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Viaggiando da costa a costa e dal nord al sud, la natura cambia, con contrasti meno bruschi che in Europa, ma spinti più all’estremo. Molto meno cambia il paesaggio delle cose umane, case, campi, città; c'è sì un vecchio fondo architetturale che varia a seconda se siamo nelle antiche tredici colonie (e tra queste, in quelle del Nord o in quelle del Sud) o nelle terre dei pionieri o negli stati ex spagnoli; ma gli aspetti della moderna America industriale e consumatrice sovrastano e unificano tutto il paese, il piccolo centro abitato sull'autostrada è uguale ovunque, con gli stessi cartelli e chioschi e bar e “cafeterias” e rivendite d'auto usate.

Uno di questi elementi unificatori, il più bello come fatto visivo e formale, tutto esattezza e slancio, è il nodo di autostrade cui si giunge sempre nelle vicinanze delle città; queste strisce d’asfalto sospese su alti pilastri a diversi livelli che si raccordano e si scavalcano in un incontro di ponti tutti curve e salite e discese. È un paesaggio astratto che, da Chicago a New Orleans, ritrovi un po’ dappertutto ed è il vero simbolo dell'America d’oggi.

Il grattacielo rappresenta solo il paesaggio di New York ed un tratto di strada di Chicago, ed è ormai antiquato, come oggetto in sé, anche quando si presenta sotto le forme moderne e bellissime delle nuove costruzioni in acciaio e vetro di Madison Avenue.

L’autostrada non s'arresta alle soglie della città, ormai la penetra, la sventra, la domina. Le "troughways", le strade di rapido attraversamento, cambiano la fisionomia della città, ne spostano tutti i rapporti, mettono in comunicazione quartieri lontani e isolano punti vicinissimi. La strada tra casa e ufficio non si fa più nel labirinto delle vie urbane, ma in un fulmineo canale tagliato nel mezzo della città, dal quale della città non si vede più nulla.

Ma proviamo a uscire dalla "throughway" a cercare la città. Dov’è? È sparita. Puoi girare (diciamo per esempio a Cleveland) per ore in macchina e non trovi quello che corrisponde al centro. Sì, c’è ancora un "down-town", un centro d’uffici, ma la città residenziale è sparita, si è sparsa su una superficie grande come una nostra provincia. La “middle class” vive nelle villette a due piani, rade nei quartieri sterminati di viali tutti uguali.

Non si può fare un passo senza auto, anche perché non c'è da andare in nessun posto. Non ci sono in giro botteghe di tipo tradizionale; ogni tanto a un incrocio di questi viali c’è uno "shopping center", un centro d’acquisto dove si può fare la spesa, ma per riempire il frigorifero ogni settimana è meglio andare nell’immenso “supermarket” più vicino. Credevamo che la nostra era fosse caratterizzata da un massimo di concentrazione urbana. Invece non lo è già più. Siamo nella fase della polverizzazione urbana; già la nostra civiltà, i costumi, la mentalità stanno cambiando; il mondo superindustrializzato sta tornando un mondo di piccoli nuclei familiari, stretti intorno al focolare (la televisione) come era fino a ieri solo il mondo agricolo.

Effetto del benessere? Ma nel Middle West i quartieri poveri sono esattamente la stessa cosa, le villette sono le stesse, solo che invece di una famiglia ce ne abitano due o tre e la costruzione, in genere di legno, si deteriora nel giro di pochi anni, diventa uno "slum".

È un tipo di casa che invecchia presto, come le automobili. e passa presto di mano in mano. Ma non è solo la casa singola: è tutto il quartiere a cambiare popolazione nel giro di cinque o sei anni. Quello che quattro o cinque anni fa era un “suburb” elegante adesso passa in mano alla borghesia negra benestante. Anche i negri poveri intanto hanno fatto un passo avanti, sono andati ad abitare nelle villette d’un “suburb” dove fino a qualche anno fa stavano solo ebrei. Ora che quello scaglione di ebrei ha migliorato la sua situazione economica ed è sciamato via, ognuna delle loro villette è stata divisa in appartamenti e affittata a famiglie negre. Le sinagoghe, ancora coi candelabri sulle vetrate e sugli archivolti, ora sono chiese battiste. Nel vecchio quartiere negro ora sono entrati i messicani; dove c'erano gli italiani ora ci sono gli ungheresi, ma le insegne dei negozi restano quelle di prima.

Più ci si inoltra nei quartieri poveri, più si scopre che il perpetuo movimento, prima ragione di fascino della civiltà americana, è ancora in atto. Esso non ha il volto roseo e pubblicitario della “American way of life”, ma testimonia una vitalità più profonda, sana anche nella sua rozzezza, nel suo sudiciume, nella sua violenza. Nei centri industriali come Cleveland o Detroit, chi troviamo come ultimi arrivati, ancora al gradino più basso, tra i non assimilati? Sono gli immigrati interni, i “poveri bianchi” della Virginia che vengono quassù a cercare lavoro nelle fabbriche, gli ultimi superstiti del puro ceppo anglosassone, fino a ieri i più refrattari al generale nomadismo dei loro connazionali. Gli orgogliosi e inetti figli d’una prospera società decaduta, spregiatori dei loro fratelli yankees produttivi e spregiudicati, eccoli ridotti a un livello economico e culturale inferiore ai loro antichi schiavi.

Con loro si chiude, non senza una sua morale, il ciclo delle rotazioni di popoli in uno spazio astratto, che corrisponde alla città dilatata ed esplosa così come la esplosione d’un corpo celeste muove il roteare dei pianeti.

(da Cartoline dall'America, "ABC", giugno-settembre 1960, ora in Saggi. 1945-1985, II, Milano 1995, pp. 2569-71)

Titolo originale: Banning Cars from Manhattan – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Proponiamo di escludere le auto dall’isola di Manhattan. I veicoli a motore consentiti saranno autobus, piccoli taxi, quelli per i servizi essenziali (medici, polizia, pulizia, consegne ecc.) e i camion per l’industria leggera.

I problemi attuali della congestione e dei parcheggi sono ingestibili, e le altre soluzioni proposte sono diseconomiche, distruttive, poco salubri, antiurbane, o irrealizzabili.

Non è certo necessario dimostrare quanto la situazione attuale sia intollerabile. “Gli autocarri viaggiano ad una media di dieci chilometri l’ora nel traffico, contro i quasi venti all’ora dei veicoli tirati dai cavalli nel 1911. Durante il divieto ai veicoli non essenziali per la grande nevicata del febbraio 1961, l’inquinamento dell’aria è diminuito del 66%” ( New York Times, 13 marzo 1961). La larghezza delle strade di Manhattan è stata decisa nel 1811, per edifici da uno a quattro piani.

Escludendo le auto private e riducendo il traffico è possibile, nella maggior parte delle zone, chiudere nove su dieci delle streets trasversali e una su due delle avenues nord-sud. Queste strade chiuse, più lo spazio che ora viene utilizzato solo per il parcheggio, forniranno un ottimo patrimonio di terreni per la riorganizzazione dei quartieri. Al momento attuale oltre il 35% dell’area di Manhattan è occupata da strade. Invece dell’organizzazione nella griglia attuale, possiamo pensare a vari tipi di quartieri definiti secondo superblocchi approssimativamente di 350 x 550 metri. Converrà comunque conservare l’attuale sistema stradale nei settori commerciali e terziari di midtown, nel distretto finanziario, e ovunque sia indispensabile l’accesso a camion e auto di servizio. Il nostro fine è di aumentare la qualità della vita in città con un minimo di distruzione dell’attuale schema.

Gli svantaggi di questa radicale proposta sono minimi. Le auto private, semplicemente, non valgono i danni che causano. Meno del 15% delle persone che entrano quotidianamente a Manhattan a su della 65° Strada lo fanno con la loro macchina. Il traffico è congestionato, la velocità lenta, il parcheggio difficile, o impossibile, e sempre più costoso. È stato calcolato che il costo di un garage in un nuovo edificio è di 20.000 dollari per auto, la destinazione a parcheggio è un uso povero dei terreni nel cuore di una metropoli, oltre a interrompere la forma e stile dell’ambiente urbano.

I vantaggi della nostra proposta sono notevoli. Importanti e immediati sono il calo della tensione, del rumore, dell’ansia; la pulizia dell’aria da fumi e smog; la diminuzione dell’affollamento dei pedoni; la sicurezza per i bambini. Poi, non meno importante, guadagniamo la possibilità di diversificare la griglia stradale, rendere più bella la città, progettare una vita urbana più integrata.

Problema e soluzione rappresentano probabilmente un caso unico, limitato all’isola di Manhattan, anche se l’esperimento offrirà una valida lezione anche altrove. Manhattan è un centro mondiale di affari, acquisti, moda, divertimenti, editoria, politica, industria leggera. È visitata quotidianamente da folle di pendolari per lavoro, svago, shopping, turisti, e visitatori per affari. C’è, ed è necessaria, una popolazione densa; e l’area è piccola e rigidamente limitata. Manhattan non può diffondersi all’infinito. Potrebbe facilmente diventare piacevole come Venezia, un’adorabile città pedonale. Ma le macchine se ne devono andare.

Nella prima appendice di Communitas abbiamo proposto un piano per Manhattan, con particolare attenzione alle rive del fiume e ai quartieri lungo esse – dirigendo il traffico attraverso il centro, e sacrificando anche Central Park al miglioramento generale; ma ora crediamo che un primo passo, molto più semplice, verso la città vivibile, sia l’eliminazione di gran parte del traffico.

Manhattan ha perso popolazione verso il suburbio e la campagna circostante, con un grosso incremento del pendolarismo giornaliero. Un centro più desiderabile potrebbe ridurre o addirittura eliminare questa tendenza. È davvero possibile diminuire il pendolarismo all’interno della città. Il complesso residenziale ILGWU vicino al distretto tessile indica il modo. Sarebbe anche utile istituire un ufficio municipale per facilitare l’abitazione nei pressi dei luoghi di lavoro, se si decide così, organizzando scambi di residenza vantaggiosi per tutte le parti. Ciò sarebbe possibile in molte migliaia di casi e vale certamente la pena tentare.

(L’assenza di questo semplice espediente nella nostra società è il risultato di una mancanza di attenzione alla città. Non esiste un ufficio che presieda ai problemi multiformi della comunità, a integrare le funzioni della vita. Cfr. Communitas, Appendice C).

ParcheggiPeriferici

Le auto private escluse dalla circolazione verrebbero ospitate in vari tipi di parcheggi periferici, così come studiati da chi scrive, Louis Kahn, Victor Gruen, e altri.

Al momento attuale le auto di molte migliaia di pendolari sono abbandonate alle fermate suburbane della ferrovia, o a più o meno comode stazioni della metropolitana a Queens, Brooklyn, e nel Bronx. Questo per l’ovvia riluttanza da parte degli automobilisti a entrare in Manhattan. Noi semplicemente proponiamo di generalizzare questa decisione di buon senso, e di utilizzarla come base per altri ulteriori vantaggi.

In aggiunta, proponiamo la costruzione di moli-parcheggio multiuso sull’Hudson e l’East River per le macchine che entrano dai principali ponti e tunnels. Questi moli potrebbero essere organizzati come passeggi, luoghi di ricreazione, o anche residenza, progettati come parte dell’insediamento lungo il fiume proposto nella Appendice A di Communitas.

I moli sarebbero serviti da autobus e taxi. Facciamo un esempio particolare. Un grande magazzino, come Macy’s, potrebbe offrire limousines da qui per i propri clienti, compreso servizio di consegna dei pacchi sino alle auto parcheggiate.

Strade

Le grandi strade commerciali traversali – Greenwich Avenue, Quattordicesima, Ventitreesima, Quarantaduesima, Cinquantasettesima, Cinquantanovesima ecc. – vengono mantenute come arterie a doppio scorrimento per autobus e taxi; e lo stesso le avenues Prima, Terza, Quinta, Settima, Broadway, Nona, Undicesima. Dovrebbero offrire un’adeguata circolazione al traffico residuo (ma si deve sperimentarlo). Come indicato sopra, si dovrebbe mantenere la griglia stradale esistente a midtown – dalla Trentatreesima alla Cinquantanovesima- a servizio di negozi, teatri ecc., e lo stesso in altri casi particolari (si dovrebbe studiare ciascuna strada individualmente).

Tutte le altre strade diventano percorsi pedonali, larghi abbastanza da servire anche come strada a senso unico per veicoli di servizio: antincendio, spazzatura, posta, e via dicendo.

Lo schema proposto di strade di attraversamento è tale che la distanza massima dalla più vicina fermata di autobus sia sempre inferiore ai 300 metri. Ovvero quella delle fermate di metropolitana. In generale, il servizio di autobus in Manhattan viene ampliato, ripristinando i veicoli a due livelli. Dobbiamo tenere in mente che con la fine della congestione, e l’immensa diminuzione degli attraversamenti pedonali, il limite di velocità per taxi e autobus espressi potrebbe essere innalzato a 40 o 50 all’ora. Dato che c’è meno bisogno di attraversare, è possibile eliminare anche gli attraversamenti pericolosi, e forse realizzare ponti e tunnel pedonali. In generale, visto il miglioramento del servizio di autobus, la gran parte degli spostamenti in città dovrebbe essere più veloce e comoda di quanto non sia ora con l’auto privata.

Ci sarebbero più taxi. Li pensiamo piccoli, metà dell’attuale lunghezza. Potrebbero essere elettrici. È assurdo che i taxi in una metropoli con limiti di velocità siano le stesse auto progettate per gli spostamenti delle famiglie sulle grandi autostrade.

Il sistema della griglia stradale, se aperto e con isolati più ampi, è pratico e offre una certa grandiosità d’aspetto. Per evitare la noia delle prospettive infinite, comunque, raccomandiamo di tagliare alcune strade con edifici o di creare altri effetti spaziali. Ciascuna street e avenue dovrebbe essere studiata a sé come singolo problema artistico. L’ideale, per New York come per qualunque altra grande città, è di diventare un insieme di vasti quartieri integrati, che condividono un centro metropolitano e altre strutture. I quartieri si differenziano perché comprendono una grande varietà di abitanti e funzioni, che possono essere amministrate in modo relativamente indipendente ciascun quartiere. Non c’è motivo perché siano tutti uguali. Un settore prevalentemente di residenza per famiglie, ad esempio, può controllare autonomamente la propria scuola, con bilancio fiscale scolastico amministrato dalla locale Associazione Genitori-Insegnanti. L’Ufficio Centrale per l’Istruzione dovrebbe dettare alcuni standard minimi e provvedere che i quartieri meno privilegiati abbiano una giusta quota della fiscalità generale; ma non deve ostacolare, come avviene ora, qualunque cambiamento o sperimentazione. La speranza è di diminuire drasticamente la quantità di “amministrazione”: al momento attuale ci sono più amministratori nel sistema scolastico di New York City, di quanti ce ne siano in tutta la Francia. Riteniamo anche che l’esercizio locale di iniziativa politica sui vari problemi come scuola, abitazione, urbanistica, possa educare l’elettorato e rendere possibile una vera democrazia. Il quartiere dovrebbe essere pensato per aumentare la fiducia reciproca dei vicini e aumentare la loro responsabilità per quanto riguarda la scuola, i mercati, gli spazi da gioco, lo zoning, e via dicendo. Nell’insieme un complesso simile potrebbe funzionare come unità elettorale municipale minima. Contemporaneamente, tutti i quartieri integrati condividono nello spazio della grande città alcuni negozi, i teatri, gli alberghi, musei, le entità nazionali. Scopo della pianificazione integrata è creare una comunità a scala umana, con raggruppamenti gestibili, intermediari fra individui, famiglie e metropoli; è reagire all’isolamento dell’individuo nella società di massa. Naturalmente, in una regione vasta come quella di New York ci potranno essere molte migliaia di persone che scelgono, esattamente, di essere individui isolati – forse sono venuti qui apposta – ma anche essi costituiscono un particolare e valido contributo al tutto federato, e si può rispondere ai loro bisogni ad esempio in centro, in case albergo, o quartieri pensati allo scopo. È curioso, da questo punto di vista, che gli “individualisti” venuti a New York per sfuggire l’ambiente conformista delle piccole città, trovino di avere tanto in comune l’uno con l’altro, al punto da costituire una famosa comunità, quella intellettuale e artistica del Greenwich Village.

Nel costruire l’ideale di città fatta di comunità federate, il semplice strumento del divieto per le auto private e della riorganizzazione della griglia stradale è una grande passo in avanti. Le nuove strade consentono superblocchi di tre o quattro ettari (per fare un paragone, Stuyvesant Town copre 6,5 ettari). Con invenzioni formali orientate ad ottenere la massima varietà di paesaggi, usi del suolo e altezze degli edifici, esiste una possibilità senza precedenti per decine di soluzioni diverse, che possono superare per bellezza e senso urbano anche le piazze e crescents della Londra settecentesca. C’è spazio per la ricreazione e il gioco. Ad esempio, la lunghezza di un campo da tennis corrisponde a quella della Nona Avenue; qualunque incrocio è adatto a un campo da softball. Visto l’ampio capitale di nuovi spazi resi disponibili, e che ora sono sprecati per traffico e parcheggi per la maggior parte non necessari, è possibile costruire nuovi quartieri in modo più libero, con uno studio attento e senza problemi di rimozione o spostamento di ostacoli, là dove esistono. Raccomandiamo in modo particolare concorsi e consultazioni pubbliche tramite referendum, per evitare le imposizioni burocratiche ed educare all’impegno collettivo sui propri problemi.

Modi di applicazione

La messa in pratica legale del proposto divieto non dovrebbe essere difficile. Al momento attuale nelle strade sono vietati giochi e altre attività. Il sindaco ha chiuso le strade al traffico durante l’emergenza per la rimozione della neve: anche se il suo diritto di imporre il divieto è stato messo in discussione. Abbiamo avuto una tassa sui veicoli; potrebbe essere tanto pesante da diventare proibitiva. Si potrebbe imporre una tariffa di ingresso proibitiva.

Il divieto, naturalmente, potrebbe essere interpretato in modo tollerante per consentire alcuni casi e usi di emergenza. Per esempio una famiglia che parte per un viaggio potrebbe usare la macchina per il carico. Nello stesso modo, ci potrebbe essere la possibilità per le macchine di attraversare Manhattan da est a ovest.

È probabile che si possa sospendere il divieto alle auto nei fine settimana, quando il traffico di autobus e camion diminuisce di molto. In particolare nei mesi estivi questo sarebbe conveniente per chi esce di città nel week-end.

Conclusioni

Questa proposta ci sembra una cosa di buon senso. Le automobili hanno causato gravi danni e ne stanno causando di peggiori, la situazione è davvero critica. Le soluzioni proposte sinora però – nuove norme sul traffico, nuove strade, parcheggi sotterranei multilivello – portano tutte il tipico segno della progettazione americana: alleviare il dolore con cure che presto peggiorano la malattia. Ma nel caso particolare di Manhattan, l’elementare cura radicale, di liberarsi delle auto, causerebbe poche difficoltà e avrebbe vantaggi immensi e meravigliosi (naturalmente in città diffuse come Los Angeles o Cleveland, non ci si può liberare delle macchine. E conseguentemente, questi luoghi mancano di centro e senso urbano).

Il vantaggio principale della proposta è che offre una possibilità. Non si limita a curare un male o a fornire un modo di fare la stessa cosa in modo più efficiente, ma apre l’opportunità di pensare a soluzioni ideali, valori umani, nuovi modi di fare le cose. La gran parte dei grandi progetti, però, quelli che si chiamano Urban Renewal, sono diversi dal punto di vista umano. Non si migliorerà la qualità della vita nei nostri centri con un’urbanistica del genere, ma con un po’ di psicologia sociale elementare e di buon senso.

E infine, pensate se uno dei nostri candidati a sindaco si convincesse dei vantaggi della proposta e la facesse entrare nel suo programma elettorale. È difficile da pensare, perché si tratta di una questione concreta, di quelle che non sono mai proposte agli elettori: vengono lasciate a particolari “esperti”, ovvero a interessi particolari. Gli elettori non hanno vere scelte su cui riflettere, e quindi non imparano mai a pensare. Votano invece per la personalità, o secondo l’orientamento etnico o di partito. Le proposte dei concorrenti sono entrambe vaghe, e identiche.

Se si proponesse un piano come questo come punto qualificante, crediamo che il candidato forse perderebbe al primo tentativo, considerato radicale, irresponsabile, avventuroso; ma alla tornata successiva, quando la gente avrà avuto la possibilità di riflettere a fondo sul problema, vedrà che la cosa ha senso.

Nota: il testo originale di questo articolo è anche disponibile online al sito Bureau of Public Secrets ; alcune idee contemporanee per Manhattan dello stesso segno, accennate anche qui, sono riportate in uno degli articoli su Eddyburg riguardanti Victor Gruen ; il caso di Venezia, paradigmatico della città pedonale e citato anche dai Goodman, è ben riassunto in questo estratto di Colin Buchanan dal suo classico "Traffic in Towns" del 1963 (f.b.)

Da Nuova società, n.67, 15 novembre 1975. Intervento in un’inchiesta pubblicata successivamente in volume: Com’è bella la città, Torino 1977.

Per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti. Occorre per prima cosa scartare tutto ciò che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che continuano ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere. Poi occorre saper semplificare, ridurre all’essenziale l’enorme numero d’elementi che a ogni secondo la città mette sotto gli occhi di chi la guarda, e collegare i frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario, come il diagramma d’una macchina dal quale si possa capire come funziona.

Il paragone della città con la macchina è nello stesso tempo pertinente e fuorviante. Pertinente perché una città vive in quanto funziona, cioè serve a viverci e a far vivere. Fuorviante perché a differenza delle macchine che sono create in vista di una determinata funzione, le città sono tutte o quasi il risultato d’adattamenti successivi a funzioni diverse, non previste dal loro impianto precedente.(Penso alle città italiane, con la loro storia di secoli o di millenni).

Più che quello con la macchina, è il paragone con l’organismo vivente nell’evoluzione della specie, che può dirci qualcosa d’importante sulla città: come nel passare da un’era all’altra le specie viventi adattano i loro organi a nuove funzioni o scompaiono, così le città. E non bisogna dimenticare che nella storia dell’evoluzione ogni specie si porta dietro caratteri che sembrano relitti di altre ere in quanto non corrispondono più a necessità vitali, ma che magari un giorno, in mutate condizioni ambientali, saranno quelli che salveranno la specie dall’estinzione. Così la forza della continuità d’una città può consistete in caratteri ed elementi che oggi sembrano prescindibili perché dimenticati o contraddetti dal suo funzionamento odierno.

Lento e rapido che sia, ogni movimento in atto nella società deforma e riadatta - o degrada irreparabilmente – il tessuto urbano, la sua topografia, la sua sociologia, la sua cultura istituzionale e la sua cultura di massa ( diciamo: la sua antropologia). Crediamo di continuare a guardare la stessa città, e ne abbiamo davanti un’altra,ancora inedita, ancora da definire, per la quale valgono “istruzioni per l’uso” diverse e contraddittorie, eppure applicate, coscientemente o meno, da gruppi sociali di centinaia di migliaia di persone.

Le trasformazioni degli agglomerati urbani a seguito della rivoluzione industriale, nell’Inghilterra della prima metà dell’Ottocento, furono incontrollate e catastrofiche, e condizionarono la vita di milioni e milioni di persone; ma dovevano passare decenni prima che gli inglesi si rendessero conto esattamente di cosa stava succedendo .Dickens, che fu forse il primo a sentire il clima di quest’epoca negli aspetti spettrali di Londra e nei contraccolpi sui destini individuali, non registra mai immagini che si riferiscano direttamente alla condizione operaia. Neanche quando deve descrivere una sua visita a Manchester, dove i quartieri operai e il lavoro nelle fabbriche tessili offrono il quadro più drammatico, riesce a dire quello che ha visto, come se una censura interna l’avesse cancellato dalla sua mente.

