenti di facoltà universitarie, cioè possibili funzionari futuri. Il terzo al massimo degli iscritti aveva dunque la possibilità di specializzarzi nelle alte pubbliche funzioni, a cui prevalentemente l'arte urbanistica sarebbe devoluta.

Ed ecco infatti le professioni dei 15 diplomati nei primi 4 anni di vita dell'Istituto (dal 1922 al 1925):

Funzionari Tecnici4

Funzionari Amministrativi 2

Professionisti 3

Altri di cui non risulta la condizione 6

Ciò significa che l'Istituto francese ha prevalentemente il carattere di un corso di alta coltura generale.

Questo spiega anche perché nei programmi dei singoli corsi ufficiali accada talora di trovare una profonda trattazione della parte generale, (una Sezione intera, delle cinque dell'Istituto, è per esempio dedicata alla rievocazione storica della formazione della Città), mentre a conferenze accessorie è riservata la parte pratica dell'insegnamento, quella che si addentra nel vivo dei servizi pubblici, come circolazione e trasporti, tipi e costruzioni di strade, luce, gas, nettezza urbana, acqua potabile, fognature.

Così il laureato in legge assiste anche ad una serie di conferenze su «L'arte dell'ingegnere municipale», mentre l'Ingegnere dedica una parte dei suoi studi all'organizzazione giuridica e alle finanze dei Comuni.

E' vero che, annessa all'Istituto, vi è una Sezione di Perfezionamento Amministrativo, in cui il titolo di ammissione è soltanto la qualità di impiegato comunale o provinciale, o senz'altro un grado di istruzione sufficiente. Essa consiste, per il primo anno, (corso preparatorio 60 lezioni), in elementi di diritto costituzionale, civile e commerciale; e nel secondo (corso complementare 30 lezioni) in nozioni sul funzionamento dei Municipi e in lavori pratici di contabilità comunale.

Ma questo ramoscello inserito per apprezzabili ragioni pratiche nella grande quercia non ha rapporto con l'insegnamento urbanistico dell'Istituto.

La Sezione contava nell'anno scolastico 1924-25 N.91 alunni inscritti, di cui 52 impiegati comunali, 23 impiegati di altre pubbliche amministrazioni e 16 impiegati di amministrazioni private.

Nota: Il testo prosegue con la descrizione della Scuola Italiana alla Parte II

C’è una coincidenza, curiosa ma a ben vedere non più di tanto, fra il dibattito urbanistico britannico e quello italiano dei primissimi anni Quaranta. Del resto la guerra, come fine di un ciclo politico ed economico, incombe su entrambi i contesti e ne avvolge sempre più stretta anche aspetti via via più lontani dal quadro militare, o di politica estera, e sempre più vicini alla vita quotidiana, come accadrà di lì a poco con bombardamenti e distruzioni.

Questa coincidenza curiosa ma non più di tanto è quella sulla “urbanistica antiaerea”, cresciuta in Italia già a partire dal discorso dell’Ascensione e nel dibattito parallelo alla bonifica integrale, e che verso la fine degli anni Trenta e i primi Quaranta occupa uno spazio sempre più esplicito, fino a diventare con gli articoli di Vincenzo Civico su decentramento industriale e sicurezza nazionale per la Critica Fascista di Bottai, la spinta finale all’approvazione della legge urbanistica del 1942. Ben più vasta e nota, la “urbanistica antiaerea” britannica, che dal 1937 trova il fondamentale sbocco e impulso istituzionale nella Royal Commission on the Distribution of the Industrial Population , meglio nota come Commissione Barlow. Anche qui, come nel caso di Mussolini, alle spalle c’è il discorso di un leader politico: “our enormous metropolis here, the greatest target in the world, a kind of tremendous, fat, valuable cow tied up to attract the beast” . Sono parole di Winston Churchill, pronunciate ai Comuni nel 1934 e più che mai d’attualità nel 1940, quando la “bestia” Luftwaffe sta scaldando i motori per precipitarsi sulla “vacca grassa” di Londra e delle altre città industriali britanniche.

Un’occasione irripetibile per la cultura urbanistica britannica, e per il suo tentativo sin dai tempi del primo Howard di tracciare il “peaceful path to real reform” non nel segno della tecnocrazia o del decisionismo di settore, ma nel quadro di grandi politiche nazionali integrate. Ora la “vacca grassa” dell’industria e dell’identità nazionale è in pericolo, e per spostarla qui e là per il territorio nazionale senza combinare grossi guai c’è un solo strumento: la pianificazione territoriale, coordinata con la programmazione economica e un sistema di regole, restrizioni, premi e incentivi.

Ma vallo a spiegare ad una platea di commissari e politici usi a ragionare in termini settoriali, e a rispettare l’impermeabilità di competenze dei grandi apparati. Ci prova qui, in prima istanza senza molto successo (i risultati arriveranno, ma più tardi), Patrick Abercrombie con il suo notissimo Minority Report , che per ora qui proponiamo nella parte stesa in collaborazione, e che auspica l’istituzione di un nuovo Ministero con delega al decentramento industriale, alla pianificazione territoriale e ai trasporti. Si iniziano a intravedere le tracce di quello che sarà, immediatamente dopo la guerra, il Ministero dell’Urbanistica tanto invidiato per lustri dall’Italia (anche dopo il suo scioglimento), e con esso le New Towns e buona parte degli sviluppi urbanistici principali del continente nella seconda metà del secolo.

In conclusione un documento piuttosto importante e di solito conosciuto al massimo per sentito dire, che nonostante il linguaggio necessariamente asciutto e ripetitivo del documento ufficiale spero possa interessare un pubblico più vasto dei soliti (ex) topi da biblioteca come il sottoscritto. (fb)

Da: Royal Commission on the Distribution of the Industrial Population – Report, His Majesty’s Stationery Office, London 1940 (estratti e traduzione di Fabrizio Bottini)

Relazione del Professor Patrick Abercrombie, del Signor Herbert H. Elvin, della Signora Hermione Hichens

1 – Noi sottoscritti Commissari nominati coi mandati di Vostra Maestà in data 8 luglio 1937 e 23 giugno 1938, ci rammarichiamo di non poter accettare integralmente il Rapporto della Maggioranza.

[...]

5 – ... dissentiamo fondamentalmente dai nostri colleghi riguardo alle azioni immediate da prendersi in rapporto alla esistente confusione. È necessaria una singola Autorità con ampi poteri, per assicurare una ragionevole equilibrio nella distribuzione industriale in tutto il paese, e si deve alla sua assenza la responsabilità per la tragedia delle Aree Depresse, il sovradimensionamento delle città, e la distruzione delle campagne durante gli ultimi due decenni.

6 – Per prevenire il ripetersi o l’aggravarsi di queste piaghe, sono necessari una continua vigilanza e un controllo generale sul mutevole ambito sociale e industriale, e l’Autorità responsabile a ciò deve essere pienamente predisposta allo scopo. Tutti i membri della Commissione concordano sull’urgenza di intraprendere azioni immediate; ma un’azione prevede l’esistenza di un organo dotati di poteri esecutivi e, in assenza di tale organo, non esistono strumenti per tradurre le parole in fatti.

Di conseguenza raccomandiamo che siano demandati ampi poteri ad un nuovo Dipartimento Governativo, o ad uno che si evolva da un Dipartimento esistente.

7 – Comprendiamo che ciò possa implicare difficoltà amministrative e politiche, ma potremmo citare i precedenti della legge per il Ministero delle Munizioni del 1916, quella del Ministero delle Forniture del 1939, e il trasferimento di competenze e poteri da altri Dipartimenti che ha comportato la creazione e lo sviluppo del Ministero del Lavoro e del Ministero della Sanità.

8 – Se queste difficoltà politiche e amministrative esistessero, e fossero insuperabili, saremmo soddisfatti dell’istituzione di un Ufficio (ammesso sia fornito dei poteri che chiediamo) presso un Ministero esistente perché confidiamo che, dopo gli stadi iniziali, la natura del lavoro intrapreso richiederà in ultima istanza l’attenzione specifica di un Ministro e di un totalmente autonomo Ministero.

9 – Nel predisporre le nostre raccomandazioni, siamo stati influenzati da alcune considerazioni, di cui segue qui un breve sommario.

Abbiamo tenuto particolarmente presente la relazione delle localizzazioni industriali coi problemi della disoccupazione, non solo nelle Zone Speciali, ma anche in altre aree ad alta disoccupazione. Una cattiva localizzazione industriale è in parte responsabile della disoccupazione, e di certo se non ci fossero state Zone Speciali la Commissione Reale non sarebbe stata istituita.

10 – C’è anche la questione di prepararsi per il periodo quando il programma di riarmo arriverà alla fine. Consideriamo essenziale che ogni azione intrapresa prenda in considerazione questo aspetto.

11 – In più, ci sono altri problemi per il futuro. Il Rapporto della Maggioranza sembra ritenere che ci sia abbondanza di tempo per la preparazione e la ricerca. Noi consideriamo, comunque, che la quantità senza precedenti di nuove localizzazioni industriali che sta avendo luogo a causa del programma di riarmo, e il mutato carattere del rischio bellico, che sta causando una grossa quantità di ri-localizzazione, rende il problema di carattere immediato. Sarebbe d’altra parte disastroso, se una politica di spostamenti dovesse portare non solo al perpetuamento, ma anche all’acuirsi dei mali esistenti.

12 – Il fatto che a partire dal 1909 ci sia stata una crescente produzione di leggi sull’argomento, non deve trarci in inganno a ritenere che l’azione di pianificazione territoriale sia operativamente efficace, sia dal punto di vista dell’area interessata, sia da quello del controllo esercitato. Le ultime cifre del Ministero della Sanità mostrano che solo una piccola frazione della Gran Bretagna è sottoposta a controllo urbanistico, a parte la semplice approvazione alla stesura di un piano regolatore, che è naturalmente senza valore di efficacia. Molte delle più importanti aree, ad esempio i centri delle città, non possono essere gestite con i poteri attuali. È chiaro che per motivi di sicurezza contro gli attacchi aerei la forza attrattiva delle grandi città sarà probabilmente diminuita in futuro, e gli industriali probabilmente cercheranno di piazzare le proprie fabbriche in posizioni più inaccessibili, possibilmente nel cuore della campagna, o in ogni caso ad una certa distanza dalle grandi città. Molte grandi imprese commerciali, come banche o compagnie di assicurazione, e uffici pubblici, stanno esaminando la possibilità di stabilire ampie porzioni dei propri uffici, per usi attuali o futuri, in zone di campagna o in piccoli centri. Alcune di esse hanno già acquisito grandi residenze di campagna a scopo di evacuazione. Ci deve anche essere una estesa realizzazione di campi per bambini o altre categorie della comunità che saranno evacuate in tempo di guerra. Tutto questo suggerisce che la campagna sarà soggetta ad un vero e proprio saccheggio senza freni, a una edificazione a caso di carattere inadeguato e sgradevole, se la questione sarà lasciata ai controlli inefficaci che abbiamo sinora tollerato.

13 – Le prove fornite alla Commissione sono basate principalmente sulla storia degli ultimi cento anni, periodo durante il quale gli industriali erano liberi di attivare le proprie industrie ovunque ritenevano opportuno. Non c’era obbligo per loro di tutelare il paesaggio, o di fornire case, trasporti, strutture scolastiche, nonostante vada detto che ci furono imprenditori che fecero molto sotto questi aspetti, bene o male, secondo il proprio discernimento. Non c’erano limiti alla localizzazione e pochi sul tipo di industrie o di case costruite. La scelta dell’industriale era prima di tutto dettata dall’interesse personale, l’aspetto più ampio del benessere nazionale era in gran parte trascurato.

14 – Oggi non è più così. Il controllo pubblico in qualche forma entra sempre più nel mondo dell’industria. Le Leggi Industriali datano dai tempi di Lord Shaftesbury, e la responsabilità del Governo per la sicurezza sociale della popolazione industriale è avanzata progressivamente da quei giorni. Il controllo sulle abitazioni e su alcuni aspetti urbanistici venne più tardi. Sta diventando ora, soprattutto, evidente come per molti versi il paese vada considerato un’unica entità economica. In più, lo Stato ultimamente ha fatto molto per aiutare alcune particolari industrie: con sussidi o con negoziati internazionali.

15 – Tutto ciò deve implicare responsabilità reciproche. Un’industria forte e ben equilibrata, una popolazione sana e ben alloggiata, buone strutture scolastiche e sportive, l’assenza di tuguri, povertà, disoccupazione, sono l’ambiente necessario per la libertà individuale in una ordinata comunità. La nazione non deve solo tutelare la libertà dei suoi cittadini, ma farne qualcosa che valga la pena di godere.

16 – Il nocciolo centrale del problema è senza dubbio il controllo della localizzazione industriale e i suoi rapporti con un sistema di pianificazione nazionale. Senza questo, si può fare ben poco con qualche garanzia di efficacia; con questo controllo, si può fare molto. Il problema della diffusione e decentramento della popolazione troppo concentrata di oggi, ovviamente non si risolverà in nessun modo rapido e arbitrario, nonostante l’urgenza sociale e strategica. La soluzione deve in larga parte essere soluzione economica, ma non può essere perseguita secondo linee prive di limiti e controlli. Il progresso deve necessariamente essere graduale, e basato sul principio generale che l’industria, come ogni altra attività sociale, è una forma di servizio pubblico che può essere giustificata solo in quanto contribuisce al pubblico benessere. La comunità in questo senso è in modo molto concreto e in ogni forma associata all’attività industriale, e ha il diritto, attraverso lo stimolo e le limitazioni, di determinarne le condizioni operative.

LA CAUSA PER UN NUOVO MINISTERO

17 – Parlando in generale, la distribuzione della popolazione è correlata a quella dell’industria, e visto che, come indicato dal Rapporto della Maggioranza, si deve conseguire un’ampia flessibilità nella distribuzione industriale, il problema principale da risolvere è come controllarla in futuro meglio che nel passato, senza danneggiare le attività del paese.

18 – Ancora parlando in generale, l’industria ora si determina da sola la propria localizzazione, soggetta a condizioni localizzative di tipo locale quali quelle imposte da piani regolatori urbani approvati o che hanno raggiunto lo stadio di efficacia temporanea.

19 – Il difetto saliente, nella situazione attuale, è che poca o insufficiente attenzione sia stata dedicata a quale sia la migliore distribuzione industriale nel paese, inteso nel suo complesso. I piani regolatori urbanistici sono locali per definizione, e non c’è meccanismo col quale sia possibile evitare che inseriscano nella propria stesura previsioni per sviluppo demografico o industriale privo di correlazioni alle prospettive future dell’area.

20 – Quello che si richiede, dunque, è:

i) Una ricerca unificata sul problema della distribuzione a scala nazionale;

ii) un piano di distribuzione unico, basato sui risultati di tale ricerca;

iii) Nel frattempo, un efficace controllo sui cambiamenti nella distribuzione che dovessero avvenire per motivi economici.

21 – L’obiettivo di cui sopra è sia nazionale che locale, ed è di importanza sufficiente per richiedere la creazione di un nuovo e autonomo Ministero, secondo lo stesso principio sul quale sono stati creati nel passato Ministeri separati per i servizi, parte nazionali e parte locali, dell’istruzione e dei trasporti.

22 – Questo Ministero dovrà essere adatto al sistema di governo centrale e locale, per funzionare adeguatamente. Dovrà ovviamente accorpare le funzioni urbanistiche ora di pertinenza del Ministero della Sanità. Secondo la nostra opinione, dovrà accorpare, ad esempio:

i) Alcune parti delle funzioni di piano del Ministero dei Trasporti, e

ii) ove possibile alcune parti delle competenze sull’abitazione del Ministero della Sanità.

23 – Funzioni del nuovo Ministero saranno:

a) Indagini e ricerche, finalizzate a un piano sistematico per la distribuzione industriale a scala nazionale, con l’obiettivo di un equilibrio distributivo migliore di quello attuale.

b) Pendente lo sviluppo di tale piano nazionale, controllo nei cambiamenti nell’attuale distribuzione dell’industria così come, e se, essi avvengono nel corrente sviluppo delle attività produttive.

24 – Per lo scopo (a) il Ministero richiederà l’assistenza di una autorevole e adeguatamente composta Commissione Consultiva. Per gli scopi (a) e (b), richiederà i servizi di Uffici costituiti su una adatta base regionale.

25 – Le caratteristiche essenziali della presente legislazione urbanistica sono tali che essa non fa nulla per promuovere una migliore distribuzione industriale nel paese. Produce, solo, il risultato che se un’industria vuole stabilirsi in un certo distretto, deve farlo in determinate zone o parti di esso, secondo quanto è deciso o disegnato nel documento o progetto di piano. Le zone non-industriali sono esse stesse soggette a variante, in favore dell’immissione di attività senza implicare il Ministero della Sanità. Nel caso in cui l’autorità locale non lo consenta l’ industria può appellarsi al Ministero della Sanità, ma il Ministero non ha il potere di scavalcare il consenso del governo locale, per quanto piccola quell’entità possa essere.

26 – Si avverte la necessità di un controllo dei movimenti industriali in qualche modo più diretto di quello descritto sopra. Quando si sviluppa un piano nazionale, i movimenti dell’industria dovranno naturalmente conformarsi ad esso. Nel frattempo si pensa che il Ministero ipotizzato sopra sia investito di poteri diretti di controllo sulla localizzazione di tutte le nuove industrie.

27 – L’attenzione particolare del nuovo Ministero dovrà essere diretta al problema plusvalore-indennizzo (così come esaminato nel Capitolo IX del Rapporto di Maggioranza).

28 – Raccomandiamo che il nuovo Ministero abbia trasferiti i poteri e le funzioni dei Commissari per le Zone Speciali, e che tali poteri e funzioni siano di applicazione generale.

29 – Il nuovo Ministero dovrebbe avere il potere di promuovere, assistere o incoraggiare la costruzione di città satelliti e la realizzazione di zone industriali da parte delle autorità locali, enti di servizi pubblici o altri organismi: e di erogare sussidi o accendere mutui allo scopo di acquisire terreni e diritti edificatori.

30 – Riteniamo molto importante questo aspetto. Quando non fosse possibile attivare nuove industrie, la chiave del problema è che la mobilità per lavoro su lunghe distanze è difficile da stimolare, ma quella su distanze brevi è facile. Il Commissari al momento attuale sono privi del potere di attivare industrie fuori dalla loro Zone Speciali, ma quanto stiamo suggerendo lo renderebbe possibile. In altre aree l’industria sarebbe collocata in punti chiave esistenti, vicina per quanto possibile ad aree di disagio, o altre zone ad alta disoccupazione, dove ora c’è qualche tipo di benessere. Questo causerebbe il minimo di delocalizzazione e attrarrebbe lavoro molto più facilmente.

31 – In questo modo il lavoro del nuovo Ministero rapporterebbe il problema della disoccupazione a quello della localizzazione industriale, per esempio considerando l’incidenza della disoccupazione in particolari località e industrie, insieme ai relativi problemi economici e sociali.

32 – Ci sono cause economiche e psicologiche ai fenomeni che hanno interessato le Aree Depresse per molti anni, e almeno alcuni di essi potrebbero essere rimossi tramite una deliberata azione a livello nazionale, e solo a livello nazionale. Queste esperienze indicano l’imperativa necessità per uno studio continuativo dei cambiamenti che hanno luogo nell’industria stessa, come risultato di nuove invenzioni, mutamenti di gusto, adattamento ai bisogni di nuovi mercati ecc. Il fatto generale è che questa aree hanno sofferto seriamente nel passato un’eccessiva specializzazione, aggravata, senza dubbio, dalle esigenze della guerra 1914-1918. Conseguentemente, il crollo industriale degli anni seguenti si è fatto sentire su di esse con particolare severità. La prosperità di queste zone troppo specializzate è collassata con il taglio della produzione di armamenti dopo il 1919, unito alla considerevole riduzione delle esportazioni. Il risultato è che ad ogni successivo periodo di massima depressione si è avuto un progressivo incremento percentuale di disoccupazione.

33 – Lo spostamento della forza lavoro non è una soluzione. La localizzazione di nuove fabbriche al giorno d’oggi ha poco a che fare con la prossimità alle materie prime come carbone, ferro o altri minerali (eccetto in alcune ben note ed eccezionali circostanze). La nazione non può permettersi di lasciare grandi aree industrializzate derelitte, e lasciare che questo processo di sviluppo si ripeta altrove. In più, non c’è garanzia che le nuove industrie in espansione di oggi non saranno le industrie depresse di domani, se si lascia che si sviluppino senza limiti.

34 – Per queste ragioni, come affermato sopra, consideriamo che il nuovo Ministero debba assorbire i poteri dei Commissari Speciali, ed estendere l’area della propria operatività.

ASPETTI SOCIALI

Salute e Urbanizzazione

35 – Il Rapporto della Maggioranza sembra aver assunto che i dati sulla salute abbiano un significato quasi decisivo. Questo non è supportato da una analisi più attenta sul tipo e obiettivi dei dati disponibili. La maggior parte delle informazioni statistiche che è possibile ottenere dalle autorità sanitarie pubbliche è relativo vuoi alla mortalità generale, mortalità infantile, incidenza di particolari malattie o mortalità che deriva da alcune di esse. Mentre è evidente la grande importanza di tali fattori, essi sono comunque essenzialmente di tipo negativo, C’è una considerevole differenza fra la semplice longevità e un’esistenza salubre, e l’assenza di malattia non va necessariamente presa come presenza di salute in positivo, di un buon fisico, o di vigore corporeo o mentale. Il termine “salute” deve essere concepito come una condizione molto più ampiamente positiva e creativa di qualunque stato della vita possa essere rivelato dalle statistiche di ufficiali sanitari pubblici o dalle tavole del censimento. È al sistema della vita civile che si richiede di produrre la massima quantità di benessere materiale, morale, mentale, piuttosto che agli effetti dell’urbanizzazione sulla durata della vita.

36 – La Commissione ha ricevuto una gran quantità di informazioni sul problema dei vantaggi relativi, dal punto di vista della salute, delle aree di città e campagna. Il tenore generale di queste informazioni può, riteniamo, essere succintamente riassunto nelle quattro seguenti affermazioni:

1) C’è un grande vantaggio naturale, dal punto di vista della salute, dell’ambiente di campagna se comparato con quello urbano, in particolare quando quest’ultimo prende la forma di una grande concentrazione industriale.

2) Questo primato della campagna sulla città, che nasce dai vantaggi naturali, è stato molto ridimensionato durante gli ultimi 30 o 40 anni attraverso la realizzazione di elaborati controlli sanitari e costosi servizi per la salute nelle città.

3) Lo sviluppo della sanità collettiva sta solo ora cominciando a fare significativi progressi nelle aree rurali. Non ci sono ostacoli insormontabili perché non si possano fare grandi passi in avanti, premesso che abbia luogo una riorganizzazione amministrativa e che i servizi siano adeguatamente sostenuti dallo Stato.

4) Nonostante i traguardi superiori conseguiti dalle città nel campo della salute pubblica, le aree rurali mantengono ancora in generale un percettibile vantaggio sulla città.

37 – È chiaro anche che alcuni fattori piuttosto che altri, direttamente connessi sia all’ambiente naturale da una parte, sia ai servizi sanitari pubblici dall’altra, giocano un ruolo considerevole nel determinare la salute relativa degli abitanti di città e campagna. Paghe basse e cattive abitazioni sono due dei fattori più rilevanti con effetto nocivo sulla salute dell’uomo di campagna. C’è vasto consenso di opinioni fra i medici del servizio sanitario nazionale che hanno sottoposto il proprio punto di vista attraverso il Comitato Medico Congiunto, sul fatto che la vita rurale possa essere resa molto più salubre di quanto non sia al giorno d’oggi. In più, non si deve ritenere che si continuino necessariamente nelle nostre città, per il futuro, dei progressi nel campo della salute. Il Comitato Medico Congiunto ha avvisato la Commissione che la realizzazione di blocchi ad appartamenti con piccole stanze prive di condotti d’aria e senza appropriata ventilazione probabilmente porteranno ad un declino in vigore ed efficienza di coloro che ci vivono, e possono produrre un incremento della tubercolosi. In più, è diffusa l’opinione che il rapido trasferimento ora in corso di una larga parte della popolazione urbana da case verso piccoli appartamenti nei quali sono “ingabbiati, stretti e rinchiusi” con poco o nessuno spazio disponibile, significa che qualunque incremento nell’attuale dimensione delle famiglie presenterà grandi difficoltà dal punto di vista dell’alloggio. Quando ricordiamo che il tasso netto di riproduzione nazionale è al momento solo circa 0,75 l’importanza di questa questione appare ovvia. C’è anche l’indiscutibile fatto che nelle città maggiori il terreno necessario per campi da gioco è stato utilizzato per scopi edificatori, col risultato che non è più possibile fornire alla popolazione adeguate strutture per il tempo libero. Ancora al 1927 c’erano 13.000 ettari di terreno entro un raggio di 18 chilometri da Charing Cross, disponibili per l’uso come campi da gioco o spazi aperti. Nel 1933 la quantità si era ridotta a poco più di 3.000 ettari, e non c’è motivo di supporre che il processo si sia fermato a partire da quella data.

38 – Segnaliamo questi elementi perché è importante evitare un facile ottimismo per quanto riguarda le prospettive di salute nazionale, se fossero soggette ai rischi e alle minacce di qualunque ulteriore grado di sviluppo industriale e urbano non controllato. Ritenere che le cattive condizioni urbane siano una cosa del passato, una mera eredità dell’era vittoriana che stiamo rapidamente superando e che non dobbiamo più temere, è gravemente fuorviante. È realisticamente possibile che le attività edilizie speculative e la dispendiosa politica governativa di rialloggiamento in case ad appartamenti possa, se non guidata e verificata, inaugurare una nuova epoca di malessere sociale.

Distruzione della campagna

39 – In epoca vittoriana, l’introduzione di alcuni elementi nemici del benessere e della salute fu limitata in gran parte alle città. Noi, però, coi nostri migliori mezzi di comunicazione, abbiamo spogliato le campagne e ampiamente ridotto le zone in cui gli elementi salutari della campagna continuano ancora a prosperare, e questo proprio nel momento in cui essi sono diventati valori ampiamente riconosciuti.

40 – Se è chiaro che ci sono alcuni vantaggi nella vita urbana, è stato sottolineato come nel passato urbanizzazione abbia sempre significato crescita delle città; ma questo non è più necessariamente vero, oggi. Una consistente parte della campagna può vedere distrutte le proprie caratteristiche senza che emerga nulla di descrivibile come città, né coi vantaggi della città. Questo costituisce davvero la più insidiosa minaccia per la campagna al giorno d’oggi.

CONTROLLO SULLA LOCALIZZAZIONE INDUSTRIALE

41 – Come abbiamo affermato, la questione del controllo sull’industria da parte di un’autorità nazionale e nell’interesse nazionale ci sembra prevalente, sul terreno economico, sociale, strategico.

42 – È stato suggerito che gli industriali si risentiranno rispetto a qualunque forma di controllo, ma, con le cautele che proponiamo, comprenderanno che, lungi dal pregiudicare la loro efficienza, una forma di controllo li aiuterà nella scelta delle zone più adatte per le loro attività.

43 – In primo luogo, secondo le nostre raccomandazioni una gran parte del paese sarà compresa entro “zone libere”, dove i permessi per lo stabilimento di nuove o l’ampliamento di esistenti impianti saranno concessi senza problemi o attese; queste zone saranno rese note agli industriali.

44 – In secondo luogo, le conoscenze ed esperienze che il nuovo Ministero presto acquisirà saranno di valido aiuto agli industriali per prendere decisioni tanto importanti come quelle su una nuova localizzazione.

45 – Terzo, si vedrà come siano suggerite le più prudenti cautele per assicurarsi che, quando ne esistano valide ragioni, alle industrie non sia proibito collocarsi o ampliarsi anche nelle zone vietate.

46 – Infine, le spese di cui generalmente la comunità si fa carico nel fornire case, scuole, strade, e altri servizi a beneficio dell’industria e dei suoi lavoratori, rappresenta un forte argomento in favore del diritto pubblico di parola sulla localizzazione.

47 – Il nuovo Ministero competente nei controlli di localizzazione dell’industria e nella pianificazione territoriale a scala nazionale avrà potere, inter alia, di classificare:

a) Aree in cui è consentito lo sviluppo industriale, soggetto alle limitazioni locali urbanistiche, come nelle “zone libere” (descritte al par. 43).

b) Aree in cui è vietato un ulteriore sviluppo industriale, salvo alcune eccezioni, ad esempio fornitura di servizi, beni deperibili ecc.

48 – Sia le aree dove è consentito che quelle dove è vietato, possono contenere spazi per lo sviluppo industriale di alcuni settori. Le aree possono variare col tempo, come richiede il caso. Le classificazioni probabilmente saranno sottoposte al Parlamento.

49 – Qualunque imprenditore desideri costruire o ampliare una fabbrica, o occuparne una esistente non già utilizzata, o convertire altre strutture a scopi di produzione o trasformazione, dovrà ottenere il permesso del Ministero.

50 – L’imprenditore otterrà di diritto un permesso riguardante un’area dove ciò è consentito, a meno che la fabbrica proposta ricada in una delle eccezioni previste dalla classificazione. È previsto che l’80 per centro di tutte le nuove localizzazioni industriali saranno coperte da questo tipo di aree.

51 – Nel caso di un’area vietata un permesso sarebbe negato in prima facie. Ma sarebbe previsto che il Ministero possa esercitare la propria discrezione rilasciando un permesso anche per questo tipo di aree, a condizione che:

a) Non fosse economicamente conveniente stabilire la fabbrica altrove.

N.B. Sarebbe desiderabile omettere questo obbligo di soddisfare il Ministero nel caso di un industriale che propone di occupare una fabbrica esistente, visto che questo potrebbe essere considerato un rimpiazzo di attività, a cui sarebbe normalmente richiesto di proseguire il volume di produzione e di occupazione esistente. Se, ad ogni modo, si deve decidere una politica di decentramento dalle zone proibite sovradimensionate – come si spera – questo non avverrebbe e ad ogni modo si dovrebbe soddisfare la condizione (a).

b) Che la forza lavoro richiesta e probabilmente necessaria in futuro possa in tutto o in gran parte essere reperita fra la popolazione che normalmente vive o cerca impiego entro l’area.

c) Che siano disponibili nell’area servizi municipali e residenze per la forza lavoro, o che essi possano essere forniti senza aggravi non dovuti sul contribuente.

d) Che la localizzazione della fabbrica nel sito proposto non causi un notevole incremento nella congestione del traffico dell’area.

e) Che la localizzazione proposta non sia discutibile dal punto di vista strategico-militare.

f) Che la localizzazione proposta non sia distruttiva per il paesaggio da conservarsi, ad esempio spazi aperti nelle città, o siti particolari dal punto di vista naturalistico, storico, o di bellezza architettonica.