Poco dopo è Carlyle a visitare Manchester:la sensazione che gli resta più impressa e che ritornerà più volte nella sua opera, dapprima con accenti di angoscia,e poi d’esaltazione,è l’improvviso fragore che lo risveglia all’alba,e di cui lì per lì non comprende l’origine: le migliaia di telati che vengono messi in moto tutt’insieme.

Bisognerà attendere che un giovane tedesco, figlio del proprietario d’una di quelle fabbriche tessili,scriva un saggio famoso,perché Manchester,quella Manchester,diventi il modello più tipico e più negativo di una città industriale. Perché solo lui, Friedrich Engels, riunisce in sé parecchie condizioni che gli altri non avevano:uno sguardo che proviene dall’esterno(in quanto straniero) ma anche dall’interno(in quanto appartiene al mondo dei padroni), un’attenzione al “negativo” propria della filosofia di Hegel in cui s’è formato, una determinazione critica e demistificatoria cui lo porta l’orientamento socialista.

Sto riassumendo il libro recente di uno studioso americano (Steven Marcus, Engles, Manchester e la classe lavoratrice, 1974) che ricostruisce come il giovane Engles riesca nel suo primo libro a vedere e a descrivere quello che gli altri avevano sotto gli occhi ma cancellavano dalla loro menti. L’intento di Steven Marcus –un critico letterario che applica con intelligenza la sua indagine a testi extraletterari -, è quello di rintracciare la genesi di un’immagine insieme visuale e concettuale, che appena viene espressa appare subito evidente e incontrovertibile, ma che è il risultato d’un processo conoscitivo non così ovvio e “naturale” come sembra.

L’esempio di Manchester studiato da Marcus mi serve come illustrazione retrospettiva dell’idea che stavo cercando di mettere a fuoco riferendomi all’oggi. Penso alle tante città italiane che in questi mesi sembra stiano tornando a guardarsi in faccia, dopo anni attraversati come alla cieca. Nuove amministrazioni succedono al malgoverno durato decenni interi:un lungo periodo che ha visto l’urbanizzazione di masse enormi, senza alcun piano che prevedesse il loro inserimento, un’epoca in cui la forza degli interessi particolari palesi o nascosti ha corroso ogni progetto di sviluppo sensato. E’ con occhi nuovi che oggi ci si pone a guardare la città, dove composizione sociale, densità di abitanti per metro quadrato costruito, dialetti, morale pubblica e familiare, divertimenti, stratificazioni del mercato,modi di ingegnarsi a sopperire e alle deficienze dei servizi, di morire o sopravvivere negli ospedali, di imparare nelle scuole o nella strada, sono elementi che si compongono in una mappa intricata e fluida, difficile a ricondurre all’essenzialità d’uno schema. Ma è di qui che bisogna partire per capire - primo - come la città è fatta, e – secondo - come la si può rifare.

Infatti, la chiaroveggenza critica della negatività d’un processo ormai avanzato non può oggi bastarci:questo tessuto con le sue parti vitali( anche si solo d’una vitalità biologica e non razionale) e con le sue parti disgregate o cancerose è il materiale da cui la città di domani prenderà forma, in bene o in male, secondo il nostro intento se avremo saputo vedere e intervenire oggi,o contro di esso nel caso contrario.Tanto più l’immagine che trarremo dall’oggi sarà negativa, tanto più occorrerà proiettarci una possibile immagine positiva versi la quale tendere.

Detto questo, sottolineata cioè la necessità di tener conto di come città diverse si succedono e si sovrappongono sotto uno stesso nome di città , occorre non perdere di vista quale è stato l’elemento di continuità che la città ha perpetuato lungo tutta la sua storia, quello che l’ ha distinta dalle altre città e le ha dato un senso. Ogni città ha un suo ”programma” implicito che deve saper ritrovare ogni volta che lo perde di vista, pena l’estinzione. Gli antichi rappresentavano lo spirito della città, con quel tanto di vaghezza e quel tanto di precisione che l’operazione comporta, evocando i nomi degli dei che avevano presieduto alla sua fondazione: nomi che equivalevano a personificazioni d’attitudini vitali del comportamento umano e dovevano garantire la vocazione profonda della città, oppure personificazioni d’elementi ambientali, un corso d’acqua, una struttura del suolo, un tipo di vegetazione, che dovevano garantire della sua persistenza come immagine attraverso tutte le trasformazioni successive , come forma estetica ma anche come emblema di società ideale. Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, veder cambiare le sue case pietra per pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dei.

I quadri di ogni esercito hanno il dovere di conoscere il.proprio Paese, i Paesi vicini e quelli che, in relazione all’indirizzo politico del Governo, possono costituire probabili teatri di guerra in eventuali futuri conflitti. Per consentire tale conoscenza vengono compilate monografie geografiche-militari, in cui lo studio dei vari elementi geografici (fisici, biologici, antropici) è fatto in funzione di esigenze puramente militari. Lo studio comprenderà quindi una prima parte essenzialmente riferita all’inquadramento geografico-topografico della regione ed una seconda relativa alla raccolta di dati su corsi d’acqua, laghi, bacini artificiali, centrali elettriche, stabilimenti industriali, rotabili, ferrovie, porti, aeroporti, ecc., ecc., la cui influenza sulle operazioni militari è di enorme importanza.

In breve lo studio geografico militare di una determinata regione costituisce la base indispensabile per la compilazione dei piani operativi e per le predisposizioni di carattere logistico da adottare. Infatti, quelle volte in cui un esercito si è presentato ad operare lontano dal proprio ambiente geografico (guerre coloniali) senza aver preventivamente studiato profondamente il nuovo ambiente, si è trovato, soprattutto inizialmente, in condizioni di assoluta inferiorità specie per quanto si riferisce alla organizzazione logistica in genere.

L’ambiente geografico è costituito da un complesso di elementi la cui conoscenza è necessaria per le deduzioni di carattere militare. Così ad esempio, dallo studio del terreno è possibile precisare le zone idonee all’impiego di G.U . motorizzate e corazzate, i tratti maggiormente idonei a grandi sbarchi dall’aria e dal mare, le zone naturali di ostacolo, ecc. ; dalle condizioni climatiche è possibile dedurre le predisposizioni di natura logistica da adottare, quale epoca dell’anno meglio si presta allo svolgersi di grandi operazioni militari, ecc. ecc.

Abbiamo citato il terreno, il clima, ma tutti gli elementi di natura geografica propri di una data regione fanno sentire più o meno fortemente il loro peso nelle operazioni militari. È necessario quindi procedere allo studio di tutti questi elementi; esso potrà essere alquanto sommario o molto particolareggiato in relazione alla posizione del Paese in esame rispetto al proprio, alla sua estensione, alle particolarità di ordine fisico, biologico ed antropico che presenta ed infine allo scopo per il quale lo studio stesso viene eseguito.

Nasce perciò un criterio di differenziazione per la compilazione di tali studi, in cui la scala da adoperare può essere: geografica, corografica, topografica.

Lo studio a scala geografica, riferito in genere a regioni di notevole estensione, deve fornire le linee maestre del vari elementi geografici, di modo che il militare possa avere una visione completa delle condizioni fisiche (terreno, clima, acque), biologiche (flora e fauna) ed antropiche (ambiente umano, risorse, comunicazioni, condizioni politiche e sociali) della regione stessa, da cui trarre quelle considerazioni atte a meglio definire le direttive di carattere strategico-logistico sia di natura offensiva che difensiva. In breve da un lavoro monografico a scala geografica uno S.M. deve poter ricavare tutti quegli elementi geografici necessari per la soluzione di un problema strategico-logistico.

Lo studio a scala corografica, limita in genere la sua visione a regioni meno estese, coincidenti spesso con unità geografiche ben distinte che possono o meno far parte di una determinata unità politica o possono anche appartenere a più unità politiche (esempio la regione alpina). Questo studio che analogamente al precedente riguarda tutti gli elementi geografici citati, ha però uno sviluppo più profondo in quanto non può limitarsi a tracciare le linee generali della regione, ma deve scendere in maggiori dettagli per fornire agli S. M. delle G.U. notizie e dati necessari per una completa, buona, anche se non minuta, conoscenza della regione in cui eventualmente la G.U. stessa può essere chiamata ad operare.

Ed infine si passa allo studio monografico topografico in cui la zona che si considera è veramente assai limitata. Trattasi di uno studio minuto che serve ad integrare la descrizione del terreno svolta nelle monografie corografiche cercando di dare maggiore sviluppo alle comunicazioni, alle risorse logistiche, alla vegetazione (specie boschi), alla popolazione, ecc.

Abbiamo esaminato lo studio dell’ambiente geografico nel suo complesso; ciò non esclude, che, sempre ai fini militari, l’ambiente possa essere esaminato sotto particolari aspetti dando cosi luogo a studi di origine diversa aventi cioè scopi ben definiti e circoscritti. Ad esempio si possono avere studi di carattere logistico in cui si cerca di esaminare solo gli elementi (comunicazioni, risorse, ecc.) che possono essere utilizzati nel campo dei servizi; di carattere organico in cui si cerca di stabilire il potenziale umano di una data regione, ecc. ecc.

Sono studi questi che pur essendo caratterizzati soltanto da uno o più elementi dell’ambiente geografico, richiedono però sempre una visione generale degli altri elementi in cui venga messo bene in evidenza l’influenza di questi ultimi sui primi. Solo così si possono ricavare delle considerazioni armoniche e complete su cui basare lo studio di carattere militare.

Precisato cosi, scopo e limiti di uno studio geografico militare di una data regione, cerchiamo di tracciare, sulla base di studi al riguardo effettuati da insigni cultori di geografia militare (Generali Sironi, Porro, De Ambrosis ed altri), una sintesi degli argomenti da prendere in esame e le norme principali per la compilazione di un organico lavoro monografico, che tenga conto degli elementi necessari per lo sviluppo di operazioni militari in relazione ai moderni mezzi.

Abbiamo cercato di definire un metodo che possa essere applicato sia per la redazione di monografie geografiche, sia corografiche, sia infine topografiche; le modificazioni deriveranno più che altro dal peso che, dal punto di vista militare, possono avere i vari elementi geografici, nei diversi casi.

Nell’esposizione che segue ci si riferisce essenzialmente ad uno studio monografico a scala corografica che è quello che meglio si presta per una trattazione completa in quanto le deduzioni di carattere militare da esso derivanti hanno interesse sia per gli organi centrali che per gli S.M. periferici nella compilazione dei rispettivi piani operativi.

I criteri di guida nello svolgimento dello studio monografico sono essenzialmente tre:

- descrizione dei vari elementi geografici o topografici così come essi si presentano; descrizione quindi a carattere obiettivo;

- raccolta di dati statistici presso gli enti civili (nazionali, regionali, provinciali, ecc.). In regioni arretrate di civiltà (zone coloniali) un tale compito è difficile, non sempre possibile e comunque i dati che si ottengono sono molto empirici;

- considerazioni militari: riguardano l’influenza che i vari elementi possono esercitare sulle operazioni militari in genere, prescindendo da specifiche ipotesi operative. Esse pur avendo carattere essenzialmente oggettivo, risentono però notevolmente della valutazione personali del compilatore.

SCHEMA DEGLI ARGOMENTI DA TRATTARE IN UNO STUDIO GEOGRAFICO MILITARE

Esso normalmente comprende: PREMESSA:

- limiti della regione;

- criteri seguiti nella compilazione del lavoro;

-cartografia da consultare.

Parte I - ASPETTI FISICO-BIOLOGICI.

Cap. 1° - TERRENO: configurazione planimetrica: studio inteso a determinare le dimensioni lineari e planimetriche, nonché la posizione geografica riferita sia alla terra (posizione astronomica), sia all’ambiente geografico circostante (isola, penisola, regione marittima., ecc.);

- configurazione altimetrica: studio descrittivo delle forme complessive e particolari della regione con brevi cenni sulla costituzione litologica.

Cap. 2° - CLIMA: esame dei vari elementi: temperatura, venti, precipitazioni umidità, nebulosità e studio dei loro effetti sugli altri elementi geografici, specialmente sul rivestimento vegetale e sull’uomo.

Cap. 3° - ACQUE: studio dei corsi d’acqua (fiumi, canali), laghi, paludi, stagni, nevi, ghiacciai, acque sotterranee, lagune, mare.

Cap. 4° - VEGETAZIONE: esame delle forme di vegetazione naturale e di coltivazioni predominanti.

Cap. 5° - AMBIENTE ANIMALE: brevi cenni limitati agli animali apportatori di malattie (zanzare; ecc.), a quelli velenosi o feroci ed a quelli utili.

Cap. 6° - CONSIDERAZIONI MILITARI: dal complesso degli aspetti fisico-biologici della regione trarre tutte quelle deduzioni che possono avere influenza sulle operazioni militari; cosi ad esempio dal:

Terreno: zone di ostacolo, linee di facilitazione al movimento e tratti idonei allo sbarramento, zone idonee all’impiego di G.U. motorizzate e corazzate, praticabilità riferita ai diversi mezzi d’impiego, zone idonee a sbarchi aerei o dal mare di unità consistenti, cavità sotterranee che per la loro capacità possono essere utilizzate ai fini militari, zone maggiormente soggette a frane, ecc.

Clima: epoca più idonea per eseguire operazioni di grandi masse, particolare attrezzatura logistica per operare in determinate zone, scelta più conveniente delle truppe d’impiego, epoca di utilizzazione di alcuni porti nelle regioni nordiche, influenza delle grandi piogge sulle operazioni militari (sull’altopiano eritreo-etiopico esse impongono una sosta in estate), influenza dei venti violenti (esempio, sulle coste della Somalia non è possibile lo sbarco di grossi piroscafi durante il periodo del monsone di S.O.), influenza delle forti escursioni termiche giornaliere ed annuali (specie nelle regioni non temperate esse esigono particolari previdenze di carattere logistico), ecc.

Acque: corsi d’acqua (fiumi e canali) che per il loro andamento e per il loro valore di ostacolo possono essere utilizzati ai fini della difesa, possibilità di inondazione ai fini militari, influenza delle zone paludose sulle operazioni militari, influenza della scarsezza di acqua (le regioni desertiche e carsiche impongono l’organizzazione di un servizio idrico imponente), ecc.

Vegetazione: influenza sulla praticabilità ai vari mezzi di trasporto e combattimento, copertura dall’alto e da osservatori terrestri, impiego delle G.U. ecc:

Parte II. - ASPETTI ANTROPICI.

Cap. 7° - AMBIENTE UMANO: popolazione assoluta, densità, movimento, ripartizione in relazione all’attività economica, religione, lingua, insediamento sparso ed accentrato, centri urbani.

Cap. 8° - COMUNICAZIONI: stradali, ferroviarie, via acquea (marittime, fluviali, lacuali), via aerea.

Cap. 9° - RISORSE ECONOMICHE:

- agricoltura in senso ampio;

- allevamento del bestiame;

- industrie ( estrattive, edili, elettriche, tessili, meccaniche, chimiche, ecc. );

- commercio: interno; esterno (importazione ed esportazione); di transito.

Cap. 10° - CONDIZIONI SOCIALI E POLITICHE: organizzazione amministrativa, giuridica, militare, politica. Libertà esistenti, giustizia sociale.

Cap. 11° -CONSIDERAZIONI MILITARI: riferite a:

- l’ambiente umano: prevedibile massa degli armati della regione, utilizzazione ai fini militari della popolazione in relazione all’attività civile, individuazione di obiettivi a carattere strategico (grossi centri urbani), possibilità di accantonamento, ecc.

- le comunicazioni: ripartizione della regione in relazione alla percorribilità, utilizzazione ai fini militari dei vari mezzi di comunicazione (stradali, ferroviari, acquei ed aerei), provvidenze da adottare per la difesa contraerea delle basi e delle linee di comunicazione, individuazione di obiettivi (basi e nodi di comunicazioni), ecc.

- le risorse: valutazione delle derrate o di beni in genere utili alle truppe operanti, valore potenziale delle ,"arie industrie ai fini bellici, possibilità di una rapida o lenta mobilitazione industriale, individuazione di obiettivi (centri industriali di importanza bellica), ecc.

- le condizioni sociali e politiche: possibilità di determinare le aspirazioni del Paese, lo spirito che le anima, gli ordinamenti militari, i legami più o meno solidi che uniscono le istituzioni militari e quelle civili, ecc.

Parte III - SINTESI GEOGRAFICO-MILITARE.

Dall’esame complessivo dei vari elementi geografici precedentemente fatto si giunge ad una sintesi delle condizioni geografico-militari da cui scaturisce:

- il valore militare della regione in sé stessa ed in unione a quelle contermini;

- il potenziale bellico della regione in quel dato momento e gli eventuali elementi di ulteriore sviluppo o regresso in futuro;

- l’eventuale ripartizione della regione in zone minori, ciascuna avente propria individualità strategico-logistica ;

- le zone maggiormente idonee (per continuità ed ampiezza) come posizioni difensive e quelle di maggiore facilitazione ad operazioni di grandi masse;

- obiettivi di notevole importanza strategico-logistica della regione.

Quanto suesposto non deve essere considerato uno schema rigido, ma una guida in cui lo sviluppo delle diverse parti può variare notevolmente in relazione essenzialmente all’estensione della regione che si considera, ed allo scopo speciale per il quale lo studio è effettuato. Potrà quindi accadere in alcuni casi di non considerare tutti gli elementi di natura geografica come precedentemente accennati. Oppure dare uno sviluppo maggiore o minore a quel dato elemento che da solo caratterizza la zona o che nello studio particolare che si fa ha influenza predominante o trascurabile.

Inoltre nello schema tracciato le condizioni militari sono state prospettate in linea generica; senza cioè avere come base un’ipotesi operativa qualsiasi. È naturale quindi che allorquando lo studio dovesse essere eseguito in base ad una determinata ipotesi operativa, le considerazioni di carattere militare, pur senza entrare nel campo operativo, dovrebbero essere dedotte, non più in senso generico, ma in relazione all’ipotesi formulata. In tal caso lo studio deve anche dire quali provvedimenti adottare per valorizzare gli elementi attivi dell’ambiente geografico e quali adottare per ridurre o eliminare l’influenza di quello o quegli elementi geografici che nell’ipotesi formulata agiscono in modo negativo.

Lo studio geografico-militare suesposto nella sua esecuzione può svilupparsi attraverso le seguenti tre fasi:

1° - studio della regione in base alla cartografia ed alle pubblicazioni esistenti;

2° - ricognizioni e raccolta di dati;

3° - elaborazione e redazione.

Esso, in genere, si concreta in una memoria descrittiva, in una parte grafica (carte e schizzi) ed in un’appendice con dati vari.

La memoria descrittiva è bene sia sintetica, chiara, precisa e contenga tutto ciò che non è conveniente o possibile rappresentare graficamente o con specchi; evitare di riportare tutto ciò che chiaramente risulta dalla carta.

La parte grafica è bene sia molto sviluppata; essa potrà comprendere:

- carte geografiche, corografiche o topografiche della regione in relazione all’estensione del territorio ed ai fini dello studio monografico;

- schizzo della configurazione planimetrica con i limiti della regione, la circoscrizione amministrativa e militare;

- schizzo ipsometrico;

- schizzi vari relativi alla natura del suolo; all’ idrografia superficiale, alle zone idonee all’ impiego di G.U. corazzate e motorizzate, alle zone atte a sbarchi dall’aria (con paracadute, aliante, aeroplano) o dal mare da parte di unità consistenti (reggimento, divisione), alle grandi cavità sotterranee utilizzabili ai fini militari (depositi materiali, ricoveri, ecc.), alle zone malariche, paludose ed inondabili;

- carte delle piogge e della temperatura ;

- schizzo della vegetazione: - uno relativo" alle zone boscose (se esistono) specificando la natura (tipo delle essenze e fittezza), sottobosco, transitabilità, efficacia di occultamento dall’alto e da osservatori terrestri; accessibilità dalla rete stradale ai vari mezzi di trasporto; - uno relativo ai vari tipi di colture predominanti con note esplicative circa il movimento di mezzi a ruote o cingolati;

- schizzi relativi all’ambiente umano (densità della popolazione, accentrata, sparsa, ecc.);

- schizzo delle comunicazioni : - stradali; - ferroviarie (ferrovie, tranvie, funicolari, teleferiche); - fluviali; - lacuali ;

- schizzo delle centrali idro e termo-elettriche con l’indicazione dei dati di produzione, la rete e le zone di distribuzione;

- schizzo della rete dei collegamenti telegrafici e telefonici;

- schizzo dei grandi stabilimenti industriali (minerari, siderurgici, meccanici, chimici, alimentari, navali, aeronautici, tessili, edili, ecc.);

- schizzo con l’indicazione. dei depositi di carburanti civili e militari (capacità per ognuno in m3), dei depositi munizioni territoriali (specificare capacità) e delle caserme (specificare capacità di accantonamento uomini, quadrupedi, automezzi);

- ecc., ecc.

L’ appendice completa la memoria descrittiva e la parte grafica riunendo in appositi specchi tutti quei dati che, o non possono essere rappresentati graficamente, o non si reputa conveniente farlo.

Tali dati possono riferirsi ad elementi particolari dell’ambiente geografico. Segnamo qui di seguito quali sono in genere questi elementi con l’indicazione, accanto od in allegato, delle notizie che per ognuno è utile conoscere ai fini militari:

- corsi d’acqua: dati come da allegato n° 1;

- temperatura: valori medi mensili, stagionali ed annui delle temperature massime, minime e medie e delle escursioni; valori massimi e minimi assoluti nel mese più caldo ed in quello più freddo;

- precipitazioni: distribuzione media mensile in mm. ripartita in pioggia e neve ; numero medio dei giorni piovosi e nevosi nell’anno per le diverse località ;

- distribuzione della popolazione per attività economica: agricoltura, foreste, caccia, pesca, industrie, trasporti, comunicazioni, commercio, credito, libere professioni, amministrazione pubblica, ecc. Popolazione attiva ed inattiva;

- centri abitati particolarmente importanti: dati come da allegato n° 2;

- rotabili importanti ai fini militari: elementi da considerare come da allegato n° 3;

- ferrovie e tranvie interurbane: dati come da allegato n° 4;

- porti di notevole importanza commerciale o militare: dati come da allegato n° 5;

- prodotti agricoli e bestiame: cereali; legumi, patate, olio, vino, fieno, legna da ardere e da costruzioni, ecc. ; cavalli, muli, bovini, suini,. caprini, ovini, ecc., ecc.

- stabilimenti industriali: tipo di industria (meccanica, tessile, alimentare, mineraria, chimica, ecc.), genere di produzione, entità della produzione, tipo di energia motrice utilizzata, mano d’opera impiegata, ecc.;

- grandi ditte di trasporti automobilistici: tipo di trasporto (merci o persone), numero e specie di automezzi, personale impiegato, ecc.;

- organizzazione militare: entità delle varie forze armate e loro ordinamento.

Non abbiamo inteso con ciò esaurire la numerosa elencazione di grafici, schizzi e specchi che possono corredare uno studio geografico-militare. Altri possono essere aggiunti, così come alcuni di quelli citati possono essere soppressi o modificati. È il tipo di regione che si studia o lo scopo particolare che con lo studio si vuole raggiungere, che può far variare, volta a volta, i grafici, gli schizzi e gli specchi. Così ad esempio di una zona povera di risorse idriche (esempio, Puglie, Carso, zone desertiche, ecc. ) sarà necessario localizzare a mezzo di uno schizzo le poche sorgenti esistenti, gli acquedotti e le eventuali cisterne con l’indicazione della portata nelle varie epoche dell’anno, mentre dati analoghi non hanno alcun valore per una zona ricca di acqua.

Altri elementi notevolmente utili possono arricchire l’appendice: fotografie (anche da aerei) o schizzi panoramici che riproducono aspetti caratteristici di zone particolarmente interessanti ai fini militari, piante di città ( assai utili per gli attraversamenti di colonne motorizzate, per la determinazione di speciali edifici: palazzo della radio, della posta, dei telefoni, ecc.), piante di grandi stabilimenti industriali, di centrali elettriche, ecc., ecc.