52 – La questione dell’ampliamento di fabbriche esistenti costituisce il problema più difficile. Si devono definire chiaramente alcuni limiti, altrimenti un industriale potrebbe acquistare un piccolo impianto e quindi ampliarlo di dieci volte senza dover ottenere un’autorizzazione industriale a nessuno stadio di sviluppo. Se le restrizioni devono essere efficaci, riteniamo che le condizioni debbano applicarsi con piena cogenza a qualunque ampliamento che comporti, diciamo su un periodo di tre anni, un incremento occupazionale diciamo del 10 per cento o più, rispetto agli occupati dell’impresa in questione. Nelle piccole fabbriche la percentuale concessa potrebbe essere maggiore.

53 – Considerazioni simili si applicherebbero nel caso di proposte di trasferimento di fabbri da, ad esempio, una zona di Londra all’altra. Questa è stata une delle forze più potenti nel gigantesco allargamento, negli ultimi anni, dell’area urbanizzata londinese. Se si deve perseguire una politica di decentramento, il trasferire una fabbrica da un vecchio o inadatto edificio in una zona vietata è un’occasiona ideale per richiedere il trasferimento della ditta in un’altra zona; e dunque il semplice fatto che una ditta è già impegnata nella produzione in una parte della zona proibita non è motivo per consentirle di trasferirsi in un’altra parte della stessa area, a meno che siano soddisfatte le condizioni del paragrafo 51.

54 – Aree permesse e vietate (vedi paragrafo 47) non devono necessariamente coprire l’intera nazione. Ci sarà molto spazio non incluso né in (a) né in (b). I permessi per localizzare industrie in tali aree saranno governati dalla clausola limitativa secondo cui va scoraggiata una localizzazione industriale sporadica. Le localizzazioni in questi casi saranno dunque interamente a discrezione del Ministero.

55 – Le seguenti raccomandazioni sono intenzionalmente basate su quelle del Rapporto di Maggioranza, perché possano vedersi chiaramente le differenze.

A - COSTITUZIONE E ORGANIZZAZIONE DELL’AUTORITÀ

UN NUOVO MINISTERO

56 – Un nuovo Dipartimento dello Stato da creare allo scopo di svolgere ricerche su, e controllare la localizzazione industriale in tutta la Gran Bretagna, e di promuovere e sovrintendere la pianificazione nazionale per le esigenze industriali, agricole, residenziali e per il tempo libero.

57 – Il Dipartimento è da affidarsi a un Ministro di rango Gabinetto, che avrà il potere, condizionato dagli abituali controlli del Tesoro, di nominare personale adeguato per l’esecuzione dei compiti e funzioni del Dipartimento.

UFFICI REGIONALI

58 – Allo scopo di assicurare stretto contatto con le conoscenze ed esperienze locali e come parte integrante dell’organizzazione di questo Dipartimento, il Ministro sarà incaricato di attivare Uffici di Divisione o Regionali, a coprire aree definite dal Ministro, attraverso i quali il Dipartimento possa agire per obiettivi di localizzazione industriale e altre questioni. Gli Uffici presenteranno ciascuno su propria iniziativa relazioni e raccomandazioni al Ministro riguardo alle rispettive regioni e su altri argomenti correlati.

PIANIFICAZIONE URBANISTICA

59 – Saranno trasferiti immediatamente al Ministero gli attuali poteri e funzioni del Ministero della Sanità secondo il Town and Country Planning Act, e del Ministero dei Trasporti secondo il Restriction of Ribbon Development Act, e il Trunk Roads Act. Altri poteri e funzioni necessari all’efficiente funzionamento del Dipartimento e ora delegati ad altri Dipartimenti, saranno trasferiti al Ministro tramite Ordinanze del Consiglio e quando ritenuto necessario.

ZONE SPECIALI

60 – Saranno anche trasferiti al Ministero i poteri e funzioni dei Commissari per le Zone Speciali, e queste aree saranno estese e ridefinite secondo le necessità.

COMMISSIONE DI RICERCA

61 – Allo scopo di sviluppare ricerche e di dare consulenza al Dipartimento sulla localizzazione dell’industria e la distribuzione della popolazione, il Ministero nominerà una permanente Commissione di Ricerca, composta di tecnici e altre competenze, come si riterrà opportuno.

B – FUNZIONI DEL DIPARTIMENTO: FUNZIONI ESECUTIVE

LOCALIZZAZIONE DELL’INDUSTRIA

62 – Visto che la concentrazione di industrie e popolazione industriale in alcuni centri e la distribuzione puntiforme di nuove industrie in varie parti del paese costituiscono un problema sociale, economico e strategico che richiede immediata azione, al Ministro siano forniti i poteri di esercitare controllo sulla localizzazione di nuove e ampliamento di esistenti impianti industriali in tutto il paese. Il potere delegato al Dipartimento a questo scopo è di operare generalmente in modo negativo (per esempio il Dipartimento non trova luoghi per alcune industrie). Allo scopo di esercitare questo potere di controllo il Ministro abbia il potere di dichiarare come descritto ai paragrafi dal 47 a 54 di questa Relazione:

a) Aree dove l’industria abbia libero ingresso, con le limitazioni dell’urbanistica locale;

b) Aree in cui sia vietato un ulteriore sviluppo industriale, salvo alcune eccezioni;

c) Aree in cui per ottenere un permesso si debba istruire un caso particolare.

PIANO DI SVILUPPO

63 – Al fine di orientare le azioni del Ministero in direzione di una localizzazione industriale nel quadro di una economia equilibrata, il Ministro necessiterà di uno Schema di Sviluppo su cui basare le proprie politiche; esso dovrebbe essere predisposto per il Dipartimento dalla Commissione di Ricerca. Il Ministro avrà il potere di imporre le richieste di tale piano all’interno di Piani Regolatori Regionali e Locali; essi possono richiedere notevoli modifiche (essendo stati predisposti solo tenendo presente le necessità regionali e locali), per conformarsi alle politiche industriali nazionali. Il Rapporto di Maggioranza indica che i poteri di pianificazione esistenti sono inadeguati allo scopo.

INCENTIVI

64 – Il Ministro sia autorizzato a consentire assistenza finanziaria da risorse governative sotto forma di prestiti, mutui o altro, con l’obiettivo di incoraggiare una auspicabile localizzazione industriale e una adeguata pianificazione, o per altri scopi, in particolare:

a) Per promuovere e incoraggiare realizzazione e sviluppo di città satellite e città giardino da parte delle autorità locali, imprese di servizi pubblici, e altri organismi.

b) Per assistere lo sviluppo di centri minori e capoluoghi di rango regionale.

c) Per promuovere e incoraggiare realizzazione e sviluppo di zone industriali attraverso l’accesso a terreni di basso costo, fornitura di servizi, costruzione di fabbriche da cedere ecc.

d) Per proseguire il lavoro nelle Zone Speciali.

e) Per assistere l’attuazione di speciali imprese di interesse nazionale, come i Parchi nazionali, le Riserve Costiere e l’acquisizione di proprietà a da iscrivere al National Trust.

f) Per acquisire terreni.

C – FUNZIONI DEL DIPARTIMENTO: FUNZIONI CONSULTIVE E NON-ESECUTIVE

RICERCA

65 – Le seguenti competenze siano trasferite dal Ministro alla Commissione di Ricerca:

a) Raccolta e coordinamento di informazioni connesse alla localizzazione di industrie e dati simili riguardanti la distribuzione della popolazione industriale attualmente posseduti dal vari Dipartimenti Governativi.

b) Ricerca e raccolta di informazioni sulle vari risorse naturali: terreni, agricoltura, minerali, paesaggi, ecc., che possano essere messe in pericolo dallo sviluppo nazionale.

c) Consulenza al Governo, alle autorità locali, agli industriali e ad altri, sui problemi della pianificazione, con speciale riguardo alla localizzazione industriale.

d) Preparazione di un Piano Generale di Sviluppo, soggetto a costante revisione.

(lo Statuto dichiarerà che i Rapporti Annuali della Commissione di Ricerca e le proposte di Sviluppo Nazionale siano presentate al Parlamento).

RAPPORTO SPECIALE SULLE PROPOSTE GENERALI

66 – Il Ministro abbia imposto per statuto il dovere di predisporre e sottoporre al Parlamento, il più presto possibile, un Rapporto Speciale riguardo a quali poteri ulteriori egli richieda, e all’organizzazione necessaria allo scopo di dare effetto agli obiettivi di azione nazionale così come unanimemente concordati dalla Commissione e delineati nel paragrafo 428 del Rapporto di Maggioranza, segnatamente:

a) Continua e progressiva ristrutturazione urbanistica delle aree congestionate, dove necessario.

b) Decentramento o dispersione, sia di industrie che di popolazione industriale, da tali aree. Con questa correlazione, l’attenzione principale sia diretta ai metodi attraverso cui decentramento o dispersione sono incoraggiati e perseguiti, nella forma di città o sobborghi giardino, città satellite, zone industriali, o attraverso lo sviluppo di centri minori o capoluoghi di rango regionale.

c) Sostegno ad un ragionevole equilibrio nello sviluppo industriale, per quanto possibile, nelle varie regioni o suddivisioni della Gran Bretagna, unito ad una adeguata diversificazione delle industrie in ciascuna regione o suddivisione del paese.

In aggiunta, il Ministro dovrebbe essere incaricato dal Governo perché sviluppi le conclusioni del gruppo di esperti riguardo all’argomento del plusvalore e indennizzo, che è raccomandato al paragrafo 250 del Rapporto di Maggioranza.

CONCLUSIONI

67 – In conclusione, riteniamo che il paese stia guardando alla Commissione per avere una chiara e sicura guida su questa questione. Niente meno di un Dipartimento, o un Ufficio aggiunto a quello di un Ministro di Gabinetto, che eserciti pieni poteri esecutivi e dotato di personale adeguato, darà l’impressione di tentare una soluzione non soltanto ai problemi attuali, ma anche a quelli che quasi certamente sorgeranno nell’immediato futuro.

LESLIE PATRICK ABERCROMBIE, HERBERT H. ELVIN, HERMIONE HICHENS

Nota: come accennato nell’introduzione, esiste un rapporto verificabile fra molti temi del decentramento produttivo e in generale insediativo, a livello internazionale, negli anni Trenta. Per una parziale verifica del panorama italiano, posso proporre dal mio sito un testo pubblicato nel 1935 dalla rivista milanese La Casa, impegnativamente titolato La fine delle città (fb)

È il 1910, e in questi brevi anni che precedono la prima guerra mondiale l’urbanistica moderna sta diventando adulta, in Gran Bretagna ma non solo. Basta pensare alla nostra Italia, dove sullo schema di Edmondo Sanjust di Teulada per Roma si sta sviluppando un dibattito fra varie correnti che porterà, di fatto, alla nascita da istanze conservazioniste del primo nucleo di cultura urbanistica nazionale.

Nelle campagne intorno a Londra cresce lentamente l’esperimento della città giardino di Letchworth, e il parlamento ha appena approvato una legge urbanistica ispirata in gran parte dal suo progettista, Raymond Unwin. A Liverpool si è attivata la prima scuola specializzata, che con la sua Town Planning Review aggiunge peso e prestigio alla pubblicistica del settore, sempre più ricca di periodici non solo tecnico-municipali. Ed è proprio la rivista della scuola di Liverpool a proporre, tramite il suo redattore principale, il trentacinquenne Patrick Abercrombie, un ampio servizio sulle stranezze, vizi e virtù di quanto accade oltreoceano.

E ce n’è ben d’onde, visto che il primo argomento di analisi sarà il Chicago Plan di Daniel Burnham, ovvero la massima, controversa e famosa espressione del cosiddetto City Beautiful Movement .

Uno strascico di pianificazione ottocentesca? Un salto qualitativo verso una concezione grandiosa e lungimirante, per quanto di difficile realizzazione, della metropoli futura? Una cortina fumogena di prospettive mozzafiato, dietro a cui nascondere interessi particolari, e scarsissima sensibilità sociale?

Abercrombie non tenta neppure, di dar risposta a queste domande, limitandosi ad esporre alcuni fatti: chi, cosa, come, fino a che punto. Eppure, tra le sottolineature e le osservazioni sottotono, emergono spunti ironici e soprattutto una notevole attenzione alle potenzialità (e ai pericoli) di questo singolare approccio al piano. Non ultima, la capacità di “venderlo”, che tornerà dieci anni dopo nel saggio dello stesso Abercrombie sulla divulgazione della disciplina urbanistica nelle scuole.

Ma lascio la parola a un grande urbanista, che ci racconta con parole di quasi un secolo fa un grandioso progetto. (fb)

Piani regolatori in America – Chicago, The Town Planning Review, aprile 1910 (traduzione di Fabrizio Bottini)

Introduzione (di Charles H. Reilly)

L’urbanistica ha un significato in qualche misura diverso, in America, da quello che può avere in Germania, o da noi. Seguendo la Germania il termine in Inghilterra è generalmente inteso come correlato a progetti il cui spirito e scopo è, in primo luogo, igienico e umanitario: piani, ad esempio, per migliori abitazioni delle classi lavoratrici, o per evitare che nuovi sobborghi divengano rapidamente nuovi quartieri degradati. La dizione integrale della recente legge urbanistica The Housing and Town Planning Act, descrive bene questo atteggiamento, e non c’è dubbio che l’entusiasmo con cui la legge è stata salutata da tanti settori si deve più alle speranze per la promozione di buone e sane abitazioni per i poveri, che a qualsiasi miglioramento architettonico delle città essa possa in qualche modo favorire. Con l’eccezione del piano di Wren per Londra e alcuni isolati episodi di alta architettura a Bath, Edimburgo e altrove, si può dire che l’urbanistica in Inghilterra sia iniziata con l’idea del sobborgo giardino – la piccola imitazione di villaggio ai margini della città – e di non essere andata sino ad oggi molto oltre.

D’altra parte, in America, il recente entusiasmo per l’urbanistica, che senza alcuna Legge del parlamento a stimolarlo è stato altrettanto grande che da noi, si è sviluppato in una direzione diversa. L’americano medio confronta sempre la sua City, come la chiama, con le città degli Stati vicini, o, se ha viaggiato, con le città d’Europa. In questo modo la città gli si presenta in modo unitario, paragonabile ad altre simili unità. Non c’è dubbio che la pianta a scacchiera su cui con poca riflessione sono state impostate la maggior parte delle città americane, rende possibile farsi una buona idea della città nel suo insieme con una rapida conoscenza. Ma qualunque si ala ragione, non c’è dubbio che lo spirito di emulazione civica esista in America in misura impensabile qui, e che quotidianamente invochi nuovi piani in cui vengano sottolineati ed enfatizzati l’uno o l’altro aspetto della città esistente. Il più comune, è la dotazione di un centro civico, un punto della città dove gli edifici pubblico possano essere raggruppati ed esprimere l’importanza e dignità della vita urbana. Altri piani affrontano i bisogni del tempo libero in città, non solo a scala di quartiere ma dell’intero complesso. Gli americani non pensano più ai parchi pubblici e ai giardini come piacevoli spazi isolati, ma come parti di un sistema integrato pensato non solo per i bisogni del momento, ma in termini di immense riserve, foreste, aperta campagna, per le necessità delle generazioni future.

Per farla breve, l’Americano per l’architettura e l’urbanistica si volge alla Francia, dove è valorizzata l’unitarietà logica del piano, anziché alla Germania, con la sua abilità per il dettaglio, ma comunque con carenze di sistema nella pianificazione. Per straordinario che possa sembrare al momento attuale, l’ambizione della città media americana è di rivaleggiare – nel giro di pochi anni: cinque o dieci anni al massimo – con Parigi, e molte hanno intrapreso passi considerevoli in questa direzione. Viali alberati di circonvallazione, ampie strade diagonali che portano da uno spazio aperto all’altro, ponti e rive monumentali, vedute grandiose, sono progettati ovunque e in qualche caso in corso di realizzazione.

Il problema dunque, così come si presenta ad un americano, è più di tipo architettonico che altro, e non c’è da meravigliarsi che abbia suscitato il massimo interesse fra gli architetti. E a dire il vero vediamo che la maggior parte dei piani sono promossi proprio da loro, sia singolarmente o tramite l’associazione professionale locale, e successivamente adottati dal comune o dallo stato. Uno dei fatti più sorprendenti dei piani americani, è che essi devono il proprio impulso alla pubblicazione di rapporti, schemi e disegni molto dettagliati, promossi dall’impresa privata. Il grande progetto per Chicago, appena pubblicato, con lo studio approfondito dei vari aspetti della città, il gran numero di mappe e illustrazioni, è stato commissionato e finanziato da un gruppo di commercianti e imprenditori ferroviari, il Commercial Club.

A dire il vero, questi piani regolatori spesso sembrano un prodotto della cittadinanza illuminata laddove le condizioni dell’amministrazione municipale sono tali che non ci si vuol avere a che fare. Il piano a promozione privata è messo in mostra, illustrato da conferenze, discusso sui giornali, finché diviene elemento di una campagna elettorale che attraversa le formazioni politiche tradizionali. Se questa campagna non ha successo all’interno dell’amministrazione municipale, c’è sempre il governo statale a cui eventualmente rivolgersi, e se ne possono ottenere poteri di attuazione, come nel caso di Boston, non solo sul territorio cittadino ma anche su quello delle municipalità contigue. A Boston i Commissari ai parchi, che sono cinque, controllano il sistema dei parchi di 38 diverse cittadine. Non c’è da meravigliarsi dunque, se i piani regolatori in America presentano una completezza e perfezione sconosciuta altrove, e che li rende un soggetto degno di studio.

Chicago

Il Piano di Chicago, pubblicato nel 1909, è la proposta più completa e sontuosa per ri-creare una città, che sia mai apparsa in America. Preparato sotto la direzione del Commercial Club, redatto dagli architetti Daniel H. Burnham e Edward H. Bennet, pubblicato a cura di Charles Moore, volge l’attenzione ad ogni aspetto di Chicago – eccetto forse uno – propone riforme drastiche e di vasto respiro, mette agli atti un ideale verso il quale dovranno tendere tutte le trasformazioni future.

Questo “Piano”, o Rapporto, non è un opuscolo divulgativo per attirare l’interesse pubblico con una vasta diffusione. È un volume a edizione limitata (1650 copie), splendidamente illustrato e rilegato, e inteso come presentazione completa e compiuta per i finanziatori: l’insieme degli uomini di spirito civico che hanno fatto dono alla città di un progetto completo per il suo futuro.

Non è approfondito e convincente come il progetto per Boston, ma è molto più attraente, e ha il grande merito di trasformare un rozzo e opaco piano urbano in una magnifica concezione centralizzata. Le illustrazioni originali sono, in gran parte, di Jules Guerin; sono state riprodotte a colori, e danno una viva e ariosa impressione delle varie parti della nuova Chicago – immagini notturne dal lago e sul Chicago River, sole brillante sui nuovi boulevards e piazze, bozzetti nevosi invernali ed effetti di luce al crepuscolo – si fa ogni sforzo per rendere le proposte quanto più attraenti e coinvolgenti possibile. Sarebbe difficile immaginare “quadri urbani” più suggestivi, e l’uso di diversi effetti di luce è particolarmente valido nell’aiutare allal visione della città trasformata. Ci sono anche alcuni straordinari disegni architettonici monocromatici di M. F. Janin.

Tra l’altro, il “Piano” propone una discontinua storia dell’urbanistica monumentale. C’è un capitolo sulla città nei tempi antichi e moderni, e sparpagliate per il volume ci sono numerose riproduzioni di piani ed esempi di città europee e americane. Questa parte del libro dà una sottile sensazione di non sincerità. Introdurre un piano per Chicago con osservazioni su Semiramide o Babilonia non sembra rilevante, e foto sparse della Sfinge o delle Piramidi, e schizzi del Teatro Greco di Siracusa, e vaghe impressioni dell’Acropoli, suggeriscono un pasticciare sull’argomento che fortunatamente non si ritrova nel resto del libro.

Le origini del Piano di Chicago possono essere rintracciate nella Fiera Mondiale tenuta a Jackson Park, sul Lago Michigan, nel 1893. La sistemazione degli edifici provvisori, in cui gli architetti convennero di modificare le proprie idee per produrre un grandioso effetto generale, suggerì alle menti dei cittadini di Chicago una possibile sistemazione per la città stessa. Il piacevole effetto sulla sponda del lago generò insoddisfazione per le sponde esistenti, e ne risultò la proposta di un parco continuo da Jackson Park a Lake o Grant Park, dove si trova il porto commerciale.

Il prodotto di questa doppia aspirazione fu, in primo luogo, una Commissione ai parchi per il miglioramento delle rive del lago; poi nel 1903 un piano generale per un sistema verde metropolitano, compresa una cintura esterna a parchi e parkways; infine, nel 1906, il Merchant Club intraprese un progetto completo per l’intera città. Più tardi, Merchant e Commercial Club si fusero, e dal 1907 al 1909 è stato elaborato il Piano, combinando le idee sui parchi delle precedenti commissioni con una approfondita indagine sul traffico e i problemi del trasporto merci, e la concezione architettonica del centro, o cuore, civico.

Si sono formati via via comitati composti da membri del club, per dare consulenza agli architetti su vari aspetti del progetto; sono state attrezzate ad ufficio alcune stanze sul tetto di un alto edificio, dove sono stati realizzati i disegni, e su invito del club il Governatore dell’Illinois, il Sindaco di Chicago, e altri ufficiali pubblici hanno visitato quelle stanze durante lo sviluppo del lavoro, familiarizzandosi così con l’intero progetto mentre veniva costruito.

Chicago, la Metropoli del Middle West, è il maggiore centro ferroviario degli Stati Uniti; 22 linee principali si incrociano qui. Durante la seconda metà del XIX secolo la popolazione è aumentata da trentamila a due milioni di abitanti, e si stima che ne conterrà tredici milioni entro il 1950.

Le caratteristiche naturali di Chicago sono poche e semplici – il lago di fronte, la prateria alle spalle – entrambe apparentemente illimitate, entrambe senza interruzioni, con l’eccezione del fiume Chicago, i cui due rami formano diagonali naturali e suddividono la città in tre settori, Nord, Ovest e Sud. Prima di incontrare il ramo settentrionale, quello meridionale scorre parallelo al lago per circa cinque chilometri; questo spazio fra il fiume e il lago virtualmente forma un quarto settore, il distretto degli affari.

Dopo l’incendio del 1877 Chicago fu rifatta praticamente secondo le medesime linee, solo costruita in pietra anziché di legno. Si tratta di una pianta a griglia suddivisa in unità di 2,5 chilometri quadri. Il criterio di crescita è per aggiunta di unità di questo tipo in qualunque direzione sia necessario. Non possiamo essere d’accordo coi signori Burnham e Bennet, che questo sistema rettilineo o a griglia sia il migliore che si potesse pensare. Certo il sito pianeggiante ne suggerisce una applicabilità che manca in altri casi, e la riva del lago che corre quasi esattamente da nord a sud forma una base naturale per questo sistema rettilineo. In piccole città come Richelieu, ancora, non si potrebbe pensare a niente di meglio; ma appena qualunque città raggiunge una certa dimensione, appaiono la debolezza e la mancanza di un’idea più ampia.

L’assenza di linee diagonali e circolari è fatale per un’efficiente circolazione del traffico. A Chicago, sembrano esserci poche diagonali, resti di strade di campagna: qui sono la salvezza del piano, anche se da noi i sentieri del bestiame sono più spesso la rovina dell’urbanistica.

Ma Burnham e Bennet ritengono che una città debba prima essere costruita su una griglia, e poi che ci si debbano tagliare delle diagonali quando necessario, con enormi spese. Questo ci sembra un metodo piuttosto goffo: lo schema ideale di una città costiera dovrebbe essere impostato attorno a un fuoco, piuttosto che a griglia. Vale a dire, che le linee radiali dovrebbero essere interne al piano, e non un’aggiunta successiva. Da quando Penn tracciò la sua griglia per la Pennsylvania gli americani ne sono stati così ossessionati da considerarla un elemento fondamentale; anche l’Enfant a Washington si accontentò di sovrapporre diagonali a una griglia (formando conseguentemente incroci inopportuni su tutte le vie principali) invece di pensarle interne al piano, come aveva fatto Wren nella sua Londra.

Lo schema stradale di Chicago, dopo essere stato tagliato e rimodellato, si avvicina a un sistema a due semicerchi di viali, quello più grande esterno ed uno interno.

Le proposte del piano vengono qui esaminate secondo cinque gruppi: Collegamenti Suburbani, Sistema dei Parchi e Viali, Trasporti, Strade urbane, il Cuore di Chicago.

Collegamenti Suburbani

Il primo gruppo di proposte è semplice ed ovvio. Si suggerisce di connettere le cittadine entro un raggio di cento chilometri, con un efficiente sistema di strade che si irraggiano da Chicago e la circondano di collegamenti inter-suburbani. La maggior parte di queste strade esiste già. Sono necessarie alcune connessioni qui e là per completare il sistema. Questi percorsi devono comprendere un’arteria per i carichi pesanti e una strada panoramica. Le due saranno separate da una fascia erbosa, e dovranno esserci aree seminate ad erba sui lati e piantate non meno di tre file di alberi. Su queste strade saranno collocate le scuole di campagna.

Sistema dei Parchi e Viali

Il proposto sistema di parchi si suddivide in tre sezioni: il fronte lago, i parchi cittadini, i parchi naturali territoriali. In questo settore, Chicago è meglio attrezzata che in qualunque altro aspetto contenuto nel piano. Ci sono tre parchi in riva al lago, Jackson, Lake, Lincoln, e una serie di parchi cittadini, Washington, Garfield, Douglas, Humboldt, che coi loro viali di connessione formano un semicerchio attorno al centro città, secondo un sistema di gran lunga più strutturato di quanto non possieda ora qualunque città industriale inglese.

Sul fronte del Lago si propone (secondo le raccomandazioni della Commissione nel 1896) di formare un parco continuo lungo oltre trenta chilometri, da Jackson Park a sud (dove fu tenuta la Fiera Mondiale) a Wilmette a nord, compreso il già in parte formato Lake (o Grant) Park, e l’esistente Lincoln Park. Questo percorso continuo di parchi lungo il lago si divide in tre sezioni: la meridionale, la centrale, la settentrionale.

La sezione meridionale consiste di una larga e continua laguna, da usare come bacino per le barche, evidentemente ispirata ai progettisti dalla sistemazione di Henley sul Tamigi. Una striscia a parco la separa dal lago, con una strada costiera sul lato esterno. Ad una prima occhiata, scala e dimensione di questo parco appaiono enormi. Ma si stima che questa realizzazione sarà la più facile ed economica di tutte le proposte del piano. Ogni anno si scaricano nel lago detriti sufficienti ad acquisire circa 10 ettari di nuovo terreno, e con la costruzione dei necessari frangiflutti la formazione di questo parco dovrebbe essere solo questione di tempo. Una volta completata, questo specchio d’acqua sarà ad una scala più grandiosa di qualunque altro spazio per il tempo libero si sia visto al mondo sinora; tuttavia abbiamo la sensazione che, forse, l’immensità della concezione e la concreta possibilità di realizzarla può aver accecato i progettisti riguardo al miglior modo di trattare il fronte lago. Con un affaccio urbano su una tale, colossale scala, come suggerito dagli studi architettonici, non avrebbe forse creato un effetto migliore la semplice immensità del lago aperto, in contrasto con la città, di quello ottenuto frapponendo due strisce di parco e un’ampia laguna? Naturalmente, esiste la semplice, pratica considerazione dei pericoli derivanti dal manovrare una barca sul lago aperto, rispetto alla sicurezza della laguna chiusa, e comprendiamo che questa organizzazione fu originariamente promossa dalla Commissione, interessata in primo luogo agli aspetti connessi al tempo libero.

La sezione centrale contiene l’esistente Grant (o Lake) Park, di fronte al quale, all’incirca sulla stessa lunghezza, sarà realizzato un immenso porto per barche a vela, con frangiflutti proiettanti verso il lago. A poca distanza, a nord e a sud di questo progettato porto, lunghi passeggi dalla 22 Strada a Chicago Avenue fiancheggiano questo nobile ingresso alla città. Lo spazio fra il molo meridionale e il porto per le imbarcazioni a vela è occupato da una vasto bacino, l’ingresso alla laguna, ed è destinato a grandi spettacoli sull’acqua; di fatto sarà il parco atletico della città. Lo spazio fra il molo nord e il porto conterrà la foce del Chicago River e tutti i bacini commerciali settentrionali.

La sezione nord del sistema di parchi corrisponde a quella meridionale, con la differenza di essere più stretta, e che l’ampia laguna si è ridotta ad una serie di specchi d’acqua collegati da canali. Una delle caratteristiche di questa zona, sarà la creazione di una catena di isole, e di parecchi porticcioli per riparare imbarcazioni a vela in caso di tempesta.

Il disegno generale di questa sezione, è estremamente curato, sviluppa e valorizza la riva del lago, e raggiunge il massimo verso il porto centrale. Una piccola parte (due chilometri), chiamata Lake Shore Drive, esiste fra la fine del Chicago Boulevard (da dove inizia uno dei nuovi moli) fino a Lincoln Park: non sarà toccata, visto che su di essa si affacciano alcune delle più importanti residenze private di Chicago.

Nella sezione di parchi interna alla città, si propone di formare tre nuovi spazi all’esterno di quelli esistenti, oltre a parecchi più piccoli e aree da gioco vicine al centro. Questi tre parchi definiscono origine e apice di un ampio viale semicircolare, lungo circa 25 chilometri. Questo colossale boulevard è, forse, la cosa meno convincente del piano, nonostante sia da ammirarne l’audacia. Il raggio è troppo ampio per avere qualche effetto, eccetto sulla carta, dove certo figura molto bene, coi suoi tre parchi a segnarne il percorso e i viali rettilinei che completano il giro sulla costa del lago. Le possibilità rispetto al traffico saranno descritte nel paragrafo sulle strade.

Infine, a partire da questi tre nuovi parchi, sono previste parkways che conducono verso le riserve naturali, collocate principalmente lungo le valli dei fiumi. Gli americani ammirano le nostre Epping Forest, Burnham Beeches, Windsor Park ecc., e vogliono circondare le loro città con spazi simili, ma con l’aggiunta di un sistema continuo di connessioni. Il proposto prolungamento degli Champs Elysèes verso l’aperta campagna, nella foresta di Saint Germain, produrrebbe abbastanza facilmente su Parigi quello che si sta tentando a Chicago.

Trasporti

La terza parte di proposte riguarda il problema dei trasporti, sia di persone che di merci. Si sviluppa secondo tre direzioni: gestione e distribuzione dei carichi merci, concentrazione delle stazioni ferroviarie passeggeri, servizi di trasporto pubblico urbano.

Considerato nel suo insieme, questo aspetto della rigenerazione urbana di Chicago è così vasto che il piano non va oltre l’indicazione di alcuni obiettivi ideali, senza analizzare come conseguirli. Togliere la ferrovia dal Mall a Washington, e concentrare le linee su un’unica stazione di testa era una cosa semplice, se paragonata alla connessione e unificazione di 22 grandi linee principali. E pure, come indica il piano, la questione dei trasporti è la più vitale che la città debba affrontare: “La prosperità commerciale della comunità è rappresentata dal costo per tonnellata delle merci gestite in ingresso e uscita dal territorio”.

Il problema del traffico merci si riassume nella necessità di provvedere uno scalo centralizzato, o struttura di smistamento, da usarsi in comune da tutte le linee. Le merci sarebbero convogliate su questo scalo nel loro viaggio verso l’esterno, e anche per la distribuzione a Chicago. Localizzato a qualche distanza dal cuore della città, eviterebbe di trasportare derrate dentro e poi di nuovo fuori la parte più attiva della città, causando infiniti ritardi e congestione. Alleggerirebbe anche gli scali interni, ciascuno connesso alla propria linea ferroviaria, che in molti casi potrebbero essere rimossi o parecchio ridimensionati. La posizione di questo scalo è ipotizzata ad una certa distanza a sud del ramo meridionale canalizzato del Chicago River; visto che oggi il 95 per cento del movimento merci è per ferrovia, e solo il 5 per cento via acqua, la struttura sarebbe naturalmente pensata in primo luogo per i treni, ma nello stesso tempo connessa con gallerie elettrificate con il North e South Harbor, quest’ultimo da realizzarsi alla foce del fiume Calumet, sotto Jackson Park. Il porto a nord è già situato alla bocca del Chicago River. “I quattro componenti, segnatamente lo scalo merci, i due porti, e i sistemi di connessione, formeranno dunque un meccanismo completo per gestire quasi tutto il trasporto merci a Chicago, in ogni momento”.

Così localizzato lo scalo, e collegato coi sistemi di alimentazione esterni, resta da organizzare lo strumento di distribuzione per la città. Esso in gran parte già esiste, in forma di sistema di gallerie sotterranee, sotto il distretto centrale. È un sistema ora collegato alle varie stazioni merci, e direttamente con molti dei principali magazzini, attraverso montacarichi. Si propone, di sviluppare e completare questo sistema, che opererà in modo molto più efficiente se collegato a uno solo scalo centralizzato, in modo da formare una rete di distribuzione sotterranea a fornire i magazzini, i grandi negozi al dettaglio, e in questo modo liberare le strade delle zone terziarie dal traffico merci pesante. Si tratta dell’applicazione letterale del doppio sistema di strade auspicato da Leonardo Da Vinci. Alcuni degli scali merci cittadini potrebbero essere ancora utilizzati come centri di distribuzione per il commercio minore, non abbastanza importante per un collegamento tramite gallerie sotterranee.

Considerato che la realizzazione di uno scalo centralizzato, e il conseguente rimodellamento delle linee trasporto merci che entrano a Chicago, è un’impresa colossale, il piano suggerisce un’ipotesi alternativa, che potrebbe realizzarsi collegando più efficacemente gli ora separati e sparsi scali, attraverso una serie di nodi tangenziali o linee di cintura, tangenti un singolo grande nodo attorno al distretto centrale. I magazzini collocati lungo questi nodi potrebbero ricevere le merci direttamente senza usare il sistema di distribuzione. Nel caso di realizzazione dello scalo centralizzato, questi nodi potrebbero essere incorporati nel sistema distributivo. Il diagramma che illustra tutto questo indica anche una probabile crescita delle industrie a sud-ovest, in direzione del canale, lontano dal centro città, dove si collocherebbe eventualmente il grande scalo; ciò avrebbe l’importante effetto collaterale di risucchiare molte industrie dall’affollato centro città.

Le proposte per il traffico passeggeri sono piuttosto semplici, se paragonate al piano per le merci. La prima riguarda le stazioni ferroviarie. Queste ora si trovano, come nella maggior parte delle città europee, ovunque una compagnia ferroviaria abbia ritenuto conveniente costruire il suo terminale. La proposta è di sistemarle in due gruppi principali. Il primo consiste in una serie di stazioni di testa affacciate sulla Dodicesima Street, a servire le linee meridionali; l’altro si colloca parallelamente al ramo sud del Chicago River, e occupa l’interop spazio fra due vie parallele, Clinton Street e Canal Street. Si tratterebbe di linee di attraversamento, a livello o sotterranee, con una serie di stazioni o uffici prenotazione a livello strada, a dare accesso a linee diverse. Il risultato di questa riorganizzazione delle stazioni passeggeri sarebbe la rimozione di alcuni tratti e stazioni dall’area terziaria centrale, e la concentrazione sui due lati di questo nodo centrale, in modo che siano egualmente convenienti per la zona degli affari.

Infine, il piano per i passeggeri si completa con un collegamento metropolitano ideale con tutte le parti della città. Si ipotizza un sistema sia sopraelevato, che a livello, che sotterraneo. Il circuito sotterraneo è progettato in particolare per connettere le stazioni ferroviarie una con l’altra.

Strade urbane

Il progetto per le strade interne della città consiste principalmente nella correzione del fondamentale e insostenibile errore dello schema a griglia: l’assenza di diagonali. A Chicago ne esiste già qualcuna, come la Milwaukee Avenue – residuo della vecchia strada per Milwaukee – o la Blue Island Avenue. Esse devono essere ampiamente incrementate a forza di sventramenti attraverso il denso degli isolati, secondo il metodo di Haussmann. Le strade che definiscono la grande unità di espansione standard di 2,5 chilometri quadri, devono pure essere ampliate, alcune come viali, alcune come strade di traffico locale o cittadino.

Uno dei principali problemi di traffico che si incontra è la deviazione del flusso principale da nord a sud attraverso il centro città, come accade ora, causando congestione in zone già congestionate. Si spera che il grande viale di circonvallazione già citato possa aiutare in questo, in particolare visto che il fronte Lago piega a nord-ovest, spostando il centro settentrionale di popolazione molto ad ovest del cuore della città. Un ampio percorso circolare che eviti i territori congestionati dell’industria e degli affari attrarrebbe traffico da considerevoli distanze su entrambi i lati, traffico che seguirebbe questa linea fino a raggiungere una strada di accesso diretto alla porzione di città che è la sua destinazione finale.

Il Chicago River sarà trasformato come la Senna a Parigi, con moli a livelli inferiori per le merci, e accesso ai piani bassi dei magazzini sotto le strade.

Il Cuore di Chicago

Infine, collegata la città coi sobborghi circostanti, realizzati gli spazi aperti e i campi gioco adeguati, reso efficiente il sistema dei trasporti, allargate le strade interne e risolti i problemi di traffico, resta la cosa più importante di tutte: come mettere insieme le varie cose e fondere il tutto in un organismo unico, dotato dell’organo indispensabile, ovvero un cuore funzionante. Parigi, come sappiamo, possiede un cuore con la forma del Louvre, e un asse che da esso passa attraverso Place de la Concorde, ma che non ha rapporti con i principali edifici della città. Chicago propone di migliorare su questo punto. Ora è come una grossa forma di vita animale inferiore, consistente in una serie di cellule regolare, poste l’una di fianco all’altra senza alcun visibile inizio, o fine, o fuoco. Esiste, certo, un posto dove le grandi banche e gli uffici si sono raccolti insieme, chiamato il cuore finanziario, ma ciò non ha effetti radicali sull’insieme: alcune cellule hanno dato semplicemente vita ad una forma particolare. Ancora, esiste un centro teorico di popolazione a ovest, e un po’ a sud di qui.

La proposta, è di creare e aprire una linea centrale, principale, in asse alla città, che scorra ad angolo retto dal fronte lago, al centro dell’attuale porto, e parallela alle vie est-ovest. Questa nuova strada si colloca a metà fra la Dodicesima e Washington Avenue, due vie principali che definiscono il quadrato/unità di crescita più vicino al centro, e di conseguenza stabilisce relazioni centrali con altri percorsi principali est-ovest, come Chicago Avenue e la Ventiduesima, che proseguono formando i moli proiettati nel Lago.

Il grande asse est-ovest chiamato Congress Street, che copre trenta chilometri verso ovest dal fronte Lago, fino a raggiungere l’aperta campagna alla riserva di Salt Creek, rappresenta l’elemento chiave dell’intero piano; è la spina dorsale di Chicago, ora una massa invertebrata. Il collegamento con la base, rappresentata dalla Michigan Avenue, la strada che praticamente forma il fronte lago della città, definisce il centro da cui si traccia il grande viale semicircolare.

Su questa linea sono allineati e tre grandi centri d’attrazione della città, che culminano oltre il viale semicircolare nel nuovo parco centrale.

a) Il centro intellettuale, a Grant Park, affacciato sul porto monumentale. In questo parco sono collocati tre vasti edifici: il Field Natural History and Science Museum al centro, con la Galleria d’Arte e la Biblioteca su ciascun lato; vicino a quest’ultima e affacciata su Michigan Avenue, la Opera House.

b) Fra Michigan Avenue e il Chicago River c’è il centro finanziario. Qui appare una piccola piazza, con qualche tipo di giardino formale: preferiremo spazi completamente aperti, un normale terreno di incontro per uomini d’affari.

c) Attraversato il Chicago River e oltre il gruppo di stazioni di Canal Street, si raggiunge il centro civico, collocato all’incrocio fra Congress Street, Halsted Street (la più importante arteria nord-sud dopo Michigan Avenue), e Blue Island Avenue (una delle diagonali esistenti). Qui è definito un ampio spazio che contiene cinque edifici, di cui si suggerisce che quello centrale debba essere il Municipio, un gruppo gli uffici federali e statali, un altro quelli della Cook County.

Dal centro civico verso l’esterno Congress Street diventa un viale alberato, e si inoltra e confonde col nuovo Central Park, dove incrocia Grand Circuit Boulevard, e poi diventa una parkway fino a raggiungere l’aperta campagna.

Questi, gli elementi principali del gigantesco piano per Chicago. Ci sono innumerevoli punti di minore importanza, e idee che è impossibile riassumere qui, come i suggerimenti per realizzare strade di traffico, Michigan Avenue, la Dodicesima ecc., ad un livello più alto nei punti di intersezione con altre di gran traffico, mantenendole così nel loro carattere.

C’è anche un interessante capitolo sugli aspetti legali del piano, ma dato che è un problema di leggi americane, non abbiamo bisogno di indagare in questa direzione. Ci basta dire che si esamina, in questa parte, come sia più difficile con le leggi americane realizzare una trasformazione di questo tipo, di quanto non sarebbe in Inghilterra con la nuova legge – nonostante riteniamo che il capitolo sia stato scritto senza conoscere i limiti di quella legge.

Nota: dello stesso autore, sono disponibili online tradotti in italiano, su Eddyburg il testo del 1921 sulla divulgazione dell' urbanistica nelle scuole; sul mio sito personale l'introduzione al Greater London Plan del 1944 (fb)

Premessa di Fabrizio Bottini

I brani che seguono hanno il principale motivo di interesse ... nel titolo, ovvero nell’affrontare il tema metropolitano dal modernissimo punto di vista della “comunità”, e dunque dell’identità, invece del prevedibile (per quanto comunque abbastanza innovativo nei primi anni Trenta) approccio territorial-amministrativo-infrastrutturale. Del resto basta la personalità dell’autore, componente di spicco della Chicago School insieme a Park e Burgess, ad assicurare elementi stimolanti e nuovi in questo studio, intrapreso nel quadro delle ricerche volute dalla presidenza Hoover per analizzare il “tasso di modernizzazione” nazionale alla vigilia della crisi economica di fine anni Venti.

Si racconta, in questo studio, la transustanziazione del modello metropolitano indotta dalle trasformazioni tecnologiche e sociali – automobilismo di massa in testa – da quello tradizionale della grande città (eccezionale ma ben visibile già nel XIX secolo) a quello diffuso che pur in forme profondamente mutate viviamo ancora oggi. È la metropoli comunitaria che inizia a vivere di sobborghi, consumi massificati, “nomadismo” indotto o volontario, e soprattutto identità non più strettissimamente locale, ma “spalmata” su una più ampia gamma di territori, servizi, accessi culturali, opportunità. Soprattutto, si tratta di una metropoli virtuale, e per dirla con lo stesso McKenzie “non si tratta di un tipo di comunità metropolitana limitata alle grandi città, è diventata l’unità comune delle relazioni locali nell’intera nazione”. E oltre, diremmo noi, ora.

Estratti da: Roderick Duncan McKenzie, The Metropolitan Community, McGraw Hill, New York 1933 [Ristampa © Routledge Press, New York 1997], traduzione di Fabrizio Bottini

Introduzione

La storia dell’insediamento americano può essere rozzamente divisa in tre periodi. Il primo è l’era pre-ferroviaria, che va dai tempi coloniali a circa la metà del diciannovesimo secolo. Durante questo periodo l’insediamento era confinato, per la maggior parte, nelle aree accessibili dalle vie di navigazione; vale a dire, la costa Atlantica e il sistema fluviale principale a est del Mississippi. Fino al 1850 più del 90 per cento della popolazione degli Stati Uniti abitava a est del fiume Mississippi, e la gran parte di questa a est degli Alleghenies. Durante questa “epoca dei fiumi”, l’insediamento aveva carattere segmentato; le varie unità, determinate dalle condizioni geografiche, avevano scarse relazioni economiche o sociali l’una con l’altra. Era un insediamento di carattere principalmente rurale; quasi quattro quinti dei 23.000.000 di abitanti degli Stati Uniti del 1850 abitavano in territori rurali o in centri con meno di 8.000 persone.

Il secondo periodo di sviluppo insediativo inizia verso il 1850, con l’espansione della ferrovia. A cominciare dalla parte orientale del paese, la costruzione delle ferrovie si espande verso ovest, dapprima verso i centri fluviali già consolidati e, più tardi, verso la nuova frontiera oltre il Mississippi. Al 1870 esiste un collegamento ferroviario con la Costa del Pacifico, e nel 1900 erano state stese tutte le linee principali della rete attuale.

Non vale la pena di ripetere qui la storia dello sviluppo insediativo durante questa era ferroviaria. Alcuni aspetti, comunque, devono essere richiamati all’attenzione. Liberato dal dominio delle vie d’acqua, l’insediamento si espande sotto l’influenza del trasporto ferroviario, a ovest attraverso il continente. Il flusso è diretto e controllato dalle opportunità offerte in termini di terreno coltivabile e altre risorse naturali. Nel periodo di 30 anni dal 1870 al 1900 più di 200 milioni di ettari si aggiungono alla superficie coltivata degli Stati Uniti: un’estensione di territorio, come ha stimato E.L. Bogart, uguale all’area di Gran Bretagna e Europa continentale tranne la Spagna.

Questa corsa verso nuove zone di opportunità agricole perde di slancio poco dopo l’inizio del nuovo secolo. Già nel 1890 il Sovrintendente al Censimento annunciava significativamente che la frontiera era scomparsa, intendendo che la popolazione si fosse distribuita su tutto il territorio, ad una densità minima di 0,8 abitanti per chilometro quadrato. In un’analisi della crescita demografica negli Stati Uniti nel decennio dal 1910 al 1920 W.S. Rossiter sottolinea l’allentarsi di questo movimento verso ovest.

Fino al 1900 il flusso di popolazione era principalmente verso occidente. Da quel censimento, appare come la corrente si sia ridotta, e i mutamenti demografici dipendano di più da sviluppi isolati in varie sezioni del paese, come quelle ad agricoltura irrigua, le campagne dell’Oklahoma, i frutteti del lontano Nord-Ovest, le scoperte di giacimenti minerari e petroliferi nel Sud-Ovest ... Le fluttuazioni e correnti demografiche tendono sempre più a seguire mutamenti nello sviluppo industriale. Questo porta naturalmente ad un incremento accelerato della popolazione urbana.

Sin dall’inizio del movimento vero ovest, anche prima ma in particolare durante il periodo di espansione ferroviaria, la crescita urbana era in gran parte figlia e ancella dell’insediamento rurale; seguiva anziché orientare la diffusione demografica. Sorgevano città-nodo nei punti di ingresso alle varie regioni produttive, che fungevano da centri di raccolta per l’insediamento circostante, e punti di distribuzione dei manufatti importati dall’esterno del territorio. Questi centri di ingresso mantenevano il contatto con il territorio tributario attraverso un gerarchia comunitaria di villaggi, cittadine e città distribuite sulla base del trasporto ferroviario. Così si formò lo schema base dell’insediamento moderno americano. Ben 42 delle 93 città con più di 100.000 abitanti al 1930 sono costituite in municipi sin dal 1850; vale a dire, dall’inizio dello sviluppo ferroviario, e cinque iniziano la propria carriera istituzionale nel 1890.

Verso la fine del diciannovesimo secolo la città comincia a giocare un nuovo ruolo nell’evoluzione dell’insediamento negli Stati Uniti. Con l’ascesa dell’industria, popolazione e ricchezza diventano sempre più concentrate nelle grandi città. La domanda urbana di materie prime per industrie in crescita, e di tipi specializzati di prodotti agricoli per la popolazione in crescita, determinano sempre più i modi dell’insediamento rurale. Continuano a formarsi nuove frontiere, ma principalmente in aree in cui si possono ottenere prodotti destinati al mercato interno urbano. D’altro canto, molte delle più antiche aree rurali iniziano a recedere a causa delle forze economiche originate dai centri metropolitani. Con la crescita di popolazione e ricchezza in tutto il paese, la città acquisisce ambiti crescenti di funzioni economiche e sociali, che svolge non solo per i suoi abitanti, ma anche per il territorio rurale. Parallelamente incrementa il proprio dominio economico e culturale.

Il terzo periodo, quello che ci interessa di più in questo studio, comincia circa nel 1900 o poco dopo. Lo si può chiamare un’epoca di regionalismo urbano, che si sviluppa sotto l’influenza del trasporto motorizzato. Come già detto, la ferrovia pone le fondamenta al regionalismo moderno creando una rete di grandi città-nodo che servono da punti focali nell’integrazione dei territori circostanti e che attraggono l’intera nazione entro una singola unità economica. Il veicolo a motore non ha cambiato le linee principali di questo schema di insediamento ferroviario. Le grandi forze economiche attive al momento di introduzione dell’automobile hanno imposto l’adattamento di questo nuovo mezzo di trasporto alla struttura insediativa già esistente.

Nonostante questo, si può dire che l’effetto complessivo del trasporto motorizzato sulla civiltà Americana è stato tanto fondamentale quanto l’avvento della ferrovia. Il primo luogo, il trasporto a motore è cresciuto con una rapidità ancora più grande di quella delle ferrovie nel loro periodo di maggior espansione. In un quarto di secolo, 26.000.000 di veicoli a motore e più di 800.000 chilometri di strade pavimentate per automobili, si sono aggiunti al sistema di trasporto degli Stati Uniti. Cominciando dalle strade urbane e dalle vie di comunicazione per i carri come uniche arterie di traffico, il veicolo a motore ha sviluppato un sistema di strade pavimentate adatte ai propri bisogni. Questa nuova rete di strade per automobili, che si è sovrapposta allo schema insediativo esistente, ha uno sviluppo più intenso sui margini delle città e ha portato centri urbani e territorio circostante entro un medesimo sistema di trasporto. Così facendo, ha cancellato confini e superato distanze che prima separavano l’area urbana da quella rurale, e ha introdotto un tipo di comunità locale che non ha precedenti nella storia.

Generalizzando, si può dire che la ferrovia abbia stabilito le principali linee strutturali dell’insediamento americano. Rendendo possibile il trasferimento di prodotti fra regioni molto distanti, hanno portato gli interi Stati Uniti verso una sola entità economica integrata da un sistema di città-nodo di varia importanza, che funziona tramite catene di centri minori sgranati lungo le linee ferroviarie. Le ferrovie, comunque, non cambiavano materialmente lo schema tradizionale di vita delle comunità locali.

Eccetto nelle grandi città, dove furono introdotte forme di trasporto meccanizzato, prima a vapore e poi elettriche, il veicolo a cavalli rimase il mezzo principale di spostamento e comunicazione. Le istituzioni locali e le relazioni sociali proseguivano, nell’epoca ferroviaria, più o meno sulle stesse basi dell’epoca precedente. Ma l’avvento del trasporto a motore rivoluziona questo schema tradizionale di relazioni locali, provocando mutamento culturali e istituzionali più dirompenti per la struttura sociale di quanto non avvenuto col trasporto ferroviario.

Riducendo la dimensione della distanza locale, il veicolo a motore amplia l’orizzonte della comunità e introduce una suddivisione territoriale del lavoro, fra le varie istituzioni e centri vicini, unica nella storia dell’insediamento. Il grande centro può ampliare il raggio di influenza; la sua popolazione e molte delle istituzioni, libere dal dominio della ferrovia, si sono ampiamente disperse nel territorio circostante. In più, cittadine e villaggi un tempo indipendenti sono divenuti parte di questo complesso urbano allargato. Questo nuovo tipo di super-comunità organizzata attorno ad un punto focale dominante, che comprende una moltitudine di centri differenziati di attività, è diversa dalla metropoli determinata dal trasporto ferroviario, nella complessità della sua divisione istituzionale del lavoro e nella mobilità della sua popolazione. Il suo scopo territoriale di definisce in termini di trasporto motorizzato e di competizione con le altre regioni. E non si tratta di un tipo di comunità metropolitana limitata alle grandi città. È diventata l’unità comune delle relazioni locali nell’intera nazione. Il suo sviluppo ha determinato un’ampia riorganizzazione demografica e istituzionale, un processo che è ancora lontano dall’aver trovato un equilibrio.

Obiettivo di questo studio è quello di delineare l’ascesa di questo nuovo tipo di comunità regionale, di evidenziare le forze che lo stanno formando, e determinarne forme e modus operandi. Nella fase attuale, è importante notare le tendenze nell’organizzazione spaziale della popolazione sia nel paese in generale, sia nei bacini locali; esaminare le tendenze di insediamento, dai nuclei isolati indipendenti a questo tipo di complesso super-comunitario; notare i problemi che sorgono nel processo di riorganizzazione.

Affrontando questo compito, ci si scontra con i limiti delle statistiche disponibili per misurare tendenze e interrelazioni del fenomeno. Molte delle nostre generalizzazioni non sono adeguatamente sostenute da prove concrete. Allo stesso modo, si sono dovute abbandonare alcune linee di lavoro per mancanza di dati quantitativi. Questa carenza di dati riguarda in modo particolare i mutamenti in corso nella vita sociale e culturale della comunità metropolitana. Nonostante sia ovvio come le trasformazioni di questi aspetti siano significative quanto quelle nelle relazioni commerciali, non è possibile ottenere informazioni per quantificarle. Dunque se questo studio sembra sovraccaricare l’aspetto economico e sorvolare sul lato sociale, questo si deve principalmente alla comparativa inadeguatezza dei dati.

[Fine della prima parte]

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[...] i problemi urbanistici sono press’a poco uguali sotto tutti i climi e quale si sia l’ordinamento generale dello Stato o particolare del Comune che deve trovarne la soluzione, dipendendo essi da un’unica legge, che è il rapporto fra l’agglomerato umano e la civiltà in rapido pulsante progresso. Dopo dieci anni dalla guerra e dalla vittoria, le Nazioni sono intente a rimarginare le proprie ferite e a prepararsi un lungo avvenire di pace, di tranquillità e di lavoro fecondo. L’Italia per prima, trascinata da un nuovo purissimo entusiasmo politico, si rifà una nuova veste di giovinezza e intende febbrilmente a rendere perfetta ogni sua forma di attività sociale. Favorendo la vita rurale col suscitare nuovo interesse e più calda simpatia al culto dell’agro, essa si preoccupa particolarmente del fenomeno dell’inurbamento, che vuole mitigare con savie leggi sulle industrie e regolare coi mezzi più moderni che il pensiero scientifico esprima e sagacia di amministratori concreti. [...] Ogni città italiana è oggi una insonne fucina di studi, di provvedimenti, di opere, di cui il popolo sente a grado a grado il beneficio, riconciliandosi colle pubbliche amministrazioni il cui vieto concetto di pesantezza e di vacuità cede il posto ad un senso di vero prestigio e di esemplare attività diffuso ormai nell’animo delle masse. Ma se l’arte e la poesia sono tanto più preziose quanto più restano individuali, la scienza per essere veramente utile deve essere universale, propagando nello spazio le sue applicazioni. E così la soluzione di un problema urbanistico complesso non può e non deve restare fatica isolata, ma dev’essere largamente divulgata perché altri, a beneficio di altre cittadinanze, la sperimenti; perché altri sollievi alla aggrovigliata esistenza collettiva, altri ausilii alla incontenibile e prodigiosa volontà di migliorarsi della società umana essa porti lontano, attraverso i continenti e al di là degli oceani. Allora chi lavori con profonda indole, con ininterrotta abnegazione a seguire, o a precedere, l’assillante ritmo della vita urbana, per disciplinarne i fenomeni e aprire il varco a nuove soddisfazioni di vasti bisogni, saprà che non solo per la sua gente e nell’ambito delle sue mura avrà lavorato e sofferto, ma anche per altre grandi zone umane cui urgono le stesse necessità e rifulgono le stesse speranze.

[...] si dirà – è veramente l’urbanesimo una scienza? O, per avventura, il suo contenuto non è già quello di altre scienze? L’obbiezione ha una parvenza di fondamento come, a ben guardare, l’ha per altre grandi correnti del pensiero umano, alle quali pure il carattere di scienza è stato giustamente riconosciuto. La scienza urbanistica infatti si vale di tutte le altre scienze: dell’igiene come dell’economia politica, dell’ingegneria come del diritto, e vive con esse una feconda vita di relazione. Ma essa non è un semplice mosaico di altre discipline: perché le scevera, le elabora e le amalgama in un tutto ispirato ad un’unica concezione: la vita urbana. Non è dunque una fibra completamente nuova che ne forma il tessuto, ma è la colorazione che la distingue da tutte le altre. E noi di un colore nuovo da dare a questa complessa materia ne abbiamo veramente bisogno: sentiamo la necessità di uomini che vedano le policrome discipline sotto il colore unico del buon governo della Città: di reggitori che tutte le scienze e tutte le arti sappiano sfruttare per giungere al supremo interesse civico di avere delle cittadinanze ordinate, laboriose, sane, bene alloggiate, favorite di ogni mezzo per il loro benessere, sì da farne meravigliosi perfetti strumenti per le sempre crescenti fortune della Patria.

[...] La Rassegna Urbanistica è divisa in dodici parti, abbinate in modo che le materie analoghe siano comprese nello stesso foglio e rispondano alla

[...]

Sezioni così come rilevate dalla Rubrica

  1. Amministrazione e Finanza
  2. Demografia e Statistica
  3. Piani Regolatori
  4. Edilizia Privata
  5. Strade
  6. Trasporti
  7. Igiene e Sanità
  8. Acquedotti e Fognature
  9. Polizia e Circolazione
  10. Consumi e Prezzi
  11. Istruzione
  12. Varie (esempi: accordi intercomunali; arredo urbano; sperimentazione tecnologica e organizzaztiva, ecc.)

Premessa di Fabrizio Bottini

Il titolo di questo lungo (e, ahimé, piuttosto ripetitivo e retorico) saggio, può essere lievemente fuorviante per un lettore attuale: la “Città moderna” a cui fa riferimento Ridgway infatti non c’è più da un pezzo. E questo non si riferisce al fatto che qui si parla di città americana al lettore italiano, o della città “moderna” del 1925 settant’anni dopo. Il problema, come dicono politici e sofisti, è un altro. Siamo, appunto, nel 1925, e sull’idea di “città” si stanno accapigliando parecchi approcci, tra cui spiccano architetti, ingegneri, discipline amministrative, e più sfumati i contributi di quelle sociali, sanitarie, o di altre emergenti. Siamo negli anni, ancora solo per fare un esempio, della pubblicazione di Urbanisme di Le Corbusier, che con il suo incipit in perfetto stile da avanguardie storiche efficacemente avoca all’intuizione dell’architetto la capacità di governare e incanalare le immense forze che si agitano nella grande città moderna. Per rimanere all’Italia, è l’epoca in cui la nascita della parola “urbanistica” si accompagna alla sua parallela e graduale “uscita” dai municipi, e dalla relativa centralità di ingegneri e amministratori, per riversarsi nell’azione parallela, ricca e contraddittoria, dell’accademia, dei concorsi di piano regolatore, degli studi privati, della “corporazione degli urbanisti” organizzati nel nuovo Istituto Nazionale.