Nel tracciare lo schema suesposto ci siamo riferiti di massima a regioni la cui organizzazione politica sociale può offrire tutti i dati indicati; è ovvio perciò che per regioni in cui si ha un’organizzazione arretrata (alcune zone dell’Asia, dell’Africa, ecc. ), la ricerca dei dati non è sempre possibile e comunque la loro attendibilità è molto relativa.

In sintesi, nel redigere uno studio geografico-militare di una regione non bisogna mai perdere di mira lo scopo, che è quello di fornire al militare tutti quegli elementi concreti relativi all’ambiente geografico in esame, necessari alla compilazione di piani operativi. [...]

La soluzione

Dobbiamo tener presente che la pianificazione su scala nazionale non è soltanto una questione tecnica, ma costituisce anche un fattore importante nel quadro della politica di colonizzazione.

La pianificazione deve essere conforme alle direttive essenziali di questa politica. Occorre distinguere due periodi successivi, anche se non vi sarà tra di loro una linea di demarcazione chiara e definita. Fin dall’inizio il movimento sionista ha dedicato tutta la sua attenzione, tutte le sue energie e le disponibilità finanziarie alla colonizzazione agricola; lo sviluppo della città è stato in genere abbandonato al libero giuoco delle forze economiche. In particolare nessuno ha mai mostrato interesse alla distribuzione geografica della popolazione non agricola che forma 1’86% degli ebrei di Palestina.

Conseguenza dell’espansione sfrenata delle città senza alcun criterio informatore, è stato l’accentramento di 4/5 della popolazione non-agricola (71,5% di tutti gli ebrei di Palestina) in tre grandi centri urbani. Questo è il punto debole della nostra opera in Palestina.

L’ultima crisi economica mondiale ha mostrato chiaramente che le zone più stabili dal punto di vista economico erano quelle fondate sull’agricoltura e sull’industria, sull’alternarsi di campagna e centri urbani collegati da una fitta rete di piccole città. D’altro canto furono gravemente colpite le regioni in cui esisteva un’antitesi netta tra la città e la campagna. La concentrazione della popolazione non-agricola in poche metropoli è un fenomeno tipico delle terre d’oltre oceano, come l’ Australia, l’Argentina e la California, che hanno un’immensa estensione di territori e una scarsissima densità di popolazione. Ma questi paesi non possono assolutamente costituire un esempio per la Palestina. D’altra parte nei paesi densamente popolati dell’Europa centrale ed occidentale gli abitanti delle metropoli (città con più di 1.000.000 di abitanti) non costituiscono la maggioranza della popolazione non-agricola. Ad esempio, in Germania la proporzione raggiunge il 42,1 %, in Olanda il 35,5 per cento, in Francia il 31,9%, nel Belgio, il paese più densamente popolato del mondo, il 24,5%, in Svizzera il 20,2 per cento; in Cecoslovacchia essa scende al 16,2%.

Se noi consideriamo non solo Tel Aviv, ma anche Haifa e Gerusalemme tra i grandi centri urbani, otteniamo questo risultato: 1’82,9% della popolazione ebraica non-agricola della Palestina abita nelle grandi città. In questo senso la Palestina supera anche l’ Australia (61,9%), ed è “alla testa” di tutti i paesi.

Le nostre “metropoli” non sono ancora pericolose. Ma la tendenza all’accentramento eccessivo è evidente; questo fenomeno, più ancora della scarsa percentuale dei contadini, mette in rilievo l’anormalità della struttura sociale palestinese.

Il risanamento è necessario; si deve raggiungere la decentralizzazione della popolazione non agricola disperdendola in un gran numero di piccoli centri. L’idea che oggi regna in Palestina, secondo la quale bisogna vedere con sfavore l’urbanizzazione delle grandi colonie agricole e cercare di arrestarla, è fondamentalmente errata.

Effettivamente non abbiamo bisogno di città del tipo di Haifa e Tel Aviv. Ma invece, uno dei compiti essenziali del nostro lavoro deve essere la creazione di una fitta rete di centri urbani e semiurbani. I lavoratori della terra saranno i primi a trarre vantaggio da questo sviluppo; perchè ogni nuovo centro di industria e di artigianato costituisce un mercato locale per il prodotto agricolo, e ciò che è ancora più importante, una possibilità di lavoro stagionale per il bracciante.

In conseguenza delle condizioni specifiche della Palestina ebraica (piccole distanze, limitatezza del terreno coltivabile, prospettive per una popolazione molto densa) è evidente che la decentralizzazione porterà in un certo senso ad una sintesi tra la città e la campagna, creando una situazione “semi-urbana”.

Le distanze tra questi piccoli centri di industria e di artigianato (non più di 20 Km.) saranno tali da permettere un servizio di trasporti quotidiani su larga scala tra le località abitate e la loro area agricola; d’altra parte i dintorni dei centri industriali potranno servire per l’alloggio dei lavoratori.

Una conformazione di questo tipo presenta alcuni vantaggi propri della campagna (contatto con la natura, sane condizioni di alloggio, lavoro agricolo come occupazione principale o ausiliaria) e anche i vantaggi della città (maggiore più varia domanda di lavoro, maggiore possibilità di specializzazione professionale e di vita culturale).

Una struttura come questa garantisce la massima resistenza contro le crisi economiche. Un esempio di popolazione densa e decentrata ci è offerto da alcune provincie densamente popolate dell’Europa centrale ed occidentale. Ma il raggiungimento di questo risultato è più facile in Palestina dove già esistono condizioni particolari e cioè una colonizzazione moderna che conduce ad una alta densità di popolazione. Se gettiamo uno sguardo sulla carta delle colonie ebraiche, vediamo i primi segni di questa rete o catena di borgate, che diverranno centri industriali e artigiani, collegati reciprocamente da un sistema di trasporti quotidiani per operai.

Vi sono ancora delle grandi lacune in questa rete; sono difettose le comunicazioni tra le località (particolarmente nel nord) che hanno ancora carattere puramente agricolo. Ma già esiste il primo schema di questa catena ininterrotta, che comincia a sud a Beer-Tuvia e finisce a nord a Metullah. Il compito della colonizzazione è di completarla, rinsaldarla, vivificarla; il compito della pianificazione è di preparare e di regolare questa espansione e di indirizzarla nel senso voluto.

In un primo periodo non potremo evitare che alcuni terreni coltivabili vengano devoluti ad altri scopi, come alloggi, industria e strade. Ma un piano funzionale per ogni colonia può diminuire la perdita dei terreni coltivabili, specie considerando che le aree migliori per l’agricoltura (terreno basso e protetto dai venti, terra pesante o media) sono totalmente diverse da quelle adatte per uso di abitazione (località elevata, esposta ai venti, terreno sabbioso o calcareo).

L’aumento della densità nella pianura costiera, porterà tuttavia in un secondo periodo ad un rilevante incremento delle aree abitate ai danni delle zone coltivate. Visto che le riserve di terreno fabbricabile (cioè terreno inadatto alla coltivazione agricola) sono relativamente maggiori delle riserve di terreno destinato all’agricoltura, giungerà l’ora in cui saremo costretti ad evitare ogni ulteriore limitazione delle zone rurali. In questo secondo periodo dovremo orientare l’espansione delle aree abitate ed industriali verso i terreni inadatti o quasi alle coltivazioni agricole. Essi sono, innanzi tutto le sabbie costiere e, in misura minore, le falde e le cime delle colline.

Il problema della trasformazione delle sabbie costiere in terreni agricoli non è stato ancora studiato; ma anche se riusciremo a trasformare le zone sabbiose in campi coltivabili, dopo lavori di miglioria, irrigazione, concimazione ecc., potremo evidentemente realizzare tale opera solo su superfici limitate, cioè nel quadro di una colonizzazione urbana o semiurbana; è chiaro che questi terreni non sono adatti ad una vera agricoltura su larga scala. Al contrario le zone sabbiose sono adatte per il rimboschimento e particolarmente per un’espansione urbana.

Le ragioni sono le seguenti:

1) La spiaggia come luogo di riposo ideale.

2) Il beneficio immediato dei freschi venti marini.

3) L’abbondanza di acque sotterranee a piccole profondità.

4) Il basso costo delle fondazioni e delle strade, la facilità dello scolo delle acque nel terreno sabbioso e la presenza delle sabbie per le costruzioni ed il cemento.

Sulle vaste estensioni sabbiose c’è posto per creare una “città a catena” a scarsa densità, ricca di parchi e di boschi. Questa città sarà collegata al retroterra agricolo da un sistema di comunicazione giornaliera per gli operai; è prevedibile che in questo periodo già esisteranno linee stradali sufficienti da occidente ad oriente. Un traffico intenso si svilupperà anche da sud a nord, tra i diversi quartieri delle città e tra Haifa e Tel-Aviv. Per venire incontro alle esigenze del movimento bisognerà istituire un sistema di mezzi di comunicazione rapidi e moderni quali elettrotreni ed autostrade.

La definizione finale di un piano corrispondente agli scopi sarà possibile solo quando avremo studiate a fondo queste prospettive per la nostra colonizzazione futura in Palestina. È bene tener presente che le decisioni prese per una pianificazione su scala nazionale portano a vasta ripercussione e sono difficilmente modificabili.

I compiti

Una pianificazione nazionale e regionale consiste soprattutto nel tracciare delle linee generali. I suoi compiti sono : 1) la zonizzazione, cioè la classificazione dei terreni a seconda degli usi; 2) la determinazione delle direttive principali per lo sviluppo della popolazione. Uno dei mezzi è la pianificazione della rete delle comunicazioni. I progetti dettagliati dei piani regolatori cittadini o il disegno della rete stradale interna non rientrano nelle funzioni del piano nazionale e regionale; essi saranno lasciati alle competenze delle varie società di colonizzazione, degli enti autonomi municipali ecc. Ma questi progetti dettagliati dovranno conformarsi allo schema generale del piano nazionale e regionale e saranno sottoposti al controllo dell’istituzione centrale.

compiti della pianificazione sono impliciti nelle linee generali della nostra politica di colonizzazione. Il primo compito è di classificare i terreni adatti alla coltivazione. Questa opera verrà compiuta in base ad uno studio particolareggiato dei tipi di terreni e delle possibilità d’irrigazione (impiego delle sorgenti d’acqua nel luogo o trasporto delle acque da sorgenti lontane). Tale tipo di pianificazione non è nuovo nella storia della nostra colonizzazione; ma adesso il piano deve comprendere sistematicamente tutta la superficie della colonizzazione ebraica e non soltanto zone limitate; esso deve inoltre procedere congiuntamente alla pianificazione cittadina. Il secondo compito del piano è quello di risolvere completamente il problema della urbanizzazione delle zone rurali, in conformità ai principi dell’urbanistica moderna. Occorre limitare l’area libera per l’espansione edilizia e industriale e lasciare delle larghe zone riservate all’agricoltura nelle quali sarà vietato di costruire alloggi o stabilimenti industriali e di assegnare aree fabbricabili. Bisogna inoltre creare zone di rimboschimento (valli di torrenti, ripidi versanti montani, ecc.) e zone speciali per quartieri operai costruiti in base al criterio dei “lotti agricoli ausiliari”. La superficie rimanente deve essere suddivisa, conformemente ai principi della zonizzazione, in aree industriali e edilizie, a seconda del diverso grado di densità e delle diverse altezze.

Occorre inoltre lasciare uno spazio sufficiente per il centro commerciale, per i giardini pubblici ecc. Mentre da un lato bisogna generalmente evitare qualsiasi ulteriore limitazione delle aree riservate per la coltivazione, d’altra parte bisogna stabilire l’impiego di tutte le altre zone tenendo presente il futuro sviluppo dinamico: le aree industriali ed edilizie fittamente popolate devono essere per ora piccole ma suscettibili di espansione in modo che lo sviluppo futuro trovi riserve già preparate e non entri in urto con lo schema generale.

Dobbiamo fare bene attenzione nel determinare l’ubicazione delle future aree industriali. Esse devono trovarsi fuori dei centri abitati e vicino alle principali arterie del traffico. Tuttavia gli stabilimenti industriali non devono essere situati nelle immediate vicinanze dell’arteria stradale; né si deve permettere la costruzione di abitazioni operaie a contatto diretto con le fabbriche. Nelle zone riservate all’agricoltura sarà permessa solo la costruzione di case di abitazione per il contadino e di edifici agricoli ausiliari. Naturalmente non intendiamo sbarrare la strada ad una futura intensificazione che crei colonie come Naharia o Ramoth Hashavim nelle quali la colonia penetra e avvolge la propria area agricola. Miriamo solo ad impedire l’infiltrazione delle abitazioni e degli stabilimenti industriali nelle zone puramente agricole. Nelle colonie delle zone considerate oggi rurali la densità di fabbricazione non deve superare il 20 per cento ad eccezione delle vie commerciali centrali. Lo stesso si dica dei quartieri di abitazione nei piccoli centri cittadini che abbiamo ricordato prima. Nei quartieri periferici lo sfruttamento dell’area dovrebbe scendere al 10, o al 15 %. Così non dovrebbe essere permessa di regola la costruzione di fabbricati di due piani. L’evoluzione inevitabile e auspicabile. verso la creazione di centri semiurbani comporta la trasformazione della struttura professionale ed economica delle colonie. Essa conduce all’aumento della percentuale di stabilimenti industriali e artigiani e dei mestieri cosiddetti cittadini. Ma questo non implica l’introduzione in campagna delle forme architettoniche urbane. Al contrario, occorre conservare l’aspetto rurale dei nostri villaggi anche quando la industrializzazione progredisce; occorre lasciare intatte le possibilità di coltivazione di orti e di poderi ausiliari e questo può avvenire solo mantenendo una bassa densità di fabbricati.

Nelle vie commerciali centrali si può permettere un maggiore sfruttamento dell’area (30% 35%) e a volte perfino la fabbricazione di edifici a contatto diretto (come a Natanjah). Non vi è motivo di temere cattive conseguenze, perchè la superficie dei quartieri commerciali sarà limitata. Nella zonizzazione bisogna tener presente la conformazione topografica e la qualità del terreno e la vicinanza delle arterie di traffico.

Il terzo problema della pianificazione nazionale è la preparazione di un piano per la zona delle sabbie costiere. Già a Nataniah nel golfo di Haifa, a Bat-Yam e a Hulon sono stati compiuti i primi passi per lo sviluppo della fascia costiera; adesso, quando saranno terminate le strade che portano al mare, avrà luogo un’espansione edilizia nei dintorni di Herzliah e di Chederah. Ma uno sviluppo urbano di tutta la zona sarà possibile solo in un futuro lontano. È bene sottolineare che la “città a catena” che verrà costruita sulla sabbia costiera non dovrà assumere l’aspetto di una fascia cittadina ininterrotta e monotona. Essa dovrà essere formata da varie parti ognuna delle quali si stenderà intorno al proprio quartiere commerciale e alla stazione dove sosteranno i rapidi mezzi di trasporto di cui abbiamo parlato. Per questo è estremamente importante tracciare fin d’ora accuratamente questa linea di comunicazione da nord à sud, anche se essa potrà essere costruita solo in futuro.

Le varie parti della “città a catena” saranno separate da vaste estensioni di boschi; il rimboschimento, quale primo passo, è necessario anche per consolidare le dune mobili.

Ogni parte della “città a catena” sarà formata da un certo numero di quartieri ognuno dei quali avrà da 1200 a 1500 abitanti.

Il quartiere sarà costruito in base a una fusione ben studiata di case per famiglie, di un piano, e di case di due o tre piani (Reihenhauser). Nella sistemazione di questi quartieri occorre seguire i principi dell’urbanistica organica, come sono stati illustrati da A. Klein nel golfo di Haifa. La densità delle costruzioni non supererà anche qui il 20 per cento dell’area; ciò permetterà le coltivazioni dei giardini se il terreno sarà suscettibile di miglioramenti.

La striscia adiacente alla costa deve essere destinata a zona di riposo; in essa sarà permessa solo una densità di costruzioni molto bassa (10 %) e verrà riservato spazio sufficiente per zone verdi per il pubblico, per istituzioni educative culturali, e per convalescenziari. Le aree industriali ed artigiane si troveranno all’estremità orientale delle sabbie e la linea di comunicazione rapida già ricordata le dividerà dal quartiere commerciale che si troverà ad occidente, e dai quartieri di abitazione che staranno ad occidente del quartiere commerciale. Ad oriente dell’area industriale, nei terreni che già si trovano fuori della striscia sabbiosa verrà lasciata una larga zona per alloggi operai, in cui verrà dedicata la massima cura alla coltivazione dei “lotti ausiliari”.

Le arterie del traffico in tutte le parti della città a catena formeranno una unica rete che porterà al centro commerciale, alla stazione e alle aree industriali; vi saranno anche viali alberati collegati tra loro; essi costituiranno una rete stradale che condurrà al mare e ai tratti boscosi. Ai lati di questi viali verranno posti campi sportivi, edifici culturali, educativi, sale di riunioni ed anche istituzioni appartenenti ai quartieri della città a catena.

I

l progetto che abbiamo esposto deve essere considerato uno schizzo schematico e teorico. Non in ogni punto della costa palestinese noi troviamo una larga striscia sabbiosa; è chiaro che ogni porzione della striscia costiera deve essere sottoposta ad un’indagine speciale e richiede un piano nazionale e la preparazione delle reti di comunicazione. È noto quale valore decisivo abbia l’apertura di una nuova linea stradale per la colonizzazione l’industria e lo sviluppo urbano. Perciò la determinazione di un piano generale per le arterie del traffico a vantaggio delle colonie esistenti e di quelle che sorgeranno riveste un’importanza particolare. Questo progetto deve costituire la base delle richieste che presenteremo al governo nel tema della ricostruzione di strade in Palestina. Il piano generale dovrà ispirare le colonie nella sistemazione delle loro strade interne; esso costringerà anche il proprietario terriero privato a studiare la lottizzazione delle sue aree in conformità della futura arteria stradale.

Nel tracciare le nuove arterie del traffico bisogna evitare per quanto è possibile di tagliare in due il centro delle colonie.. In questo modo potremo impedire fin dall’inizio che si formi una situazione pericolosa nel traffico; con tutti gli inconvenienti che ne derivano, i quali si fanno sentire ad esempio nelle località di Rechoboth e Rishon Le-Zion. La pianificazione nazionale non serve solo per le necessità economiche della colonizzazione. Bisogna tendere a soddisfare le esigenze culturali e spirituali del popolo nei confronti del suo paese. In Palestina la questione assume una grande importanza poiché in essa si trovano non solo panorami meravigliosi ma anche ruderi di edifici artistici che testimoniano un passato ricco e grandioso. Dobbiamo proteggere il paesaggio palestinese, la bellezza degli spettacoli naturali, le località sacre dal punto di vista storico, e le rovine archeologiche. Ma vi è di più: bisogna creare un legame organico fra queste esigenze ed il piano generale; occorre stabilire in conformità l’ubicazione dei parchi pubblici, delle istituzioni culturali e dei centri turistici. Non è la stessa cosa conservare “una statua antica” nel cortile di una fabbrica o situarla in un giardino pubblico, ad esempio, tra la scuola e la casa del popolo. Nel primo caso, il monumento viene conservato per pura curiosità scientifica; nel secondo caso, esso funge da simbolo della nostra intima aspirazione di gettare le radici della nostra nuova opera nel terreno ricco di storia della Palestina.

Titolo originale: Wythenshawe: a Modern Satellite Town - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Nessun grande progetto in questo paese ha attirato più attenzione, o merita studi più attenti, di quello di Wythenshawe, collocato leggermente a ovest della parte meridionale di Manchester, delimitato a nord dal fiume Mersey. Rappresenta un concreto e riuscito tentativo da parte di una grande città di provincia di trovare, insieme all’offerta di un immenso numero di nuove abitazioni, un’alternativa soddisfacente al sistema universalmente diffuso di espansione urbana che, indipendentemente da quanto bene ne siano concepite le singole parti, comporta impliciti gravi svantaggi. Fra questi, basta menzionare le crescenti difficoltà del traffico generate dalla crescita per fasce a partire dal centro, le crescenti distanze che deve coprire chi da centro vuole raggiungere l’aperta campagna, e le maggiori distanze per chi abita nelle nuove aree e deve andare e venire dal lavoro. C’è anche da prendere in considerazione il fatto, su cui concordano tutte le principali autorità, che le nostre città sono già troppo grandi, e sono giunte a uno stadio di ingovernabilità per cui occorre fissare un limite.

Wythenshawe è separata dalla città madre di Manchester da una fascia di campagna relativamente sgombra. Gli elementi chiave che ne hanno governato la creazione sono quattro. Primo, l’acquisto da parte della città di Manchester dei terreni su cui si edifica la nuova cittadina; secondo, la stabilizzazione e conservazione dei valori dei terreni, da subito, attraverso lo zoning; terzo, l’accettazione del principio della neighbourhood unit come base fondamentale del piano; quarto, l’adozione della parkway per le principali vie di traffico. Per comodità del lettore, questi quattro elementi saranno affrontati secondo il medesimo ordine.

La superficie di Wythenshawe è di 2.253 ettari, e prima dell’edificazione si trattava di buona terra agricola. Anticipando il bisogno di un gran numero di abitazioni nel futuro prossimo, e comprendendo gli svantaggi di un ampliamento continuo della città, l’amministrazione di Manchester acquistò gran parte dell’area fra il 1926 e il 1927, assicurandosi così che gli incrementi di valore dei terreni a causa dell’edificazione restassero alla collettività e non ai privati, come accade in gran parte dei casi di sviluppo urbano. Un Private Act del parlamento acquisì la zona alla circoscrizione cittadina il 1 aprile 1931. I lavori per la nuova città iniziarono nel 1929. Col terreno di proprietà della Corporation pubblica, si è nella posizione vantaggiosa di poter pianificare, e creare alla velocità considerata desiderabile quella che vuole essere in tutti i sensi una cittadina autosufficiente. Una volta completata, conterrà oltre 100.000 abitanti, la gran parte dei quali con lavoro a Manchester.

La carta di azzonamento che il progettista Barry Parker ha predisposto come stadio preliminare dell’evoluzione di Wythenshawe, individua specifici spazi per industrie, residenza, centri di commercio, spazi aperti e altre funzioni. È stata colta l’occasione di destinare le superfici in modo tale che in valori tenderanno ad aumentare, dato che tale aumento vista la natura della proprietà sarà pubblico. Con questo obiettivo ben in mente, sono state realizzate grandi quantità di spazi aperti. Si nota dal progetto che, oltre al Parco e agli spazi isolati distribuiti in tutto il sistema, c’è un’ampia cintura agricola attorno alla città, che da all’insieme una struttura da parco e protegge da edificazione e altre attività che possono aver luogo altrove.

Il 54% della superficie, ovvero circa 1.200, è destinata a scopi residenziali, e consente l’edificazione di 28.000 abitazioni; il 10%, circa 220 ettari, è destinato a edifici non residenziali. Negli anni recenti è stata posta molta attenzione alla neighbourhood unit come metodo di pianificazione, ma in questo paese solo in pochi casi essa è stata applicata in qualche modo integralmente. Questa carenza di esempi rende il caso di Wythenshawe, dove il sistema è invece applicato ovunque possibile, ancora più interessante. La superficie è suddivisa in ampi settori residenziali, e ciascuno di essi è delimitato da strade di traffico, con una scuola al proprio centro. Con questa organizzazione i bambini che si spostano da e per la scuola non devono attraversare strade importanti, e le distanze sono ridotte al minimo.

La questione, se la zona commerciale debba essere al centro dell’unità di vicinato o ai suoi margini, è un punto molto dibattuto. Daun lato è desiderabile fare del quartiere un’entità autosufficiente, con la scuola, centro civico, chiesa, negozi, ecc. a costituire l’elemento comunitario al centro; d’altro canto c’è il fatto che i negozianti mostrano una maggior preferenza per le localizzazioni agli incroci stradali. A Wythenshawe è stata adottata questa seconda alternativa. Gli spazi commerciali sono collocati a incroci stradali secondari, a intervalli di circa un chilometro, così che nessuno dovrà spostarsi per più di metà di questa distanza per fare acquisti. Per superare gli intralci al traffico determinati dai veicoli che si fermano davanti ai negozi, questi sono stati arretrati dalla strada e muniti di aree a parcheggio al di fuori della carreggiata. Collocato così agli incroci stradali, ciascun centro commerciale attira i propri clienti da quattro neighbourhood units anziché da una sola come nel caso dei nuclei posti al centro dei vicinati. Uno dei vantaggi è che si rende possibile maggior varietà di negozi.