Con questi presupposti, il discorso di Robert Ridgway nella lontana Cincinnati del 1925, ricorda molto da vicino le contemporanee proposte di Silvio Ardy nei comuni padani della riorganizzazione amministrativa fascista: un tentativo di rilancio culturale e professionale andato male, ma non certo per demeriti propri. Ed è ovvio che la “idea di città” espressa non possa che essere piuttosto singolare, in entrambi i casi, e certamente lontana anni luce dalla centralità della forma esteriore a qualunque scala, così come allora si sta affermando, e così come siamo ormai quasi abituati istintivamente a pensare. Sarebbe troppo lungo, e probabilmente inutile o superfluo, soffermarsi qui su analogie e differenze fra i due casi. Resta, la lunga serie di suggestioni di questo discorso inaugurale “programmatico”, dalla necessità dell’impegno civico anche oltre gli aspetti tecnici disciplinari (siamo negli anni della neighborhood unit a New York e degli studi di ecologia sociale urbana a Chicago), al considerare la città in senso ampio: territoriale, di competenze, di integrazione fra apporti verticali e orizzontali. Naturalmente ci sono, espliciti o striscianti, passaggi di comprensione più difficile, certamente legati a polemiche contingenti di cui non possiamo o sappiamo conservare memoria. Ma questo nulla toglie, credo, al grande valore ed attualità di questo saggio, oltre la forma retorica in cui si presenta, valore documentale che lo affianca per esempio ai brani di Antonio Pedrini (per l’intreccio fra macchina, modernità, complessità), a quelli già citati di Silvio Ardy, e infine anche alla centralità del consenso, della comunicazione. Un’arte colta in pieno da altri proprio nello stesso periodo. Ma questa è un’altra storia. (fb)

Discorso pronunciato dal Presidente, Robert Ridgway, alla Convenzione annuale della Società Americana degli Ingeneri Civili, Cincinnati (Ohio) 22 aprile 1925, in Transactions of the American Society of Civil Engineers, Vol. 88, Paper No. 1572, pp. 1245-1256 [traduzione di Fabrizio Bottini]

Forse, l’effetto più rilevante dell’applicazione delle leggi di Natura, portate alla luce dalla ricerca paziente dello scienziato da un secolo e mezzo a questa parte, si nota nella meravigliosa crescita di città ovunque, e visto che l’ingegnere ha contribuito in così larga misura a questo risultato, ho scelto come argomento del mio discorso “La città moderna e le sue relazioni con la figura dell’Ingegnere”, ben sapendo che questi pensieri non sono affatto originali, ma sono da lungo tempo nelle menti di molti.

Nell’epoca semplice in ci fu adottata la nostra Costituzione Federale, eravamo essenzialmente un popolo agricolo, e la manifattura era poco più di un’eccezione. Il proprietario di piantagione era l’uomo che contava, e quando arrivava in città gli si dimostrava tutta la riverenza adatta alla sua posizione nella comunità. Poi, la macchina a vapore cominciò a giocare una parte importante negli affari nazionali, e fra le altre applicazioni rese anche più facile il trasporto su lunghe distanze. A questo fece seguito il “telegrafo magnetico”, risultato del lavoro di Henry e Morse, e da allora un’invenzione ha seguito l’altra a ritmo crescente, sino ad oggi. Non ci soffermiamo molto spesso a riflettere su quanto nuove e recenti siano in realtà le invenzioni che tanto contribuiscono al nostro agio e benessere. Basta semplicemente tornare all’infanzia di coloro che ancor oggi operano, per comprendere. Quando sono nato, il telegrafo era ancora guardato come una meraviglia e la locomotiva una macchina piuttosto primitiva, se paragonata alle grandi macchine di oggi. Non era stato steso con successo nessun cavo trans-Atlantico. Al telefono non ci si pensava proprio e luce e trazione elettrica erano ancora nei sogni degli studiosi. L’energia idraulica in gran parte veniva sprecata, perché nonostante se ne capisse il valore potenziale, non esisteva un mercato per questo tipo di energia e non si conoscevano metodi per imbrigliarla come idroelettricità.

L’uomo medio, allora molto più di oggi, era riluttante ad accettare nuove idee, che disturbavano le sue abitudini di pensiero e azione. Ci divertiamo leggendo dell’opposizione, a volte violenta, a introdurre invenzioni che più tardi contribuiranno tanto alla crescita delle comunità, e sono oggi accettate come norma. Questo estratto da The World of Tomorrow, è interessante per quanto ci illumina su questo stato d’animo:

La risoluzione seguente è stata approvata nel 1828 dall’Ufficio Scolastico di Lancaster, Ohio, e citata dal Dr. Fosdick: “Sei il benevenuto a usare questa scuola per dibattere in essa tutte le materie appropriate. Ma questioni come ferrovie o telegrafi sono vietate, e significano mancanza di fede. Non c’è nulla nella parola del Signore, che dica di esse. Se il Signore avesse voluto che le sue creature intelligenti viaggiassero alla spaventosa velocità di quindici miglia orarie l’ora grazie al vapore, Egli l’avrebbe annunciato attraverso la bocca dei Suoi santi profeti. È uno strumento di Satana per trascinare le anime dei credenti giù nell’Inferno”.

Se qualcuno in quei giorni avesse posseduto un apparecchio radiofonico e avesse osato esibirlo in funzione, temo avrebbe messo a repentaglio la vita. Quando uno dei miei distinti predecessori, dopo il ritiro dalla carica di Presidente, affrontò in modo serio il tema dell’aeronautica, ci fu chi, ingegneri e altri, mostrò preoccupazione per lui, e si chiese se non fosse per caso uscito di senno. La maggior parte delle persone a quel tempo, erano soddisfatte di aspettare fino alla propria dipartita da questo mondo, per imparare a volare. Ci divertiamo davanti a queste prove di conservatorismo, ma dobbiamo ricordare che la gran massa del genere umano è conservatrice per natura, mantenendo così il modo entro determinati confini; altrimenti accetterebbe qualunque idea maldigerita proposta in modo credibile. La maggior parte degli uomini non ha né tempo né competenza per analizzare con criterio ogni nuovo fatto mentre si sviluppa, e di distinguere fra le poche buone idee e le molte senza alcun valore. Quante fortune sono state dilapidate dagli investitori su brevetti intesi dagli inventori (e declamati dai promotori) come rivoluzionari, ma che hanno mancato i propri scopi a causa di difetti irrimediabili?

L’uomo moderno è incline a dare per scontati molti sviluppi della ricerca scientifica non appena divengono disponibili, e ne arrivano a ritmi crescenti. È solo l’uomo riflessivo, a meravigliarsi per i fantastici risultati, che sono il prodotto di pazienti studi da parte degli scienziati, e di fiducioso sviluppo da parte degli ingegneri. È curioso, come l’uomo di adatti ai cambiamenti portati dalle nuove invenzioni. La maggior parte delle persone li accettano come si accetta la luce del sole o la pioggia, senza tentare di capirle. Per l’uomo medio anche la radio ha smesso di essere una meraviglia e un aeroplano che passa si merita ormai solo un’occhiata. Egli non sa nulla del lavoro pioniere di Hertz e non ha mai sentito parlare dei contributi all’arte del volo di Langley a Chanute, in condizioni scoraggianti prima che i fratelli Wright rendessero il volare un fatto compiuto. Lo scienziato puro è stato paragonato a un sognatore, interessato ad un soggetto o a una ricerca per sé stessa, senza alcuna idea delle possibili applicazioni pratiche. Scopre un fenomeno, permettendo così all’ingegnere di applicarlo a un certo scopo utile. È estremamente raro trovare il ricercatore puro e quello pratico, o ingegnere, combinati in una sola personalità. Innumerevoli volte, il primo non ha avuto dal mondo il riconoscimento che gli era dovuto. Il suo lavoro nella quiete dello studio o del laboratorio non è, di regola, spettacolare, e bisogna ricordare che poche verità scientifiche sono scoperte per caso.

“Paziente ricerca, dedizione e sforzo di anni, costituiscono il denominatore della frazione che rappresenta la formula della scoperta scientifica, e in questa frazione il numeratore si intreccia ampiamente con sogni di speranza, successo, risultati futuri. Senza speranze, senza visione, senza sogni, il successo sarebbe sempre irraggiungibile”.

Mi sono spesso dipinto il mondo come potrebbe essere, ora, se lo sviluppo scientifico fosse cominciato prima e poi proseguito ad un ritmo meno febbrile di quanto accaduto nelle ultime generazioni. Quando, insieme all’Ufficio Direttivo della nostra Società, ho visitato Muscle Shoal sul fiume Tennessee, nel 1923, non ho potuto fare a meno di pensare quali diverse strade avrebbe potuto prendere la nostra storia se gli aborigeni uomini rossi avessero avuto conoscenze sul significato dell’energia delle cascate, e fossero stati in grado di applicare quelle conoscenze per il bene della propria razza.

E non dobbiamo dare solo allo scorso secolo l’intero merito dei meravigliosi sviluppi compiuti, perché altri ne stavano pazientemente edificando le fondamenta da altri secoli, e senza il loro buon lavoro saremmo molto più indietro rispetto alla posizione che occupiamo. I primi passi del progresso tendono sempre ad essere stravaganti. Il meraviglioso sviluppo del nostro paese nel Diciannovesimo Secolo fu compiuto a grandi costi. Le risorse naturali, come legname, carbone, fauna selvatica, sembravano inesauribili, e ne risultò uno spreco devastante. Ora che quelle risorse sono state erose, e l’esaurimento di alcune è ormai in vista, inizia ad essere all’ordine del giorno una politica di conservazione. L’Europa ha appreso da molto la lezione del risparmio, ma anche noi stiamo rapidamente imparando la stessa cosa, che fu compresa nel vecchio continente molto prima di quanto non avvenisse o si prevedesse qui. Il mondo guarda allo scienziato, all’ingegnere, al chimico, per un aiuto a comprendere come fare il miglior uso delle rimanenti ricchezze naturali. Il problema, tuttavia, ve ben oltre. Essi devono indicare la strada per l’uso di materiali e sostanze che ora sono considerate senza valore: è il ruolo dell’alchimista.

Col ritmo rapido a cui vengono fatti progressi, e con le applicazioni di una scoperta che sembrano sempre aprire ad altre nuove, ci si domanda cosa ci serbino le prossime generazioni. Che pericoli aspettano quelli che sono ora studenti universitari, e che opportunità avranno, come frutto delle ricerche oggi in corso!

La maggior parte delle invenzioni del futuro probabilmente non saranno nuove e fondamentali, ma nasceranno come evoluzioni di quelle già fatte. Molti lavoreranno verso l’eliminazione degli sprechi, per esempio aumentando il lavoro per unità di combustibile. Alcuni inaugureranno nuovi campi, e a titolo di esempio può essere citato il recente sviluppo della nave a rotore Flettner, spinta dal vento senza l’uso di vele, utilizzando la tendenza di un cilindro in rotazione a creare il vuoto su un lato. È stato ipotizzato che questo principio si possa applicare ad un tipo di elicottero, con l’idea che se l’esperimento avesse successo ci sarebbe una tendenziale rivoluzione nell’intera teoria delle macchine da volo più pesanti dell’aria.

Le abitudini e i costumi della nostra gente, così come le loro strutture sociali, sono state profondamente influenzate dal meraviglioso sviluppo materiale. Siamo cambiati, da paese essenzialmente agricolo a nazione industriale. Quando si tenne il primo Censimento Federale nel 1790, probabilmente più del 90% del totale dei 4.000.000 di popolazione era rurale, e solo il 10% urbano, vale a dire residente in centri con più di 2.500 abitanti. Filadelfia, con 42.520 abitanti era la città più grande, e New York la seconda con 33.131 residenti. Nel 1920, solo il 46% dei 113.000.000 abitanti gli Stati Uniti Continentali era rurale, e il 54% viveva in centri con più di 2.500 persone. Come lo sviluppo delle scienze applicate, anche la trasformazione da una situazione rurale a una urbana ha proceduto a ritmi sempre più incalzanti, ma alcuni di coloro che hanno analizzato il fenomeno ritengono ci siano segni di un rallentamento. L’automobile, e le migliori strade, il telefono, la radio, insieme al risparmio di lavoro umano delle macchine agricole e alle migliori condizioni di vita nei campi, hanno reso la vita in campagna più confortevole, al punto che la migrazione verso le città è stata gradualmente arginata.

Questa nuova situazione non è peculiarmente nostra o del Canada. L’Europa e il resto del mondo mostrano la stessa tendenza, indicando così che le cause fondamentali non sono solo lo sviluppo di un relativamente nuovo tipo di campagna, ma la crescente sostituzione della macchina al lavoro umano, e la creazione di nuove condizioni di vita. Il cambiamento, ad ogni modo, è probabilmente più pronunciato nelle nuove nazioni come la nostra.

Qualche esempio della recente crescita delle maggiori città si trova nella Tabella 1


1880 1890 1900 1910 1920
New York 1911698 2507414 3437202 4766883 5620048
Chicago 503185 1099850 1698575 2185283 2701705
Filadelfia 847170 1046964 1293697 1549008 1823779
Boston 362839 448477 560893 670585 748060
Baltimora 332313 434439 508957 558485 733826
Los Angeles 11183 50395 102479 319198 576673
New Orleans 216090 242039 287104 339075 387219
Seattle 3533 42837 80671 237194 315312

La crescita delle città, ad ogni modo, non ci racconta tutta la storia. Nei vecchi tempi, la città era poco più di una griglia di strade e un gruppo di case. Uffici e negozi stavano sotto lo stesso tetto, o a pochi passi di distanza dall’abitazione del proprietario o del dipendente. Case e luoghi di lavoro erano illuminati da lampade o candele. La fornitura d’acqua, in molti casi lontana dall’essere potabile, veniva da pozzi o pompe urbane, e le fosse perdenti svolgevano in parte il ruolo delle moderne fognature. Dove esisteva qualche tipo di pavimentazione, era comunque rozza e in cattivo stato. Gli animali domestici scorazzavano per le strade, che erano pulite solo occasionalmente. La vita, osservata da un punto di vista contemporaneo, era primitiva. I rapporti fra igiene pubblica e privata erano sconosciuti, e i poteri di polizia pubblici erano limitati al semplice mantenimento dell’ordine.

La città moderna è un organismo molto più complesso. Le sue strade e gli edifici ne sono un’espressione dello spirito, così come una fotografia esprime il carattere di un individuo, ma la città è molto più che espressione esteriore. Ho spesso comparato la differenza fra la città moderna e il villaggio da cui si è sviluppata, con quella fra la nave da combattimento e la nave di legno dei giorni di Nelson. Quest’ultima era spinta dai venti del cielo, le vele stavano tese e ammainate, l’ancora si manovrava a mano. La nave da battaglia, oggi, è un fascio di nervi, e dentro il suo scafo contiene i più intricati macchinari di ogni tipo. L’equipaggio sa poco delle cose che i navigatori dei vecchi tempi dovevano conoscere, ma ora comprende specialisti di ogni tipo, abili nell’uso del vapore, dei motori elettrici e della radio, esperti nella navigazione e artiglieria scientifica. Sulla nave da battaglia sono rappresentate praticamente tutte le attività di un grande centro urbano, e il personale comprende oculisti, dentisti, medici generici e chirurghi, carpentieri, pittori, barbieri, sarti, tipografi, e anche un sacerdote. Gli ufficiali hanno studiato e quasi ogni campo dello scibile, e conoscono i principi legislativi nazionali e internazionali.

Le case e gli uffici di ogni moderna città sono forniti di luce elettrica e telefono, si cucina in gran parte col gas, che viene pompato da un impianto centrale. Veicoli elettrici, e veicoli mossi da motori a benzina, portano la gente da e verso le proprie abitazioni. Edifici alti parecchi piani e forniti di ascensori, hanno preso il posto dei vecchi fabbricati bassi. Gli alloggi unifamiliari sono rapidamente rimpiazzati da case ad appartamenti, abitate ciascuna da molte famiglie. Le strade sono ben pavimentate e illuminate, pulite molto più spesso e molto meglio di quanto non avvenisse prima. Forse ci sono per le strade ancora tanti cavalli quanti ce n’erano un tempo, ma i veicoli a trazione animale sono stati in gran parte sostituiti da autocarri, con maggior capacità di carico, e pare che il cavallo stia scomparendo.

I pozzi perdenti sono stati sostituiti da fognature che automaticamente smaltiscono i rifiuti, e la pompa idrica di città da una fornitura di acqua potabile proveniente da sorgenti lontane. I giornali sono affiancati dal cinema e dalla radio, che portano nelle sale e in casa le notizie del giorno. Esistono in gran numero strutture religiose, culturali, sanitarie e per il tempo libero, come parte della città, ed esse sono disponibili per ricchi e poveri in quantità molto maggiori di quanto sia mai accaduto. La casa del lavoratore è fornita di servizi e comodità che il ricco del passato non poteva permettersi, perché non esistevano. La salute generale del popolo è migliore di quella del passato. Gli agi di ieri sono diventati le necessità di oggi, e quello che veniva considerato lusso ora è richiesto come servizio.

Il cittadino deve pagare, naturalmente, per tutte queste comodità moderne, e questo ce lo ricordano necessariamente le cifre, come quelle che ho scorso di recente su una copia del Gazeteer of the State of New York, pubblicato a Albany nel 1813. La popolazione della città di New York, secondo il Censimento del 1810, era data a 96.373 abitanti, compresi 1.686 schiavi. Il bilancio municipale per il 1812 da per incassati $ 1.012.460,38 e spesi $ 953.736,04. Inclusa negli incassi sta una somma di $ 4.969,55 per letame di strada. Il bilancio approvato dalla città per il 1925 è di circa $ 400.000.000 per una popolazione stimata di circa 6.000.000 di persone. In altre parole, mentre la popolazione è aumentata di 62 volte, il bilancio si è moltiplicato per 400.

Ci soffermiamo raramente a pensare all’enorme energia imbrigliata e disponibile entro i confini di una sola grande città. Si stima che il potenziale energetico trasmesso attraverso il vapore, l’acqua, il gas, i cavi elettrici, che stanno sotto le strade di New York, sia almeno tre volte quello generato da tutti gli impianti idroelettrici alle cascate dei Niagara, su entrambe le rive del fiume. La capacità degli impianti centrali di generazione elettrica di New York è da sola di 3.000.000 di cavalli. Mi hanno detto che l’acqua di condensazione pompata per questi impianti è otto volte la quantità d’acqua fornita alla città dai suoi acquedotti.

In senso materiale, la città moderna è il risultato del lavoro fatto dallo scienziato puro e dall’ingegnere. Senza loro, la città non potrebbe esistere. Si devono alla loro capacità e sforzi la fornitura d’acqua, le fogne, le strutture sanitarie, le strade pavimentate, i mezzi di trasporto urbani, suburbani, interurbani, il telefono, la luce elettrica, e tutte le molte altre infrastrutture su cui la città e venuta a poggiarsi per la propria stessa esistenza. Né si potrebbe mantenerla lontana dalle epidemie, e con uno standard di salute così elevato, senza l’eccellente lavoro dell’ingegnere sanitario in cooperazione col chimico, il batteriologo e la ricerca medica. È così che sono state in gran parte eliminate le febbri tifoidi, la febbre gialla, e quasi tutte le malattie infettive sono state poste sotto controllo.

Le strutture che tanto condizionano la nostra moderna vita urbana richiedono il servizio di specialisti accuratamente formati, ciascuno nella sua particolare area di lavoro. L’epoca di “Jack-of-all-trades” è finita, perché è ovvio come oggi, con un tale incredibile carico di dettagli in ciascuna linea di intervento, non si possa essere più esperti in tutto, e i nuovi esperti sono ingegneri con varie qualifiche. Pensare al lungo e paziente studio che è stato ed è tuttora dedicato a ciascuno di questi problemi, capire come il lavoro sia frequentemente svolto nelle condizioni più scoraggianti, e come i progressi avvengano di solito nonostante – e non con l’aiuto della – maggioranza dei cittadini, ci fa sentire quanto dobbiamo a coloro che hanno operato nei laboratori e studi di progettazione, negli uffici, nelle fabbriche,e sul campo, per conseguire i risultati che accettiamo con tanta compiacenza.

Poche tra queste persone sono conosciute dal pubblico, perché le loro opere non hanno il carattere di sensazionalità che attira l’attenzione, e molti di loro sono troppo modesti per aspettarsi qualunque riconoscimento pubblico per il proprio lavoro.

La trasformazione della vita urbana ha cambiato in profondità i costumi, le abitudini, il pensare della gente. Nei giorni semplici dei primi anni della Repubblica, quando si viveva di solito distanti l’uno dall’altro, si era individualisti, credendo con Thomas Jefferson che il governo fosse un male necessario e che si dovesse impicciarsene il meno possibile, a seconda delle personali necessità e bisogni. La moderna concentrazione di grandi quantità di popolazione nelle città ha portato all’organizzarsi di gruppi industriali con centinaia e spesso migliaia di dipendenti che lavorano sotto lo stesso tetto. Le diversità di costumi stanno scomparendo. Si formano organizzazioni in base all’appartenenza di classe, con l’idea di migliorare praticamente le condizioni di particolari categorie di lavoratori. Si richiede più governo.

C’è uno spostamento verso il socialismo e il paternalismo; una tendenza a rivolgersi al governo dello Stato o Federale per un aiuto nelle difficoltà; a perdere lo spirito Anglo-Sassone di indipendenza che prima era prevalente, e che fu il fondamento su cui fu edificata la vita nazionale. C’è il timore che queste tendenze ci stiano portando troppo lontano; che il lavoratore sia trasformato in una macchina, e che si stiano compiendo troppi sforzi verso un suo progresso esclusivamente materiale, e il lato morale e spirituale siano dimenticati. Se i lavoratori delle città hanno evitato la dura vita nelle campagne dei vecchi tempi, pagano però in termini di vita tranquilla, di quel tanto di cose fondamentali necessarie ad una vera felicità, al pieno e tondo equilibrio umano. Ci siamo vantati della percentuale di analfabeti tanto più bassa nelle nostre città che nei distretti rurali, abbiamo scordato che l’educazione non è solo capacità di leggere e scrivere, ma il suo vero scopo è trasmettere l’insegnamento della Natura, “il sermone della roccia”, e “sognare sogni di progresso umano, di felicità e appagamento finale”.

Il prezzo che abbiamo pagato per i molti vantaggi che ci ha dato la vita nelle grandi città, è grande. Opportunità e vantaggi non hanno compensato l’umanità per la riposante quiete dell’aperta campagna, per i semplici piaceri che offre, per lo spirito di introspezione che induce. Comodità e lussi si possono godere solo a spese di una certa perdita di carattere. La gioia del fare è offuscata da un senso prevalente di inquietudine, e il crescente costo della vita in città causa ansie a chi ha pochi mezzi. Sta diventando sempre più costoso fornire di cibo e altre merci le grandi città, principalmente per i limiti dei terminal che comunque sono, in parte, il risultato di una visione limitata ed egoista di alcune comunità.

I grandi centri sono qui per restare, e continueranno senza dubbio ad esistere sin quando le condizioni industriali e la natura umana rimarranno come sono oggi, e sin quando l’uomo sociale manterrà il desiderio di vivere e lavorare dove si radunano altri uomini. Riconoscendo questo, gli sforzi di ciascun buon cittadino dovrebbero rivolgersi a rendere le città quello che dovrebbero essere, con ciascuno a contribuire con le migliori idee a migliorare la qualità, anziché il numero degli abitanti. Molti stano iniziando a pensare all’idea che sarebbe meglio, per il benessere dell’umanità, se la tendenza di oggi verso la vita urbana potesse essere arginata. È un grave dilemma, se nel futuro si debba incoraggiare la rapida crescita urbana. È ovvio come le nostre città non possano continuare a crescere fino ad includere l’intera popolazione. Ad un certo punto la loro crescita sarà fermata dall’inevitabile azione delle leggi economiche, se uomini di pensiero non troveranno qualche modo di controllarla prima che arrivi quel tempo. Non giova al benessere della gente, avere città diventate troppo grandi. Non è economicamente sano. Il costo di trasportare persone al lavoro e verso casa, di fornir loro cibo, di servirli in altri modi, aggiunge un gran carico al già gravoso peso fiscale, non solo per loro, ma per la nazione tutta.

Ci sarebbero meno preoccupazioni sul presente e il futuro della condizione urbana, se lo standard di governo avesse avuto una crescita al passo con quella materiale delle nostre città, ma ciò non è avvenuto. Il governo municipale nel nostro paese non arriva dove dovrebbe arrivare, ma va ricordato che il governo municipale, come l’ingegneria municipale, è un problema nuovo in tutto il mondo. Se le città non fossero cresciute così in fretta ci sarebbe stato più tempo per lavorare su questo nuovo problema. La crescita rapida non porta allo sviluppo del migliore metodo di governo. Ci sono voluti secoli per costruire sistemi stabili di autogoverno per Stati e Nazioni con popolazione sparsa, mentre queste grandi città sono esistite solo per qualche generazione e le questioni del loro governo sono nuove. In più la cosa è complicata dal fatto che, nel nostro paese almeno, la popolazione manca di omogeneità sociale. L’immigrato, a causa dell’improvviso mutamento nei suoi vecchi standard e condizioni di vita, e per inerzia nei confronti del nuovo ambiente, rende tutto di ancor più difficile soluzione. Il problema sociologico che si presenta per il governo municipale è di dimensioni formidabili. Non dobbiamo perdere fiducia, se i molti mali del governo urbano non trovano di colpo soluzione. La cosa richiederà i migliori sforzi di sagge e oneste persone, per molti anni, ed è grazie a chi ha lavorato sinora se le condizioni d’oggi non sono peggiori.

Credo si stiano facendo progressi nella direzione giusta. Ci scoraggiamo quando, dopo essere avanzati per un certo tempo, siamo ricacciati indietro tra le onde, ma ogni punto raggiunto è più avanti dell’altro, e credo che la tendenza sia comunque al progresso. Si può avanzare solo con uno sforzo intelligente, continuo, coordinato da parte di tutti i buoni cittadini. Per essere sia efficaci che durature, le riforme di tipo politico devono arrivare dall’interno, e confido che avverranno così. Dalla mia esperienza di vita pubblica, durata più anni di quanto possa ricordare, credo che il motivo per cui siamo ancora tanto indietro sia l’apatia del cosiddetto buon cittadino. Compresi nella categoria, stanno quegli ingegneri che non mostrano interesse nelle questioni della loro città, salvo lamentarsi quando le cose vanno male. Tutti costoro sembrano apparentemente soddisfatti di lasciare ad altri la gestione degli affari civici, e quando criticano i propri funzionari di solito, per scarsa conoscenza dei fatti, sono inclini a condannare chi li ha ben serviti anziché chi si merita biasimo. Facendo così, lavorano contro i propri interessi. A causa di questa apatia, di questa mancanza di conoscenze dei propri affari, per l’abitudine di saltare alle conclusioni, la cittadinanza si è guadagnata la sua reputazione di cliente difficile, per coloro cui è conferita la responsabilità delle cose pubbliche. Molti sono fuorviati dal parlare di demagoghi e non si prendono il tempo di riflettere sulla particolare questione all’ordine del giorno. Spesso vengono svolte inchieste sull’opera dei settori pubblici, di frequente per motivi di parte e scopi politici. A chi ha familiarità con queste cose, è noto come queste indagini siano ben lontane dall’essere approfondite, che mostrano solo un lato della questione, e che le conclusioni, di solito basate sul pregiudizio, sono spesso fondamentalmente errate. Il risultato inevitabile, in questi casi, è che il funzionario in buona fede, estraneo a comportamenti sbagliati, viene censurato e scoraggiato. Il suo settore ne viene sconvolto perché non c’è niente di più demoralizzante della sensazione di subire un’ingiustizia. Ogni uomo onesto è irritato in queste condizioni, e la maggior parte degli uomini sono onesti. Ma, peggio di tutto, il corpo politico soffre in questi casi perché qualunque fiducia poteva avere, ora è stata distrutta. Se la pubblica opinione fosse stata sufficientemente attenta a chiedere che tutte queste indagini fossero rigidamente approfondite e imparziali, saremmo tutti un passo avanti. Questo è il modo in cui io vorrei che gli ingegneri svolgessero queste indagini. Avrebbero buone ragioni da portare, e fatti verificati ed esaminati prima di giungere alle conclusioni.

Ho citato il ruolo svolto dall’ingegnere nella costruzione della città moderna, e il debito che gli è dovuto dal pubblico, ma se ha fatto tutto questo, se ne anche preso le responsabilità, ed è a sua volta debitore. Non possiamo far nascere qualcosa senza assumerci la responsabilità del suo corretto sviluppo e dell’uso che ne viene fatto. Dopo tutto, il lavoro creativo dell’ingegnere è un mezzo per raggiungere il fine, non il fine stesso. Egli contribuisce al benessere dell’umanità, e l’uomo è più di un’essenza fisica. Sicuramente, l’ingegnere ha un dovere da compiere in aggiunta allo sviluppo e cura di cose materiali, per quanto meravigliose esse siano. Non mi piace pensare che possa vedere solo la struttura d’acciaio e mura che progetta e costruisce. Spero abbia una visione più ampia di ciò che è costruito, come gli architetti del Medio Evo avevano per le cattedrali, e che gli aspetti morali, spirituali ed estetici della vita abbiano per lui grande valore.

Siamo giustamente fieri di quanto l’ingegnere ha fatto, e forse ci siamo vantati un po’ troppo in giro, pensato troppo, ai suoi risultati, lasciando ad altri la preoccupazione per i grandi problemi politici e sociali che ci pongono di fronte le grandi concentrazioni di popolazione nelle città. Come può l’ingegnere aiutare a risolverli? Prima di tutto, come buon cittadino, deve fare la sua parte in tutti i campi dell’impegno civico. Se si impegna meno, manca al suo dovere. Non è più il pioniere dei tempi andati, quando il suo lavoro lo chiamava nelle lande più o meno lontane a scavare canali, o alle frontiere della civiltà a costruire ferrovie. Se mancava una fissa dimora, ci poteva essere in quei tempi la scusa per venir meno ai doveri civici, ma non ora. Non abbiamo più una frontiera, e visto che l’ingegnere parlando in generale ha acquisito una fissa dimora, deve prendere parte agli affari della comunità in cui risiede. Con questo non intendo che debba entrare in politica, così come l’espressione è comunemente interpretata. Ci sono molti modi di contribuire oltre a questo, e molti trovano la propria strada impegnandosi, come qualcuno sta facendo, nei comitati scolastici o in altri organismi pubblici e semi-pubblici, ad aiutare nella soluzione dei molti e difficili problemi che si presentano. C’è molto lavoro civico di tipo specialistico a cui la mente aperta dell’ingegnere è particolarmente adatta a collaborare, come la stesura dei regolamenti edilizi, di quelli di zoning, delle leggi sui servizi pubblici.

Non basta, che comprenda i propri problemi. Deve essere in grado di spiegarli all’uomo della strada in un linguaggio a lui comprensibile. Spesso, temo, l’ingegnere manca il consenso delle autorità o del pubblico ad una proposta sana e meritoria, perché gli manca l’abilità di tradurre i suoi coerenti pensieri in linguaggio che altri, non ingegneri, possano capire.

Non voglio qui affermare che gli ingegneri sono esseri sovrumani, fatti di argilla migliore degli altri, o che da soli sono responsabili di tutte le buone cose realizzate. Come il resto dell’umanità, anche loro non sono infallibili. Altri hanno fatto e stanno facendo il loro dovere per il mondo nei propri rispettivi campi di impegno; ma si deve ricordare che l’ingegnere è formato per trattare fatti fondamentali. È abituato a scavare verso la verità, e a respingere ciò che non appare valido. A meno che non ci sia un fondamento di verità in un’affermazione, egli istintivamente farà opposizione. L’abitudine di pensiero lo rende incline al ragionamento in termini di causa-effetto. Il clamore popolare e i titoli dei giornali non fanno deviare il suo giudizio. È educato a guardare lontano e non in modo provinciale, a tutto ciò che implica l’applicazione di leggi di Natura. Le barriere artificiali della politica non gli piacciono, come succede a coloro che considerano le cose superficialmente, perché sa riconoscere che le leggi di Natura agiscono nello stesso modo su entrambi i lati dei confini politici statali o federali.

Per portare tutte queste qualità al pubblico servizio, l’ingegnere nelle forme associative civiche deve essere qualcosa in più di un semplice tecnico. Credo che l’ingegnere riconosca più degli altri cittadini, come i giorni dello spreco siano finiti e sia iniziata l’era della conservazione, e con l’insegnamento, la norma, l’esempio, debba evidenziarlo a tutti. Con lo spreco, devono finire anche tutte le politiche parziali e particolari di “amministrazione corrente”, e al loro posto si deve sostituire un governo di carattere costruttivo che vada di pari passo coi principi di conservazione. Se dobbiamo vivere secondo gli ideali delle nostre istituzioni, i nostri legislatori devono guidare, e non seguire. È stato detto spesso che l’America è infastidita dalla legge, che la sua gente ha perso rispetto per le regole. Un osservatore straniero diceva tempo fa che abbiamo più leggi di tutte le nazioni del mondo messe insieme, e che siamo il popolo più privo di legge. Non c’è valore, in questa critica? Perché gli ingegneri non dovrebbero unirsi a tutti gli altri buoni cittadini, a correggere alcuni dei mali del corpo politico, che tutti riconosciamo, e che si devono in gran parte all’apatia della nostra gente? L’ingegnere può essere un buon cittadino senza perdere valore come tecnico. Non deve niente a nessuno in termini di rispetto e amore per le istituzioni del suo paese. Il suo patriottismo è stato mostrato nel lavoro per la Guerra Mondiale e in molti altri modi. Con l’attiva partecipazione agli affari civici le sue prospettive saranno ampliate, e le critiche che tanto spesso sono state fatte alla visione ristretta degli ingegneri sulle cose del mondo cadranno spontaneamente sotto il proprio peso.

Quando leggiamo giorno dopo giorno il sensazionalismo chiamato informazione, o ascoltiamo le arringhe degli oratori popolari e degli autoproclamati governatori del mondo, ci chiediamo se essi rappresentino la media caratteriale e di intelligenza del nostro popolo. Se credessimo questo, potremmo facilmente scoraggiarci sul futuro delle nostre istituzioni, e persino della stessa civiltà.

Fede e coraggio tornano quando capiamo che queste sono solo le manifestazioni di una piccola e malevola minoranza che si crogiola al sole della notorietà. La grande massa degli uomini pensanti lavora tranquilla, senza ostentazione, ovunque chiamino diritto e dovere. Negli stabilimenti industriali, ferrovie, lavori pubblici, scuole e università, chiese, ospedali, fattorie, uomini tranquilli e riflessivi stanno svolgendo il concreto lavoro per l’umanità e la civilizzazione. Con istintiva fiducia e sostegno verso l’integrità della natura umana, credendo nella stabilità di quelle istituzioni umane volte all’avanzamento della conoscenza e del bene, essi quotidianamente si sacrificano al dovere. Rappresentano la divina forza del progresso nella sua azione irresistibile, perché basata sulla verità, la ragione, il carattere. Non sarebbe possibile impiegare in qualche modo, questa forza, nell’interesse del miglioramento civico? Tutti questi lavoratori sono la compagnia dell’ingegnere. Insieme a lui, devono avanzare verso ambiti più ampi di maggior impegno, prospettiva, e anche di maggiore servizio.

Nel centenario della fondazione del Franklin Institute, il Dr. Arthur Little pronunciò un discorso sul “Quinto Stato”, che descriveva come “composto da coloro che possiedono la semplicità per meravigliarsi, la capacità di fare domande, il potere di generalizzare, la capacità di applicare”. In breve, la compagnia di chi pensa, lavora, interpreta e mette in pratica, e da cui il Mondo interamente dipende per la conservazione e l’avanzamento delle conoscenze organizzate che chiamiamo Scienza”. Se coloro che vivono in questo reame hanno certo la capacità di applicare, vediamo da ogni parte dimostrato che hanno invece mancato di usarla. Il mio appello si rivolge a quelli che, avendo la capacità, non l’hanno messa in pratica. A chi di voi non ha letto il magistrale discorso di Arthur Little, affascinante nella semplice bellezza del suo linguaggio, lo raccomando, e so che se lo leggerete, poi lo rileggerete. Citandolo ancora:

“Vediamo nel campo delle Scienze la conoscenza senza potere, e in politica il potere senza conoscenza. Un elettorato che si considera libero ascolta il diffuso rumore delle dimostrazioni costruite, ed è cieco di fronte agli ovvi meccanismi di un manicomio artificiale. Il risultato, troppo spesso, è un governo basato sull’ingenuità, la propaganda, le facili parole d’ordine, gli slogans, invece di un governo basato sui fatti, i principi, l’intelligenza, la buona volontà".

Allora, per colmare lo iato fra potenzialità e risultati, ingegneri e uomini di formazione scientifica devono imparare la lezione secondo cui i risultati finali ottenuti sono una misura più valida del valore umano, che non la semplice capacità teorica. Il mondo misurerà sempre il risultato. Per lui, l’abilità non dimostrata è sinonimo di non-esistenza.

Grazie alla saggezza dei nostri padri, le fondamenta su cui poggiano le istituzioni del nostro paese sono ampie e profonde. C’erano, nel progetto, alti ideali, e le sovrastrutture furono innalzate fedelmente e corrispondentemente. L’obiettivo di mantenerle in vita appartiene alle generazioni. Come avviene per tutte le strutture edificate dall’uomo, sono necessarie riparazioni, rinnovi e aggiunte, ma questo non significa distruggere l’impianto originario. Lo scheletro della struttura deve rimanere intatto. Il dovere generale dell’uomo tecnico chiama a questo scopo. A questo scopo rivolge le sua particolari qualità. In quanto idealista pratico, il suo patriottismo e il suo spirito civico non si manifestano sventolando vessilli o vantandosi della superiorità sugli altri, ma cercando i difetti del nostro carattere attuale e aiutando altri ad innalzare il livello delle cose civiche, nello stesso modo in cui progetta e costruisce le sue strutture ingegneristiche per l’uso e il beneficio dell’umanità.

Postilla di Fabrizio Bottini

Per chi fosse interessato ai temi "partecipativi" in urbanistica introdotti a suo modo da Robert Ridgway, in particolare nel loro affermarsi negli USA del primo Novecento, è disponibile sul mio sito anche un estratto in italiano dal saggio fondativo sulla "Unità di vicinato" nell'ambito del Piano Regionale di New York coordinato da Thomas Adams negli anni Venti.

La quadrata, esauriente relazione del Duca Caffarelli mi dispensa dal ripetere ciò che tanto brillantemente e con tanta dottrina egli ha detto sull'Urbanistica, e sul molto che in materia. di organizzazione si è fatto alI 'Estero, e sul poco che si è tentato da noi.

Inutile quindi abusare dell'attenzione e del tempo dei congressisti con preamboli più o meno fioriti, e utilissimo invece entrare subito nel vivo dell’argomento.

Quando, nel maggio 1926, al Congresso dell’Urbanesimo a Torino fu fatta la proposta di fondazione di un Istituto italiano di Urbanesimo e di altri studi municipali, fummo in parecchi ad opporci, perchè ci parve che in una materia così delicata un preciso voto impegnativo avrebbe potuto compromettere allora, una iniziativa non ancora matura.

Infatti, prima ancora di fissare le norme e l’ordinamento di una scuola sulla dottrina urbanistica, occorreva diffonderne nel Paese i concetti fondamentali, proprio per creare quella coscienza urbanistica della cui mancanza si sentivano e si sentono i danni.

E l’amico Caffarelli, ricordando con arguzia garbata gli equivoci ingenui sul nome e sulla sostanza, ci ha ricordato che le nostre preoccupazioni d’allora erano ben giustificate.

Ma del cammino se ne è fatto in due anni, e, almeno nelle nostre grandi città, si discute ormai di urbanistica come di una scienza e di un’arte che siano veramente, come sono, il midollo spinale delle applicazioni di edilizia cittadina.

Senonché altro è parlare di un così formidabile argomento e altro è essere ascoltati, compresi, seguiti.

Nel meraviglioso risveglio di attività edilizia che il Fascismo sta provocando in tutte le città italiane, quanti sanno e sentono che il cammino percorso nel recente passato deve essere abbandonato? e se talvolta il buon senso di un amministratore che bandisce un pubblico concorso o l’autorità personale di qualche architetto che si accinge ad una parziale soluzione edilizia riescono a salvare dalla rovina la bellezza o lo sviluppo avvenire delle nostre città, quanti esempi potremmo citare invece di situazioni irrimediabilmente compromesse?

Tuttavia chiari segni ci avvertono che anche in questo campo i tempi sono maturi, e che il complesso fenomeno urbanistico, dal punto di vista demografico, tecnico, artistico ed amministrativo, può essere affrontato con profitto, grazie ai sistemi di rapidità e di disciplina che il Regime ha instaurati.

L’Istituto proposto a Torino dall’Ardy, assai pesante anche per la pubblica finanza, sembrava in realtà più acconcio alla formazione di una eletta classe di funzionari comunali, che non alla creazione di un organo di propulsione, controllo e propaganda per la diffusione dei concetti fondamentali della dottrina urbanistica.

Noi vediamo, e parlo in nome di molti colleghi attratti del nuovo spirito che pervade gli studiosi di problemi cittadini, noi sentiamo che un Istituto d’urbanistica deve essere qualche cosa di più vivo, di più aderente alle contingenze della vita della città, e sopratutto dotato di una praticità immediata e realizzatrice.

Per questo le nostre simpatie furono volte subito al valoroso e battagliero Club degli Architetti Urbanisti di Milano, che in una bene affiatata collaborazione affrontavano con baldanza giovanile il problema edilizio della loro città, sia pure considerato solo dal punto di vista della viabilità e dell’architettura; per questo salutammo come lieto auspicio il fervore che animò un altro gruppo di giovani architetti, romani questa volta, che anche a Roma fondavano un’Associazione o Gruppo di Urbanisti, e con qualche conferenza e conversazione, e più con la partecipazione a pubblici concorsi, contribuivano alla diffusione e alla conoscenza dell’interessante argomento.

Mi limito a citare questi due esempi che sono tra i più tipici e più simpatici, ma non sono i soli tentativi dovuti a private iniziative; ricorderò anche una proposta, rimasta tale, di carattere quasi ufficiale, partita da Milano e facente capo ad un eminente studioso, l’Albertini ; e senza fare altre citazioni dei moltissimi che isolatamente o in gruppi hanno in questi ultimi tempi dimostrato con pubblicazioni, concorsi e progetti, quanto sia delicato e importante il problema dei Piani Regolatori e della edilizia cittadina, mi avvierò alla conclusione.

Ho detto che le nostre simpatie sono per i gruppi che del problema particolarmente studiano il lato tecnico e artistico; e non soltanto per affinità di ... mestiere e di sentimenti, ma perchè, pur convinti con l’amico Caffarelli che la dottrina urbanistica non sia se non un complesso inscindibile di cognizioni ... da enciclopedici, riteniamo che quella artistica sia la branca che tutte le assommi e le sovrasti.

Servizi di comunicazione e traffico, reti di fognatura ed impianti tecnici ed igienici, uffici di statistica e di amministrazione, centri assistenziali e istituzioni accessorie sono altrettante manifestazioni della vita delle moderne città, e nessuna può essere preposta ad un’altra, e nessuna può essere esclusa e sacrificata. Voi potrete però creare una città perfetta sotto tutti i punti di vista: dell’igiene e del traffico, della viabilità e della polizia, dei sistemi di fognature e di distribuzione dell’acqua e della energia elettrica; ma avrete tracciato le sue vie senza la visione di una bellezza. panoramica e prospettica, se avrete lasciato suddividere le zone di ampliamento e di espansione senza un concetto di equilibrio, direi quasi musicale, tra le masse dei fabbricati e le serene pause delle riserve verdi, se in una parola non avrete nella creazione delle nuove città lasciato, alla vostra fantasia di artisti e di poeti, alzato il volo verso una severa e nobile creazione di bellezza, voi avrete condannato per sempre alla inutilità ogni altra conquista raggiunta in campi diversi.

Ecco perchè, senza dire che quasi sempre le ragioni della bellezza portano spontaneamente alle soluzioni migliori per tutti i lati del complesso problema urbanistico, ecco perchè si è affermato che i valori estetici hanno la preponderanza quando si parla di una qualsiasi organizzazione urbanistica, specialmente in Italia; ed ecco perchè credo di poter ripetere qui quanto, pochi giorni addietro, con la sua alta autorità e con la spregiudicata imparzialità che gli è propria, affermava il prof. Giovannoni : essere cioè principalmente compito degli architetti lo studio dei Piani Regolatori; degli architetti che non più come nel passato devono compiere le funzioni di manuali tiralinee per esprimere graficamente fredde e spesso sbagliate concezioni altrui ; ma si devono essere i veri creatori delle belle città, dell’avvenire concepite in una sintesi di armonica grandiosità, adeguate alle esigenze della pratica e al ritmo possente della dinamica vita moderna che vuole la formazione di una città dell’oggi in funzione del suo divenire.

E quando si dice architetti s’intende naturalmente anche quegli ingegneri che, tali per titolo e per severità di studi scientificamente compiuti, sono però architetti per la raffinata sensibilità del loro temperamento artistico, e più ancora per quella peculiare caratteristica del vero architetto che deve concepire in sintesi la sua creazione, gradatamente scendendo al dettaglio dei particolari.

Ma un’altra affermazione è stata enunciata nel sommario di questa schematica relazione: la necessità che alla iniziativa di costituzione di un Ente romano di studi urbanistici partecipino principalmente i Sindacati Intellettuali che hanno la direzione e il controllo di tutto il movimento culturale dei professionisti.

Infatti oggi nello Stato italiano ad una istituzione di carattere tecnico e culturale che assommi e concili studi e interessi diversi, non possono, per l’importanza assunta dalla vita pubblica, restare estranei i Sindacati Intellettuali che raccolgono i professionisti, i tecnici e gli artisti che alla, testa dei lavoratori e dei produttori servono la Nazione secondo le nuovissime leggi della disciplina fascista.

Ente romano, abbiamo inizialmente detto, perchè qui nasce e si afferma la proposta della sua costituzione; qui, e in occasione di questa adunata di studiosi dell’inesauribile tema che Roma propone a tutto il Mondo.

Ma se per la universalità degli studi romani, se per calore di simpatia e di adesione al problema che sentiamo ormai maturato in ogni centro importante della vita edilizia italiana, se infine per il fatto stesso che della iniziativa si fanno banditori i Sindacati Fascisti degli Architetti, degli Ingegneri e degli Artisti che sono entità nazionali, noi superiamo le difficoltà formalistiche e proponiamo senz’altro la creazione di un Ente nazionale, nessuno, credo, potrà sollevare obiezioni: e la proposta, sarà salutata, come è, dal consenso del Congresso.

Come si chiamerà il nuovo Ente?

Mentre scrivevo queste parole lo sviluppo limpido e lineare della proposta si precisava alla mia mente, e mi portava alla conclusione che, impreveduta prima, mi appariva logica, naturale e conseguente. La fusione in uno sforzo comune di artisti e di tecnici, di igienisti e di industriali, di economisti e di scienziati inquadrati nelle rispettive Associazioni Sindacali, e la collaborazione autorevole e fattiva degli organi dello Stato e delle Amministrazioni comunali porta nello Stato Fascista al riconoscimento di una forma nuova, ma ben definita: la forma corporativa. Perché l’organismo che noi proponiamo non deve avere nulla di comune con le ordinarie Società a base elettorale, né con le Associazioni culturali che generalmente risolvono in accademie sterili la loro attività, anche se animata da nobilissime intenzioni; né, tanto meno, con le iniziative di carattere particolaristico che possono investire o nascondere interessi economici non armonizzati con il supremo interesse dello Stato.

Esso deve invece essere una cosa viva e posta al di sopra delle varie competizioni, perchè tutte le accoglie e le subordina; e in esso (e qui sta la forza che lo distacca da tutte le Associazioni consimili), in esso l’azione degli organi pubblici statali o comunali, non deve essere esercitata dal di fuori per dare una qualsiasi sanzione; ma deve al contrario essere parte integrativa e conclusiva dell’attività stessa. E così tipico del Regime potrà essere l’organismo che noi oggi proponiamo e che io spero di vedere presto tradotto in realtà concreta per volere del Capo che tutte le iniziative feconde sa animare del suo spirito formidabilmente creatore.

Unione Corporativa” dunque, che potrà estendere a tutto il Paese la sua zona d’influenza e porterà il suo contributo di competenza e il suo disinteressato concorso nelle grandi città o in quei piccoli centri che, per la divina impronta dell’arte e per la tipica bellezza naturale che Dio ha donato all’Italia, fanno della nostra terra la meta di tutti gli adoratori della bellezza.

Dovrà quindi l’Unione Corporativa farsi iniziatrice di concorsi, di esposizioni, di corsi di studio, di cicli di conferenze, per diffondere ovunque la cultura urbanistica e preparare tecnici ed amministratori adeguati alla delicatezza del loro nuovo compito; dovrà intervenire con il suo consiglio e, ove occorra, con la sua azione per preparare forme e progetti di sistemazione di piano regolatore, e dovrà finalmente farsi promotrice di leggi e di provvedimenti che valgano a rendere impossibile lo scempio che nel passato si è fatto delle nostre belle città, e diano mezzi e poteri agli amministratori cittadini per attuare, con chiara visione delle necessità dell’avvenire, quella politica di ampliamento e di sviluppo degli aggregati edilizi che risponda al cammino ascensionale dell’Italia Fascista.

Ritengo utile dare uno schema di Statuto per l’ ”Unione Corporativa”, schema che dovrà essere elaborato attentamente e sanzionato dal Governo, il quale dovrebbe anche, con apposita legge, regolare il funzionamento amministrativo dell’Unione.

Ho abbozzato questo schema con la speranza che su queste linee il Governo Nazionale vorrà dare la sua ambita e necessaria approvazione.

E noi vorremo e sapremo ottenerla, specialmente se il voto del Congresso sarà, come penso, sapientemente utilizzato dalla sua Presidenza, e se l’alta autorità del Governatore di Roma darà alla nostra iniziativa quel conforto e quell’aiuto che sarà necessario ad appoggiare l’opera che i Sindacati andranno tenacemente svolgendo.

UNIONE CORPORATIVA DELL’URBANISTICA

(Schema di Statuto)

Art. 1. - Sotto l’alto Patronato del Governatore di Roma e per iniziativa dei Sindacati Fascisti degli Architetti e degli Ingegneri, col voto unanime del Primo Congresso Nazionale di Studi Romani, è costituita in Roma l’ “Unione Corporativa dell’Urbanistica”.

Art. 2. - L’Unione Corporativa presiede e promuove tutto quanto valga a stimolare, disciplinare e controllare l’applicazione dei principi dell’attività urbanistica nello sviluppo e nel risanamento delle città italiane.

Essa quindi provvede:

ad organizzare cicli di conferenze di propaganda e corsi di studi specializzati;

a preparare mostre e bandire concorsi;

a raccogliere dati statistici;

a promuovere e disciplinare tutto il movimento inerente alla preparazione e allo sviluppo dei Piani Regolatori, all’impianto e al funzionamento dei servizi di una moderna città, e al coordinamento giuridico e amministrativo che sia per derivare dallo sviluppo dei servizi stessi.

Art. 3. - Fanno parte dell’Unione Corporativa, oltre le Associazioni Sindacali dei Professionisti e degli Industriali:

gli organi statali più direttamente interessati allo studio delle questioni urbanistiche;

i Comuni del Regno con popolazione superiore ai trentamila abitanti;

i grandi Enti edilizi;

le Aziende che provvedono ai pubblici servizi;

gli Istituti di cultura superiore;

le Associazioni culturali che si interessano specialmente di questioni attinenti alla urbanistica;

gli Istituti che facciano operazioni di credito edilizio.

Art. 4. - Al finanziamento dell’Unione Corporativa sarà provveduto, oltreché con la quota di partecipazione di tutti i componenti ed aderenti, con il provento di una tassa addizionale su tutti gli atti compiuti dai Comuni nell’interesse di Enti e di privati in materia di edilizia e di P.R., come compra-vendita di aree e di immobili, contratti di appalti, convenzioni o concessioni speciali, approvazioni di progetti e licenze di costruzione.

Art. 5. - L’Unione Corporativa è amministrata e diretta da un Consiglio generale costituito dalle rappresentanze degli aderenti, con le modalità che saranno fissate dal Regolamento, e da una Giunta esecutiva composta di 15 persone specialmente competenti in materia, scelte tra i rappresentanti designati dalle Associazioni sindacali, dal Governatorato di Roma, dai Comuni del Regno, e dai Ministeri competenti, e nominata con Decreto del Ministro delle Corporazioni.

Art. 6. - Tutte le cariche sono gratuite

Art. 7. - La Giunta esecutiva potrà costituire però una o più Segreterie amministrative e tecniche i cui componenti saranno retribuiti a norma di regolamento.

In questo testo, finalizzato ad una possibile riforma dei corsi di studio in materia urbanistica, Bardet riassume pregi e difetti dei sistema francese, dai primi anni del secolo alla seconda guerra mondiale. L’interesse particolare, tra l’altro, è l’enfasi posta sul ruolo della composizione, e insieme la piena accettazione di una figura complessa di urbanista, costruita sin dagli anni della formazione come «Equipe». La traduzione è di F. Bottini. Il testo sulla fondazione della “Ecole Des Hautes Etudes Urbaines”, cui Bardet si riferisce, è acquisibile qui.

L’insegnamento dell’urbanistica trova la sua culla al 29 di rue de Sévigné, nell’Hôtel Le Pelletier de Saint-Fargeau, Biblioteca della città di Parigi, dove nel 1903 un giovane archivista, Marcel Poëte, inaugura il corso di «Introduzione alla Città di Parigi» , grazie al quale si comincia a chiarire l’evoluzione di questa città, considerata come un organismo vivente. Ci troviamo uditori come Jaussely.

Dal 1907 al 1913, una serie di mostre sull’Arte Urbana a Parigi conduce al trasferimento, nel 1914, di questa iniziativa all’Ecole Pratique des Hautes Etudes presso la Sorbona, dove si svilupperà liberamente.

Nel 1916, un grande Prefetto, Delanney, ricorda che «la Biblioteca e i servizi storici» della città di Parigi si sono arricchiti di un Ufficio di informazioni storiche e bibliografiche, dell’insegnamento della Storia di Parigi e di Mostre annuali, il che conduce a trasformare questo Servizio in un vero e proprio « Institut d’Histoire, de Géographie et d’Economie Urbaines», il quale, benché abbia come centro Parigi «non dovrà tuttavia restare strettamente limitato all’orizzonte di una sola città ... la scienza di Parigi non è che una parte della Scienza delle Città».

E non c’è da stupirsi se, quando nel luglio 1917 si apre la « Ecole Supérieure d’Art Public», sotto la presidenza di Georges Risler, questa si installa nei locali del nuovo Istituto.

Destinato a formare i Ricostruttori delle Regioni occupate, l’insegnamento è diviso in sei sezioni:

1° Teoria generale e regionale delle agglomerazioni: Insegnamento dell’urbanistica. Metodi di studio e realizzazioni urbanistiche;

2° Igiene urbana;

3° Architettura e Genio Civile, Costruzioni: Teorie della composizione, i suoi elementi, la tecnica, l’estetica. Tecnica della professione;

4° Economia politica, economia sociale, economia urbana;

5° Legislazione, Diritto amministrativo: Elementi costitutivi delle città, Demanio e servizi pubblici, Edilizia privata. Il problema speciale delle città in ricostruzione;

6° Estetica generale dell’Urbanistica. Estetica regionale.

Questo tipo di insegnamento, molto gerarchizzato, termina nel 1918, e l’Ecole d’Art Public, poco elegantemente fatto sloggiare, emigra al Collège des Sciences Sociales, poi si sgretola. Ritroviamo Monsieur Raoul de Clermont che continua a insegnare diritto amministrativo (5° sez.) al Musée des Arts Décoratifs, mentre Monsieur Agache, fino al 1933, terrà conferenze al «Collège des Sciences Sociales ». Dopo un ultimo sforzo da parte della Société Française des Urbanistes, questa scuola privata scomparirà.

Lo spazio lasciato dall’Ecole d’Art Public, rue de Sévigné, è immediatamente occupato dalla nuova « Ecole pratique d’Etudes Urbaines et d’Administration Municipale» creata ufficialmente, presso l’Institut d’Histoire, de Géographie et d’Economie Urbaines della Città di Parigi, dal Conseil Général de la Seine, su impulso di Henri Sellier.

Titolo e programma rivelano alcune influenze dell’Ecole Pratique des Hautes Etudes (Sorbona) e dell’Ecole Libre des Sciences Politiques.

Analizziamo il primo opuscolo informativo: l’oggetto dell’insegnamento «ha un triplo carattere, scientifico, utilitario e divulgativo. Bisogna innanzitutto fare scienza per trarne poi applicazioni per la vita di tutti i giorni, e bisogna divulgarla ampiamente perché possa esercitare più rapidamente e completamente la propria a zione benefica sull’esistenza umana».

«L’insegnamento in questione si indirizza dunque, sotto la forme scientifica, a coloro che hanno a cuore il progresso di una scienza che conferisce una particolare importanza al ruolo considerevole giocato dalla città nella civiltà contemporanea. Si rivolge, sotto la forma utilitaria, a tutti coloro che si preparano a carriere in posti di funzione amministrativa o tecnica, che necessitano la conoscenza delle applicazioni pratiche di questa scienza. Si indirizza, infine, sotto la forma divulgatrice, all’insieme del pubblico che ha bisogno di familiarizzare con nozioni che occupano uno spazio sempre più grande nella vita di ogni giorno».

«Ma, dato che in questo ordine di idee – almeno in Francia – le applicazioni della scienza sono singolarmente in ritardo sulla scienza stessa, c’é interesse a fornire innanzitutto la parte utilitaria e divulgatrice, senza tuttavia trascurare l’aspetto scientifico puro, fondamento di tutto» (beata epoca, quella in cui si credevano le applicazioni in ritardo sulla scienza!).

«È soprattutto l’aspetto utilitario, che si applica alle diverse professioni, municipali o altre, che non si sapranno esercitare senza queste conoscenze, che è esaminato nel programma di seguito».

Il programma dei corsi comprende:

1° L’Evoluzione delle città in generale, di Parigi e dell’agglomerazione parigina in particolare;

2° L’Arte Urbana in generale, di Parigi e dell’agglomerazione parigina in particolare;

3° L’organizzazione amministrativa delle città, della vita urbana in Francia in generale, di Parigi e dell’agglomerazione parigina in particolare;

4° L’Organizzazione sociale della vita urbana in Francia in generale, a Parigi e nell’agglomerazione parigina in particolare;

5° L’Organizzazione comparata della vita urbana all’estero.

I corsi si tengono alle 18, constano di una lezione settimanale ciascuno, a partire da novembre e fino a luglio.

«L’insegnamento dura due anni, alla fine di ciascuno dei quali si sostiene un esame davanti al Comité de perfectionnement, e al corpo insegnante. Il primo di questi esami ha l’effetto di ammettere al secondo anno, il secondo di essere ammessi a sostenere la prova finale che procura il diploma di licenza. Ciascuno dei due esami comprende delle composizioni scritte e delle interrogazioni orali, vertenti sulle materie dei corsi. Quanto alla prova finale, essa consiste in un lavoro personale (memoria, piano ecc ...) scelto dal Comité de perfectionnement e dal gruppo docente.

« L’esprit de l’enseignement» dichiara: «Ciascun corso comprende una esposizione teorica e dei lavori pratici. E dato che la scienza delle città è essenzialmente scienza di osservazione, escursioni di studio sono finalizzate a mostrare come conviene osservare, nelle sue diverse manifestazioni, il fenomeno urbano».

Ecco le «Carriere alle quali l’insegnamento prepara»: «In primo luogo ci sono gli impieghi amministrativi o tecnici dipendenti dalla Prefettura della Senna e Servizi annessi, così come l’impiego di rédacteur alla Prefettura di Polizia.

«Poi, c’è l’insieme delle carriere municipali (segretario generale comunale, architetti o ingegneri municipali, funzionari preposti alla Viabilità, alle acque, alle fogne, all’igiene, ecc ...) o alcune professioni speciali, come quella di architetto-paesaggista, potranno toccare l’arte urbana.

«Ci sono anche le diverse funzioni che toccano questioni sociali o economiche alle quali la città fa da cornice, o che determina (Società o Uffici pubblici per le case popolari, personale amministrativo o tecnico delle Camere di Commercio, ecc...)».

«Ci sono infine tutti i tecnici, architetti, ingegneri ecc., ai quali la legge del 14 marzo 1919, che prescrive alle città di redigere piani regolatori, di abbellimento e di ampliamento, apre vasti orizzonti e una nuova carriera piena di prospettive: la loro formazione a questo riguardo è precisamente uno degli obiettivi essenziali di questo insegnamento».

Le risorse per lo studio dell’Institut d’Histoire, de Géographie et d’Economie Urbaines: collezioni, centro di documentazione, e come la nuova rivista La Vie Urbaine, sono messe a disposizione degli studenti.