La maggior parte delle zone residenziali di Wythenshawe è disegnata secondo le normali linee di una città giardino. Inserite in tre o quattro punti diversi, ci sono sezioni a forma esagonale, secondo le linee auspicate da A. R. Sennett e, in Canada, da Noulan Cauchon. È stato dimostrato che con una struttura su base esagonale si risparmia circa il 10% in costi stradali rispetto a quella su base rettangolare a scopi residenziali. Un ulteriore vantaggio è che tutte le curve sono ad angoli ottusi, e quindi più facili da affrontare per i veicoli a motore, in particolare perché si amplia il campo visivo.

Le parkways a Wythenshawe sono un riconoscimento dell’era dei motori, e una sfida all’indiscriminato sviluppo a nastro che si verifica su dimensioni immense in questo e in altri paesi. Esse sono state inserite nel piano in primo luogo come soluzione al problema del traffico, e poi come elemento di valore estetico. Le caratteristiche principali della parkway, dette in breve, sono le seguenti: una strada di traffico al centro, con strisce a parco su entrambi i lati; nessun edificio affacciato sulla carreggiata, lasciando così libera la strada da veicoli in sosta e da quelli che entrano ed escono dalle case creando intralci al traffico; percorsi pedonali e alberi nelle strisce a verde; infine isole di traffico a favorire un “flusso continuo”, o sistemi di rotatoria agli incroci, collocati a intervalli radi.

Le isole sono di varie forme, determinate dalle condizioni locali del traffico, dagli angoli degli incroci stradali, dalla topografia dagli immediati dintorni, e si accompagnano a isole sussidiarie, come mostrato nella Figura 3. Queste isole minori separano il traffico in corsie a senso unico prima che raggiunga l’isola centrale e, secondo l’opinione di Barry Parker, sono elementi essenziali negli incroci di questo tipo.

Eliminando i veicoli in sosta che, su entrambi i lati della strada nell’insediamento a nastro, fanno sì che la strada perda metà della propria efficienza come arteria di traffico, è stato possibile ridurre al minimo la sezione della carreggiata nella parkways, utilizzando i risparmi effettuati sui costi per la creazione delle strisce a parco. Un’altra importante considerazione è che si rende possibile una velocità di traffico molto maggiore, in assenza di interferenze. Le isole in corrispondenza degli incroci lo rallentano, ma non diminuiscono l’efficienza delle strade.

Nella predisposizione delle parkways di Wythenshawe è stata colta l’occasione di aumentare la loro attrattività, e insieme l’efficienza, come caratteristiche coordinate, facendole scorrere nei pressi di aree boschive esistenti, e in stretta relazione con gli altri vari spazi verdi della cittadina.

La fotografia [ non disponibile qui n.d.T.] mostra il progetto nelle fasi iniziali. Da allora sono stati fatti considerevoli progressi. Sono state realizzate molte strade e costruito un gran numero di case, scuole, negozi e chiese. Prima del 1934 si erano stabilite qui circa 25.000 persone. La densità residenziale varia da una casa per ogni sei ettari nella fascia di verde agricolo a trenta abitazioni ettaro in altre zone.

Nelle aree industriali collocate sottovento rispetto alla città, e che si stanno edificando rapidamente, non si intende consentire attività che producano quantità eccessive di fumo, odori, polvere o vapori. Le imprese già localizzate comprendono produzione di apparecchi elettrici, dolciumi, panetteria, magazzino per il latte, maglieria e ricamo.

Wythenshawe da molti punti di vista è un esperimento audace, o meglio l’applicazione di vari principi generali di pianificazione da molto tempo auspicati dagli urbanisti, ma che prima d’ora non erano mai stati applicati su scala tanto vasta. Ci sono altri progetti in questo paese con la propria parkway, o la neighbourhood unit o la fascia di verde agricolo e così via, ma in nessun altro caso esistono tutti questi elementi integrarti e combinati a formare un’entità autosufficiente. Il tempo mostrerà se le grandi realizzazioni residenziali evidentemente necessarie in Inghilterra saranno sviluppate secondo le linee di Wythenshawe. Le indicazioni al momento sono che in molte di esse, in particolare quelle di Londra, ci si sta sforzando di concentrare l’edificazione in unità distinte anziché continuare lo sviluppo continuo come avvenuto da dopo la guerra. Il recente rapporto del Departmental Committee on Garden Cities and Satellite Towns, sottolinea la necessità di cambiare metodi in questo senso.

Nota: soprattutto per leggere meglio le immagini, allego un file PDF con la traduzione e le figure 1,2,3. Una lettura integrativa a questa descrizione degli anni '30 (ahimé non disponibile online) è certamente E.D. Simon, Rebuilding Britain: a Twenty Year Plan, Victor Gollancz, Londra 1945. Se sarà possibile, in futuro ne metterò a disposizione online qualche estratto tradotto (f.b.)

I crolli di Agrigento - con le quasi ottomila persone ridotte al lastrico, i quasi 20 miliardi che son già costati allo Stato e la somma incalcolabile di sacrifici umani vanificati - ripropongono in termini decisamente drammatici il problema della disciplina urbanistica ed edilizia in Italia.

Si è parlato di “consapevole attentato alla pubblica incolumità” perché erano note le condizioni del terreno, scavato da gallerie e di natura franoso (per non dire della opportunità di lasciare intatta quella zona verde di Agrigento alta, splendido affacciamento sulla Valle dei Templi). La stampa di tutti i colori è tornata a denunciare la ormai endemica arrendevolezza delle pubbliche amministrazioni, l’affarismo senza scrupoli, l’impreparazione e l’impreveggenza, la solita mancanza di piano regolatore vincolante, i regolamenti edilizi votati alle deroghe abusive e via dicendo. È stata rispolverata l’inchiesta Di Paola-Barbagallo del 1964, con il rapporto circostanziato ed “estremamente grave” che la concludeva puntualizzando pericoli e responsabilità, ed approdato nel solito vaniloquio; qualcuno ha richiamato l’attenzione sul Villaggio Ruffini a Palermo dove le condizioni sarebbero perlomeno preoccupanti, e poi le ferie estive hanno proposto altri argomenti di interesse in attesa che “l’inchiesta” dica alla opinione pubblica a chi vadano attribuite le responsabilità.

E a quanti altri casi analoghi di abusi edilizi, perpetrati un po’ dappertutto sul nostro territorio - meno clamorosi, forse, per non aver avuto esito catastrofico - si potrebbe accennare sfogliando la stampa quotidiana! La degradazione - ad esempio - molte volte deplorata, di tanta parte delle nostre coste: l’assenza di un piano intelligente ha consentito la dissennata proliferazione di case e villette, squallide o pretenziose, di muraglioni e petraie che hanno distrutto, col verde, la continuità naturale tra mare ed entroterra da Rapallo a Ventimiglia; e così per Fregene, Capocotta, Migliarino.

Scandali edilizi a Catania tra il 1960 ed il, ‘64, con relativo processo celebrato, per legittima suspicione, presso il tribunale di Napoli nel marzo-aprile scorso; e aRoma, a Napoli, a Milano, a Genova e un po’ dovunque hanno proliferato e proliferano quartieri semi-urbani, chiamati “economici” e non si sa bene perché dal momento che costano cifre enormi allo Stato, alla comunità e - in termini di costi umani - a chi va ad abitarci, quartieri messi su senza piani organici e senza le attrezzature essenziali, con strade inadeguate e poco verde stento. E son tanto diffusi questi nefasti dell’edilizia e, tanto spesso imbastiti e realizzati sulla base di ingredienti cronicamente identici - improvvisazione, compromesso, speculazione, ecc. - che quasi appaiono condizione normale.

Ma - ci si sente sovente chiedere da stranieri - come è stato possibile tutto questo?

Nel processo dinamico che investe attualmente l’uomo e la società prevalgono fatti economici che, mistificati, sono assurti da mezzi a fini oscurando le istanze umane. Nella prospettiva - forse - di un miglior vivere futuro, che pone come condizione sacrifici e rinunce umane rilevanti, si sta strumentalizzando la vita sociale per fini che hanno con il miglior vivere degli uomini insieme, un rapporto molto ipotetico e che agevolano il crearsi di catene di interessi - non sempre “puliti” - e consentono l’operare esasperato e rovinoso della speculazione.

Che l’economia, almeno nel momento strettamente tecnico, possa - e forse debba - prescindere nelle scelte da considerazioni umane, può trovare una giustificazione nella sua stessa natura; ma nel “momento politico” della pianificazione - che è di verifica - dovrebbe inserirsi il vaglio delle scelte alternative di sviluppo a partire dall’uomo, dato che gli scopi della pianificazione sono fondamentalmente sociali e che la risultante forma fisica della città esercita sull’uomo una presa sensibile che, senza essere determinante, condiziona profondamente la vita dei popoli.

Allo stato attuale delle cose, il termine “politico” suona evocatore di lungaggini burocratiche, di sovrapposizione gerarchica di funzionari con competenze non sempre definibili ma sempre condizionanti, di un mondo impersonale in cui tutti si agitano e nessuno risulta pienamente responsabile. Non che non si diano un male notevole per far funzionare in qualche modo il sistema, per evitare il peggio e provvedere al più urgente, ma, e per la molteplicità dei poteri di controllo e di decisione e per il fatto che molte fra le leggi che dovrebbero disciplinare l’attività urbanistica ed edilizia sono sopravvivenze da un contesto sociale largamente superato con il mutare delle condizioni ed istanze della vita associata, accade come nel noto apologo: smontate un orologio, riponete nella cassa i vari pezzi e scuotete il tutto: farà ancora rumore ma in quanto a segnare l’ora ... il discorso è diverso!

Il senatore Zanier, nella sua relazione al Senato sul disegno di Legge per “la conversione in legge del decreto-Legge 6 settembre 1965, n. 1022, recante norme per l’incentivazione dell’attività edilizia”, tra “le principali cause che hanno determinato l’attuale situazione di crisi del settore edilizio”, sottolineava: “1) la mancanza di una moderna, legislazione urbanistica [...] 2) la mancanza di una legge organica che elimini la legislazione frazionata attualmente vigente nel settore delle costruzioni di carattere economico-popolare [...]; 3) le superate strutture legislative vigenti riguardanti la progettazione, la direzione e contabilità e il collaudo delle opere pubbliche [...]” ed auspicava “l’apprestamento di un nuovo quadro legislativo che disciplini organicamente tale materia adeguandola alla dinamica dei tempi moderni”.

A conferma, può essere istruttivo un brano dell’intervista del giornalista Mario Cervi al Sindaco di Agrigento, Ginex:

”La sua amministrazione ha emanato ordini di demolizione?

- Ne ho emanati diversi.

Ne può citare uno solo che sia stato eseguito?

- Nessuno.

Perché riesce tanto difficile o, piuttosto, impossibile attuare gli ordini di demolizione?

- Perché la pratica, dopo la decisione del Comune, segue un iter lungo e complesso. La legge è farraginosa, offre molti appigli a chi resiste alle ingiunzioni.

La condizione delle leggi che disciplInano l’edilizia e l’urbanistica si configura nei seguenti termini: la espropriazione per causa di pubblica utilità viene regolata generalmente dalle disposizioni della Legge 25 giugno 1865 n. 2359, coordinamento delle disposizioni contenute nell’art. 29 dello Statuto fondamentale del Regno e negli artt. 436 e 438 dell’abrogato codice civile, modificata da quella del 18 dicembre 1879 n. 5188; in casi speciali si fa capo alle disposizioni contenute nella legge 15 gennaio 1885 n. 2892; nota con il titolo “legge per il risanamento della città di Napoli”, emanata a seguito del colera che infierì in quella città nell’estate del 1884, che, a facilitare la demolizione di case insalubri, determinava norme per l’indennità di esproprio che invogliassero i proprietari dei “bassi” a vendere (norme adottate per stabilire l’indennità di esproprio nella recente modificazione della Legge 18 aprile 1962 n, 167) ; tutta l’edilizia popolare ed economica è regolata dal Regio Decreto 28 aprile 1938 n. 1165, qua e là modificato da successive disposizioni; dell’inadeguatezza della legge urbanistica 17 agosto 1942 n. 1150 si è parlato diffusamente in questi ultimi anni ed anche su questa rivista.

Se si aggiunge a questo quadro - non certo allegro - la considerazione che le finanze locali sono spesso assolutamente inadeguate ai bisogni e non consentono di gestire una città moderna e tanto meno di programmarne l’avvenire, si ha una approssimativa idea delle inefficienze che assillano la città d’oggi.

C’è da deplorare, d’altra parte, l’assenteismo della gran massa – e di persone con funzioni determinanti per l’avvenire del Paese - nei confronti dei programmi e interventi di sistemazione territoriale che impegnano il futuro della città ed incidono profonda:mente, in maniera diretta o indiretta, sull’avvenire della collettività e dei singoli. È vero che parte, almeno, di tale disinteresse va ascritta all’assenza quasi totale di strutture di informazione seria ed accessibile sui problemi della città, mentre è frequente la tendenza, nella stampa di grande tiratura, a presentare un certo tipo di progetti urbanistici, accentuandone il carattere utopico: si son visti, ad esempio, in rotocalchi vari, articoli con poco testo e molte illustrazioni di previsioni fantascientifiche della Parigi del 2000 o delle cosidette “città ideali” di Paolo Soleri (la “ Mesa City”), di Paul Maymont (la “ città verticale”), di Walter Jonas (la città-imbuto galleggiante o no) e via dicendo, mentre sono passati ignorati (fuori della stampa specializzata) tentativi di sistemazione validi, anche se non perfetti, come il piano di Amsterdam, la ricostruzione di Amburgo, gli studi per la cittadina di Hook, ecc.

Ma, l’assenteismo a cui si accennava, va in molta parte a carico della prassi vigente nelle scelte che riguardano il futuro della città: il cittadino si sente escluso dai tecnocrati che - in nome degli imperativi di ordine tecnico e con il pretesto della difficoltà, dà parte del cittadino, di pronunciarsi su problemi divenuti effettivamente sempre più complessi - tendono ad eliminarne la libera partecipazione al processo formativo della città, che è pur sèmpre creazione collettiva cosciente e perenne e che, in quanto spazio di comunicazioni e relazioni sociali, di formazione culturale e di sviluppo spirituale della persona, ha peso rilevante sulla condizione umana e può, per inadeguatezza di strutture, diventare ostacolo alla conquista delle libertà fondamentali.

Per la parte di responsabilità che toccherebbe ad urbanisti ed a progettisti in genere, va notato che, se è ancora diffusa - a causa della formazione che dà la scuola nel suo assetto attuale - la tendenza a fare di un progetto urbanistico un’opera personale, compiuta e perciò carente di flessibilità e realismo, mentre il mutato stile di vita stimola a nuove metodologie e contenuti nella ricerca di configurazioni dello spazio come luogo di interrelazioni umane e di correnti di interessi condizionate da localizzazioni fisiche, è ben difficile, per la rapida evoluzione strutturale, giungere a teorie chiare e permanenti ed operare scelte senza il rischio che si rivelino superate quasi nell’atto stesso della loro concretizzazione.

Ma, per cause in definitiva le stesse, la città può soprattutto indurre nei suoi abitanti condizioni di vita deprecabili per altro verso.

Quando si osserva che lo spazio urbano si rivela liberatore o alienante a seconda che suscita, in chi deve viverci, reazioni di accettazione o di rifiuto, ci si riferisce alla necessità di creare un ambiente urbano quanto più favorevole possibile alla vita, non soltanto fisiologica, ma psicologica e spirituale dell’uomo.

Alla XVIII Giornata internazionale della sanità, celebrata a Roma nell’aprile scorso e dedicata al tema “l’uomo nella grande città”, il dottor M. G. Candau ribadiva appunto l’urgenza di creare nella città “un ambiente più favorevole allo sviluppo dell’uomo” se non si vuole che “la sanità mentale in particolare continui ad essere minacciata dalle nevrosi ed affezioni psicosomatiche conseguenza dell’agitazione, del ritmo, della febbre delle nostre città”.

Il rischio, per nulla chimerico, della attuale fase di passaggio verso una nuova forma di organizzazione sociale, è che la vita associata risulti, come ho già detto, strumentalizzata per fini estranei ad un miglior vivere degli uomini insieme, in nome di una “ragione superiore” - qual’è quella che considera l’uomo unicamente come produttore e consumatore - proclamata oggettiva e razionale ma che in effetti snatura la reale dimensione umana.

Chi più chi meno, tutti abbiamo esperienza - e risentiamo negativamente - dei mutamenti radicali intervenuti nella vita individuale e collettiva: del moltiplicarsi dei rapporti di tipo “funzionale”, sempre più continui ed assorbenti, a carico delle relazioni dirette, “personali”; della presa subdola e tirannica esercitata dalla rete delle interdipendenze sociali che sottrae l’insieme delle attività e gran parte della vita dei singoli alla “vita privata” per “servire al complesso”, lasciando alla vita privata stessa soltanto residui, compensazioni o evasioni. Tutto ciò traumatizza l’unità personale dell’uomo urbano riducendolo alla passività.

La consapevolezza, più acuta oggi, della quota di incertezza e di aleatorietà che entra nell’esito delle iniziative, per lo svolgersi tanto più complesso e rapido delle realtà che ci circondano, esaspera il senso di insicurezza e di instabilità.

Son lecite tutte le riserve possibili sull’uso oggi frequente del termine “alienazione” per caratterizzare la condizione soggettiva comune all’uomo della società attuale, sta di fatto però che per tutto questo l’uomo si sente estraneo al mondo che si va costruendo, si sente strumentalizzato e ridotto a “cosa”, frustrato nei suoi poteri di partecipazione attiva e vitale.

Se si aggiunge a quanto detto l’incidenza nefasta che finisce per avere sul comportamento del cittadino la somma delle aggressioni foniche, psicologiche, d’ambiente - case inospitali, spazi urbani casuali e via dicendo - ci si rende conto della fondatezza dei timori del dott. Candau.

È noto che non soltanto gli sforzi fisici, ma anche fenomeni puramente psichici - quali conflitti mentali, disinteresse o monotonia - possono generare stati di stanchezza nervosa caratterizzata - tra altre - da sensazione di inibizione generale. In sé, la sensazione di stanchezza non è spiacevole a patto di potersi rilassare e riposare; diventa però persino tortura quando non si ha questa possibilità. Questa semplice osservazione indica il senso biologico della stanchezza: ha una funzione protettrice contro lo strapazzo e l’usura, paragonabile, perciò, ad altre sensazioni a funzione analoga, quali la fame e la sete.

Ogni sorta di cause - che spesso non si somigliano affatto tra loro - può occasionare stanchezza nervosa: lavori che esigono sforzi particolari, concentrazione, abilità; attività fisiche o psichiche di lunga durata; lavori di tipo ripetitivo in ambiente monotono; caldo o umido o rumoroso; condizioni di illuminazione insufficiente; forti responsabilità; conflitti sociali e fattori psichici somiglianti; stati di salute precaria; alimentazione insufficiente. Nella vita odierna di tutti i giorni, l’uomo è esposto non soltanto ad un solo, ma in genere a molti di questi fattori : la stanchezza nervosa che ne consegue è il risultato della somma di questi. sforzi fisici, mentali e psichici.

La stanchezza nervosa, inoltre, si accompagna, in certa misura, ad una perdita di inibizione che provoca aumento di errori ed anche di incidenti: quando la stanchezza nervosa diventa condizione quotidiana ed i periodi di recupero non sono adeguati agli sforzi dell’organismo, si produce uno stato cronico di stanchezza che si manifesta non solo con un calo delle prestazioni psico-fisiologiche, ma anche con sintomi psichici e disturbi del sistema nervoso vegetativo; la stanchezza nervosa diventa allora sensazione di disagio continuo che ha ripercussioni sull’emotività dell’uomo - irritabilità psichica aumentata (cattivo umore), tendenza alle reazioni depressive, apatia e mancanza di iniziativa, ansietà non motivate e così via - e si manifesta con insonnie, tendenza a disturbi circolatori ed altre manifestazioni osservate in molte altre forme di nevrosi.

L’esperienza quotidiana insegna che le sensazioni di stanchezza possono scomparire quando si sostituisce l’attività che ha prodotto la stanchezza con una attività nuova, quando si cambia ambiente, quando un mutamento risveglia l’interesse, quando lo stato emotivo subisce una modificazione favorevole e via dicendo.

Già ho avuto modo di sottolineare l’importanza, nella progettazione dell’abitazione e del suo intorno, di rendersi conto che “il nostro organismo, e soprattutto il nostro sistema nervoso, per quanto dotati di risorse incalcolabili, sono pur sempre soggetti all’usura e che i periodi di attività debbono alternarsi con periodi di distensione e di recupero, in equilibrata distribuzione, perché le reazioni fisiologiche e psichiche si svolgono sempre sotto forma di oscillazioni, di alternanze di ritmi vitali, di successioni di fasi nello stesso tempo opposte e complementari - come in natura la successione delle stagioni l’alternarsi del giorno e della notte- : ad una fase di espansione, di adattamento; segue una fase di ripiegamento e di recupero”, da cui, per esempio, nella disposizione interna dell’abitazione, la previsione di “zone funzionalmente distinte, benché interdipendenti: zona diurna, più o meno ampiamente aperta sull’esterno, esposta in qualche modo a variazioni climatiche ed invasioni ambientali - per quanto attutite - che corrisponda alla fase di espansione, di contatto con l’esterno; una zona notturna, più isolata e protetta, che offra all’organismo in riposo distensione e ripristino del potenziale di adattamento; previsione di zone di transizione,di spazi “semi-aperti” nell’organizzazione di zone residenziali, che siano anche zone di passaggio pedonale e di sosta, differenziate nella struttura e nell’orientamento, intese a ritardare l’immissione delle circolazioni interne in zone di scorrimento più turbolento”.

È diventato ormai luogo comune la deplorazione della squallida disumanità dei casoni di periferia, degli agglomerati suburbani ed anche urbani dove la concentrazione umana è congestione, l’aria e la luce nei locali interni è un mito, dove l’introspezione viola qualunque intimità e che il grigiore piatto - che la grottesca pretenziosità di certi arzigogoli applicati in facciata rende ancora più squallido - destituisce di ogni attrattiva. Lì, non è difficile cogliere i sintomi provocati sugli esseri umani dalla gregarizzazione eccessiva: i noti “conflitti di pianerottolo” suppongono, in un certo numero di casi, predisposizioni mentali morbose, ma molto spesso sono originati dall’aver misconosciuto nella progettazione, l’incidenza sullo stato morale e affettivo degli individui di decisioni parziali ed inumane, ed è lo stato morale che regola, nella maggior parte dei casi, la pace e la salute.

Quanti malintesi, vessazioni reciproche e conflitti sono originati dai rumori trasmessi da un appartamento all’altro dalle strutture non isolate e dai muri troppo sottili! I rumori dei vicini, spesso più che i rumori della strada, appaiono più insopportabili sino ad essere considerati alla stregua di un’offesa: le reazioni vanno dalla rappresaglia al tentativo di incriminazione - e non si tratta di una iperbole - della persona o persone meno simpatiche dell’immobile. Se questi stati psichici non giungono il vere psicosi, esasperano i riflessi che insorgono nell’organismo del solitario che si sente tale perché gli si sono sottratte le possibilità di iniziativa e di vita autonoma. E non è adire che “finiranno per adattarsi”, perché nella vita sociale la teoria dell’adattamento all’ambiente è profondamente sbagliata ed il disadattamento sfocia, più spesso di quanto sia possibile rilevare, nel crimine.