Si ricorda, inoltre, che la Città di Parigi ha fondato all’Ecole Pratique des Hautes Etudes «un insegnamento che, nell’ambito della ricerca scientifica pura, completa l’insegnamento più propriamente utilitario di rue de Sévigné» e che porta, nel 1919-20, ai dati del piano urbano, prescritto dalla legge 14 marzo 1919, studiato dal punto di vista della Geografia urbana».

Non bisogna dimenticare lo «aspetto divulgativo dell’Insegnamento» che è stato troppo rapidamente abbandonato e che si propone:

«1° La divulgazione tramite la parola, sotto forma di conferenze pubbliche;

«2° La divulgazione per immagini, sotto forma di proiezioni cinematografiche o di altro tipo, destinate al pubblico generale o riservate a speciali gruppi, d’intesa col Secrétariat à l’Enseignement, oppure sotto forma di mostre pubbliche;

«3° La divulgazione tramite disponibilità per tutti, in forma istruttiva o educativa appropriata, di libri, riviste e giornali dedicati alle questioni urbane;

« 4° La divulgazione tramite opuscoli o periodici».

Questa scuola cambia quasi subito di nome, e diventa « Ecole des Hautes Etudes Urbaines».

Il programma dei corsi diventa più gerarchizzato, e si distinguono quattro corsi fondamentali:

1° Evoluzione delle città;

2° Organizzazione sociale delle città;

3° Organizzazione amministrativa delle città;

4° Arte Urbana.

Parallelamente a ciascuno di essi sono organizzate delle conferenze destinate allo studio approfondito di un determinato problema. Una serie generale di conferenze su «La Vita urbana all’Estero», infine un certo numero di proiezioni particolarmente destinate alla preparazione dei membri del personale della «Direction de l’Extension de Paris à la Préfecture de la Seine» completano l’insegnamento.

Ciascuna delle parti del programma comporta delle attività pratiche e si dettaglia come segue:

1° L’Evoluzione delle città – considerate come organismi viventi evolventisi nel tempo e nello spazio - comprende una serie distinta di corsi su «l’evoluzione dell’agglomerato parigino»;

2° L’Organizzazione sociale delle città, studia la popolazione metropolitana - specialmente il dipartimento della Senna – i suoi bisogni e le sue crisi, così come l’azione (preventiva, palliativa) resa necessaria da questa situazione, e comporta delle conferenze sul «Municipalismo» o «l’Interventismo» municipale, in Francia e all’estero, così come sulla «Igiene dell’Abitazione»;

3° L’Organizzazione amministrativa delle città comporta delle conferenze sulla «legislazione urbana del futuro»;

4° L’Arte urbana, comporta delle conferenze annesse su «l’Arte dell’ingegnere municipale».

Infine, la serie generale di conferenze «La vita urbana all’estero» comporta conferenze su «I principi della Città Giardino» e la loro applicazione in Inghilterra, che si gonfieranno esageratamente più tardi.

Bisogna notare particolarmente il desiderio di prevedere dei «Lavori pratici di insegnamento» sotto la direzione generale dei professori. «Dei locali speciali dove sono raccolte collezioni di opere, riviste, carte, piani, fotografie, grafici, ecc..., sono messi a disposizione.

Questi locali sono aperti tutti i giorni non festivi, dalle 10 del mattino alle 6 della sera, alle persone che seguono l’insegnamento, e che ci troveranno, oltre agli strumenti di lavoro necessari, aiuto e consiglio». Nei fatti, questo insegnamento pratico non ha funzionato.

Le condizioni dell’insegnamento sono precisate: «ciascun corso ha luogo, nei limiti di tempo che gli sono stati assegnati, una volta alla settimana». C’è una modifica delle prove: «un esame è sostenuto alla fine del primo anno, per passare al secondo. Una prova finale, consistente in particolare di un lavoro personale (memoria, piano, ecc...) scelto dal candidato d’accordo coi professori, e giudicato da una giuria designata dal Signor Prefetto della Senna (?) è prevista il secondo anno per ciascuno dei corsi fondamentali. Queste prove possono essere sostenute concorrentemente o separatamente, a scelta dell’allievo. Ciascuna di esse comporta l’attribuzione di un certificato: il possesso dei certificati concernenti le branche «Evoluzione delle Città» e «Arte Urbana» dà diritto al brevetto« Aménagement des Villes»; i certificati concernenti le branche «Organizzazione sociale delle Città» danno diritto al brevetto « Administration municipale». Il possesso dei due brevetti succitati darà luogo alla concessione del Diplôme d’urbaniste. È previsto che le note segnaletiche, sottoposte alle Commissioni di graduatoria incaricate di preparare le tabelle di avanzamento dei funzionari del Dipartimento, della Città di Parigi e dei Servizi assimilati, comporteranno l’indicazione dei certificati, brevetti, diplomi rilasciati dalla Scuola».

Il reclutamento mostra subito che è il caso di distinguere fra «Aménagement des villes» e «Administration municipale». Si vedrà più tardi una maggiore differenziazione.

L’Ecole des Hautes Etudes Urbaines è accorpata all’ Université de Paris nel 1920. Diviene, nel 1924, « Institut d’Urbanisme», costituito nella sua forma attuale, e transferito, da allora, alla Sorbona. Possiede, nel 1928, un Conseil de Perfectionnement e un Conseil d’Administration che non comprende alcun urbanista praticante ( savant o artiste), ma amministratori, giuristi e funzionari, benché si sia previsto «per lasciare ampiamente aperta la porta alle competenze, che il Consiglio potrà presentare al Rettore delle personalità che si saranno fatte conoscere per il loro lavoro o per l’interesse rivolto agli studi».

Se il programma fa notare, cosa esatta, « che contrariamente alle istituzioni simili all’estero, che per la maggior parte non esaminano che uno o alcuni aspetti dei problemi urbani», l’Istituto « comprende l’insieme dei problemi generalmente rappresentati dall’espressione: urbanistica», il Consiglio pare concepire assai male questo insieme.

È esatto che «non si può pensare che l’Urbanistica rappresenti il dominio esclusivo dell’architetto, dei costruttori di città, e meno ancora ammettere che si riassuma nell’elaborazione di piani di quartieri della città, di piani di città ... che non sono che la manifestazione delle rivendicazioni di igiene (?), di benessere, risultanti dallo sviluppo sconsiderato delle nostre città industriali moderne» ... «Il problema si estende a tutte le condizioni infinite e multiple dell’esistenza umana ... A questo titolo, appartiene anche all’amministrazione, a colui che, ad un titolo qualunque, è chiamato ad esercitare un’influenza o una missione la cui ripercussione ha eco nella vita comune».

Tuttavia, se non si parla più di una scienza «in anticipo sulle sue applicazioni», non sembra si sospetti esserci una scienza da fare, scienza innanzitutto d’osservazione e che non è fatta né di tecnica, né d’amministrazione, ma che si avvicina piuttosto alla geografia umana e alla morfologia sociale, e che – visto che si tratta di ruolo sociale, dell’essere umano – trae i suoi dati nello stesso tempo dalle leggi della vita e dalla psicologia collettiva.

LaSezione: Evoluzione delle città, grazie al suo fondatore Marcel Poëte, continua a restare la sola sezione ad cui si sprigiona lentamente una scienza di osservazione.

La Sezione: Organizzazione sociale delle città, diretta da Monsieur Fuster, comprende sempre, in aggiunta, delle conferenze sulla Igiene dell’Abitazione.

La Sezione: Organizzazione amministrativa delle città, professore Monsieur Jèze, si gonfia di conferenze su «l’Organizzazione dei grandi servizi pubblici nella banlieue parigina», tenute da Henri Sellier; su «Le questioni attuali di oganizzazione delle Capitali», tenute da Joseph Barthélémy; su «La vita municipale all’Estero», su «Il mantenimento dell’ordine nella città».

La Sezione: Organizzazione economica delle città,nuova nata, espone attraverso la voce di Monsieur Bruggeman i principi della città-giardino di Howard e si completa di conferenze sul «Municipalismo» tenute da Monsieur W. Oualid, in attesa di invertire questo ordine con il cambio di direttore.

La Sezione di Arte Urbana si è felicemente sviluppata. Comprende tre urbanisti professori: i Signori Bonnier, Gréber e Prost, che si ripartiscono l’insegnamento, così come le conferenze, su «l’Arte dell’ingegnere municipale». I corsi pratici sono intercalati da corsi teorici, il soggetto dell’esercitazione pratica è dato ciascun mese dal corso pratico del mese seguente.

Tutti questi studi sono sanzionati da un diploma, che si dichiara «assimilato (?) a quelli degli istituti di insegnamento superiore» e che dà accesso «ai concorsi di ammissione agli impieghi della Prefettura della Senna: Commissaire-répartiteur aggiunto alle imposte dirette della Città di Parigi ( ?), Ingegnere-geometra aggiunto al Piano di Parigi, Rédacteur alla Cassa di Credito Municipale di Parigi (?), Rédacteur all’Assistenza pubblica (?), Segretario amministrativo (?) all’Ufficio pubblico di igiene sociale, ecc... » altrimenti detto: a tutto, salvo alla professione di urbanista.

Per il reclutamento, in difetto di veri diplomi, «Francesi e stranieri potranno produrre tutti i certificati attestanti (?) che il candidato ha una cultura generale sufficiente per seguire l’insegnamento» (controllo per i meno insufficienti).

«L’esame conclusivo degli studi comprende:

« a) Delle prove orali;

« b) La redazione e discussione di una memoria».

L’allievo che ha concorso con successo ha il titolo di « Diplôme de l’Institut d’Urbanisme». Ricordiamo che alla costituzione della «La Société des Diplômés de l’Institut d’Urbanisme», è stato precisato che i diplomati non potevano avere il titolo di «Urbaniste-Diplômé».

Dopo speciale deliberazione del Giurì, un diploma di «Lauréat de l’Institut d’Urbanisme» può essere rilasciato, inoltre, al Diplomato «che è stato giudicato degno della distinzione precedente e che ha ottenuto una borsa di viaggio a causa delle modalità particolarmente brillanti con cui ha sostenuto la propria tesi».

Nel 1939, ritroviamo l’Institut d’Urbanisme nei locali dell’Institut d’Art et d’Archéologie, dove è emigrato nel 1933, ma senza grandi cambiamenti, mentre invece la scienza urbanistica e le sue applicazioni si sono considerevolmente evolute. In particolare, non è più solo questione di città, ma di regioni e agglomerazioni rurali; si parla correntemente, quali che siano i pericoli di questi neologismi, di urbanistica rurale, regionale, nazionale, o superurbanistica.

Dopo il 1934, un afflusso considerevole di architetti, la diffusione delle idee, l’avvento alla moda della parola urbanistica, la necessità di creare dei professionisti dell’urbanistica, hanno condotto i migliori allievi, o antichi allievi, a chiedere sweri ritocchi all’insegnamento. Questo d’altronde senza alcun risultato: il direttore, malato, in Belgio, non vedeva più in là delle città-giardino inglesi. D’altra parte, il successo finanziario dell’insegnamento presso le amministrazioni comunali e prefettizie faceva dimenticare, ancora, il bisogno urgente di educare dei «creatori».

Andiamo quindi a tentare di esporre come dovrebbero organizzarsi le cinque grandi divisioni che non si possono, al momento, modificare.

Ciascuna di esse dovrà presentare un fascio di Scienze pure, di Applicazioni e di Lavori pratici.

Così, la prima Sezione: Evoluzione delle Società o delle agglomerazioni umane, e non semplicemente delle città, comporterà alla base qualche nozione essenziale di biologia generale e di psicologia collettiva, che mostri come si possano sviluppare una serie di osservazioni metodiche di carattere universale. Dopo questa si svolgerà il quadro della formazione ed evoluzione degli agglomerati umani nelle diverse civiltà.

Il Corso fondamentale di Evoluzione delle Società Umane potrà essere accompagnato da Lavori pratici aventi come obiettivo la costituzione di schemi visuali, sintetizzanti l’insieme dei dati materiali e spirituali analizzati nel corso, per una data agglomerazione (vedere gli schemi di «Parigi, la sua evoluzione creatrice», attivato all’Ecole Pratique des Hautes Etudes; Titolo V. pp. 187-199).

La seconda Sezione: Organizzazione sociale degli agglomerati, dovrà iniziare con qualche conferenza di morfologia sociale applicata allo stato sociale contemporaneo. A questo insegnamento teorico seguiranno le importanti applicazioni pratiche della statistica all’analisi sociale, ma queste applicazioni dovranno essere studiate non da un giurista o un amministratore, ma da un geografo, che non consideri le cifre per sé stesse, ma come rappresentazione sul terreno di qualcosa di concreto. Pensiamo ai lavori di geografia statistica come lo «Atlas National de Géographie».

I lavori pratici potrebbero portare in rappresentazione visiva le funzioni della città, mirando, da un lato, a riportare quelli che abbiamo chiamato i profili psicologici delle agglomerazioni e che, mentre gli schemi della prima sezione avevano come scopo di mostrare l’evoluzione e le tendenze dell’agglomerazione in movimento, spaccati e momenti dati; d’altra parte, scoprire le cellule sociali, in particolare le comunità di luoghi completamente dimenticate, mentre lo spirito comunitario è alla base di ogni raggruppamento sociale.

Le «conferenze di Igiene» annesse, saranno delimitate e, soprattutto coordinate con quelle sulla «Arte dell’Ingegnere Municipale».

Non bisogna dimenticare, infatti, che numerosi allievi dell’Institut d’Urbanisme hanno già seguito gli insegnamenti dello «Institut de Technique Sanitaire», dove quest’ultimo soggetto è molto sviluppato, e che non mancano lavori disponibili su questo argomento. All’inizio, non si dovrà sviluppare nel corso di un insegnamento complementare, come quello dell’I.U., quello che gli allievi possono apprendere, da soli, nelle opere classiche.

La terza Sezione: Organizzazione economica degli agglomerati, non ha, di fatto, avuto sinora un titolo. È indispensabile dotarla di un corso fondamentale sull’organizzazione economica, che vada dalla fattoria alla regione, e che dovrà essere tenuto da un geografo-economista. Come applicazione, un certo numero di conferenze sulla «Città Giardino di Howard e i suoi risultati» e sul «Municipalismo».

I lavori pratici potranno esercitarsi su mappe o profili come nella prima e seconda Sezione.

Sottolineiamo che la necessità di associare i geografi alle nostre ricerche è dimostrata dai fatti: la costituzione, nel 1936, alla Sorbona, di un «Centro di Géografia Fisica e di Geologia dinamica applicato all’Urbanistica» che è servito al perfezionamento di un certo numero di Diplomati dell’Institut d’Urbanisme, saenza parlare dei Corsi esistenti all’estero, a Amsterdam o a Utrecht.

La quarta Sezione: Organizzazione amministrativa degli agglomerati, dovrà evidentemente adattarsi alle riforme in corso. È la sola sezione dove i giuristi occupano tutto lo spazio. Essa dovrà riversare il suo troppo-pieno nella « Ecole Nationale d’Administration Municipale» creata presso 1’I.U. Là ancora, non si dovrà scordarsi che gli amministratori, allievi dell’Institut d’Urbanisme, hanno innanzitutto, per la maggior parte, già seguito i corsi dell’E.N.A.M. e che inoltre le opere edite abbondano. È dunque inutile caricare il numero di ore dei corsi già così ristretto dell’I.U.: circa 150 all’anno, di quanto si può leggere a casa propria in otto ore. È difficile, al momento attuale, precisare il senso delle riforme da farsi.

La quinta sezione sembra essere la sezione eminentemente pratica, il coronamento delle analisi precedenti, dato che conduce alla materializzazione dei concetti. Di fatto, dovrà comportare, anch’essa, un insegnamento dogmatico.

Non bisogna dimenticare, in effetti, che fra tutti i corsi su settori dell’urbanistica, non c’è un Corso di Urbanistica, o corso di sintesi, che permetta agli allievi di includere la parte di ciascuna delle differenti discipline nella scienza propria dell’urbanistica.

Allo stato attuale di questa scienza all’inizio, non si può agire oltre qualche conferenza, ma esse sono fondamentali se le giudichiamo sperimentalmente, dopo dieci anni, attraverso le riflessioni degli allievi.

Questa rapida rivista dovrà essere seguita da un Corso teorico di Costruzione degli agglomerati del quale i professori attuali si divideranno l’onere. Uno sarà professore di teoria, gli altri si incaricheranno sia della composizione di elementi separati, sia della composizione di insieme. I lavori pratici qui saranno fondamentali e dovranno essere accuratamente controllati.

Accade che numerosi allievi di origine amministrativa sono incapaci di eseguire questi lavori, perché non conoscono i principi elementari del disegno e della composizione. Essi fanno frequentemente eseguire i loro compiti da tecnici esterni. A questo trucchetto, nefasto per tutti, parrebbe più giudizioso sostituire onestamente delle équipes (analoghe a quelle del concorso delle tre Arti, all’Ecole des Beaux-Arts, che comprendono: un architetto, un pittore, uno scultore). Per formare questi gruppi si assoceranno liberamente: un amministratore, uno o due tecnici (architetti o ingegneri), e infine un «artiste cultivé» che analizzi particolarmente l’evoluzione del soggetto. Ciascun gruppo presenterà collettivamente un progetto completo.

Dal punto di vista psicologico, tanto è utile insegnare agli amministratori a «leggere un piano», quanto è pericoloso lasciar loro supporre di saper usare una matita e progettare – visto che ci si mettono dieci anni per impararlo alle Beaux-Arts preparandosi al concorso di Roma. Ogni architetto che ha avuto «clienti che hanno fatto del disegno» sa cosa gli è costato.

A questa sezione saranno ricongiunte le conferenze sulla «Arte dell’Ingegnere Municipale», che dovranno studiare non solo i Servizi Municipali, ma molto precisamente l’incidenza di questa arte dell’ingegnere sulle strutture degli agglomerati. Comprendono, dopo poco, e per fortuna, alcune esercitazioni pratiche.

Scientificamente riorganizzate le grandi divisioni fondamentali dell’insegnamento, il livello dell’I.U. ne uscirà rinforzato se si controllano seriamente le acquisizioni degli allievi. È dunque indispensabile, non non solo procedere al controllo individuale delle presenze, ma ancora, al momento degli esami, giungere realmente alla pratica delle prove scritte, alla fine del primo e secondo anno, per i corsi fondamentali.

Gli allievi che avranno superato questi due esami saranno titolari di un Certificat de fin d’études. Questo dovrà essere rilasciato dopo il secondo esame superato. Si verificano, infatti, parecchi abusi di titolo; prendono il nome di «Anziani Allievi dell’I.U.» dei giovani che hanno frequentato, raramente, e non hanno punto superato esami. Il possesso del certificato permetterà un controllo agevole e aiuterà la lotta contro gli abusi.

Per le tesi, converrà precisare per quanto possibile il loro scopo e cosa dovranno comportare. Gli studenti presentano spesso dei soggetti troppo vasti per dar luogo a qualcosa di diverso dal generico; all’interno di ciascun argomento di insieme, dovrà essere accuratamente delimitato un punto di dettaglio pour scoprire le qualità di osservazione del candidato; d’altro canto, alcuni soggetti sono ripresi a un’epoca troppo ravvicinata, senza visibile progresso. Non bisogna dimenticare che la scienza urbanistica necessita la costruzione di monografie precise, e che le buone tesi dell’I.U. sono le rare fonti di questo genere di lavori.

Realizzata questa messa a punto della struttura attuale, l’Insegnamento dell’Instituto resterà ancora insufficiente per la categoria degli Architectes-Urbanistes, Directeurs de Plan, così come li definisce la circolare ministeriale del 1921. Per questi ultimi, bisogna considerare un terzo anno di perfezionamento. Per questi ultimi soltanto, perchè come abbiamo detto gli amministratori provengono, per la più parte, dall’.E.N.A.M. (Ecole Nationale d’Administration Municipale) e i geometri e ingegneri dall’Institut de Technique Sanitaire; la regolamentazione della professione di architetto condurrà a conferire ai soli architetti diplomati il diritto di dirigere piani urbanistici, «a condizione che detti architetti diplomati abbiano seguito studi complementari di urbanistica all’Institut d’Urbanisme».

Tutti gli allievi che abbiano completato i primi due anni e presentato con successo la loro tesi porteranno, come avviene attualmente, il titolo di diploma, o meglio- per evitare ogni confusione – quello di Breveté de l’Institut d’Urbanisme.

Gli architetti già diplomati a una Scuola di Architettura e brevettati dell’I.U. porteranno, dopo il terzo anno terminato con successo, il titolo di Urbaniste-Diplômé par l’Etat, titolo che potrà essere assimilato, seriamente stavolta, a quello delle Grandes Ecoles.

Questo terzo anno non si può concepire che sotto la forma di «Atelier», la sola che si addice all’insegnamento artistico della grande composition.

Di fronte all’indifferenza ufficiale mostrata prima della guerra per questo insegnamento pratico indispensabile, abbiamo dovuto aprire un Atelier libero, nel quale degli studenti si sono riuniti – di loro propria volontà, e non per ottenere un pezzo di carta. Il successo è stato sanzionato allo stesso tempo dal Grand Prix du Salon des Urbanistes vinto collettivamente, come risultato di un anno di funzionamento, e dalle posizioni occupate attualmente dai vecchi partecipanti.

Per l’ottenimento del diploma, ci si può ispirare all’esempio di Liverpool – uno dei migliori dal punto di vista professionale – che richiede la preparazione di almeno due progetti urbanistici completi per zone assegnate: uno studio per la ricostruzione di una zona esistente e un progetto di risoluzione di un delicato problema urbanistico sotto determinate condizioni: gestione urbana, architettura urbana, decoro urbano.

Il soggetto sarà definito dai professori di teoria, e potrà essere lo stesso per tutti, o meglio, adattato alla nazione, alla regione, all’agglomerazione del candidato. Potrà essere, ancora, lo sviluppo grafico di una memoria che abbia gia ottenuto il brevetto. Riguarderà sempre una applicazione professionale, conformemente ai regolamenti esistenti, e non potrà essere un fatto di anticipazione utopica. Sarà giudicato dai suddetti professori su schizzi, poi a piccola scala, e infine su elaborato completo. L’esecuzione del lavoro avrà luogo nell’atelier, dove ognuno approfitterà dell’ambiente e dei consigli pratici del Chef d’Atelier.

Infine, dato che gli urbanisti sono chiamati ad occupare alte funzioni di organizzazione o pianificazione regionale, gli Urbanistes-Diplômés, che saranno inoltre Lauréats (a titolo indicativo, ne esiste attualmente una dozzina) saranno ammessi a candidarsi al grado di Urbaniste-Docteur (analogo a quello di Ingénieur-Docteur) secondo i regolamenti universitari. Il che permetterà, inoltre, di formare un corpo insegnante per l’urbanistica.

L’Institut d’Urbanisme comprenderà, allora, non solo un insegnamento completo dal punto di vista della teoria e delle sue applicazioni, ma un vero e proprio laboratorio di attività pratiche, dal qual soltanto si possono sviluppare i principi della scienza urbanistica. La gerarchia: Ecole Nationale d’Administration Municipale, Breveté de l’I.U., Urbaniste-Diplômé de l’Etat, Lauréat de l’I.U.,Urbaniste-Docteur metterà ciascuno al suo posto, come in una composizione di Le Nôtre.

Parigi, 3 novembre 1940.

Nel 1944,dopo i violenti attacchi di Monsieur Roux-Spitz, su l’Architecture Française, e i suggerimenti della Commission d’Urbanisme della S.A.D.G., un terzo anno comincia ad avviarsi. Nel frattempo, le nomine di René Maunier al corso di organizzazione sociale ed economica delle città, del dottor Hazemann al corso di igiene sociale, del geografo Clauzier, hanno davvero risolto lo squilibrio causato dal corso di Diritto.

Ma la formazione dei tecnici dell’Urbanistica resta da intraprendere, congiuntamente al Ministère de l’Urbanisme.

Un antecedente: il nome della nuova scienza

L’impegno a definire l’urbanistica sia formalmente, sia nei contenuti concettuali e operativi, appare già nella seconda metà dell’Ottocento. Alla Teoria General de la Urbanización dello spagnolo Ildefonso Cerdà si può riconoscere - almeno simbolicamente - il primo tentativo in tal senso. In esso vi è anche ‘inizio della diffusione dei termini formati sulla radice “urbs” per indicare i fenomeni, la prassi, le opere e il campo di studi che si andava tentando di instaurare[1].

Cerdà nella sua Teoria è convinto di dover iniziare “il lettore allo studio di una materia completamente nuova, intatta, vergine”, per la quale occorre “cercare e inventare parole nuove”, perché non ve ne sono di adeguate tra quelle già in uso. La parola “città” denota soprattutto l’aspetto “materiale” di ciò che secondo Cerdà appare un “mare magnum fatto di persone, di cose, di interessi di ogni genere, di mille elementi diversi che sembrano funzionare, ognuno a suo modo, in modo indipendente”. Ma, appunto, non é questo che Cerdà vuole esprimere, quanto piuttosto “mettere in rilievo come e secondo quale sistema si sono formati i diversi elementi, come sono organizzati e come funzionano”; vale a dire, “al di là della materialità [...] indicare l’organismo, la vita [...], che anima la parte materiale”. Così - secondo Cerdà - non è possibile ricorrere nemmeno alla parola latina “civitas” e ai suoi derivati, perché carichi “di significati molto lontani” da quei concetti e da quei fenomeni. Allora - egli racconta - “mi sono ricordato del termine urbs che, riservato al’onnipresente Roma, non è stato trasmesso ai popoli che hanno adottato la sua lingua e si presenta meglio ai miei fini”[2]. “Urbe” è, infatti, una delle espressioni, perdurante nel tempo dai Latini a oggi, con la quale si usa nominare la città di Roma. Ed è verosimile anche l’affermazione di Cerdà che, al di fuori di quest’uso, il termine urbs e i suoi derivati - come s’è detto - siano pressoché scomparsi nelle lingue che sono andate sostituendosi al latino.

Urbs - dice Cerdà – è ”contrazione di urbum che indicava l’aratro, strumento col quale i Romani, all’atto della fondazione, delimitavano ‘area che sarebbe stata occupata da una población[3] quando veniva fondata: denota ed esprime tutto ciò che poteva contenere lo spazio circoscritto dal solco tracciato con ‘aiuto dei buoi sacri. Con questo solco si compiva una vera opera di urbanizzazione, e cioè l’atto di convertire in urbs un campo aperto e libero”. Per chiarire meglio ciò a cui Cerdà intende riferirsi si noti che la parola latina urbum o urvum significa propriamente “manico del’aratro”; ma da questa - e Cerdà non lo rileva esplicitamente - deriva il verbo urbo o urvo, che significa “tracciare il solco”, appunto, di una città di nuova fondazione. Sicché è proprio “urbanizzazione” il termine che Cerdà decide di adottare per nominare “‘insieme degli atti che tendono a creare un raggruppamento di costruzioni e a regolarizzare il loro funzionamento, così come designa l’insieme dei princìpi, dottrine e regole che si devono applicare perché le costruzioni e il loro raggruppamento, invece di reprimere, indebolire e corrompere le facoltà fisiche, morali e intellettuali dell’uomo che vive in una società, contribuiscano a favorire il suo sviluppo e ad accrescere il benessere sia individuale che pubblico”[4]. Così come chiama “urbanizzatore” colui che detiene la relativa arte, ossia l’urbanista, e adotta il termine “urbe” per indicare qualsiasi raggruppamento di costruzioni. Cerdà, infatti, intende elaborare una teoria “generale” del’urbanizzazione, cerca dunque un termine che nomini l’universo degli insediamenti, e nessuno di quelli oggi in uso gli sembra idoneo allo scopo. Le lingue attuali, infatti, hanno una molteplicità di parole, ciascuna delle quali nomina un determinato raggruppamento di edifici, distinto per dimensione, ruolo o funzione, a esempio: città, villa, borgo, villaggio, frazione, parrocchia, casale, fattoria, casa di campagna[5].

La struttura dell’agire urbanistico

È, questa di Cerdà, un prima definizione della nascente disciplina urbanistica. Ne fioriranno molte altre, non solo differenti, ma spesso anche tra loro del tutto indipendenti, e ciò nondimeno identiche nella loro struttura logica. È noto che la Teoria dello spagnolo non ha avuto un seguito diretto, la sua opera scritta è stata ben poco letta e in molti casi del tutto ignorata anche dagli storici [6]. Il nome di questo ingegnere è rimasto per lungo tempo legato alla sua attività pratica, che lo ha visto impegnato con successo in uno dei grandi piani di trasformazione ottocentesca delle vecchie città europee, quello di Barcellona.

Il manifestarsi della volontà di conferire alla costruzione delle città, e più in generale di qualsiasi insieme di edifici, un’autonomia disciplinare ha alcuni tratti caratteristici. Il progressivo e rapido diffondersi della crescita urbana, in misura e in qualità che non hanno precedenti significativi dagli inizi dell’Ottocento, obbliga a questo impegno molte energie sociali, dal governo nazionale alle varie amministrazioni locali. Si devono costruire e sviluppare specifiche tecniche politiche, giuridiche, amministrative, economiche e mobilitare vari settori delle nascenti ingegnerie, nonché evocare i saperi della medicina sociale. Un complesso di tecniche da indirizzare a quel fine, non solo per far fronte al succedersi degli eventi, ma anche con l’intento di prevenirli e prefigurarli secondo i desideri che la stessa fiducia nella potenza del produrre e del progredire suscitano.

Vediamo meglio e con un certo ordine come vi si giunge. La costruzione dell’ambiente urbano o urbanizzazione - per usare il termine abbastanza appropriato di Cerdà -, in qualsiasi sua forma e con qualsiasi proposito si presenti, richiede sempre un agire sociale. E un’azione determinata da un qualche scopo posto come prioritario, che si vuole sia comune a una pluralità di individui. Esso presuppone la subordinazìone di una più o meno vasta molteplicità di attori e di tecniche. Ciascuna azione e ogni specifica arte coinvolta nel processo non può essere autonoma, né concludersi nel suo particolare fine, in quanto è posta in funzione di un obbiettivo superiore da raggiungere. I singoli fini visti dallo scopo supremo si presentano come altrettanti mezzi del suo perseguimento. L’efficacia dell’azione urbanistica dipende così dalla capacità del suo scopo d’imporsi su ogni fine individuale, riducendolo a strumento del proprio agire sociale. Il suo grado di efficienza, allora, varia al variare del consenso che lo scopo primario riceve da parte degli attori coinvolti nell’opera di urbanizzazione.

I contenuti dello scopo posto come primario costituiscono anch’essi una molteplicità nello spazio e nel tempo. Essi formano una storia, ossia fanno da sempre - e non solo dall’epoca moderna - la storia dell’urbanistica con tutte le sue differenze geografiche. Ma a questa sterminata varietà di contenuti e di forme sottostà una struttura. E che vi sia una struttura è già indizio il fatto che Cerdà, nel cercare una parola idonea a nominare quella che egli ritiene una nuova scienza, la trovi col significato più appropriato in una lingua che si usa dire "morta"; e per di più s’imbatte in una parola caduta in disuso anche nelle lingue da questa derivate. Si noti anche come le parole che nominano lo strumento, l’atto, l’attore e l’opera siano tutte costruite sulla medesima radice “urb”. Si può dire, allora, che queste diverse cose nel linguaggio sono tutte ricondotte allo strumento; più in particolare al manico dello strumento (il manico dell’aratro), ossia allo strumento dello strumento, a ciò che permette all’attore di utilizzare lo strumento, di averlo in suo possesso. Il mezzo, allora, già dagli indizi del linguaggio, si mostra centrale e prioritario per qualsiasi scopo.

La lingua latina appartiene a una civiltà dove l’urbanizzazione e l’esistenza individuale e sociale sono guidate da una concezione del mondo comunemente ritenuta ben diversa dall’attuale. Ma ciò che accomuna il nostro tempo a qualsiasi altra epoca urbana non è certo lo specifico contenuto dello scopo prioritario che definisce quell’agire urbanistico né, quindi, la determinata forma che esso assume per effetto di tale definizione, e perciò neppure il concreto suo manifestarsi in opere che chiamiamo città o urbanizzazioni. Comune è la struttura di quell’agire che consiste nel concepire e nel porre un determinato scopo come primario. La formulazione dello scopo definente l’azione :urbanistica, infatti, sottostà a un’identica legge, che impone di prospettarlo fondato su una qualche concezione del mondo, esplicita o implicita, che sia o possa diventare comune alla molteplicità degli individui. Ciò è molto più denso di implicazioni di quanto comunemente non si immagini. Lo scopo è concepito alla ricerca del consenso. Il primo obbiettivo del consenso è la traduzione in legge - scritta o consuetudinaria - delle regole di comportamento dei singoli ritenute idonee allo scopo primario. Tali regole, infatti, devono essere condivise quel tanto che è necessario a riconoscerle norme imponibili alla totalità degli individui, ossia anche ai dissenzienti. E ciò è tanto più necessario perché i comportamenti conformi all’agire urbanistico sono proiettati nel futuro. A misura della vastità dell’azione e della dimensione temporale del processo che si pretende governare - e che tende perciò a essere sempre più indefinito nel tempo - cresce la necessità di tradurre le regole in leggi generali dello stato, valide a tempo indeterminato, o addirittura poste come eterne. La riconosciuta natura normativa dell’urbanistica ha in ciò il suo senso autentico. Lo strumento urbanistico è essenzialmente strumento legale. E il perseguimento dell’istituzione e del possesso dello strumento - ossia di ciò che è posto come mezzo tra il proposito d’agire e il fine da raggiungere - finisce per tramutarsi esso stesso in scopo. In altri termini lo strumento (legale) è príoritario, perché senza di esso è impensabile l’azione e dunque il perseguimento di qualsiasi scopo.

[…]

La terra da strumento a scopo primario

La terra, chiamata nel linguaggio urbanistico consolidato "territorio", è strumento di una vastissima molteplicità di azioni e opere. Il possesso di tale mezzo è fondamentale per molti scopi, in particolare per qualsiasi scopo che abbia a che fare con l'edificazione e l'urbanistica. Tale strumento è determinante per ognuno degli scopi che l'urbanistica va proponendosi in competizione con altre azioni definite da scopi diversi, ma che hanno in comune la terra quale proprio strumento di realizzazione. Nell'agire sociale - e l'agire calcolato, ossia tecnico, è sempre un agire sociale anche quando operato dal singolo - ogni e qualsiasi forma di possesso concettuale e operativo della terra è regolato in ultimo - attraverso vari gradi di mediazione - dal diritto.

L'urbanistica è costretta a intrattenere rapporti stretti col diritto. E a sua volta nel campo di studi di quest'ultimo si è sviluppata una branca specialistica del diritto amministrativo chiamata, appunto, diritto urbanistico ed edilizio.

Progredire nel possesso concettuale e operativo della terra è vitale per l'urbanistica. Non a caso in Italia nel linguaggio della disciplina la terra è chiamata “territorio”: un termine chiave, che la connota più ancora delle parole “piano” e “pianificazione”'. “Territorio” deriva da `terra' (latino terra), ma la indica quale possedimento, e quindi ne è anche limite e confine, sia semantico sia spaziale. Nell'italiano antico, infatti, si diceva tenitorio, ovvero una porzione di terra che si tiene in possesso. Secondo Varrone “la terra è così chiamata dal fatto che teritur” (viene calpestata). Per questo nel Libro degli Auguri si trova scritto tera con una r sola. Così il terreno che viene lasciato ai coloni vicino a una città per uso comune, si chiama teritorium perché è quanto mai battuto (teritur)"[7]. Qui viene in chiaro che “territorio” nomina la terra vista come strumento, supporto, qualcosa che può essere calpestato, percorso. E gli Auguri avevano tra i loro compiti quello di guidare la fondazione della città, indicandone il centro e tracciandone gli assi e i confini. Erano autentici pianificatori. Il senso di teritur, d'altra parte, è in qualche modo connesso al termine planum (“pianura”) che ha anche il significato di facile, appunto perché è la terra agevole da percorre, e spianare la terra, farla piana, pianificarla è tentare di sottoporla ai nostri voleri.

La moderna disciplina urbanistica sviluppa varie forme di possesso intellettuale della terra: compiendo descrizioni e rappresentazioni del territorio, elaborando conoscenze sue proprie o mutuate da altre scienze; prefigurando piani, progetti e modelli di assetto e di trasformazione; analizzando tendenze e ricercando regole di sviluppo. Tale dominio ideologico della terra, ossia il territorio dell'urbanistica, deve a un tempo trovare spazio nel diritto sul territorio per la pratica sociale della pianificazione, come per ogni altra possibile forma di prassi diretta o connessa in vario modo all'intervento territoriale e urbano dell'individuo e della società. La terra strumento, e il diritto sulla terra quale mezzo sociale del possesso dello strumento, sono scopo comune di ogni ideologia urbanistica, e l'urbanistica è, tra le discipline, la più fervida creatrice di ideologie, si nutre, per sua intrinseca natura, di ampia libertà creativa. La terra strumento, e il diritto sulla terra quale mezzo del suo possesso, sono però anche scopo comune di tutti gli altri scopi ideologici, diversi da quelli propri dell'urbanistica, ma che hanno anch'essi necessità di tale mezzo. Già in questa comune necessità di possesso della terra, emerge la tendenza alla subordinazione dei vari scopi ideologici allo strumento, dunque all'ottenimento del diritto sulla terra. Ma oggi si può intravedere un'ulteriore posizione di dominio dello strumento sugli scopi che dovrebbe soddisfare. Dalle fonti più varie - scientifiche, etiche, estetiche, politiche e religiose - va diffondendosi la convinzione che la terra sia sottoposta a processi irreversibili di distruzione. Se tale convinzione dovesse estendersi e consolidarsi, le varie azioni definite da scopi ideologici saranno costrette a impegnarsi nella salvezza dello strumento. Gli scopi ideologici in concorrenza per il possesso dello strumento, andranno, allora, tramontando nello scopo comune di salvare la terra, che è un'ulteriore forma di volontà di potenza. Essi dovranno indirizzare a questo fine scienze, saperi, tecniche, regole, diritti, ossia ancora una volta ricorrere all'apparato scientifico tecnologico e quindi allo sviluppo della Tecnica, tentando di subordinarla alla scopo che ha per contenuto l'intento di salvare la terra.

In urbanistica la tendenza a porre al centro dell'agire sociale la salvezza della terra è visibile da tempo. Ne è segno peculiare l'impegno per ulteriori tentativi di riforma del diritto urbanistico edilizio, sostenuti e argomentati anche da questo scopo. Sull'attualità del dibattito si interviene con un libro, che sarà pubblicato in rapida successione a questo, dal probabile titolo Pianificazione e statuto dei luoghi, dove si mostra il tramonto del piano così come è ancora oggi configurato nel diritto e si argomenta la proposta di strumenti inauditi - appunto lo “statuto dei luoghi” - in sua sostituzione. Ma insieme si tenta di chiarire la dimensione ideologica degli scopi di salvezza della terra, ai quali vengono dati nomi come “sviluppo sostenibile” e simili. Qui, invece, si vuol mostrare il ruolo degli strumenti nella fase in cui l'urbanistica si è formata, ossia è stata istituita come pratica e disciplina moderna in Italia. Gli strumenti allora pensati e istituiti, sono per molti versi ancora quelli oggi in vigore e in uso. È dunque di fondamentale importanza conoscerne il senso originario per illuminare l'attualità, attraverso la consapevolezza della struttura che lega quel momento al nostro.

L'esproprio e la pratica urbanistica delle origini

Quando ancora l'urbanistica non è disciplina riconosciuta col proprio nome, ma pratica espressa in opere che ora si fanno apprezzare più delle attuali, lo strumento al centro dell'azione per il possesso della terra quale mezzo delle trasformazioni territoriali e urbane è l'espropriazione per pubblica utilità [postilla n. 1]. Lo scopo che domina all'origine tale strumento, insieme ad altri che vanno configurandosi nel diritto dello stato moderno, è la liberazione della terra da ogni forma di possesso tradizionale e non imprenditoriale. Si tratta di favorire la liquidazione dei vecchi diritti sui beni immobili, perché non vi siano ostacoli alla loro libera circolazione sul mercato. Per questa via si vuol condurre la terra a territorio (tenitorio) dell'imprenditoria capitalistica definita dallo scopo suo proprio: il profitto. Tale scopo, nel settore della produzione della città moderna, aveva necessità - in quella fase - di una specifica mediazione dello stato. Bisognava negare, di fronte a un'ufficiale dichiarazione di pubblica utilità, la libertà di non cedere il proprio diritto di proprietà. L'esercizio di una tale libertà, infatti, può bloccare l'impresa, insieme pubblica e privata e quindi sociale, di produzione della città moderna, Produzione che, come ogni altra, già si concepisce e si vuole dominio dell'agire capitalistico; ossia del liberismo economico, che porta questo nome in quanto libera, appunto, toglie limiti e vincoli tradizionali a ogni progetto produttivo, conducendolo nel dominio della libera iniziativa. In quella fase il ruolo di mediazione dello stato è tale che il perseguimento del profitto quale scopo primario deve assumere come scopo secondario, ma necessario, il disegno pubblico e unitario della città nuova, proprio perché l'azione capitalistica non ha ancora, almeno nel settore dell'urbanistica, una potenza autonoma sufficiente. Quando tale potenza sarà in grado di esprimersi senza quel tipo di mediazione, quando cioè i diritti circoleranno liberamente sul mercato permettendo il libero sviluppo delle attività speculative proprie del capitalismo - far danaro a mezzo di danaro - non occorrerà più usare concretamente lo strumento dell'esproprio, se non nei limiti strettamente necessari e subordinati alla realizzazione di singole opere pubbliche. Ciò che importa è che l'esproprio resti ben saldo nell'ordinamento del diritto quale “arma” - così vien detto -, ossia un deterrente, un principio che toglie la libertà di non cedere il proprio diritto di proprietà di fronte al pubblico interesse.

Lo scopo primario dello stato moderno è la “libertà” economica, che coincide con l'azione capitalistica definita dallo scopo del profitto. L'arma dell'esproprio è puntata contro ogni possesso della terra che impedisca l'azione capitalistica, non dunque contro la proprietà imprenditoriale. Lo scopo di quest'ultima infatti è omogeneo a quello dello stato liberista e viceversa. Il diritto di esproprio conferma in pieno il diritto di proprietà privato nell'accezione liberista, impedendo a tale diritto di essere esercitato in una forma che possa intralciare la produzione capitalistica della città e del territorio, ossia che limiti il diritto di sfruttamento imprenditoriale dei beni immobili. Fondamento dell'esproprio è il diritto del proprietario espropriato a ricevere un indennizzo commisurato al valore di mercato del bene. In tal modo, liquidando il diritto, si pone forzatamente il proprietario espropriato nella medesima posizione dell'imprenditore. Quest'ultimo non ha, infatti, per scopo la terra, ma il danaro. La terra - il diritto su di essa - è solo un mezzo per il danaro. Tutti i proprietari sono - si vuole che siano - potenziali capitalisti; se al momento opportuno non lo saranno in atto ci pensa lo stato a porveli, sostituendoli tramite indennizzo. Una volta che il mercato immobiliare sia liberato e a regime l'attività imprenditoriale non incontrerà più l'ostacolo costituito dalla possidenza tradizionale. Non solo. Sarà possibile anche il perseguimento del profitto speculativo - che è l'essenza dell'azione capitalistica - attraverso la semplice compravendita dei beni immobili senza la mediazione della produzione urbana. Il piano ottocentesco disegnato dalla mano pubblica, definito nel tempo e nello spazio, perde conseguentemente ogni funzione rispetto allo scopo del profitto. Lo stato dovrà solo - e non è poca cosa, né facile - continuare a garantire l'esercizio dell'azione capitalistica, ordinandola nei vari modi che si presentano opportuni e relativamente necessari.

Vi è una storia di tentativi falliti di riforma dell'esproprio, dall'unità d'Italia agli anni Trenta del Novecento. Vi è una storia di tentativi falliti da parte degli urbanisti di ottenere la modifica della natura del diritto proprietà dei beni immobili, dagli anni Trenta agli anni Sessanta del Novecento. 1 tentativi di riforma dell'esproprio, così come quelli di riforma del regime di proprietà dei suoli, sono orientati, in vari modi e in diversi gradi, a subordinare lo scopo del profitto ad altri scopi ideologici. Nessuno di tali scopi intende negare il profitto e l'azione da esso definita. Anzi, si riconosce in pieno al capitalismo - perché evidente e innegabile - la sua forza produttiva senza pari nella storia. Ma - a un tempo - si vorrebbe che la sua azione globale, somma delle iniziative imprenditoriali individuali, venisse unificata, non dallo scopo che consiste nel garantire il profitto, ma da altro scopo primario: le varie forme di "bene comune" che le ideologie tradizionali e moderne vanno indicando in competizione tra loro. In altri termini si vorrebbe sfruttare come strumento di azione sociale, definita da uno scopo diverso dal profitto, la forza produttiva della libera iniziativa privata. Ciò è come dire al capitalismo - dopo averne invocato la forza produttiva - di non essere più capitalismo, in quanto lo scopo primario che lo definisce dovrebbe ridursi a strumento di altro scopo. È evidente che, se lo scopo primario non è più il profitto, l'azione non può più essere capitalistica[8].

Il dominio esclusivo di un determinato scopo su uno strumento, un sapere o una tecnica, lo blocca. Si è detto: lo scopo è un limite. Esso rende impossibile l'evolversi degli strumenti, lo sviluppo del sapere e della tecnica. Negli anni Venti e Trenta del Novecento gli architetti e gli ingegneri italiani vanno maturando e organizzando l'urbanistica da pura pratica a branca specialistica dell'architettura: nelle scuole universitarie, nell'attività professionale, nelle istituzioni e associazioni culturali. Scopo unificante e primario della loro azione diviene subito l'inserimento dell'urbanistica, quale autonoma disciplina, nell'ordinamento del diritto. Appare loro evidente che occorre innanzitutto svincolare le norme riguardanti i piani regolatori da quelle sull'espropriazione, ormai bloccate dallo scopo originario e primario. L'urbanistica, ora, deve mostrare tutta la sua capacità di elaborazione tecnica e scientifica, ed essere fonte e fondamento della sua propria norma. Essa deve garantirsi il suo autonomo sviluppo quale scienza a pratica, ricevere l'adeguato riconoscimento sociale e istituzionale, esporre e mostrare il suo territorio, sul quale avanzare i propri diritti. Si tratta inoltre di superare la pratica della legislazione speciale, con la quale venivano dettate norme e configurati strumenti attraverso l'emanazione di specifiche leggi per ogni iniziativa di piano. Una pratica di pianificazione che agli occhi degli urbanisti appare territorialmente discontinua e temporalmente occasionale. Essa, inoltre, va accumulando nel diritto un coacervo di norme urbanistiche disorganiche e contraddittorie.

L’originaria volontà dell'urbanistica di pianificare la terra

Nel corso di circa un decennio, dal 1931 al 1942, anno in cui viene emanata la legge urbanistica n. 1150, gli urbanisti riescono a centrare questi obiettivi di fondo. Ottengono una legge di evidente autonomia da ogni altra, che porta il nome della disciplina da poco coniato e che istituisce strumenti di piano unici per tutto il territorio nazionale. Essa configura una pianificazione gerarchica, ordinata in tutti i livelli amministrativi e in ogni possibile scala di gestione e intervento: piano territoriale di coordinamento; piano intercomunale; piano regolatore generale comunale; piano particolareggiato di attuazione; programma di fabbricazione. Una cascata di piani inaudita in una legge tuttora formalmente in vigore, ma destinata a vedere praticato diffusamente e sistematicamente solo il piano regolatore generale comunale. Gli urbanisti tentano anche, senza riuscirvi, di inserire nelle legge la separazione dal diritto di proprietà del diritto di edificazione, sperando di conferire a quest'ultimo lo statuto di concessione pubblica. Si vorrebbe trasferire ogni decisione edificatoria nelle mani dell'amministrazione comunale. È essa sola che può concedere al privato, dietro pagamento di un adeguato prezzo, il diritto a edificare, volta a volta che lo riterrà opportuno, attenendosi alle norme e alle prescrizioni dettate dal piano. E perciò il piano, dalla sua approvazione, ha validità legale a tempo indeterminato. Non c'è infatti bisogno, in questa logica, di predeterminare la sua validità temporale, dal momento che il diritto edificatorio è decisione esclusiva del Comune. Un tale potere urbanistico sulla terra avrebbe inciso profondamente su una linfa vitale del capitalismo: la speculazione immobiliare, la quale, in situazioni di urbanizzazione crescente, si fonda proprio sulla compravendita dei diritti edificatori. Un'assurdità - più volte tentata senza successo anche nei decenni successivi, perché con la pianificazione si vorrebbe il dominio globale sulla produzione dell'urbano, e a un tempo lo si pensa fondato sull'azione capitalistica ridotta a strumento di attuazione degli scopi urbanistici.

Gli urbanisti volevano uno strumento di piano che conferisse all'amministrazione comunale il diritto di decidere dove, come e quando costruire. Essi si propongono come esperti in grado di dare fondamento scientifico, tecnico e artistico alle decisioni. Pensano di poter sviluppare una scienza della pianificazione urbana e territoriale idonea a fondare - e perciò guidare con sicurezza - la progettazione dei piani. Tentano di accreditarsi come progettisti dell'urbano, in quanto capaci di intelligere il suo futuro nei tempi brevi, medi e lunghi fino a poterne indicare la tendenze verso un tempo indeterminato. Ritengono di poter tradurre tale intelligenza in definizioni spaziali attraverso una preordinata successione gerarchica di approssimazioni, che giunge fino alla soglia oltre la quale subentra la progettazione architettonica del singolo edificio. Quest'ultima è sì distinta e autonoma dal progetto urbano, ma può esplicarsi solo all'interno delle sue definizioni. Le determinazioni spaziali sono tradotte in grafici, in norme che disciplinano l'attuazione del piano e in regole edilizie di carattere generale e specifico rivolte sia all'esistente sia al progettato. Tali regole tendono a investire ogni sorta di attività edilizia, dallo spostamento di una parete divisoria all'interno di un appartamento, alla costruzione di milioni di metricubi di edifici. Col piano si pretende di porle tutte in connessione necessaria. Esso si configura come atto decisorio unitario e globale circa tutto ciò che deve permanere, tutto ciò che può essere trasformato e tutto ciò che deve essere creato. Un delirio di onnipotenza con una dimensione epistemica - per giunta inconsapevole in quanto pura mente scientista - che nella sua candida espressione originaria è alquanto stupefacente. E per quanto oggi tale delirio sia variamente dissimulato e non più candido, ciò non di meno esso permane al fondo delle aspirazioni degli urbanisti.

Il progetto di piano tramonta nel processo di mercato

Vediamo allora qual è - di fatto - lo stato di diritto sulla terra che si è venuto a configurare dopo la legge urbanistica. Il diritto di proprietà include il diritto di edificazione. Ogni possibile ambiguità giuridica in merito è stata da tempo spazzata via da sentenze della Corte Costituzionale [postilla n. 2]. Queste hanno avuto la conseguenza, tra l'altro, di invalidare le previsioni di esproprio a tempo indeterminato dei beni privati. Sicché il progetto del piano mantiene la validità a tempo indeterminato solo nelle sue previsioni edificatorie private, mentre quelle per opere pubbliche decadono convenzionalmente dopo cinque anni. Dei poteri sognati dagli urbanisti non resta così nemmeno l'ombra. Il progetto d'ogni piano è inficiato in partenza nella sua struttura portante. Ciò non deve stupire, perché di un progetto urbanistico vero - al di là delle apparenze - nessuno sente il bisogno. Il piano regolatore, in quanto strumento di gestione amministrativa, invece, è comunque necessario, anche e proprio a garanzia dell'azione capitalistica nella speculazione immobiliare e nella produzione urbana. Nessuna forma di edificazione può essere intrapresa senza l'autorizzazione dell'amministrazione comunale. Questa deve essere concessa al richiedente, seguendo le procedure in vigore, in base a una molteplicità di leggi e norme tecniche sull'edificazione, tra le quali ci sono anche quelle dettate dal piano urbanistico che il Comune si è dato.

Ma nel corso del tempo indeterminato in cui il piano è formalmente in vigore, ogni volta che vengono prospettati progetti sia pubblici sia privati di una qualche rilevanza, l'amministrazione comunale in carica in quel momento li vaglia seguendo il suo orientamento politico. Essa compie valutazioni che sono indipendenti dall'ordine urbano immaginato dal progetto di piano, il quale è stato approvato in un tempo più o meno lontano e da un'amministrazione che può esser stata diversa. I progetti rilevanti sono quelli che si manifestano secondo logiche economiche e produttive guidate dalla dinamica del mercato. Essa è inintelligibile al progetto di piano urbanistico e dunque è sempre difforme da questo (solo per accidente accade il contrario). I politici al governo della città, i proprietari di immobili e gli imprenditori interessati a quei determinati progetti, intavolano un dialogo negoziale in cui trovano composizione specifica gli interessi in gioco in quel momento. Il piano allora viene variato di conseguenza. La successione temporale di tali iniziative e procedure negoziali costituisce il concreto e autentico progetto, in continuo divenire - imprevedibile e perciò creativo -, che guida la produzione dell'urbano. Il progetto degli urbanisti, contenuto del piano regolatore generale, è solo un termine di riferimento convenzionale e puramente formale per le negoziazioni a venire.

Tutto ciò è comunemente noto e più o meno accettato. L'attività professionale da urbanista per ingegneri e architetti non è certo in crisi. La pratica della pianificazione è diffusa e va in vario modo incrementandosi, anche per la fervida produzione legislativa delle Regioni che ora hanno la competenza in materia. Gli urbanisti fondatori degli anni Venti e Trenta ne sarebbero comunque soddisfatti, forse oltre ciò che speravano, perché allo sviluppo di questo settore della libera professione puntavano molto. Tuttavia l'intento di fondare e istituire un'autonoma tecnica di costruzione dell'urbano è innegabilmente tramontato. L'urbanistica, pur ampiamente praticata nella pianificazione, non sembra dare alcun concreto contributo tecnico autonomo alla progettazione della città e del territorio. Eppure oggi si caricano i piani di una progettualità che non ha precedenti per la sua complessità, per gli scopi che indica, per la vastità delle cose che intende dominare, per le relazioni che vuole stabilire con gli altri campi del sapere e delle tecnica. La loro operatività, però, non può che ridursi a una funzione retorica nella fase in cui il piano si va formando e approvando. Il progetto specificamente urbanistico che lo sostanzia, rappresentato al pubblico, costituisce lo schermo dietro al quale si svolgono le negoziazioni. Tali negoziazioni, nella fase di formazione del piano generale, sono incentrate quasi esclusivamente su attività immobiliari puramente speculative. Queste per loro natura non possono e non devono avvenire in pubblico. L'approvazione del piano legalizza l'esito della competizione negoziale, decretando l'ammontare del volume edificabile dei proprietari vincitori. Tale volume virtuale - ma misura concreta del valore di mercato della proprietà immobiliare - deve apparire ai cittadini come la loro futura città, quanto più è possibile carica dei loro desideri. Compito degli urbanisti è di evocarli e interpretarli in modo convincente. Uno dei padri della legge urbanistica 1150/42, Virgilio Testa, usava dire che “il piano regolatore crea i ricchi e i poveri”, e ne concludeva che la sua redazione dovesse avvenire, a porte chiuse e a opera di pochissimi tecnocrati integerrimi, escludendo cioè tutte le parti interessate. Egli, evidentemente, pensava che in questo modo si potesse far prevalere l'interesse comune - fondato sulla vagheggiata tecnica urbanistica - e non quello di alcuni tra i contendenti interessati ai loro propri affari. Anche nel clima degli anni Trenta una cosa del genere era impraticabile; ma poteva esser pensata, perché la democrazia allora non era molto in voga e la fiducia nella tecnica era intrisa di forte positivismo epistemico.

Il progetto con cui si carica ogni piano - coi suoi sogni e desideri, credibili e incredibili, seri o risibili - è destinato progressivamente a evaporare, mentre il fervore creativo del mercato sviluppa i suoi progetti di costruzione della città e del territorio, realizzandoli senza alcun bisogno della tecnica urbanistica e in totale estraneità da questa. L'attività imprenditoriale ricorre e utilizza ai suoi fini di produzione dell'urbano saperi e tecniche diverse, da un lato quelli che vanno sviluppando le varie scienze sociali, politiche, economiche e giuridiche, dall'altro le ingegnerie e l'architettura: ma non l'urbanistica, in quanto autonoma da queste. Il progetto del piano evapora, ma i suoi residui sono costituiti da pesanti e diffuse norme edilizie - per lo più inutilmente vessatorie ai fini della qualità urbana. Esse continueranno senza sosta a gravare su ogni opera intrapresa dai cittadini che hanno per scopo l'uso del bene e non il profitto. Una circostanza che non contribuisce certo a rendere popolare l'urbanistica. Ne è testimonianza la diffusione dell'abusivismo edilizio, prevalentemente costituito da opere non certo dei grandi speculatori, in quanto sono questi ultimi a dettare legge al piano.

In queste condizioni e su tali presupposti l'urbanistica è impossibile, sia come tecnica in grado di produrre le regole comuni della costruzione urbana e territoriale, sia come sapere capace di formulare strategie che ne orientino lo sviluppo a qualsiasi scopo votato. Una tale competenza unificante è di fatto propria dell'azione imprenditoriale capitalistica e dei saperi e delle tecniche che è capace di mobilitare e subordinare; perché essa gode di un consenso di fondo vasto e consolidato. La fede nelle sue capacità progettuali e creative è popolare. Non solo. Ogni sua determinata azione, ciascun specifico progetto col quale si manifesta, per raggiungere lo scopo primario del profitto deve praticare la mediazione del mercato. È sul mercato che i singoli progetti e i suoi vari prodotti ricevono legittimazione, ossia il consenso che li fa vincenti. Una legittimazione che travolge ogni diritto vantato dal piano urbanistico e lo trasforma in suo proprio strumento. Niente, o quasi, di tutto ciò appartiene all'urbanistica, che pur si propone e continua a proporsi come tecnica di costruzione della città e del territorio.

[1] I. Cerdà, Teoría General de la Urbanización, Madrid, 1867, ed. anast. a cura di A. Barrera da Irimo, Madrid, 1968-1971, 3 voli. Una parziale traduzione italiana è in Teoria generale dell'urbanizzazione, antologia di brani a cura di A. Lopez de Aberasturi, Milano, 1984. Si tratta di una traduzione a cura di A. Ceruti dal­l'edizione francese (la prima fuori dalla Spagna) della voluminosa opera di Cerdà, peraltro rimasta incom­piuta rispetto a(1) piano originario dell'autore. Dì recente ne è stata pubblicata un'edizione critica: Ceraci. Las cieco bases de la teoria general de la urbanizaciòn, compílación de A. Soria y Puig, Madrid, 1996.

[2] I. Cerdà, Teoria generale dell'urbanizzazione, cit., pp. 81-82.

[3] Questa parola spagnola significa: 'il popolare' (colonizzare); o `popolazione' (gli abitanti di un luogo, città, borgo, paese, villaggio).

[4] L’intero paragrafo, nell’edizione originale in castigliano, suona così: “Hé aqui la razones filólogicas que me indujeron y decidieron à adoptar la palaba urbanizacion, no solo para indicar cualquier acto que tienda à ragrupar la edificacion y à regularizar su funcionamiento en el grupo ya formado, sino tambien el conjunto de principios, doctrinas y reglas que deben aplicarse, para que la edificacion y su agrupamiento, lejos de comprimir, desvirtuar y corromper las facultades fisicas, morales é intelectuales del hombre social, sirvan para fomentar su desarrollo y vigor y para acrecentar el bienestar individual, cuya suma forma la felicidad pública” (I. Cerdà, Tèoria General de la Urbanización, cit., p. 30).

[5] I. Cerdà, Tèoria General de la Urbanización, cit., p. 82.

[6] La Teoria di Cerdà - dice Choay - non ha avuto “posterità diretta”; dopo la primaedizionespagnola non è stata più pubblicata e diffusa fino al 1968. “Resta il fatto che la noria non è stata letta né dagli storici i quali, come Lavedan, hanno riportato di Cerdà il solo Piano di Barcellona, né dai teorici dell’urbanistica. Ad eccezione del suo compatriota A. Soria, i teorici posteriori a Cerdà non gli devono nulla direttamente. Che nei loro scritti operi la stessa figura testuale della Teoria, dipende dalla comune appartenenza ad un identico livello epistemico” (F. Choay, La règle el le modèle. Sur la théorie de l’architecture el de l’urbanisme, Paris, 1980 e 1996, ed. it. La regola e il modello. Sulla teoria dell’architettura e dell’urbanistica, Roma, 1986, p. 305).