A parte le fascino se utopie ipotizzanti città su misura, in equilibrio tra città e campagna, questo stato di cose richiede da chi presiede al futuro delle città- che sia l’urbanista, l’amministratore o i vari gruppi di pianificatori - la preoccupazione, più che di delimitare metricamente ambienti, di creare per via di umanità spazi che servano e nobilitino la vita, dando valore alla convivenza ed al rapporto con gli oggetti e l’ambiente. Altrimenti la loro fatica si risolverà in sterili esercitazioni teoriche ed i loro “modelli di riferimento” costituiranno soltanto premesse disumanizzanti agli interventi di sistemazione possibili. Nessuno attende dai pianificatori il capolavoro - salva l’ambizione dei pianificatori stessi - ci si attende almeno una urbanistica ed una edilizia “oneste”, in cui risulti impegnata la loro “moralità” e che tenga perciò conto delle istanze fondamentali della vita umana.

La dimensione umana, nel problema degli insediamenti, ha e deve mantenere carattere prioritario: attraverso un arricchimento reciproco e la consapevolezza di partecipare ad una comune cultura, con la protezione non solo materiale ma spirituale del capitale umano, essi costituiscono l’ambiente nel quale la persona umana deve realizzarsi nella sua integrità fisica e spirituale. Se ragioni economiche impongono ridotte superfici di alloggio, nulla può giustificare la carenza di misure igieniche e, d’altra parte, lo spazio urbano dovrebbe garantire, con una adeguata rete di servizi sociali, quel che la complessità del mondo moderno ed il mutato stile di vita richieggono e che l’abitazione non è in grado di offrire.

È stato giustamente scritto - e mi sfugge da chi: “Siamo persone e ciò è tremendamente complesso ed assolutamente semplice: siamo esseri in solitudine e simultaneamente, inseparabilmente, ineluttabilmente siamo esseri comunitari.

”L’uomo è inserito in una comunità di esseri e di cose con le quali sta - o ha la possibilità di essere - in relazione. Per effetto di questo inserimento l’uomo esercita una interazione costante, un coesistere con il suo intorno. Da questo, e per l’amore del prossimo, deriva una responsabilità: ogni nostro gesto raggiunge l’esistenza di ciascun essere che ci circonda, sino ad implicare un mutamento nei dati di quell’esistenza...

”Questa coesistenza postula la incarnazione nella società per diventare coesistenza effettiva, efficace: a cosa serve una responsabilità riconosciuta se non è incarnata in una azione (fisica o spirituale; o meglio: fisica e spirituale)? Soltanto così la nostra responsabilità sarà vera coesistenza e partecipazione alla realtà comune”.

Se l’architettura e l’urbanistica - e come attività creatrici e come discipline - perdono di vista che il loro scopo finale è il servizio dell’uomo-persona la loro opera risulterà fallimentare a tutti gli effetti.

Nota: su temi e approcci paralleli a quelli trattati qui sopra da Giovanni Alessandri, in questa stessa sezione di Eddyburg si vedano i testi di Giovanni Berlinguer e di Carlo Doglio (f.b.)

Data la lunghezza del testo, per chi fosse interessato un file PDF scaricabile, alla fine delle note (f.b.)

Il 1° aprile 1933 è entrata in vigore la nuova legge urbanistica inglese ( Town and Country Planning Act, 1932), che disciplina la formazione e l’esecuzione dei piani regolatori nei territori dell’Inghilterra e della Scozia.

Il provvedimento ha grande importanza non solo perché è il risultato di uno studio accuratissimo, al quale hanno preso parte i più autorevoli urbanisti inglesi (fra essi Raymond Unwin, già Presidente della International Federation for Housing and Town Planning), ma anche perché rappresenta il tentativo forse meglio riuscito fino ad oggi di accordare i diritti dei proprietari con gl’interessi superiori della collettività. Vale quindi la pena di esaminarlo a fondo, anche perché è ben noto con quale meticolosa cura si cerca nei paesi anglosassoni di assicurare la sistemazione degli abitati in modo che risultino rispondenti alle esigenze della vita moderna.

La nuova legge ha modificato, abrogandolo, il Town Planning Act 1925, ma al pari di questo, si riallaccia per determinate procedure alle leggi sull’espropriazione, sull’igiene, sulla costruzione di case e sull’ordinamento delle Amministrazioni locali ( Acquisition of Land Act, 1919; Public Healt Acts, dal 1875 al 1926; Local Government Act, 1894; Housing Act, 1925; Local Government Act, 1929).

Essa fa anche salve le disposizioni speciali emanate a favore della Capitale e particolarmente quelle contenute nei seguenti provvedimenti: a) Metropolis Management Acts, 1855-1893; b) Common Council under the City of London Sewers Acts, 1848-1897; c) London Building Act, 1930; d) London Squares Preservation Act, 1931.

Secondo quanto è affermato nel paragrafo di premessa, il Town and Country Planning Act si propone di:

1) autorizzare la compilazione di piani aventi per iscopo la costruzione su aree urbane o rurali e l’esecuzione delle relative sistemazioni ;

2) assicurare la protezione di bellezze panoramiche (rural amenities) e la conservazione di edifici e altri oggetti interessanti o di particolare bellezza;

3) imporre ai proprietari di immobili compresi nel territorio, cui il piano si riferisce, contributi in relazione ai vantaggi conseguiti;

4) facilitare l’acquisto di terreni per città-giardino.

Il complesso delle norme pone anzitutto in evidenza come la necessità di garantire l’ordinato sviluppo degli abitati abbia indotto il legislatore a conferire alle autorità incaricate di sovrintendere allo svolgimento dell’attività edilizia poteri ben più larghi di quelli che i nostri ordinamenti assicurano ai Comuni e agli organi statali cui siffatto compito è affidato. La legge infatti contempla forme di espropriazione con procedura assai più semplificata (pur con la garanzia, più formale che sostanziale, della conferma da parte del Parlamento) quando il bisogno di controllare lo sviluppo di una città obblighi l’autorità locale ad entrare in possesso di beni privati: ammette che attraverso i piani regolatori possano essere imposte servitù assai gravi sugl’immobili, senza diritto a compenso: affida la determinazione delle eventuali indennità non ai tribunali ma a semplici arbitri: accorda alle amministrazioni locali la partecipazione in misura più che abbondante all’eventuale vantaggio derivato ai beni privati dall’approvazione e dall’esecuzione dei piani.

Una posizione certamente molto favorevole è quindi assicurata alle autorità incaricate della formazione e della esecuzione dei piani regolatori, posizione della quale le amministrazioni comunali italiane sarebbero assai felici poter usufruire.

Vero è che in pratica il rigore delle suddette disposizioni risulta molto attenuato. Poteri altrettanto ampi esistevano infatti anche con la legge precedente e ciò non ha impedito di tendere nella loro applicazione a turbare il meno possibile gl’interessi privati : tuttavia il fatto che il Town Planning Act, 1932 ha reso più gravi le restrizioni che ai patrimoni privati possono essere portate con i piani regolatori sta a dimostrare che presso gl’inglesi il diritto di proprietà ha cessato nel campo urbanistico di essere assoluto.

La materia contenuta nella predetta legge può essere raggruppata come segue: 1) Contenuto dei piani regolatori - 2) Enti autorizzati a compilarli - 3) Procedura per la formazione ed approvazione - 4) Esecuzione dei piani - 5) Disciplina dell’attività edilizia 6) Indennità. - 7) Contributi - 8) Espropriazione - 9) Provvedimenti a favore delle città giardino.

Contenuto dei piani regolatori.

I piani regolatori tendono a porre le amministrazioni locali in grado di controllare1o sviluppo delle costruzioni per assicurare la realizzazione delle migliori condizioni possibili nei riguardi dell’igiene, dell’estetica e della comodità, garantire la conservazione di bellezze naturali e di edifici o altri immobili architettonicamente, storicamente o artisticamente interessanti e in generale proteggere le cose esteticamente importanti situate sia nell’abitato, sia in zone rurali (art, 1 ).

Essi possono comprendere tanto aree nude come zone già coperte da costruzioni. Le aree nude possono essere incluse nel piano quando su di esse si manifesti la tendenza ad un’attività edilizia ovvero quando debbano essere utilizzate nell’interesse di costruzioni esistenti o di quelle che potranno sorgere in avvenire, quando cioè siano necessarie per assicurare la disponibilità di spazi liberi, di parchi, campi sportivi o di giuoco, vie di comunicazione, sede di impianti per servizi pubblici, ecc. Le zone costruite possono essere oggetto di disciplina da parte del piano regolatore quando ciò serva ad assicurare un effettivo miglioramento delle loro condizioni o quando in esse siano compresi edifici aventi speciale interesse dal punto di vista storico, artistico o architettonico.

Il Town Planning Act 1925 limitava a questo secondo caso la possibilità di inclusione di nuclei edilizi nel piano regolatore, ed era perciò da considerarsi più restrittivo dell’art. 86 della legge italiana sull’espropriazione per pubblica utilità, che concede ai Comuni relativamente popolosi di poter redigere piani regolatori anche per rimediare alla viziosa disposizione degli abitati dal punto di vista dell’igiene e della viabilità.

Il Town Planning Act 1932 ha tolto ogni limite all’inclusione di edifici esistenti, e quindi esso garantisce meglio della legge italiana la formazione di aggregati edilizi razionalmente disposti, in quanto fornisce poteri all’amministrazione locale per evitare che le bellezze esistenti vadano disperse: ciò che l’esperienza dimostra essere tanto facile a verificarsi quando non possa adoperarsi l’arma del piano regolatore ma debba farsi ricorso a leggi speciali, quale è presso di noi la legge 11 giugno 1922, n. 778 sulla tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico.

In Italia la facoltà di compilare piani regolatori interni venne limitata dalla legge 25 giugno 1865 ai Comuni con popolazione accentrata non inferiore a 10.000 abitanti, in quanto si ritenne che solo in nuclei abitati con caratteristiche di centro urbano la difettosa disposizione degli edifici potesse dar luogo a inconvenienti seri dal punto di vista del traffico e dell’igiene. La restrizione però fu principalmente motivata dal timore che di un potere così delicato potesse esser fatto abuso da parte di piccoli Comuni, i quali, dando eccessiva importanza a inconvenienti di scarso rilievo in agglomerati edilizi minori, avrebbero potuto essere indotti a imporre pesi gravi e ingiustificati alla proprietà costruita. Preoccupazioni siffatte non esistevano invece per le zone di sviluppo dell’abitato, in quanto agli immobili ivi esistenti il piano non avrebbe recato che il vincolo di una disciplina più rigorosa dell’attività edilizia: e ciò spiega perchè la legge suddetta stabilì una certa distinzione tra piani regolatori e piani di ampliamento, dando ai primi quasi un carattere di eccezione.

Possiamo ritenere che in un paese come l’Inghilterra, dove si cerca, almeno formalmente, di rispettare quanto più possibile il diritto di proprietà, considerazioni analoghe a quelle suesposte abbiano indotto in un primo tempo il legislatore a vietare del tutto i piani regolatori per i nuclei edilizi esistenti, ammettendo solo parziali trasformazioni, dettate da ragioni particolarmente gravi dal punto di vista storico o artistico.

In seguito però si è dovuto costatare che non è possibile provvedere alla città futura senza tener conto di quella esistente, in quanto non si può considerare la vita di un quartiere avulsa da quella dell’intero agglomerato edilizio di cui fa parte. La pratica ha posto in evidenza che i nuovi nuclei abitati alla periferia influiscono grandemente su quelli centrali, aumentandone il traffico, trasformando l’attività commerciale e industriale che in essi si svolge, dando loro e ricevendone mezzi di vita.

Il Town Planning Act 1932 ha finito quindi per ammettere, sia pure in modo abbastanza cauto, che il piano regolatore non possa e non debba restringere il campo d’azione alle zone esterne dei centri abitati, ma detti opportune norme per l’intero territorio, che è o sarà in seguito occupato da costruzioni. E poiché la ragione principale di tale determinazione sta nella stretta connessione fra quartieri vecchi e nuovi, è stata bandita dalla legge urbanistica inglese la distinzione fra piano regolatore e piano di ampliamento, introdotta nella legge italiana del 1865, distinzione dimostratasi in pratica dannosa e quindi abbandonata di fatto anche presso di noi in quasi tutti i piani regolatori approvati fino ad oggi.

Secondo i1 Town and Country Planning Act il piano regolatore deve contenere tutte le disposizioni necessarie per assicurare le migliori condizioni di sviluppo edilizio della zona e in particolare fornire norme circa:

- la costruzione di strade esterne o interne e l’eventuale chiusura o modificazione di quelle esistenti;

- la disciplina delle costruzioni di qualsiasi specie;

- la formazione di spazi liberi, sia pubblici che privati, e la riserva di zone per l’impianto di aeroporti;

- la conservazione di alberi o di boschi;

- il divieto di effettuare depositi di rifiuti o l’eventuale loro disciplina;

- l’impianto di fognature e di smaltimento delle immondizie;

- l’illuminazione e l’approvvigionamento idrico;

- l’estinzione o la modificazione di diritti di passaggio o di altri vantaggi relativamente all’uso delle strade;

- la gestione di terreni acquistati dall’autorità locale o dall’autorità incaricata di sovrintendere al piano regolatore.

Esso deve inoltre disciplinare:

- la facoltà della autorità predetta di modificare o demolire ogni opera che impedisca l’esecuzione del piano e di accordarsi a tal fine con i proprietari o di permettere accordi fra questi;

- la facoltà di ricevere somme per l’esecuzione del piano e la gestione di esse;

- l’emanazione di norme complementari intese ad assicurare l’esecuzione del piano e a determinare le penalità a carico dei contravventori;

- il periodo di validità del piano;

- le norme per la riscossione del contributo di miglioria.

I piani regolatori possono infine contenere disposizioni intese a vietare l’apposizione di pubblicità che diminuiscano la bellezza di determinati ambienti, fatta eccezione per quelle riguardanti affari, trattenimenti, aste o vendite che interessino l’immobile sul quale sorgono, purché conformi per grandezza e tipo alle norme contenute nel piano.

Per quanto si riferisce alle costruzioni i1 piano regolatore deve contenere prescrizioni circa il numero degli edifici e la superficie coperta di ciascuno: deve inoltre attribuire all’autorità incaricata dell’attuazione del piano la facoltà di regolare con disposizioni di carattere permanente la massa, l’altezza e l’architettura dei fabbricati e i materiali da impiegare (quando ciò sia necessario tenuto conto dell’altezza da raggiungere), nonché l’uso dei fabbricati costruiti o da costruire. Sono esclusi da tali disposizioni gli edifici destinati ad usi agricoli. Com’é ovvio rilevare, la legge urbanistica inglese è ben più larga di quella italiana per quanto riguarda la considerazione dei bisogni da soddisfare attraverso la formazione del piano regolatore. La legge italiana ha ammesso che si possa col piano provvedere solo al miglioramento delle condizioni igieniche e di viabilità dell’abitato esistente e tendere ad assicurare una comoda e decorosa disposizione dei futuri quartieri. Il legislatore inglese ha riconosciuto, invece, che le autorità locali devono preoccuparsi di conferire all’aggregato edilizio una sistemazione tale che la vita dei cittadini vi si possa svolgere nelle migliori condizioni ed ha quindi considerato come materia di piano regolatore l’organizzazione di tutti i servizi pubblici, dando alle autorità stesse la possibilità di imporre ai beni privati i vincoli che all’uopo si rendono necessari. I voti, che in questo senso hanno formulato gli urbanisti italiani in vista dell’emanazione di una nuova legge sui piani regolatori, possono quindi, alla stregua dell’esperienza inglese, considerarsi perfettamente giustificati.

Enti autorizzati a compilare piani regolatori.

Il Town Planning Act 1925 faceva obbligo a tutti i boroughs e ai distretti urbani, che al censimento 1921 risultarono avere una popolazione di più di 20.000 abitanti, di provvedere alla formazione del piano regolatore non più tardi del 1° gennaio 1929: ma per quanto l’attività delle Amministrazioni municipali inglesi in questo campo sia stata negli ultimi anni molto intensa, il suddetto termine trascorse senza che la norma avesse ricevuto integrale applicazione.

La legge del 1932 ha confermato il suddetto obbligo, fissando come termine ultimo il 31 dicembre 1938, ed ha inoltre, dato facoltà al Ministro di obbligare anche altri distretti con popolazione inferiore a procedere alla compilazione del piano quando non lo facciano spontaneamente e quando, a suo giudizio, ricorrano le condizioni che fanno ritenere opportuna tale compilazione [1].

Il legislatore inglese ha quindi risoluto in senso affermativo la questione, tuttora in piedi presso di noi, se sia opportuno imporre a determinati Comuni l’obbligo di compilare il piano regolatore, senza voler affrontare un esame a fondo di tale delicata materia, non possiamo fare a meno di rilevare come questa soluzione sia quanto mai opportuna. Il piano regolatore, pur senza caricare la proprietà di pesi insostenibili, offre la possibilità di adottare le cautele necessarie perché le autorità locali possano migliorare le condizioni attuali dell’abitato e renderlo adatto a soddisfare le esigenze future della cittadinanza. Siccome, peraltro, la sua formazione rappresenta nella generalità dei casi un problema assai complesso, il cui studio reca una somma di lavoro e di responsabilità tanto gravi da indurre molti amministratori a disinteressarsene, l’imposizione dell’obbligo risulta, più che utile, addirittura indispensabile.

Le autorità locali inglesi possono procedere esse stesse alla compilazione del piano ovvero delegare tale compito al Consiglio di Contea, trasferendogli tutti i poteri che la legge loro accorda, eccettuato quello di contrarre prestiti e di imporre tasse. La delega può esser fatta sotto certe condizioni e limitata ad un periodo più o meno lungo ovvero a tempo indeterminato. Dell’accordo e delle sue eventuali variazioni deve esser data comunicazione al Ministero dell’Igiene [2].

La decisione di procedere alla compilazione del piano può essere adottata d’iniziativa dell’autorità locale competente oppure su richiesta dei cittadini interessati, i quali hanno facoltà di sottoporre all’esame dell’autorità stessa progetti da loro compilati per la sistemazione di tutto o parte del territorio costituente il distretto.

I cittadini possono anche presentare i loro progetti al Ministro dell’Igiene, il quale, ove li ritenga accettabili, ordina all’autorità locale di adottarli.

Tanto in questo caso come per qualunque altro invito relativo all’adozione di decisioni riguardanti la compilazione del piano, decorso il termine prefisso nell’ordinanza, il Ministro può compilare ed approvare esso medesimo il progetto. Qualora trattisi di un distretto urbano con popolazione inferiore ai 20.000 abitanti può anche dare incarico al Consiglio di Contea di adottarlo, con le modificazioni eventualmente necessarie, in luogo e vece del district council o del borough council, cui spetterebbe per ragioni di competenza territoriale. Rimangono a carico del distretto medesimo le spese cui rispettivamente il Ministero o il county council sono andati incontro per il provvedimento d’ufficio.

Di tutte le proposte relative alla formazione di piani viene data notizia al Consiglio di Contea, il quale deve anche essere consultato in merito all’opportunità di compilare i piani e alla determinazione del loro contenuto.

Procedura per la formazione ed approvazioni dei piani.

Nella formazione dei piani si distinguono tre fasi:

a) deliberazione con la quale viene disposta la compilazione del piano;

h) preparazione del piano di massima (preliminary statement);

c) compilazione del piano esecutivo.

La deliberazione con la quale si decide di far luogo alla compilazione del piano deve essere portata a conoscenza del pubblico mediante avviso contenente indicazioni esatte sull’estensione del piano medesimo. I privati possono nel termine prescritto avanzare proposte tendenti ad allargare o restringere i limiti in essa stabiliti, e di tali suggerimenti l’autorità locale deve tener conto nella formazione del piano.

Il preliminary statement, adottato per iniziativa dell’autorità locale competente ovvero su richiesta degl’interessati o per invito del Ministro, stabilisce in linea di massima il contenuto del piano, indicando quali modificazioni saranno apportate alla zona cui si riferisce. Tali modificazioni debbono essere specificate in una carta topografica da depositare nell’ufficio del distretto, perché chiunque possa prenderne visione.

Il preliminary statement deve essere sottoposto all’esame del Ministro entro 18 mesi dalla data in cui diventò esecutiva la deliberazione relativa alla formazione del Piano. Il Ministro l’approva con o senza modificazioni dopo avere accertato che sussistono le condizioni dianzi enunciate circa gli scopi e l’estensione dei piani regolatori, e previo esame delle osservazioni e dei reclami eventualmente presentati.

Approvato dal Ministro, il preliminary statement è portato a conoscenza del pubblico mediante due inserzioni sulla “Gazzetta di Londra” e in un giornale locale alla distanza di una settimana. Di esso inoltre deve esser fatta notifica entro sei mesi ai proprietari e a coloro che risultino pagare l’imposta relativa ai fondi compresi nel piano, ovvero, nel caso d’immobili non soggetti a tributo, a coloro che occupavano i fondi all’epoca dell’ultimo accertamento compiuto per l’applicazione dello Income Tax Act 1918.

Il preliminary statement può essere revocato in qualunque momento, con l’assenso del Ministro, dall’autorità che lo adottò o annullato dal Ministro, previa comunicazione all’autorità medesima, che può in merito presentare osservazioni.

Diventato esecutivo il preliminarv statement, l’autorità locale ha facoltà di preparare il piano regolatore definitivo per l’intera zona o separati piani per ciascuna parte di essa.

Alla deliberazione relativa sono applicabili tutte le disposizioni riguardanti il preliminary statement circa l’approvazione da parte del Ministro, il deposito delle piante e la notifica agl’interessati.

In caso di ritardo nella compilazione del piano il Ministro può, di sua iniziativa o su richiesta degli interessati, prefiggere un termine, decorso il quale procede d’ufficio.

Il piano deliberato dall’autorità locale e pubblicato nelle forme prescritte, riceve sanzione legale con l’approvazione da parte del Ministro, al quale deve essere inviato entro 18 mesi dall’approvazione definitiva del preliminary statement e in ogni caso entro 3 anni dalla data della deliberazione iniziale.

Il Ministro può negare la sua approvazione o concederla introducendo opportune modificazioni nel piano. In questo caso, peraltro, egli deve informarne l’autorità locale, che entro 28 giorni può richiedere una particolare inchiesta in merito.

Dell’approvazione del piano va data notizia al pubblico a cura dell’autorità che l’ha promossa, la quale deve curare il deposito delle piante in luogo adatto, dove il pubblico possa prenderne visione.

Entro sei settimane dalla pubblicazione chiunque si creda leso dal piano può ricorrere alla High Court, allegando che il contenuto di esso non è conforme alle disposizioni di legge o che qualche formalità è stata omessa nell’approvazione. La Corte, riconoscendo fondato il reclamo, può annullare il piano nel suo complesso ovvero limitatamente alla parte che colpisce la proprietà del ricorrente. Contro tale decisione è ammesso ricorso alla Camera dei Lords solo se la Court of Appeal lo abbia consentito.

Il piano regolarmente approvato può essere successivamente modificato dall’autorità locale che lo deliberò o dal Ministro, il quale, tuttavia, può adottare in proposito determinazioni solo se il cambiamento non rechi una considerevole maggiore spesa.

L’autorità che ha compilato il piano, valendosi degli elementi che gli uffici fiscali sono obbligati a fornirle, compila un registro contenente le generalità di tutti i possessori di immobili compresi nel territorio cui il piano stesso si riferisce. Gl’interessati e le associazioni che li rappresentano possono chiedere l’inclusione dei loro nomi nel registro, avendo cura di chiedere il rinnovo dell’iscrizione ogni tre anni, Dei nomi e degl’indirizzi contenuti in detto registro l’autorità si varrà per rendere più spedito il servizio di notifica dei provvedimenti relativi a eventuali variazioni del piano regolatore e alla sua esecuzione.

L’esposizione della procedura da seguire in Inghilterra per giungere all’approvazione definitiva del piano regolatore ci convince facilmente che, se numerosi ed estesi sono i poteri accordati alle autorità locali per quanto riguarda l’assetto edilizio dei centri abitati anche di minore importanza, non poche sono le difficoltà da superare per entrarne in possesso. Il rispetto tradizionale della proprietà privata aveva indotto il legislatore inglese a sancire nel Town Planning Act 1925 anche l’obbligo per le Autorità locali di interpellare i proprietari degl’immobili prima di adottare deliberazioni in merito alla compilazione dei piani stessi. La legge del 1932 ha soppresso tale obbligo, ma, nonostante la notevole semplificazione derivatane, tali e tante sono le formalità da adempiere (deliberazioni, pubblicazioni, notifiche, ecc.) che qualsiasi podestà in Italia ne sarebbe addirittura terrorizzato e ben difficilmente s’indurrebbe ad affrontare una procedura tanto complicata e pesante.

Un vantaggio tutt’altro che disprezzabile esiste tuttavia, rispetto alla legge italiana: ed è quello della riunione in un solo organo della potestà di decidere in ordine alla definitiva approvazione del piano regolatore.

In Italia l’approvazione viene data per Decreto Reale, ma prima di giungere a questo atto finale e conclusivo numerosissimi organi burocratici e collegi consulti vi debbono esprimere il loro parere, che obbliga spesso le amministrazioni comunali interessate a modificare più e più volte le norme tracciate nel piano; per cui non di rado si verifica che il piano approvato è da considerarsi non più rispondente ai bisogni del centro cui si riferisce.

In complesso quindi l’approvazione di un piano regolatore è da considerarsi più agevole in Inghilterra che in Italia. Questo, oltre che il maggiore interessamento del pubblico inglese ai problemi urbanistici, spiega perché nel 1931 quasi 800 progetti erano colà allo studio e di questi circa 300 già approvati o prossimi ad esserlo [3], mentre in Italia non si era ancora arrivati al centinaio, numero questo che assai difficilmente potrà esser superato in futuro se la tanto auspicata legge urbanistica non porterà notevoli semplificazioni nella complicata procedura stabilita dalle disposizioni oggi in vigore.

Esecuzione del piano regolatore.

L’autorità incaricata di sovrintendere all’esecuzione del piano ha facoltà di adottare tutte le disposizioni necessarie pecche questo sia regolarmente attuato e perciò essa può ordinare:

a) la demolizione o la trasformazione di edifici o di altre opere che siano in contrasto con la sistemazione prevista nel piano o che ostacolino l’esecuzione stessa;

b) la modificazione di opere in progetto, contrastanti con le norme del piano regolatore;

c) il cambiamento dell’uso attuale di determinati beni;

d) l’eliminazione di impianti di carattere pubblicitario, eccettuati, come già si è detto, quelli relativi ad industrie o commerci interessanti i beni sui quali essi sorgono.

L’autorità locale può anche dar corso direttamente a opere di competenza di privati, quando il ritardo nella loro esecuzione possa pregiudicare l’attuazione del piano.

Prima di adottare uno qualsiasi dei provvedimenti suindicati essa deve darne notizia al proprietario e all’occupante o a qualunque altra persona interessata. In caso di demolizione o trasformazione di edifici ovvero di cambiamento dell’uso attuale la notizia deve essere data almeno sei mesi prima; negli altri casi almeno 28 giorni prima.

Le persone diffidate possono ricorrere al tribunale di sommaria giurisdizione: il ricorso ha effetto sospensivo.

Nel caso in cui non sia presentato ricorso o questo venga respinto il privato che prosegua nell’uso vietato va soggetto ad una multa estensibile a 50 sterline, oltre 20 sterline per ogni giorno di ritardo nell’eseguire l’ordinanza notificatagli.

Disciplina dell’attività edilizia.

Allo scopo di assicurare l’attuazione del piano nel modo più idoneo, il piano deve contenere norme intese a vietare o a regolare lo svolgimento dell’attività edilizia e a disciplinare l’esecuzione delle opere e degli impianti in esso previsti, sospendendo, ove sia il caso, regolamenti e ordinanze da qualunque autorità emanate.

Deve inoltre contenere la facoltà per l’autorità locale di emanare ordinanze, denominate supplementary orders, al fine di completare le disposizioni del piano regolatore o variarlo in quelle parti di cui si ravvisi la necessità di opportune modificazioni. L’autorità locale può anche emanare supplementary orders intesi a vietare qualsiasi alterazione di edifici d’importanza storica o architettonica.

Il privato che si creda danneggiato può chiedere al Consiglio la revoca, e in caso di rifiuto ricorrere al Ministro, che deciderà definitivamente, uditi i Commissari ai Lavori Pubblici ( Commissioners of Works) . Diventata esecutiva, l’ordinanza può essere variata solo con l’autorizzazione del Ministro, il quale è arbitro di concedere l’autorizzazione stessa ovvero di rodinanrne la modificazione dopo aver udito il parere dei Commissioners of Works e dopo aver presa visione degli eventuali reclami di proprietari o di elettori del distretto.

L’autorizzazione allo svolgimento dell’attività edilizia in conformità delle norme tracciate dal piano viene data con un’ordinanza dell’autorità locale avente la denominazione di generai development order. Chiunque si ritenga danneggiato dalla mancata emanazione dell’ordinanza ha facoltà di ricorrere al Ministro, che può provvedere in luogo e vece dell’autorità locale.

Prima dell’emanazione del general development order i proprietari possono chiedere l’autorizzazione a svolgere operazioni edilizie e in caso di rifiuto ricorrere al Ministero, che decide inappellabilmente. Con l’assenso del Ministro può essere autorizzato lo svolgimento di attività edilizia anche nell’intervallo tra la deliberazione con la quale si decide in linea preliminare di far luogo alla compilazione del piano e la definitiva approvazione di questo (interim development). La relativa domanda deve dagli interessati essere avanzata all’autorità locale, la quale può subordinarne l’accoglimento all’osservanza di determinate cautele o addirittura respingerla. In questo caso il privato può ricorrere al Ministro, il quale decide in via definitiva, udita la relazione di un suo delegato, al quale tanto il ricorrente quanto l’autorità locale possono esporre le loro ragioni.

Degna di particolare rilievo c la norma in forza della quale l’esercizio dell’attività edilizia è subordinato ad una speciale autorizzazione dell’amministrazione locale. Se poniamo tale disposizione in relazione con l’altra, cui accenneremo in seguito, in forza della quale è permesso all’autorità locale di interdire in via permanente il sorgere di costruzioni laddove queste possono turbare la bellezza dell’ambiente ovvero obbligare l’autorità medesima a spese troppo gravi per l’impianto dei servizi pubblici, rileviamo facilmente quale grande passo sia stato fatto presso gli inglesi in materia di disciplina dello sviluppo dei centri abitati e come non soltanto sia impedito il cosiddetto sporadic development, che tanti danni ha recato all’estetica di molte città, ma sia del tutto abbandonato quel malinteso ossequio al diritto di proprietà che finisce per subordinare gl’interessi della collettività a quelli del singolo, favorendo le speculazioni più sfacciate a carico delle finanze comunali; come è avvenuto in Italia allorché si è dovuto permettere che determinate persone o associazioni, per valorizzare i loro terreni, spingessero con tutti i mezzi la fabbricazione di nuovi nuclei in località inadatte sia dal punto di vista estetico, sia nei riguardi della estensione dei pubblici servizi.

La barriera posta a veri e propri attentati all’estetica degli abitati e alle finanze locali costituisce un esempio notevole, che meriterebbe di essere seguito, soprattutto in un paese come il nostro, dove vige incontrastato il principio che i diritti dei privati non debbano essere conculcati in nessun caso ma l’interesse del singolo cittadino debba sempre cedere il passo a quello superiore della collettività!

Indennità.

Ogni cittadino ha diritto di essere risarcito dei danni che la sua proprietà, il suo commercio, la sua industria o la sua professione hanno risentito dall’entrata in vigore del piano o dalla sua esecuzione anche parziale ovvero dall’esecuzione di ordinanze per la conservazione di determinati edifici. Qualunque persona ha anche diritto di essere rimborsata delle spese che abbia dovuto sostenere per uniformarsi al piano e dalle quali non possa trarre alcuna utilità, salvo che il danno derivi da una disposizione di legge preesistente e richiamata nel piano.

Nessuna indennità è dovuta per le seguenti limitazioni imposte dal piano:

l) obbligo di lasciare spazi liberi intorno alle costruzioni;

2) limitazione del numero degli edifici;

3) obbligo di osservare determinate norme circa la massa, l’altezza e l’architettura degli edifici nonché i materiali da usare nella costruzione;

4) divieto di svolgere attività edilizia prima dell’emanazione del general development order;

5) divieto permanente di costruzione, laddove il sorgere di edifici possa causare danni alla pubblica salute o richiedere eccessive spese per l’impianto dei servizi pubblici;

6) divieto di destinare gli edifici a determinati usi;

7) norme circa l’altezza e la posizione delle recinzioni agli angoli delle strade nell’interesse della sicurezza pubblica;

8) norme circa l’andamento e il numero delle strade di lottizzazione;

9) limitazioni delle sporgenze degli edifici sull’area pubblica;

10) limiti allo stazionamento di vetture in vicinanza di edifici adibiti ad usi commerciali o industriali.

Le suddette restrizioni sono soggette ad omologazione da parte del Ministro, il quale deve accertare che rispondano a un bisogno effettivo e che non siano di ostacolo insormontabile allo svolgimento dell’attività edilizia in generale. Nel caso di divieto di modificazioni agli edifici esistenti il proprietario, avanzando ricorso entro un anno dalla notifica di esso, può ottenere il risarcimento dei danni che gliene siano derivati.

Le questioni che sorgano in merito all’indennità, ove non siano oggetto di amichevole componimento fra le parti, sono risolte da un arbitro ufficiale da nominarsi con le norme stabilite dall’ Acquisition of Land Act, 1919.

Entro un mese dalla decisione dell’arbitro l’autorità ha facoltà di comunicare alla persona da indennizzare la propria volontà di revocare o modificare il provvedimento che dà origine all’indennità e nei tre mesi successivi sottoporre la relativa variante al Ministro.

Non possiamo a meno di rilevare che le suddette disposizioni, riguardanti il pagamento d’indennità per danni derivati dal piano regolatore e dalla sua attuazione, avrebbero potuto essere molto più chiare. La loro lettura ci fa pensare che non pochi dubbi debbano occupare la mente del giudice chiamato a dirimere le controversie fra autorità locali e proprietari, costretto com’è a tener presente il principio generale per cui un adeguato risarcimento è dovuto in ogni caso in cui il vantaggio che il privato ritrae dai propri beni e dalla propria attività subisce diminuzioni e altre norme che consentono l’imposizione di numerose limitazioni senza diritto a risarcimento di sorta.

Sappiamo che l’equità ha grande peso nelle decisioni del giudice inglese ma pensiamo che in un campo così delicato la chiarezza della norma potrebbe assicurare il trionfo della giustizia meglio della parola di un arbitro, che, nonostante l’autorità e l’indipendenza di cui gode, è portato naturalmente a seguire nei propri giudizi punti di vista personali, quando la lettera della legge non ne limiti rigorosamente la discrezionalità.

Contributi di miglioria.

L’autorità che provvede all’esecuzione del piano ha diritto di esigere dai proprietari che ne sono avvantaggiati un contributo estensibile fino al 75 per cento dell’incremento di valore dei beni.

Nelle norme sancite dal piano è determinata la procedura da seguire nell’accertamento e nella riscossione del contributo, tenendo presenti i seguenti criteri:

a) Il contributo può essere richiesto in relazione all’incremento di valore derivato dall’entrata in applicazione del piano, ovvero in relazione all’attuazione di una data opera da esso prevista.

b) L’accertamento deve aver luogo entro 12 mesi rispettivamente dall’entrata in applicazione del piano o dal termine dell’opera.

c) Le norme del piano regolatore possono stabilire, quanto alla riscossione, che questa abbia luogo in una sola volta ovvero a rate nel termine di trenta anni: in questo caso dovranno essere corrisposti gl’interessi nella misura del 4,50 per cento.

d) È obbligatorio dedurre dal contributo il valore di donativi fatti dal proprietario per agevolare l’attuazione del piano.

I beni immobili usati per scopi agricoli, ricreativi, umanitari o religiosi sono esenti dal pagamento del contributo fino a che duri tale uso.

Le questioni sorgenti dalla richiesta e dall’accertamento del contributo sono anch’esse decise da un arbitro ufficiale, il quale deve tener conto delle deduzioni presentate dall’autorità interessata.

Il debito relativo al contributo gode di privilegio rispetto a tutti gli altri derivati dall’entrata in vigore del piano e dall’esecuzione dell’opera per la quale il contributo è dovuto.

A proposito dei contributi di miglioria ci è d’uopo rilevare che mentre in Italia è chiara la tendenza a limitare la partecipazione dell’ente pubblico ai vantaggi che la sua attività ha procurato ai beni dei proprietari, perfettamente opposta è la tendenza nella legislazione inglese.

Presso di noi dalla norma dell’art. 78 della legge 25 giugno 1865, che fissava come aliquota massima del contributo il 50 per cento dell’effettivo incremento di valore conseguito dai beni, si è passati al 20 per cento con l’art. 14 del Decreto-legge 18 novembre 1923, n. 2538, per scendere ancora al 15 per cento con l’art. 238 del Testo Unico sulla finanza locale 14 settembre 1931, n. 1175.

In Inghilterra, invece, dal 50 per cento fissato dal Town Planning Act del 1925 si è saliti al 75 per cento con la recente legge urbanistica.

Non vogliamo affermare che l’imposizione di un onere così forte sui patrimoni privati, avvantaggiati da opere che molto spesso i singoli non hanno né desiderato né richiesto, sarebbe augurabile in Italia: certo è però che il principio di far ritornare nelle casse dell’ente pubblico gran parte del denaro speso per opere che hanno aumentato il valore dei patrimoni privati, facendo partecipare in misura notevole la collettività a tale beneficio, si basa sopra un principio di giustizia indiscutibile. E se esso potesse essere applicato in modo da diluire nel tempo l’onere per i proprietari, sarebbe certamente accolto con soddisfazione anche in Italia, specialmente da coloro che si preoccupano delle difficoltà di carattere finanziario che impediscono oggi non solo di attuare ma anche di concepire programmi arditi di sistemazioni edilizie cittadine.

Espropriazione.

Ove l’acquisto diretto dei beni necessari per l’esecuzione del piano non risulti possibile, l’autorità locale può sottoporre all’approvazione del Ministro un’ordinanza di espropriazione (compulsory purchase order).

Deve peraltro essere dimostrato che i beni da espropriare sono necessari per uno dei seguenti scopi:

a) per costruire strade;

b) per controllare l’utilizzazione di aree attigue a vie pubbliche;

c) per assicurare l’utilizzazione razionale di una data estensione di aree male lottizzate;

d) per rendere possibile una transazione con persona alla quale siano stati espropriati tutti i beni per l’attuazione del piano.

Sono esenti da espropriazione:

1) i terreni sui quali si trovino antichi monumenti o altri oggetti di interesse archeologico, salvo che l’espropriazione abbia per iscopo di assicurarne la tutela o la conservazione;

2) i beni appartenenti a enti locali o a impresari dello Stato, salvo che questi non vi acconsentano. Il Ministro ha però facoltà di accordare ugualmente l’espropriazione se il consenso risulti rifiutato senza motivo plausibile.

Nessuno può essere espropriato di una parte di edificio, manifattura, ovvero di parte di giardino o parco pertinente ad una casa, ameno che l’arbitro riconosca che l’espropriazione parziale non pregiudica l’utilizzazione dei detti beni o non reca serio danno all’estetica della casa.

Analogamente a quanto è disposto dalla legge italiana, nella determinazione dell’indennità non de ve esser tenuto conto di costruzioni o trasformazioni compiute dopo la pubblicazione dell’ordinanza di espropriazione, se a giudizio dell’arbitro esse furono eseguite per acquistare il diritto ad un aumento dell’indennità.

Prima di sottoporre l’ordinanza all’approvazione del Ministro l’autorità interessata deve darne notizia mediante avviso in un giornale locale, indicando dove la pianta dei beni da espropriare è visibile, e farne notifica ai proprietari, locatari o occupanti (eccettuati coloro che occupino lo stabile per periodo non superiore à un mese).

Il Ministro, ove non siano presentati reclami, può confermare l’ordinanza con o senza modificazioni. In caso di presentazione di reclami la conferma è subordinata a inchiesta sul luogo.

L’espropriazione ordinata dal Ministro ha carattere provvisorio e diventa definitiva solo con la ratifica del Parlamento, a meno che il piano preveda la cessione in cambio di terreno di superficie non inferiore a quello espropriato e di uguale valore, o salvo che si tratti di terreno necessario per la costruzione di una via pubblica giudicata indispensabile.

Disposizioni relative alle città-giardino.

Com’è noto, grande importanza viene data in Inghilterra alla costruzione di quartieri di abitazione a carattere estensivo, come mezzo per assicurare, specialmente a chi lavora, abitazioni quiete e quanto più possibile igieniche. Grande fortuna, pertanto, hanno avuto colà gli aggruppamenti di costruzioni di tipo ridotto, inframezzate da giardini ed orti familiari: ed associazioni importanti si sono formate per dare ad esse un conveniente impulso, fra le quali l’ International Garden Cities and Town Planning Federation, trasformatasi nel 1926 nell’attuale International Federation for Housing and Town Planning.

Senonché l’impiego di considerevoli somme, che dette forme di costruzione esigono, soprattutto per l’acquisto dei terreni, ne ha reso più difficile lo sviluppo in questi ultimi tempi.

Il Town and Country Planning Act 1932 ha voluto ovviare alle conseguenze di questo stato di cose ed a tal fine ha dato facoltà al Ministro per l’Igiene di espropriare a favore delle autorità locali o di associazioni legalmente riconosciute appezzamenti di terreni atti al sorgere di città-giardino o all’ampliamento di quelle esistenti, autorizzando altresì la Commissione dei prestiti per Lavori Pubblici (Public Works Loan Commissioners) a concedere mutui, ad associazioni che si prefiggano la sistemazione di città-giardino, con le facilitazioni previste nell’ Housing Act 1925.

Piani regionali.

Il rispetto, che in Inghilterra si professa all’integrità delle circoscrizioni amministrative esistenti da tempo, ha fatto sì che numerosi siano oggi i centri abitati costituenti un tutto organico dal punto di vista edilizio ma appartenenti a distretti municipali diversi. Per garantire un assetto urbanistico conveniente a siffatti aggregati edilizi e soprattutto per impedire che il loro sviluppo e la conseguente estensione dei pubblici servizi dia luogo a pericolose interferenze fra le varie autorità locali, si è dovuto favorire in tutti i modi la compilazione di piani regolatori abbraccianti il territorio di più circoscrizioni. A tal fine si è creduto opportuno anzitutto autorizzare le amministrazioni locali a comprendere nel proprio piano regolatore zone appartenenti ad altre circoscrizioni, udito il parere delle amministrazioni interessate. (Di questa facoltà si sono vale soprattutto le amministrazioni di comuni urbani nei riguardi di altri comuni aventi rispetto ai primi caratteristiche di città satelliti).

Ma poiché è sotto ogni punto di vista desiderabile che un compito così delicato, quale è quello della disciplina dello sviluppo edilizio, sia assolto con l’intervento, a parità di diritti, di tutte le amministrazioni interessate, la legge da facoltà a queste di provvedervi creando appositi organi collegiali o commissioni miste (Joint Committees) e delegando loro tutti o parte dei propri poteri (eccettuato quello di contrarre prestiti o imporre tasse). Il Joint Committee, al quale si applicano le stesse disposizioni in materia di bilanci e conti stabilite dal Local Government Act 1894 per le autorità locali, può essere costituito anche dal Ministro di sua iniziativa o su domanda di una o più autorità locali. Il decreto relativo, quando le autorità interpellate non aderiscano tutte, deve essere preceduto da inchiesta sul luogo.

I Consigli di contea o le autorità locali di circoscrizioni attigue possono dal Ministro essere autorizzate a nominare un proprio rappresentante in seno al Joint Committee anche in epoca successiva alla sua costituzione: ed il Ministro può invitarle d’ufficio ad addivenire a tale nomina, la quale, peraltro, fa salva l’attività precedentemente svolta dalla commissione.

Alla formazione dei piani regionali si applicano le norme di procedura stabilite per i piani normali, intendendosi il Joint Committee sostituito ai District Councils in tutte le facoltà loro attribuite, salve le riserve che essi abbiano fatto al momento della costituzione della Commissione mista.

Il piano regionale non impedisce alle singole autorità locali di compilare piani regolatori limitatamente a tutto o parte del territorio della rispettiva circoscrizione. Tali piani, che assumono la denominazione di supplementary schemes, debbono essere redatti in perfetto collegamento col piano regionale, e possono contenere, oltre le disposizioni del piano predetto, la cui osservanza è obbligatoria in ogni caso, anche altre in questo omesse, purché comprese fra quelle che la legge urbanistica consente di includere nei piani in genere.

L’esecuzione del piano regionale ha luogo a cura del Joint Committee quando le autorità locali, che lo hanno costituito, gli abbiano delegato tutte le facoltà loro attribuite dalla legge urbanistica. In caso contrario all’attuazione stessa provvedono i singoli distretti sotto il controllo del Ministro, il quale può emanare decreti per l’esecuzione d’ufficio di opere giudicate indispensabili, quando le autorità interessate non aderiscano all’invito loro rivolto di darvi corso entro un certo termine.

Qualunque sia il campo di attività loro assegnato, i Joint Committees possono essere sciolti con decreto del Ministro, quando il loro funzionamento non sia regolare o quando si dimostrino incapaci di raggiungere gli scopi per i quali furono costituiti.

Com’è facile immaginare, la costituzione di Joint Committees per la compilazione di piani regionali interessanti un centro abitato suddiviso in più distretti ha carattere di soluzione di ripiego, che non va esente da gravi mende, specie laddove i singoli distretti si siano riservate facoltà più o meno estese nel campo della disciplina dell’attività edilizia, riserve che rendono assai difficile o addirittura impossibile l’adozione di un indirizzo unico nell’esecuzione del piano regolatore.

Molto più opportuna, quindi, dal punto di vista urbanistico è stata la soluzione adottata su vasta scala in Italia di annettere al comune più importante le circoscrizioni dei piccoli comuni confinanti col suo aggregato edilizio. Ma poiché con siffatto sistema non tutti i problemi relativi allo sviluppo razionale ed organico dei centri urbani possono essere risoluti, e poiché, d’altra parte, quelli relativi alla viabilità e alla tutela delle bellezze naturali possono essere compromessi da iniziative contrastanti, assunte da comuni contermini, anche se i rispettivi abitati distino fra loro notevolmente, chiara appare l’opportunità di introdurre in Italia l’istituto dei piani regionali, quantunque presso di noi esso non possa avere un campo di applicazione così vasto come in Inghilterra.

Quanto abbiamo segnalato a proposito del recente Town and Country Planning Act non c’induce alla conclusione che molte delle norme sancite per la Gran Bretagna potrebbero utilmente essere incluse nelle nostre leggi. Troppo diverso è l’ambiente nel quale esse dovrebbero avere applicazione, sia per quello che riguarda l’organizzazione delle amministrazioni locali, sia per ciò che si riferisce al modo di concepire la posizione dell’individuo rispetto alla pubblica amministrazione. Tuttavia l’identità di molti bisogni e l’analogia dei mezzi necessari per soddisfarli consigliano a meditare profondamente la portata di talune disposizioni, che non possono mancare di produrre gli stessi effetti e di assicurare gli stessi vantaggi sotto qualsiasi clima ed in qualsiasi ambiente fisico e politico.

Sotto questo punto di vista potrà non risultare del tutto inutile la rapida scorribanda che abbiamo fatto nel campo della legislazione urbanistica inglese.

[1]La legge dichiara che la compilazione dei piani spetta alle autorità locali, spiegando che tali devono intendersi il Consiglio della Contea di Londra ( London County Council) e i Consigli dei borghi e distretti di contea ( Councils of County boroughs and County districts).

Non è facile spiegare in poche parole la differenza fra queste varie specie d’autorità locali.

Nella Gran Bretagna infatti esiste una divisione amministrativa ben diversa da quella francese e italiana.