[7]M. T. Varrone, De lingua latina, in A. Traglia (a cura di), Opere di Marco Terenzio Varrone, Torino, 1974, p. 65 [4, 21 ].

[8] In generale sulla struttura logica dell'agire tecnico e sul suo destino vedi E. Severino, Il destino della tecnica, Milano, 1998.

C’è nel titolo di questa mia relazione un’ansia palese. Lo confesso.

E’ da quando, poco più di un anno fa, ho assunto la responsabilità dell’assessorato all’urbanistica che mi porto dietro quest’ansia e la sento crescere. Perché ho fatto di questo motto – urbanistica partecipata – l’essenza programmatica del mio impegno. E perché ho trovato enormi difficoltà nel praticare questo motto, fino al dubbio che esso sia un vuoto nominalismo in perfetto gergo assessorile.

Sono tentato di pensare che possa trattarsi di un ossimoro che svela un malcelato senso di colpa. Ovvero che possa trattarsi di una tautologia che svela un altrettanto malcelato eccesso di zelo.

Infatti:

- se per urbanistica intendiamo (come spesso è, purtroppo e necessariamente) la gestione quotidiana di singole operazioni tecnico-giuridiche che inseguono i guasti del territorio, che rincorrono fabbisogni pregressi, che seguono decisioni “altrui”, sempre in bilico tra “atto dovuto”, “sanatoria” ed “emergenza”;

-e se per partecipazione intendiamo (come quasi sempre è, malgrado le migliori volontà) le cosiddette assemblee popolari, talvolta stancamente deserte, altre volte tanto affollate quanto tumultuose, ma intrinsecamente “protestatarie”;

- se è questo che intendiamo, allora “urbanistica partecipata” è davvero un ossimoro, cioè la combinazione di due concetti opposti e inconciliabili.

Invece:

- se per urbanistica intendiamo (come è giusto in questo contesto) la pratica di governo con cui una comunità insediata su un brano di territorio regola e amministra le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio e dei suoi insediamenti;

- e se per partecipazione intendiamo (come è ovvio in questo contesto) il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata;

se è questo che intendiamo, allora “urbanistica partecipata” è davvero una tautologia, cioè la ripetizione di due concetti analoghi.

Scelgo decisamente la seconda interpretazione cercando di depurarla dell’ansia e, nella piena consapevolezza della sua difficoltà, di riconfermarla programmaticamente. In questa chiave, proverò a declinare separatamente i termini della questione.

L’urbanistica

L’urbanistica è, in senso lato, la disciplina che si propone di governare le modalità insediative dell’uomo e dunque di governare i fenomeni di formazione e trasformazione della città, del territorio e dell’ambiente. In quanto tale l’urbanistica ha compiti che si collocano sull’incrocio problematico tra passato e futuro.

L’urbanistica dovrebbe, anzi deve, interpretare le tensioni trasformative della città e assecondarle con azioni di ri-modellamento dei sistemi insediativi e relazionali della comunità territoriale. Ma nella sua dimensione operativa (tecnica, giuridica, gestionale, ecc.), in quanto azione essenzialmente politico-amministrativa, l’urbanistica resta impaniata nelle dinamiche inerziali tipiche della gestione del presente: razionalizzazione di processi spontanei già in atto; correzione delle patologie manifeste; risoluzione dei fabbisogni arretrati; risposta alle emergenze;…

Domina, largamente e di fatto, il paradigma dell’a posteriori.

E’ come se fossimo condannati a rincorrere le situazioni già in atto e dovessimo consumarci unicamente nello sforzo di correggere storture già prodotte dalla spontaneità dei fenomeni sociali, dei processi economici e delle dinamiche territoriali.

E’ una condanna da cui l’urbanistica deve liberarsi.

Consapevole dei limiti intrinseci della sua dimensione operativa, l’urbanistica deve saper dispiegare la sua dimensione scientifica e culturale aumentando la sua capacità di interpretazione e di prefigurazione. Ciò significa uscire dalle strettoie del rapporto meccanicistico tra passato e futuro per ricollocarsi culturalmente sullo snodo problematico tra storia e progetto.

In questo quadro l’urbanistica deve, anche in sede amministrativa, aumentare la sua cifra progettuale aumentando la sua vocazione ad ispezionare gli scenari del territorio lavorando sui futuri probabili e sui futuri auspicabili.

L’urbanistica e la politica

Emerge chiaramente in questa prospettiva la contiguità dell’urbanistica con la politica. Una contiguità profonda ed ineliminabile, di cui sono portatori emblematici perfino i termini linguistici e i loro etimi. Urbs e polis definiscono la città, pur con accezioni diverse, rispettivamente per la cultura romana e per la cultura greca. Prevale nell’ urbs romana la fisicità e la funzionalità dell’organismo urbano; prevale nella polis greca il senso di comunità sovrana insediata nella città. Urbanistica e politica dunque, entrambe incardinate sulla città, in essa radicate e da essa generate, in una singolare fusione di destini sociali e fisici, civili e funzionali.

Programmare il futuro della città con l’urbanistica significa programmare il futuro della comunità che in essa vive. Organizzare e regolare le relazioni individuali e collettive dei cittadini con la politica, rispondendo ai bisogni e rispettando i diritti, significa organizzare e regolare la città come luogo di quelle relazioni.

La democrazia

In questo intreccio tra destini della comunità e destini della città irrompe il principio (e la pratica) della democrazia.

Si badi bene: la democrazia non è di per sé essenziale all’urbanistica. La storia ci mostra infiniti esempi di “urbanistica non democratica”. Mi riferisco all’urbanistica prodotta dai regimi dittatoriali. C’è addirittura una diabolica perfezione nell’urbanistica dei dittatori.

L’imperialismo romano ha disegnato il dominio sul Mediterraneo trasformandoin città i propri accampamenti militari. Le monarchie assolute hanno disegnato le grandi capitali europee attorno alle loro regge. Gli splendidi boulevard pariginisono il risultato dell’urbanistica controrivoluzionaria del prefetto di polizia Hausmann. L’imperialismo coloniale ha sigillato la modernità cospargendo gli altri mondi di capitali simil-europee. Il nazismo, il fascismo, lo stalinismo hanno ridisegnato intere città e ne hanno fondate altre ex-novo, con una maestria che spesso affascina gli studiosi per la grandiosità delle impostazioni, per la coerenza delle soluzioni, per la monumentalità delle opere.

C’è in questa urbanistica la semplificazione tragica di un potere assoluto che prescinde dai bisogni e dai diritti e celebra nella costruzione delle città il delirio della propria onnipotenza, il narcisimo della propria immagine e il delitto dell’oppressione.

E’ la democrazia che complica l’urbanistica!

La rende meravigliosamente imperfetta, perché nega i gesti megalomani dei dittatori e sottopone il progetto della città al consenso dei suoi cittadini e al difficile esercizio della conciliazione tra i diversi interessi, in quell’intrico di bisogni e di diritti che sono la naturale espressione di una società complessa in cui i cittadini sono sovrani e non sudditi.

La partecipazione

E’ nel quadro della “democrazia politica” che si afferma necessariamente il principio della “urbanistica democratica”. Ed allora possiamo affermare che l’urbanistica democratica o è urbanistica partecipata o non è.

Ritornando alle nostre iniziali riflessioni etimologiche, ritroviamo dunque la pienezza del principio di democrazia espressa dalla polis greca come comunità autonoma di cittadini liberi e sovrani, dalla cui assemblea promana l’organizzazione della città.

Il riferimento simbolico alla polis non deve però cedere alla tentazione della semplificazione. La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie.

Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione.

L’esperienza concreta

Nella mia esperienza concreta di amministratore ho vissuto una serie di occasioni di partecipazione su cui vorrei brevemente riflettere.

Non le citerò concretamente, ma cercherò di estrapolarne alcune caratteristiche emergenti. Mi scuserete se in questa analisi tratterò soprattutto le mie “sensazioni negative”. Userò giudizi drastici e perfino paradossali, estremizzando le posizioni per chiarezza, ma senza nessuna acrimonia.

Ho sperimentato la prevalenza del dissenso.

Il cittadino partecipa attivamente e con vivacità solo quando non gradisce la proposta o l’intervento. Chi è d’accordo non si pronuncia, partecipa silenziosamente o addirittura non partecipa. Ciò costituisce una condizione di grave squilibrio tra dissenso esplicito e tacito consenso.

Ho sperimentato la sommatoria dei dissensi.

I cittadini dissenzienti esprimono una notevole varietà di obiezioni, spesso tra loro contrastanti e perfino antagoniste. Ma paradossalmente le obiezioni opposte, anziché elidersi, si sommano.

Ho sperimentato l’interesse personale come matrice della partecipazione

Non mi è mai capitato di assistere ad una partecipazione “gratuita e disinteressata”. Si riconosce solo l’interesse diretto. Si lotta per difendere il proprio cortile. Si universalizza il proprio bisogno singolare, il proprio diritto personale.

Ho sperimentato l’ostilità pregiudiziale verso le proposte.

L’amministrazione è vissuta come estranea, perfino nemica, comunque inefficiente. Mi coglie il sospetto che ci sia un istinto conservatore alimentato dalla paura del cambiamento.

Ho sperimentato l’incapacità negoziale.

Si oscilla tra l’indifferenza e la contrarietà assoluta. Stento a trovare quella saggezza negoziale che entra nel merito della soluzione proposta per implementarla con le proprie esigenze.

Potrei continuare a lungo ma mi accorgo che sono tutte critiche rivolte ai cittadini. E allora per farmi perdonare cambio bersaglio e chiudo con una critica radicale rivolta all’amministrazione, cioè a me stesso.

Ho sperimentato l’ipocrisia di spacciare per occasione di partecipazione la pura comunicazione di decisioni già assunte.

Credo che si possa qui trovare la chiave di volta, molto concreta e pratica, per tentare un approccio davvero costruttivo a nuovi percorsi di urbanistica partecipata: c’è bisogno di costruire la partecipazione attraverso un reale coinvolgimento dei vari soggetti lungo tutto il processo conoscitivo e decisionale delle scelte urbanistiche.

Ciò significa concretamente che:

1. deve essere offerta preliminarmente la conoscenza problematica della questione – partecipazione in fase istruttoria;

2. devono essere rese esplicite e riconoscibili le ragioni di metodo e di merito che delineano progressivamente la scelta dell’intervento – partecipazione in fase pre-progettuale;

3. devono essere definiti, laddove possibile, scenari alternativi descritti nei loro diversi effetti possibili, magari con la formulazione di appositi bilanci di costi e benefici, per orientare il processo decisionale – partecipazione in fase progettuale;

4. devono essere attivati processi di pronunciamento sulla decisione assunta – partecipazione in fase decisionale;

5. devono essere attivati processi di controllo sulle attuazioni conseguenti – partecipazione in fase attuativa.

Ho sperimentato questa procedura con lo studio di fattibilità per il recupero e la riqualificazione delle aree ferroviarie. Dalle reazioni delle assemblee ho capito quanta strada ci sia da percorrere: ho fatto molta fatica a farmi credere quando dicevo trattarsi solo di uno “studio di fattibilità a scenari aperti”. Tutti lo scambiavano per un progetto fatto e finito. Tutti erano convinti che fosse una decisione presa e molti la contestavano, in quanto tale.

Questa è stata per me una lezione importante: la partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un opzional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli, sulla trasparenza.

Per quanto mi riguarda l’urbanistica partecipata è una fatica su cui mi sento di rinnovare oggi il mio impegno.

This memorandum attempts to express “the sense of the meeting” growing from the Italo-American City and Regional Planning and Housing Seminar conducted on the island of Ischia, June 20-30, 1955 under the sponsorship of the Italian “Ministero dei Lavori Pubblici”, the “Comitato Nazionale per la Produttività”, and the “Istituto Nazionale di Urbanistica”, with the cooperation of U.S.O.M.

The Seminar was attended by governmental officials, practicing town planners, architects and other professional people closely allied to planning, by professors of planning in Italian and American universities, and by editors of seven professional magazines in the fields of city and regional planning, housing and architecture. Many of these individuals made valuable contributions to the discussions out of which the present notes have been distilled.

At the beginning of the meetings, papers were presented by the following responsible Italian officials: Prof. Cesare Valle for the Ministero dei Lavori Pubblici; Dr. Francesco Curato for the Cassa per il Mezzogiorno; Ing. Camillo Ripamonti for other public housing agencies.

During the Seminar, discussion was focused on eleven papers which had been prepared by the American participants, and by prepared comments on the subjects of these papers by their eleven Italian counterparts. These papers, their authors and their Italian commentators were the following.

Howard K. Menhinick, The South in the U.S.A. Commentator: Manlio Rossi Doria.

Albert M. Cole, The United States Housing Program.Commentator: Camil1o Ripamonti.

Girard Davidson, Regional Resource Planning by the Federal Government.Commentator: Giovanni Astengo.

Oskar Stonorov, The Coming Reconstruction of American Cities. Commentator: Luigi Piccinato.

Lawrence K. Frank, The Human Dimensions of Planning.Commentator: Angela Zucconi.

Frederick Gutheim, Plans for Today and Tomorròw. Commentators: Ugo La Malfa and Ernesto Nathan Rogers.

Edmund M. Bacon, Philadelphia's Planning Program. Commentator: Ludovico Quaroni.

Vernon De Mars, Choice as an Objective in Planning. Commentator: Adriano Olivetti.

Douglas Haskell, Roadtown U.S.A. Commentator: Bruno Zevi.

Robert B. Mitchell, Transportation in Contemporary City Planning. Commentator: Vincenzo Di Gioia.

Paul Opperman, Central City Planning in a Metropolitan Context. Commentator: Gino Pollini.

Planning processes at the national, regional ;and local levels need to be inter-related. They should include programs for economic development and for social services and social adjustment as well as schemes for the physical adaptation of physical arrangements and facilities. No single element, such as an economic program or a physical design should be undertaken in isolation. The continuous practice of the process of planning requires a form of organization which can be related to government. It should be responsible for the synthesis of the contributions of citizens and public officials as well as its technical staff toward the preparation of plans and programs. Many American city planning commissions are examples of such an institution, which might be useful for adaptation in other circumstances.

Out of these discussions there came awareness of many common problems and opportunities shared by planners in the two countries. In the midst of varying points of view on techniques and methods of application, certain principles came through clearly. In the conversations the participants were trying to define these problems and opportunities rather than to devise universally applicable formulae. The central and continuing problem; was seen to be that of translating human needs and aspirations into a fitting environment for modern life, and of developing methods and practices so that planning can become a progressively more useful instrument of democratic choice.

It is clear that urban and regional planning is entering a new phase all over the world. In this new phase a humanistic approach, which tries to adjust man's environment to these changing needs and resources, will supersede a preoccupation with types of urban structure. Planning will emphasize not static schemes of physical arrangement but schemes of development to guide the “creative evolution” of communities.

This new planning requires the development of a more profound method and enlarged scientific knowledge of communities and regions. It is our hope that through its humanistic approach and with the aid of greater knowledge and improved method, planning can produce more suitable and useful designs of arrangement in the physical sense.

We believe that planning is a new democratic function. The institutions of planning must have a functional continuity.

Planning represents a technical, social and human service to the community which requires a competence in the formulation and the implementation of long-term programs, beyond day-to-day decisions which may be dictated by political expediency.

We believe that with the increasing social responsibility of the technical planning process the work of the politician and the administrator will be placed in a broader context and will be facilitated.

Regional planning for the wise conservation and utilisation of all of the resources of a territory was recognized as a most important device for raising the standard of living of the people, especially in depressed areas. The development of all of the resources of a region in a unified manner, with active participation of the people directly affected, to produce “not a planned region but a planning region” has been successfully demonstrated.

The reconstruction, conservation and preservation of central cities is a matter of high importance, and the conditions of modern life give it an urgent status in the community, its public administration, its economic productivity are concentrated in these centers.

Reconstruction must be based upon a sensitive respect for cultural treasures of past generations to conserve that which may be maintained and fitted to the life of the present and new uses of the land areas of such communities.

The relation of “core city” to the metropolitan area, ought to meet requirements of the numbers of the inhabitants to be served, and their economic purposes. The scale and character of the community as a whole, likewise, should receive an appropriate architectural design to create worthy cultural symbols of the qualities and purposes of the people.

The need for a sense of community both functionally and visually was felt desirable by the representatives of both countries. Some felt that the need for center or focus of neighborhood living at the human scale is one of the major problems of our times. At this scale, the possibility of a variety of choices on the part of the individual as to how he wishes to live is a positive objective of planning; not a mere accidental by-product.

In the whole field of housing, some major problems of housing credit and finance, were identified and the door opened for further exploration of Federal Housing Administration mortage insurance and of other type of financing to meet the special problems of Italy.

Furthermore, it, was agreed upon that in housing programs it is necessary to adopt, measures under which a part of the allocations goes toward the establishment and operation of collective social services, because such services constitute an integral and essential part of a program for the elevation of the living standard of low-income people.

We have identified specific planning techniques which should be further explored to adapt and introduce them into the planning structure and practice of our respective countries. Among these are the advance acquisition of sites for community facilities and public works through reservation and dedication procedures as well as by direct purchase, the preparation of capital programs and budgets on the basis of detailed study of planning offices in collaboration with operating departments of local governments, and processes of “mandatory referral” to insure that specific project proposals will be judged in the context of general plans. Other examples could be cited.

In the important field of planning education, major shortages of qualified personnel exist in both countries. Current developments in the two countries are complementary to each other.

In Italy every young architect is given training in community planning. Many engineering schools also teach courses in planning. This has resulted in a high level of housing and neighborhood design not generally achieved in the United States, where such a policy of planning training does not exist in all architectural schools. The United States might emulate Italy in this respect.

In the United States the profession of planning is recognised as a subject in its own right. Within the structure of twenty American universities, post-graduate courses in planning have been established, leading to a Master’s degree. While the contribution of many disciplines, including architecture, engineering, economics and sociology has been recognized, the planning instruction is carried on independent of domination by any of these specialities. The training is designed to produce persons competent to carry on planning as a broad correlative force, bringing into play the full potential of the many contributory professions. This concept of planning education may present suggestions which Italian universities might want to consider.

In both countries, close relationships between practitioners in planning and planning schools should be encouraged, and the student exchange program should be strengthened.

In conclusion, we regard this Seminar and its results as a distinct success. We have built a bridge of friendships and understanding among a group of students of two nations. We have laid the foundation for future cultural collaboration. As an institution, the Seminar has proven to be a communications device which, properly conceived and utilized, has great utility. As such it should be further exploited. We believe that future regional and town planning work and housing programs in both our countries will be enriched by the understanding which these conversations have given us.

Questa dichiarazione tende ad esprimere lo spirito dell’incontro italo-americano sulla pianificazione urbana e regionale tenuto ad Ischia dal 20 al 30 giugno 1955, e che, sotto il patrocinio dell’INU, è stato organizzato dal Comitato Nazionale della Produttività, per incarico del Ministero Italiano dei Lavori Pubblici, con la cooperazione dell’U.S.O.M.

All’incontro hanno partecipato funzionari governativi, urbanisti professionisti, architetti ed altri studiosi strettamente interessati alla pianificazione, professori di urbanistica nelle università d’Italia e d’America ed i direttori di sette riviste di architettura e di urbanistica.

Molte di queste persone hanno portato notevoli contributi alla discussione, dalla quale sono state tratte le presenti note.

All’inizio dell’incontro, sono state presentate relazioni dai seguenti rappresentanti ufficiali italiani: prof. ing. Cesare Valle per il Ministero dei LL.PP., dr. Francesco Curato per la Cassa del Mezzogiorno. Ha inoltre parlato il Dr. Giorgio Sebregondi per la SVIMEZ.

Durante il Seminario le discussioni hanno avuto per base le undici relazioni che erano state preparate dai partecipanti americani ed i commenti elaborati sul tema di tali relazioni da undici controrelatori italiani.

Ecco l’elenco dei titoli e degli autori delle relazioni e dei nomi dei controrelatori italiani:

Howard K. Mehinick, Il Sud degli Stati Uniti ( Controrelatore: Manlio Rossi Doria)

Albert M. Cole, Il programma edilizio degli Stati Uniti ( Controrelatore: Camillo Ripamonti)

Girard Davidson , Pianificazione delle risorse regionali da parte del Governo Federale ( Controrelatore: Giovanni Astengo)

Oskar Stonorov, La futura ricostruzione delle città americane ( Controrelatore: Luigi Piccinato)

Lawrence K. Frank, Le dimensioni umane della pianificazione ( Controrelatore: Angela Zucconi)

Frederick Gutheim, Piani per oggi e domani ( Controrelatori: Ugo La Malfa, Ernesto Rogers)

Edmund M. Bacon, Programma urbanistico di Philadelphia, ( Controrelatore: Ludovico Quaroni)

Vernon De Mars, La scelta come obiettivo della pianificazione ( Controrelatore: Adriano Olivetti)

Douglas Haskell, La città strada negli Stati Uniti, ( Controrelatore: Bruno Zevi)

Robert B. Mitchell, I trasporti nella pianificazione urbana contemporanea, ( Controrelatore: Vincenzo Di Gioia)

Paul Oppermann, Sistemazione del nucleo urbano centrale nell’ambito metropolitano ( Controrelatore: Gino Pollini)

Hanno inoltre partecipato ai lavori, su invito del Comitato Nazionale della produttività, i seguenti esperti: Arch. Leonardo Benevolo, Prof. Federico Biraghi, Prof. Edoardo Caracciolo, Dott. Giorgio Ceriani Sebregondi, Ing. Giuseppe Ciribini, Prof. Carlo Cocchia, Dott. Francesco Cuccia, Dott. Francesco Curato, Prof. Luigi Dodi, Prof. Ignazio Gardella, Ing. Marcello Grisotti, Sig. Raffaele La Serra, Prof. Vincenzo Minchilli, Prof. Giuseppe Vaccaro, Ing. Cesare Valle.

I processi di pianificazione ai livelli nazionali, regionali e locali, dovranno essere tra loro interrelati: essi dovranno comprendere i programmi per lo sviluppo economico, per i servizi sociali e per il riordinamento sociale, come pure gli interventi per l’assetto territoriale delle attrezzature e delle opere pubbliche. Nessuno di questi singoli interventi, sia esso un programma economico o una progettazione di opere, dovrà essere intrapreso come un fatto a sé stante.

L’esercizio continuativo del processo di pianificazione richiede una forma di organizzazione in stretta relazione con l’amministrazione pubblica. Tale organizzazione sarà responsabile della sintesi fra i contributi dei cittadini e dei pubblici funzionari, come pure i suoi organi tecnici lo saranno nei riguardi della preparazione dei piani a lunga scadenza e dei programmi di attuazione.

Molte planning commissions di città americane costituiscono esempi di questo tipo di istituzione che potrà essere utilmente adattato ad altre circostanze.

Da queste discussioni è sorta la consapevolezza di molti altri problemi e possibilità comuni agli urbanisti dei due paesi. Pur nella varietà dei punti di vista sulle particolari tecniche e sui mezzi di applicazione, , sono stati chiariti alcuni principi fondamentali. Nelle conversazioni i partecipanti hanno cercato di definire questi problemi e queste possibilità piuttosto che ideare formule universalmente applicabili. Si è visto così che problema centrale rimane quello di tradurre i bisogni e le aspirazioni umane in un ambiente adeguato alla vita moderna, e di elaborare una tecnica ed una metodologia tali che la pianificazione possa diventare uno strumento sempre più utile di scelta democratica.

È chiaro che in tutto il mondo la pianificazione, sia regionale che urbana, sta entrando in una nuova fase, nella quale una istanza umanistica, che cerca di adeguare l’ambiente umano alle mutate necessità e risorse, prenderà il posto della ricerca tipologica delle strutture urbane.

La pianificazione metterà in rilievo non schemi statici di sistemazione territoriale delle opere pubbliche, ma linee di sviluppo per guidare la “evoluzione creatrice” delle comunità.

Questa nuova pianificazione richiede lo sviluppo di un più approfondito metodo e una più larga conoscenza scientifica delle comunità e delle regioni. È nostra speranza che, attraverso questa impostazione umanistica e con l’aiuto di più vaste conoscenze e di un metodo perfezionato, la pianificazione possa produrre più adeguati ed utili progetti di concrete sistemazioni territoriali.

Noi crediamo che la pianificazione sia una nuova funzione democratica e che i suoi organi debbano avere una continuità funzionale.

La pianificazione è un servizio tecnico, sociale ed umano per la collettività, che richiede quindi adeguate competenze nella formulazione e nell’attuazione di programmi a lunga scadenza, , i quali consentano di superare le decisioni alla “giornata” che possono essere dettate dalle contingenze politiche. Noi crediamo che, con la crescente responsabilità sociale del processo di pianificazione in sede tecnica, l’opera dei politici e degli amministratori si svolgerà in un quadro più ampio e ne sarà agevolata.

La pianificazione regionale per una saggia conservazione e utilizzazione di tutte le risorse di un territorio è stata riconosciuta come il più importante mezzo per innalzare il livello di vita della popolazione, specialmente nelle aree depresse. La discussione ha dimostrato che lo sviluppo di tutte le risorse di una regione secondo un concetto unitario, con l’attiva partecipazione della popolazione direttamente interessata allo scopo di attuare “non una regione pianificata ma una regione pianificante” è un metodo di pianificazione che può condurre a felici risultati.

Il riassetto, la conservazione e la preservazione dei centri delle città più importanti, sono problemi di grande rilievo sia per le moderne condizioni di vita, sia per il fatto che le pubbliche amministrazioni e le forze economiche e produttive sono in essi concentrate.

Il loro riassetto deve basarsi sul rispetto, pieno di sensibilità, verso i tesori culturali delle passate generazioni, al fine di conservare quanto può essere mantenuto ed adattato alla vita d’oggi ed ai nuovi usi del suolo di tali comunità.

Il rapporto tra la città e la sua zona di influenza e quella del centro direzionale con la città, che esso serve, deve basarsi su programmi a lunga scadenza al fine di soddisfare le necessità degli abitanti e le loro attività economiche. Le dimensioni ed il carattere della comunità nel suo complesso dovrebbero pure estrinsecarsi in appropriate architetture, al fine di creare una valida espressione delle qualità e del carattere della popolazione.

Le delegazioni dei due paesi hanno ritenuta necessaria questa caratterizzazione, sia funzionale che formale. Alcuni ritengono che la necessità di un centro focale delle unità residenziali, alla scala umana, sia uno dei maggiori problemi del nostro tempo. Essi pensano inoltre che, a questa scala, la possibilità da parte degli individui di scegliere un proprio modo di vivere sia un obiettivo concreto della pianificazione, non un sottoprodotto puramente accidentale.

Nel campo dell’ housing, sono stati identificati alcuni dei maggiori problemi riguardanti il credito e il finanziamento della costruzione di abitazioni ed è stato gettato il seme per promuovere esperimenti di assicurazione ipotecaria tipo Federal Housing Administration e di altri tipi di finanziamento per risolvere particolari problemi italiani.

È stata inoltre concordemente riaffermata l’esigenza che, nel quadro dei programmi edilizi, siano sviluppate le misure dirette a riservare un’aliquota dei finanziamenti all’impianto e al funzionamento dei servizi sociali a carattere collettivo, perché tali servizi costituiscono un’integrazione essenziale per l’elevazione del livello sociale ed umano delle classi meno abbienti.

Noi abbiamo identificato delle tecniche di pianificazione specifiche che dovranno esser ulteriormente studiate per adattarle ed introdurle nelle strutture e nell’attività di pianificazione dei rispettivi paesi. Tra queste sono l’anticipata acquisizione delle aree per le attrezzature collettive e per le opere pubbliche sia attraverso procedure di imposizione di vincoli e di diritto di prelazione che a mezzo di acquisto diretto; la preparazione dei programmi principali e dei bilanci preventivi sulla base di studi dettagliati di uffici di pianificazione in collaborazione con gli organi esecutivi delle autorità locali e processi di “ mandatory referral” per assicurare che proposte di progetti particolari siano esaminate nel contesto dei piani generali. Altri esempi potrebbero essere citati.

Nell’importante campo della preparazione degli urbanisti, esiste in ambedue i paesi una notevole scarsità di personale qualificato. La situazione attuale nei due paesi presenta caratteri complementari.

In Italia ogni studente di architettura riceve una istruzione urbanistica. Molte scuole di ingegneria civile hanno corsi di urbanistica. Ciò ha prodotto un alto livello nella progettazione di quartieri di case popolari, livello che non è stato generalmente raggiunto negli Stati Uniti dove l’insegnamento dell’urbanistica non esiste in tutte le scuole di architettura.

Da questo punto di vista gli Stati Uniti possono imitare l’Italia.

Negli Stati Uniti la professione del pianificatore è stata riconosciuta come una professione indipendente. Nella struttura didattica di 20 università americane sono stati costituiti corsi di specializzazione urbanistica che si concludono con il titolo di “ master” in urbanistica.

In essi convergono i contributi di molte discipline, incluse l’architettura, l’ingegneria, l’economia e la sociologia, ma l’insegnamento dell’urbanistica è indipendente dal predominio di alcuna di queste specializzazioni. L’insegnamento è diretto a formare professionisti competenti a esercitare la pianificazione come una più ampia attività di coordinamento, in cui confluiscano, con il più ampio apporto, le professioni specializzate.

Questo concetto dell’insegnamento della pianificazione può costituire un utile suggerimento per le università italiane.

In ambedue i paesi lo stretto contatto tra i professionisti della pianificazione e le scuole di urbanistica dovrebbe essere incoraggiato ed il programma di scambio tra studenti dovrebbe essere rafforzato.

Noi consideriamo questo Seminario ed i suoi risultati come un positivo successo.

Abbiamo costruito un ponte di amicizia e di comprensione tra due gruppi di studiosi di due nazioni. Abbiamo messo le fondamenta di una futura collaborazione culturale. L’incontro è stato uno strumento di comunicazione che si è dimostrato molto utile, ben concepito e sfruttato. Come tale, questo tipo di incontro dovrebbe dare ulteriori frutti.

Noi crediamo che il futuro lavoro di pianificazione regionale ed urbana e i programmi edilizi delle nostre due nazioni saranno arricchiti dalla comprensione che si è stabilita tra noi attraverso questo scambio.

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