Anzitutto mentre in Italia la gestione dei servizi locali è affidata ai Comuni, fatta eccezione per quelli di maggiore importanza disimpegnati da organi statali (istruzione, pubblica sicurezza, strade di grande comunicazione) e per altri, che interessano tutti gli abitanti di una regione, affidati all’Amministrazione provinciale (strade secondarie, istruzione tecnica, manicomi), in Inghilterra tale gestione è suddivisa fra lo Stato e i seguenti enti locali:

1) la parrocchia. È la più piccola circoscrizione: rappresentata dal parish council, o in mancanza di questo dal parish meeting, provvede alla manutenzione dei sentieri, alla tutela dei diritti di passaggio e alle concessioni di terreni per fabbricare o per coltivazione. Il Consiglio parrocchiale può anche assumere a suo carico l’onere dei fabbricati per uffici o riunioni, campi di giuoco, pompe da incendio, e provvedere alla pubblica illuminazione, ai bagni, ai cimiteri e alle biblioteche, ai musei quando non vi provvedano gli enti di cui appresso.

2) il distretto urbano o rurale. Rappresentato dal district council, costituisce l’autorità sanitaria della circoscrizione e sovrintende alla manutenzione delle vie interne (eccettuate quelle avocate al Consiglio di contea) all’edilizia, ai piani regolatori e all’emanazione dei regolamenti locali. Esso può anche provvedere ai parchi, ai campi di giuoco, alle biblioteche, ai bagni, ai musei, ai cimiteri ecc.

I compiti dei distretti sono stabiliti da leggi varie. I distretti urbani hanno generalmente la possibilità di estendere la loro attività ad un maggior numero di funzioni, ma un General Order del 1931 da facoltà al Ministero dell’Igiene di concedere ai distretti rurali gli stessi poteri di quelli urbani.

3) il Municipal borough. È un distretto urbano più importante dal punto di vista storico e demografico, al quale con Royal Charter è stata concessa tale qualifica. I suoi poteri sono identici a quelli dei distretti urbani. Solo il Borough Council ha talvolta poteri di polizia, che non può invece avere mai il Districr council.

4) la Contea. È una circoscrizione amministrativa, che può in certo modo paragonarsi alla nostra provincia. Il County Council provvede alla manutenzione delle strade e dei ponti, al ricovero degli alienati, alla verifica dei pesi e misure, e sovrintende a determinate materie di carattere sanitario, all’istruzione superiore e a quella elementare, eccettuate le grandi città. Esso dispone altresì, in luogo dei consigli di distretto, circa affari sanitari, viabilità, edilizia e piani regolatori, quando detti consigli non provvedano essi stessi per inerzia o per impossibilità.

Occorre peraltro tener presente che esistono 88 città alle quali, a norma del Local Government Act del 1888, è stata concessa qualifica di County boroughs e come tali hanno al tempo stesso i poteri conferiti ai boroughs e alla County.

Londra forma una Contea a sé che comprende la City (avente una superficie di un miglio quadrato) e 28 metropolitan boroughs aventi gli stessi poteri degli altri boroughs, salvo alcuni che sono stati trasferiti al London County Council per attuare uniformità di azione in tutto il vastissimo aggregato urbano.

[2]Il Ministero dell’Igiene, succeduto nel 1919 all’antico Local Government Board, ha compiti ben più vasti di quelli che il suo nome potrebbe far supporre, avvicinandosi sotto molti punti di vista al nostro Ministero dell’Interno. Fra l’altro esso rappresenta la suprema autorità nel campo urbanistico, essendo competente e decidere in via definitiva su tutte le questioni che possano sorgere fra i vari enti locali o fra questi e i proprietari d’immobili, sia in sede di approvazione del piano regolatore, sia sia durante la sua attuazione

[3] Cfr. Henry Puget, “La législation anglaise en matière d’urbanisme”, Revue Internationale des Sciences Administratives, n. 2 1931.

Qui di seguito il file PDF (f.b.)

Titolo originale: Amsterdam General Extension Plan – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Poche città europee possono vantare un’evoluzione più interessante dal punto di vista urbanistico, da quello della bellezza della località geografica e di una planimetria attraente, della capitale olandese. La sua posizione alla confluenza dell’Amstel con lo Y, un ampio canale che collega il fiume al mare, è stato uno dei numerosi fattori che hanno contribuito a ciò. Alla posizione geografica e alle forme del sito possono essere ascritte in primo luogo le linee delle fortificazioni che tanto ne hanno influenzato la crescita, poi le serie di canali – gratchen – e terzo la sua planimetria unica, a forma di semicerchio che si risolve in lati multipli.

Piani per l’ampliamento di Amsterdam sono stati redatti in varie epoche storiche. Quello in corso di esame è di gran lunga il più completo. È basato sulla Legge per la Casa olandese, e riguarda tutto il territorio sino ai confini comunali. Per la sua produzione sono stati necessari quattro anni di estensivi studi sulle condizioni tecniche, sociali, igieniche ed estetiche. Il progetto è stato sviluppato in collaborazione da tutti i settori del Dipartimento ai Lavori Pubblici.

Popolazione

La popolazione attuale e quella probabile futura sono state poste alla base del piano. Nella stima degli abitanti futuri, sono stati tenuti presenti tre fattori: migrazioni, tasso di nascita, mortalità. Per molti anni le migrazioni sono state praticamente stagnanti, e la crescita demografica è stata dovuta all’eccesso delle nascite rispetto alle morti.

Sono state analizzate attentamente le statistiche e si è rilevato che la popolazione raggiungerà probabilmente un massimo attorno all’anno 2000. Tale massimo è stato calcolato in 900.000 persone. Il nuovo piano è stato predisposto per una popolazione probabile fra 960.00 e 970.000 abitanti, perché questa cifra consentiva un certo grado di flessibilità per rispondere a qualunque emergenza dovesse verificarsi nel futuro, in termini di crescita aggiuntiva dovuta a immigrazione in eccesso.

Tenendo presenti queste statistiche, si è ritenuto che fossero disponibili entro i confini comunali ambiti adatti per vari tipi di insediamento, lasciando una quantità di spazi adeguata per il tempo libero e altri tipi di aree aperte. Per determinarne l’organizzazione e la struttura interna, le statistiche sono state minutamente articolate per gruppi di età.

Comunicazioni

La prima tavola mostra i diversi tipi di comunicazioni: strade, ferrovie, canali. La struttura caratteristica della città esistente è quella di un sistema di vie radiali e anulari, ed è lo stesso sistema seguito per quanto possibile nel piano di ampliamento.

La principali radiali sono verso: 1) Ymuiden (Mare del Nord) lungo il canale Noordzee a ovest; 2) Haarlem e la costa, a ovest; 3) Leida e l’Aia, via aeroporto di Schilpol a sud-ovest; 4) Rotterdam, Bruxelles e Parigi a sud; 5) Utrecht, Colonia Hertogenbosch e Lussemburgo a sud-est; 6) Hilversum e Berlino a est; 7) Purmerend e Zuiderzee a nord; 8) Zaandam a nord-ovest. I percorsi (7) e (8) entrano nella zona nord della città, e dopo essere stati ostacolati dal canale Y proseguono verso il centro, dove si uniscono. Il traffico attraversa il canale Y tramite traghetti e a causa del notevole volume causa congestione nel cuore della città. Il nuovo piano prevede il decentramento di queste due arterie canalizzando il traffico dal centro industriale, Zaandam-Alkmaar, attraverso un previsto tunnel sotto il Noordzeekanaal nella parte occidentale della città, e quello dallo Zuiderzee su un previsto ponte nella parte orientale. Il tunnel occidentale per automezzi e ferrovia renderà possibile la rimozione dell’attuale ponte ferroviario mobile (Hembrug) all’entrata del porto occidentale, e aprirà notevolmente l’accesso alla zona dei moli.

Le altre radiali principali convergenti verso la città verranno collegate sistematicamente alle vie interne, e infine a un anello interno che segue i confini della città vecchia.

Le vie d’acqua esistenti, come le strade, si irraggiano dalla città. Il canale del Reno a sud-est, è in corso di ampliamento per consentire la navigazione a navi sino a 4.000 tonnellate. Questa navi in genere sono ormeggiate nel porto occidentale, e per consentire accesso a questa zona senza percorrere lo Y, rallentando il traffico di imbarcazioni e traghetti, si propone di estendere il canale Reno attorno alla parte nord della città.

Anche le ferrovie sono organizzate in forma radiale. Tutte entrano nella Stazione Centrale collocata lungo l’Y di fronte al centro città, causa di molta congestione, in stazione e nella zona. Per allentarla, è in corso di realizzazione un anello ferroviario dal porto occidentale verso ovest e sud attorno alla città esistente, e successivamente verso Utrecht e la Germania. Questa ferrovia si realizza su un’alta diga, così che tutte le strade esistenti e di progetto le passano sotto attraverso arcate. La ferrovia, collegata a tutte le linee radiali e che coordina i vari settori urbani, è una delle caratteristiche più importanti del nuovo piano.

Industria

Fissati questi elementi riguardo al trasporto, sarà possibile localizzare i nuovi spazi per i porti, le zone industriali ecc., in corretta relazione con la città esistente, e con particolare riguardo alla mobilità di persone e merci da e verso i luoghi di lavoro. Il nuovo porto e i bacini, sono già in parte realizzati lungo il canale Noordzee con accesso dal Mare del Nord da ovest e dal canale Reno a est. I nuovi bacini sono pensati particolarmente per gestire navi da carico. Ciascun settore è pensato per una particolare tipologia o categoria. Le estremità chiuse dei docks sono rivolte verso la città in modo tale da poter gestire facilmente il traffico diretto ad essi. Questo tipo di organizzazione rende conveniente assegnare a singole ditte magazzini e depositi.

L’area comprende spazi per industrie di vario tipo, e si prevede che saranno edificati in fretta, aumentando di molto l’entità e importanza di Amsterdam come centro industriale. Alcuni settori, come quello della fabbrica Ford, sono già stati completati.

Un altro quartiere industriale è stato previsto all’altra estremità della città, con facile accesso a canale e ferrovia. Nel piano è stata inserito un totale di nuove zone industriali di 400 ettari, ampliabile se necessario sino a 710 ettari. Le zone industriali esistenti sommano in tutto 150 ettari.

Orticoltura

In passato, molti coltivatori di prodotti ortofrutticoli sono stati espropriati dei propri giardini dalla crescita urbana. I coltivatori si sono spostati su altri terreni ai confini estremi della città, con conseguente perdita di indennizzi da parte della città, e irrequietudine da parte dei coltivatori, che nel tempo avevano portati i propri terreni ad un’alta produttività. Nel nuovo piano un cento numero di aree che non sono ritenute necessarie da acquisire per la crescita urbana sono state destinate particolarmente all’orticoltura. I criteri di selezione per le zone sono state l’adeguatezza dei suoli, buone comunicazioni terra-acqua con la città in generale, e coi mercati di distribuzione in particolare.

Agricoltura

Al momento attuale, entro i confini amministrativi, esistono 8.000 ettari di terreno – ovvero la metà della superficie totale – dedicato all’agricoltura, principalmente all’allevamento di bestiame. Molto di questo spazio sarà necessario per l’ampliamento della città, ma si ritiene che il rimanente debba essere mantenuto all’uso attuale con zone destinate al tempo libero per la popolazione. La città futura avrà una cintura agricola a ovest e a nord. Tale cintura fungerà da separatore con gli insediamenti vicini, mantenendo le relative identità.

Abitazioni

Prima di decidere i criteri per le abitazioni future, sono stati considerati con attenzione i due principali sistemi di crescita della città: concentrazione o aggregazione, e decentramento, il secondo metodo fortemente sostenuto in Olanda e particolarmente a Amsterdam. Sono stati valutati i pro e contro di entrambi i sistemi.

Gli argomenti a favore del decentramento erano:

a) con una popolazione in crescita al ritmo di 7-8000 persone l’anno, e che probabilmente raggiungerà un totale di un milione e mezzo prima che siano passati molti decenni, la città entro quell’epoca presenterà i problemi di congestione da traffico e le altre difficoltà già evidenti in altri centri del paese;

b) la futura popolazione deve essere collocata in gran parte in case unifamiliari entro quartieri giardino. Questi ultimi possono essere realizzati solo se il terreno su cui si costruiscono è a buon mercato, e attualmente inedificato e libero dagli effetti della speculazione.

D’altra parte, un forte argomento a favore delle concentrazione o aggregazione, è la parte importante giocata da porto e industrie nelle attività e benessere della popolazione di Amsterdam. Questi elementi possono essere realizzati e sfruttati economicamente solo se organizzati in modo rigidamente accentrato e concentrato, entro la città o molto vicino ad essa. Con tale concentrazione, e mantenendo i settori residenziali entro i confini municipali, ai lavoratori verranno risparmiati tempo e spese di spostamento da e verso i posti di lavoro.

È stato rilevato, attraverso un’attenta analisi, che questa opzione era possibile e fattibile, ed è stata adottata nel nuovo piano.

Come già detto, i centri produttivi più importanti sono orientati verso il mare, ovvero a nord-ovest della città esistente. Logicamente, settori residenziali si prevedono verso ovest, dove possono essere realizzati con il minimo di difficoltà tecniche e geografiche, grazie alla grande estensione dei terreni aperti. Per le stesse ragioni, si prevedono altri quartieri residenziali verso sud. Per gli abitanti di questo settore è stato progettato un grande parco boscoso con , a est sulla riva opposta dell’Amstel, il previsto quartiere industriale.

L’ampliamento a est è stato guidato da un piano particolareggiato, incluso nella carta di azzonamento del nuovo piano. È solo parzialmente destinato a residenza. La maggior parte è destinata al tempo libero.

Resta solo la zona settentrionale della città, all’estremità opposta dello Y. Fu durante il primo decennio di questo secolo che la città cominciò ad espandersi in questa direzione, con lo sviluppo di alcuni insediamenti per l’industria. I terreni sono bassi, e i suoli poveri, dato che una considerevole parte dell’area è stata utilizzata come deposito di materiali dragati dai canali. Gli spazi erano a buon mercato e si prevedeva di creare un centro industriale sulle rive dello Y, e più oltre di costruire case sufficienti ad ospitare i lavoratori dell’area. A quei tempi, circa trent’anni fa, il traffico era solo questione di biciclette, pedoni, cavalli, e perciò la comunicazione tramite traghetti era considerata sufficiente per le previste necessità di trasporto.

Gli eventi hanno dimostrato che queste supposizioni erano sbagliate. La colonia crebbe, durante e dopo la grande guerra, in modo molto più massiccio di quanto previsto. Al momento attuale ci abitano circa 45.000 persone, in case mono e bi-familiari. Alcune delle abitazioni sono organizzate in gruppi sulle linee di un quartiere giardino. Il traffico è aumentato parallelamente. A complicare la questione traffico, c’è il fatto che solo la metà degli abitanti del settore settentrionale lavora qui, mentre l’altra metà deve attraversare lo Y per raggiungere il proprio impiego nella città vecchia. D’altro canto, circa 7.000 persone che vivono in città devono attraversarlo nella direzione opposta per raggiungere il proprio impiego sulla riva nord. E così Amsterdam si è trovata inaspettatamente ad affrontare i difficili problemi che sorgono da fatto che la città ora si estende su entrambi i lati di un ampio specchio d’acqua utilizzato per la navigazione, problema con cui luoghi come Rotterdam, Anversa o Amburgo si sono misurati per un lungo periodo.

In molte occasioni si era suggerito un tunnel sotto lo Y. In un rapporto pubblicato nel 1931 si affermava che se le difficoltà tecniche di realizzazione potevano essere superate, la galleria si sarebbe dovuta realizzare solo in una particolare posizione, dove il traffico è già complicato e il sistema insediativo congestionato, col risultato che l’aggiunta del flusso da e per il tunnel, soprattutto nelle ore di punta, avrebbe prodotto una situazione intollerabile. In più, sarebbe stato necessario realizzare massicci allargamenti stradali e demolizioni in quella che è la parte più pittoresca della città.

Con queste premesse, il nuovo piano non prevede un tunnel. Il traffico locale in futuro utilizzerà i traghetti, mentre il resto sarà orientato il più lontano possibile verso le strade di circonvallazione su entrambi i lati della città, in modo tale che possano essere utilizzati modi più adeguati di attraversamento del canale.

Caratteristiche e densità delle abitazioni

Entro la fascia definita dalla ferrovia sopraelevata, il sistema residenziale si realizzerà secondo linee molto simili a quello già esistente. La densità è fissata dal nuovo piano in 110 abitazioni per ettaro nelle espansioni occidentali, e 85 per ettaro a sud, con tutte le case in isolati di tre o quattro piani.

All’esterno dell’anello ferroviario il piano prevede un tipo di insediamento residenziale diverso, che può essere descritto meglio secondo le linee della città giardino, anche se non del tipo caratteristico inglese. In questi settori, ciascuno progettato per 40-50.000 abitanti, troveranno posto unità relativamente autonome. Ciascuna sarà dotata di un’area centrale per il commercio, piccole industrie, garages comuni, cinema, scuole ecc., in modo che gli abitanti siano obbligati a utilizzare la città centrale solo per alcune funzioni, come teatri, università, musei o altri usi culturali. La densità residenziale nei due settori occidentali è fissata a 70 abitazioni ettaro. Ciò consentirà a circa il 60 per cento degli abitanti di vivere in case unifamiliari. Nella zona meridionale è consentita una densità lievemente inferiore, esattamente 55 case ettaro.

Numero di abitazioni necessarie

Le nuove aree destinate alla residenza nell’insieme rappresentano una quantità circa identica a quella della città esistente. Questo può sembrare eccessivo al lettore, visto che la crescita di popolazione prevista è, come già detto, solo del 27% rispetto a quella attuale. Ciò si deve ai seguenti fenomeni:

a) il numero medio dei componenti le famiglie è in calo. Circa dieci anni fa era di 3,84 persone. Oggi è di 3,74. In più analizzando i dati di altre città è stato calcolato che la media in tutta probabilità cambierà ancora, raggiungendo le 3,37 per l’anno 2000. Questo “assottigliamento della famiglia” rende necessario costruire più case nel futuro di quante non ne sarebbero necessarie nelle condizioni attuali. La popolazione futura prevista dal piano per ‘anno 2000 è di 960.000 abitanti. La quantità totale di abitazioni necessarie per questa popolazione sarà di 285.179. Quelle esistenti oggi sono 200.176, quindi saranno necessarie 84.300 nuove case.

b) a queste, si devono aggiungere le 13.460 abitazioni necessarie per i piani di demolizione e risanamento.

c) nel corso dello sviluppo urbano, molte case vengono demolite per fare posto a uffici, negozi, ecc. Nel periodo 1920-1930, sono state eliminate così 8.800 abitazioni, sostituite da alte nuove nel suburbio. Contro a questa tendenza, quella della trasformazione di zone a case bifamiliari in case d’affitto. Considerando tutti questi fattori è stato calcolato che il mercato in città, da ora sino al 2000, richiederà 12.000 nuove abitazioni in nuove aree.

d) la città in espansione assorbe entro il nuovo piano circa 1.370 abitazioni esistenti nelle aree rurali circostanti. In tal modo per il 2000 si ritiene debbano essere realizzate un totale di 111.130 nuove case, un numero che rappresenta oltre la metà di quelle esistenti (200.876).

Tempo libero

I bisogni ricreativi della popolazione futura sono stati attentamente considerati e previsti all’interno del nuovo piano. La città attuale è poco attrezzata di parchi, campi sportivi e orti di quartiere. Ma nelle zone esterne esistono alcune aree naturali di grande attrazione, ed è stata posta molta cura per assicurarsi che quando avverrà l’urbanizzazione all’interno o ai margini di esse, essa avverrà in modi tali da preservare per quanto possibile le attuali caratteristiche rurali.

Una delle più belle fra queste zone naturali è quella che si colloca a nord e nord-ovest della città. Conosciuta come “Waterland” l’area possiede numerosi magnifici laghi e corsi d’acqua. Il terreno è inadatto all’edificazione, e la costruzione di strade costosa in modo proibitivo. Di conseguenza, nel nuovo piano l’area è stata conservata allo stato attuale. Si progetta di tracciare sentieri per pedoni e ciclisti e di utilizzare alcuni dei laghi principali per gli sport acquatici: nuoto, canottaggio, vela ecc. Un piano secondo queste linee è già stato redatto per uno dei laghi.

Fra la zona settentrionale del canale Reno e lo Yesselmer a est, c’è una striscia lunga e stretta di terreno di riporto. Sarà trasformata in parco pubblico, a fungere da connessione per pedoni e ciclisti fra i settori residenziali a est e un altro lago interno, pure attrezzato come centro sportivo.

Il lago esistente “Nieuwe Meer”, a sud-ovest, è un altro magnifico luogo, fra i preferiti dalla popolazione durante l’estate per la vela e altre attività. Questo lago costituirà il confine settentrionale di un altra zona boscosa a parco, di superficie pari a quella del Bois de Boulogne di Parigi. A nord del lago si prevedono campi sportivi e zone a orti urbani. Alcuni sono già stati realizzati. Ancora più all’esterno, un nuovo cimitero.

Il fiume Amstel (da cui la città deriva il proprio nome: Amstelredam-Amsterdam) è contornato su entrambi i lati da fasce di magnifici panorami, con sparpagliate qui e là ampie dimore, molte delle quali risalgono al diciassettesimo o diciottesimo secolo.

Il previsto ampliamento sud della città, fra i parco e l’Amstel, è collocato in modo da rendere possibile la conservazione dell’aspetto naturale del fiume. Sono previsti parchi lungo la riva occidentale, insieme a strutture espositive inserite nel contesto. Sulla riva opposta saranno progettati parchi e alcune zone a orti.

Nel piano sono previsti centri per le attività di tempo libero completamente nuovi. Primo, il grande parco a bosco già citato. La città acquisisce queste superfici man mano se ne presenta l’occasione, e parte dell’area è già stata sistemata nell’ambito delle attività di sostegno per la disoccupazione. Secondo, al centro del sistema di borghi giardino a ovest si propone di creare un nuovo lago allagando un’area libera. Una spiaggia per i bagni a nord e un parco tutto attorno faranno di questa zona uno dei più bei centri per il tempo libero di tutta la città.

In più, complementare agli altri progetti in corso, l’idea di riorganizzare le zone ricreative più piccole esistenti e di crearne delle nuove dove necessario. Una difficoltà, in partenza, era quella di determinare la superficie necessaria a persona. Essa varia da circa 5 a 30 metri quadrati, nei diversi contesti nazionali. Oltre ad essere di dimensioni adeguate, questi piccoli spazi aperti dovranno anche essere razionalmente distribuiti nella città per essere accessibili alla maggior quantità di abitanti possibile.

È stato compiuto uno studio sui parchi esistenti, sia riguardo alle dimensioni che all’accessibilità. Nel nuovo piano, si ritiene che 400 metri siano il raggio massimo di percorrenza a piedi da e per un parco, ed è questa la distanza che è stata adottata. In altre parole i parchi sono collocati a intervalli di 800 metri. Per quelli più vasti l’intervallo adottato è di 1.600 metri, in quanto è stata ritenuta di 800 metri la distanza massima approssimativa percorribile a piedi dagli adulti per raggiungerli. Le dimensioni, sia per i parchi locali che per quelli più grandi, sono basate sulla quantità di persone che abitano entro i raggi menzionati.

Per calcolare la superficie richiesta pro capite è stata effettuata una lunga e accurata analisi sugli spazi gioco esistenti. É stato rilevato che “Costerpark”, situato in una zona densamente edificata, è molto vicino alle caratteristiche ideali, sia per quanto riguarda la superficie, sia il numero relativo di utenti. Questo parco ha un’area di 10 ettari, che suddivisa per il numero delle persone residenti entro i 400 metri di raggio da’ 3,5 metri quadri a persona: nel nuovo piano questa cifra è stata adottata come obiettivo. I parchi sono localizzati in modo tale da poter essere coordinati quasi sempre attraverso un sistema di parkways. Calcolando anche il verde di queste arterie, la superficie pro-capite sale da 3,5 a 4,5 mq abitante.

Le strutture esistenti per gli sport degli adulti, in modo simile, sono ora molto al di sotto delle necessità, e nel nuovo piano si prevede di correggere a tali carenze. Gli spazi per lo sport vengono sistematizzati, con alcuni nuovi a coprire le mancanze e altri per sostituire quelli necessari all’espansione della città. Per calcolare la superficie necessaria allo sport sono state adottate le quantità proposte dal Dott. Martin Wagner, di Berlino, nella sua pubblicazione Stadtische Freiflache. Esse sono basate sulla divisione della popolazione per gruppi di età. Sono state apportate alcune modifiche rispetto alle cifre di Wagner a causa del diverso clima e terreno di Amsterdam rispetto a Berlino.

La popolazione è stata suddivisa in 5 gruppi di età. Per i primi due non è necessaria alcuna struttura sportiva, dato che utilizzano i parchi locali minori. Per il terzo gruppo, è stato verificato che solo la metà richiede strutture sportive specifiche. Il Dott. Wagner nel suo metodo di calcolo ha compreso la popolazione sino a 30 anni di età. Ad Amsterdam si è ritenuto che il limite andasse elevato ai 35 anni. Così nel nuovo piano è stata messa a disposizione una quantità piena di superfici destinate allo sport per i residenti da 15 a 35 anni di età. L’area pro capite è di 5 metri quadrati, per quanto riguarda le superfici nette da gioco. A questa va aggiunta l’area per sentieri, edifici di servizio, verde ecc. Per la popolazione futura, che avrà percentuali superiori di persone oltre i 35 anni del limite, la superficie destinata si riduce da 5 metri quadrati a 4.

I campi sportivi sono localizzati in modo tale che i ciclisti li possono raggiungere al massimo in dieci minuti da qualunque parte della città.

Orti urbani

Gli orti esistenti sono distribuiti a caso per la città e i dintorni. Ad Amsterdam, dove l’orto è estremamente popolare, si capisce come essi debbano essere sistematizzati e organizzati, nello stesso modo di case e fabbriche, s si vogliono ottenere risultati soddisfacenti. Un rilievo delle condizioni attuali comparato con quelle di alte città mostra che sono necessari 5 metri quadrati per abitante, ed è la quantità offerta dal piano.

Gli orti sono organizzati in gruppi, facilmente raggiungibili dai nuovi settori residenziali. Ci sarà stretto controllo riguardo a collocazione e progettazione dei capanni e degli spazi.

Conclusioni

Il nuovo Piano di Amsterdam, mentre provvede alla futura regolamentazione e ampliamento della città esistente, è molto flessibile nelle proprie previsioni. Le sue linee principali sono state dettate dalle condizioni attuali, ma entro queste linee principali esiste ampio spazio di revisione per adeguarsi a nuove circostanze man mano si presentino. Soprattutto, il piano è stato concepito in modo tale che possa essere attuato per settori, come e quando i pianificatori futuri riterranno meglio.

L’analisi e il progetto sono raccolti in cinque volumi. Nell’organizzazione generale, nei diagrammi e altre illustrazioni, nell’approccio comprensivo in cui il lavoro si è sviluppato, Amsterdam da’ un esempio che dovrebbe essere emulato da altre città. Molto del lavoro è di carattere pionieristico, e la sua utilità per gli urbanisti corrispondentemente aumentata. Siamo lieti di apprendere che è in fase di esame la richiesta di un’edizione inglese del piano.

L’eccezionale sussidio decretato dal Regime per l’industria alberghiera in vista dello sviluppo che ad essa si vuol dare per il 1941, determina nuove direttrici di studio e stabilisce nuove grandi responsabilità per tutti coloro che hanno il compito di perfezionare i piani nei diversi settori che ne compongono il quadro organizzativo.

Fra i tanti, il problema della sistemazione dei centri balneari appare in tutta l’evidenza della sua importanza. Gli organi competenti, ancor prima del decreto del 16 aprile u. s., hanno affermato la necessità di porre un nuovo ordine in questo campo per inquadrarlo entro un sistema più vivo e più coscientemente moderno.

L’onorevole Bonomi, Direttore Generale per il Turismo, ha sentito chiaramente che il problema della valorizzazione dei centri balneari è intimamente connesso con lo studio della sistemazione edilizia, e il suo discorso ha avuto una pronta eco in una circolare diramata dalla presidenza della Federazione Nazionale Fascista Pubblici Esercizi, nella quale si mettono alcuni accenti sui principali punti al fine di animare gli organizzati.

Poiché siamo certi che l’iniziativa privata non resterà sorda di fronte a questi autorevoli appelli, ci sembra opportuno di esaminare, sia pure sommariamente, con metodo sistematico e costruttivo, il punto di vista generale della questione.

Lo Stato Corporativo che ha come postulato della sua esistenza, l’organizzazione dei singoli nell’ambito dell’interesse della collettività, deve pretendere che anche in questo campo, in cui sono in gioco, non solo il prestigio della Nazione di fronte agli stranieri, ma uno dei tesori più cospicui della Patria costituito dalle sue terre più belle, le intenzioni dei singoli (intendiamo le buone intenzioni) non debbano solo dar sviluppo a organismi particolari esemplari, ma si concatenino l’una all’altra sì da formare un armonico insieme.

Nella nostra epoca caratterizzata da un dinamismo operante, v’è infatti solo questo pericolo, che l’azione inconsulta pregiudichi e rovini la realizzazione di una idea: l’entusiasmo che l’idea suscita, crea un ciclo economico così affrettato che, ove non si abbia avuto cura di prevederlo e di arginarne gli effetti, ci si trova presto di fronte a condizioni paradossali e opposte a quanto era nel desiderio degli animatori.

Un bell’albergo, un ristorante accogliente , uno stabilimento balneare, sia pure razionalissimo in se stesso, non risolvono il problema se questi edifici non vengono studiati secondo un complesso e completo piano urbanistico che vagli le capacità del luogo; le possibilità, le influenze dei centri vicini, il rispetto del paesaggio e ogni altro particolare essenziale.

Si vuole che non avvenga ciò che purtroppo ancor oggi avviene quasi dappertutto, che, l’incontrollato, contingente favore del pubblico, dia immeritati sviluppi a zone incapaci o, (dato il caso, in fondo raro, di paesaggi immeritevoli) dia quasi uno di quegli sviluppi che i biologi chiamano di cariogenesi (riproduzione malata) e che in termini urbanistici si risolve in un vero e proprio caos. Si osserva nei luoghi di villeggiatura, in genere, e in quelli balneari in ispecie, uno sviluppo morboso di costruzioni che dapprima si affacciano alla riva fino a nasconderla, poi s’addensano alle spalle, formano barriere impenetrabili alla vista del litorale, s’abbarbicano sulle eventuali colline, corrodono il paesaggio, lo deturpano con ferocia e con processo non dissimile da quello che i tumori maligni sogliono perpetrare nei corpi organici.

È questa una naturale reazione, d’ordine sentimentale, all’azione dell’urbanesimo, una delle tante eredità che ci ha lasciato l’ottocento e che dobbiamo oggi faticosamente disciplinare.

Il difetto borghese delle città si riscontra analogicamente nei centri di villeggiatura e, in particolare, in quelli che in principio furono più accessibili: i centri balneari. La bellezza delle nostre terre ha affascinato italiani e stranieri: sono sorti in riva ai nostri mari e ai nostri laghi alberghi mastodontici e casette e casone laddove prima non erano se non schiette case di paesani e qualche villa veramente signorile, trionfante nel paesaggio.

I borghesi hanno creato la “moda” per alcuni paesaggi, si sono buttati sulle terre vergini, hanno incominciato a costruire con cementi ornati, e, in breve, hanno trasformato, a loro esclusivo uso, i paesaggi. Dopo un lustro o due, il capriccioso innamoramento ha fine, e la brama di conquista si spinge verso altre terre vergini e quelle che prima erano state tanto amate sono lasciate nell’abbandono o cedute a quelle persone meno abbienti le quali sono costrette ad accontentarsi di godere dei rifiuti altrui.

Questo ciclo “liberale” che abbiamo tratteggiato è incompatibile con la nostra etica, la nostra economia, tutta la nostra dottrina corporativa.

Se si vogliono, come è doveroso, interpretare nello spirito le parole del Direttore Generale per il Turismo, si devono assolutamente stabilire dei chiari termini urbanistici. Si ribadisca il concetto che il paesaggio non appartiene ai singoli (siano essi enti o privati) ma alla collettività; si stabiliscano, con sempre maggior fermezza e maggiore estensione, in ogni luogo quei punti panoramici che ne definiscono l’aspetto caratteristico e siano questi punti considerati zone sacre e inviolabili.

Occorre procedere programmaticamente con piani regolatori regionali di vasta portata, condotti da competenti secondo criteri obiettivi, con l’ausilio di tutte quelle cognizioni che fanno, ormai, dell’urbanistica, una scienza e non un vagolare empirico e accomodante. (V’è a nostra conoscenza un unico tentativo lodevole fornito dal Piano del litorale della Provincia di Savona, promosso qualche anno fa dall’allora Prefetto S. E. D’Eufemia).

Proponiamo che si divida, secondo un criterio logico, tutto il nostro litorale in zone urbanistiche e si esaminino le condizioni, l’orografia, le possibilità economiche, le ragioni storiche d’esistenza, la funzione rispetto agli abitanti locali, il tipo, l’ampiezza, la gerarchia delle funzioni turistiche. Queste ultime appariranno allora in tutta la loro chiarezza, inquadrate nell’interesse dello Stato il quale potrà determinare precise norme unificatrici e tali che anche l’estetica, cioè la poesia, avrà quella parte che si merita.

Non vogliamo aver l’aria di voler fare tabula rasa su tutto il litorale italiano per ricostruirvi poi, di sana pianta, paesi modello utopistici: si tratta più semplicemente di impedire che il nuovo si eriga sugli errori del vecchio, mosso da una pura ragione di conservazione nostalgica; poiché si ha in animo di costruire, si mediti con spirito spregiudicato e si operi secondo conoscenza: il problema è tutto qui, ma le proporzioni di esso, se pur limitate a delle possibilità realistiche, non appaiono insignificanti; il piano regolatore deve gettare sementi per il futuro nel quale è un fatale rinnovamento di ogni cosa caduca: il futuro sia determinato per quanto è possibile dalla nostra volontà creatrice. È questo un problema totale di civiltà: etica, estetica ed economica.

Mentre questi studi daranno a ogni località il proprio compito e i limiti di una propria cornice, si potrà, entro questa, delineare il quadro e pensare all’architettura.

Vi sono oggi stupende località in riva alle nostre acque dove l’architettura è talmente lontana da ciò che la natura esigerebbe, che i villeggianti possono, a mala pena, condurre la loro vita con disinvoltura: se essi circolano per le vie adiacenti agli stabilimenti balneari con abiti adatti alla vita libera delle spiagge, la presunzione di certi palazzotti non può che metterli in soggezione. Questi palazzi sono altrettanto sconvenienti in mezzo ai villeggianti, quanto lo sarebbero, all’opposto, quei villeggianti se volessero aggirarsi per le vie di Milano o di Roma, o di qualche altra metropoli con quegli abiti. È innegabile che occorre in ogni ambiente umano un’unità di stile e lo stile non può esser dettato che dalle funzioni: nei luoghi balneari hanno ragione i bagnanti e torto i parrucconi, siano essi di pietra o di carne e ossa.

Noi che ci vantiamo di aver dato nei secoli, in ogni regione d’Italia, le costruzioni più logiche e più belle, non dovremmo tardare a chiudere i manuali delle accademie per guardare nel vivo della natura e trarre da essa la soluzione dei problemi architettonici.

In una urbanistica sana, con un’architettura sana, potremo allora passare all’esame i differenti organismi che necessiteranno alle diverse località.

Il Regime ha sviluppato in questi anni il tema delle colonie marine e, l’Esposizione (sia detto per inciso, veramente stupenda), che ora se ne tiene a Roma, dà testimonianza del rapidissimo ritmo realizzativo.

Questo tema tocca evidentemente gli interessi sociali della Nazione; gli interessi turistici (s’intende non solo quelli verso gli stranieri, ma anche quelli verso larghe masse del nostro popolo), il valore dei quali è inutile elencare in questa sede, sono ovviamente assai importanti per l’economia e richiedono organismi architettonici altrettanto aggiornati.

Si potrebbero passare in esame i diversi tipi degli alberghi e degli stabilimenti balneari delle nostre spiagge: mentre per gli alberghi si deve soprattutto lamentare che essi siano stati costruiti, in troppo grande numero, negli anni in cui l’architettura aveva perduto ogni significato di purezza, per gli stabilimenti balneari si dovrebbe fare un più lungo discorso che esula dai limiti di questo scritto; certo è che una revisione totale si impone perchè, anche nelle spiagge, che hanno avuto sviluppi negli ultimi anni, troppo poco, che lontanamente abbia un aspetto di modernità, si può sinceramente lodare. Troppe baracche, troppi rabberciamenti di costruzioni che si sono sviluppate secondo il solo spirito della necessità immediata per far fronte ai bisogni impellenti, troppa varietà di stabilimenti, vi sono, sorti l’uno in concorrenza dell’altro, che ricordano i paesi di ventura dove basta un qualsiasi tetto imbastito, perchè ad esso venga dato il nome di casa.

Questo è abusare della bellezza della natura e del fascino che essa esercita sugli uomini.

Si impone, dunque, dal generale al particolare. dal piano regolatore regionale fino ai tipi di capanne, uno studio approfondito perchè il problema turistico deve essere prima di tutto risolto in funzione delle nostre esigenze di civiltà: non dobbiamo adescare nessuno con mezzi adulatori con civetterie indecorose; siamo pur certi, che, dove potremo ospitare degnamente il turista italiano, potrà venire qualunque marajà, il più esigente, al quale se non daremo da soddisfare curiosità snobistiche offriremo, tuttavia;ben più sostanziali elementi di ammirazione.

Noi crediamo che queste nostre parole, che a qualcuno potranno sembrare in qualche parte troppo amare per quanto definiscono il presente e troppo astrattamente idealizzatrici per quante pretendano dal futuro, interpretino, nella misura delle nostre forze, il sentimento che va chiaramente delineandosi nelle moderne coscienze degli urbanisti italiani, i quali sono tutti convinti che sia ormai giunto il momento di porre argini potenti al dilagare degli arbitri, e parimenti sono consapevoli di poter affrontare con pieno senso di responsabilità, quei problemi che lo Stato corporativo vorrà veder risolti dalla loro competenza.

Le antiche guerre hanno “formato” le antiche città murate

”La città non deve essere quadrata, né con angoli acuti, ma circolare, acciocché sia il nemico da più luoghi scorto, imperciocché da quelle muraglie, nelle quali sorgono molti angoli acuti riesce malagevole le difesa perché l’angolo ripara più il nemico. che il cittadino”, così Vitruvio Pollone nel libro primo del Trattato d’architettura, riguardante la costruzione della città.

Entro questo spazio il cittadino viveva nella sicurezza dalle invasioni nemiche, e la sua proprietà era preservata e salva; su questo principio delle cerchia murarie sino al dominio della polvere da sparo si studiò la città come luogo dove averi e vita delle genti fossero al riparo dal nemico.

Le artiglierie distrussero quel primo disegno di protezione e i successivi: e nulla poté più resistere a queste nuove catapulte.

La guerra “diversa” ha determinato forme diverse alle città, poi le ha liberate delle mura, portandole ai confini della nazione

La città, con l'evoluzione storica che comporta la creazione delle nazioni, perdè la figura di roccaforte; le città si conquistarono “indirettamente” con battaglie combattute in aperta campagna; e da ultimo con l’avvento rivoluzionario delle ferrovie, con le possibilità di spostamenti rapidi e lunghi, la guerra veniva portata ai confini delle Nazioni ove si creavano le trincee, le piazzaforti, insomma la linea di resistenza.

L’agglomerato cittadino fattosi estraneo alla guerra, divenne entità commerciale, industriale, politico-sociale, culturale; la città pacifica si sciolse dalla armatura delle forme planimetriche che le guerre avevano dato alle città nelle successive età storiche.

Mura di Babilonia, mura di Roma, ritorte planimetrie medievali, classici schemi del cinquecento, o del seicento, grandiosi esempi di sistemi difensivi, ecco l’antica arte militare-urbanistica.

Il sistema difensivo è stato creato alla frontiera; l’esempio della Muraglia cinese, si è rinnovato nei leggendari bastioni delle Linee e dei Valli Maginot, Sigfrido, Stalin, Atlantico, Alpino.

Contro l’arma aerea la guerra torna adeterminare una forma della città

Ma se l’uomo ha creato linee di protezione contro l’invasore di superficie, non ha pensato, o non ha osato pensare, benché ve ne fosse la possibilità nell’arma aerea, che uno dei principi fondamentali della guerra sarebbe diventato quello di portare la distruzione nell’interno del Paese, valicando ogni difesa.

La guerra, col bombardamento aereo, torna dunque ad agire sulle città, la città torna ad essere un obbiettivo di guerra. La forma delle città deve tornare ad essere studiata in funzione della guerra.

Ciò non si è ancora osato di fare, sia perchè la mente rifuggiva dal misurare la violenza di una guerra aerea, sia per la poca conoscenza del mezzo aereo, ma anche per la caparbia opposizione della gente alle previsioni che una tragica realtà s’è incaricata di confermare.

Come l’arma aerea trova oggi le città

La città d’oggi è un agglomerato di costruzioni, nato in altri secoli, sviluppato socialmente in epoche recenti ed infine cresciuto con ritmo affannoso nei tempi moderni, con un incremento estraneo ad ogni logica.

Se pensiamo che dalla Grande Guerra, dove l’arma aerea ha avuto il suo primo impiego contro le città, sono passati ben ventiquattro anni, e se pensiamo all’iperbolico progresso dell’aviazione, dobbiamo constatare che una totale incomprensione di un pericolo avvenire ha dominato i colossali sviluppi urbanistici, quasi escludesse l’ipotesi della guerra.

Quale infatti il panorama aereo delle città?

Qui una abitazione, qua una fabbrica, accanto un giardino, poco discosto un deposito di carburante, poi una caserma, quindi ancora una casa, indi un opificio, e non lungi un piccolo deposito con la sentinella, sì, con l’incarico di difendere il difendibile dall’eventuale ignoto o dall’ipotetico cerino, e poi ancora case, case, case ammassate, alte, basse, ricche e povere, vecchie e nuove: tra questo soffoco di alveari umani, alti come goffe cattedrali, i gasometri.

Panorama incredibile, concezione disordinata di fabbricati senza parentele che li avvicinino.

Spettacolo miracolosamente brutto da terra e intrico irrisolvibile dal cielo per chi volesse solo colpire obbiettivi di guerra.

Arma aerea e città future

Facile profezia è che l’arma aerea sarà domani ancor più forte e determinante. Non è quindi più concepibile che nel pensare alle città non si tenga conto di ciò.

Costi quel che costi, meglio spendere oggi per la sicurezza del domani, che non aspettare una seconda rovina con distruzioni irreparabili. Spendere però creando anche un ordine be nefico alla vita di pace.

Aristotele affermava che la “felicità dei popoli alberga nella bellezza delle sue città”, ma aggiungeva che “la città ha da essere munita di mura ... poiché la difesa è tanto utile quanto l’ornamento”.

Da questo asserto portiamoci a considerare dunque l’impianto di una città nuova, di una città ideale per la difesa: poi si arriverà alle possibili correzioni di attuali città.

Zone a sviluppo lineare

Mi rendo conto perfettamente che certe mie vedute contrastano con quelle diffusissime, di assoluta maggioranza, che preconizzano il diradamento delle città, l’allontanamento delle industrie. Contrastano con le tendenze che vogliono “sfollare le città”, creare la “città invulnerabile” nella città sparsa, regionale (idea espressa con ammirevole costanza da Vincenzo Civico).

Io come architetto non concepisco una simile città, perchè non è più una città: come aviatore, ed anche come architetto, poi, vedo determinarsi - attraverso le zone - la forma futura difensiva e difendibile delle città.

Un principio fondamentale dove imperniare la nascita e lo sviluppo di un aggregato cittadino è la formazione e delimitazione delle sue zone. Tipicamente: la zona residenziale, la zona d’affari, la zona culturale e di svago, la zona industriale.

Questo schema non è tassativo; può variare secondo caratteristiche di vita di diverse città, assumendo particolari sviluppi. (Vi sono città portuali, commerciali, centri agricoli, città culturali, città balneari, climatiche, turistiche, ecc.). Ma questo schema concerne particolarmente le grandi città, le metropoli industriali o commerciali, che sono gli obiettivi più importanti e dannosi dell’arma aerea.

La distribuzione in zone è logica sia negli sviluppi, sia nel determinare una estetica, sia nel coordinare una gamma organizzata di trasporti; infine, questa è la mia opinione, è più logica per la difesa aerea.

Zone, significano nel loro risultato una città lineare con le due zone residenziale e industriale ad un capo ed all’altro della città, e tra queste le altre zone sviluppate secondo le diverse caratteristiche possibili di un agglomerato cittadino.

La zona residenziale sviluppata in altezza

Per zona residenziale intendo quella dove han luogo le abitazioni in genere di ogni categoria di cittadini, perchè considero che una urbanistica veramente civile non deve considerare che possano esistere quartieri ricchi e quartieri poveri, ma che debbano esistere città per uomini, e che si debba provvedere alle abitazioni con il concetto di una pari dignità, per ogni uomo, anche se nella società essi possono avere diverse attribuzioni. Nelle scuole, nell’esercito, nei trasporti, nelle chiese, ecc. non siamo arrivati a questa civile parità?

Nelle zone residenziali saranno le scuole primarie e medie, le chiese ed istituti religiosi, le sale degli spettacoli e divertimenti, l’artigianato minuto, le istituzioni sociali necessarie per la vita di una collettività.

Pur sapendo di essere contro a larghe correnti di idee, scarto a priori per la sistemazione di questa zona il concetto della città-giardino per l’eccessivo e costoso sviluppo in estensione, e, in quanto a difesa, per la spesa antieconomica della costruzione di un numero elevato di ricoveri per ogni singola abitazione, fatalmente, poi, insufficienti; vedo invece la zona residenziale sviluppata in altezza, con costruzioni in cemento armato, le migliori contro l’offesa aerea. Meno spazio coperto, più verde.

Fabbricati aperti; insolazione e orientamento esatti, collegamenti rapidi e semplici, minori spese per gli impianti generali, e, venendo sempre alla difesa, economia per la costruzione di ricoveri, che debbono essere pubblici, collettivi, e come tali efficienti e perfetti. I rifugi sotto le case sono imperfetti e pericolosi e costituiscono un onere a fondo perduto per il costruttore. I rifugi collettivi sotto le strade possono essere adibiti a comunicazioni (vedi Metrò: Londra, Berlino ecc.).

È secondo questo orientamento che bisogna provvedere; il ricovero deve essere accessibile subito anche dalla strada a tutti e su questa deve avere possibilità sicure di uscita. Le fotografie dei crolli dovuti a bombardamento dimostrano, senza possibilità di smentita che il rifugio, posto nei sotterranei di una casa è un errore, poiché non è una casa sola che crolla, ma un gruppo, e generalmente l’edificio si siede, ricoprendo tutto e non dando scampo alle eventuali persone rifugiatesi sotto. E ciò oggi mentre si adoperano ancora esplosivi di relativa potenza.

Zona industriale e sua difesa attiva e fattiva

La zona industriale avrà una sistemazione studiata con un piano generale, ma che dovrà essere concretata secondo le eventualità di sviluppo di una industria rispetto ad un’altra.

In questa zona, alla quale i lavoratori affluiranno, con una gamma di trasporti, dalla zona residenziale, risiederà il possibile obbiettivo bellico.

Ma questo obbiettivo concentrato, può avere una difesa concentrata ed efficiente, può essere occultato con accorgimenti rivelatisi eccellenti, può infine essere costruito “per resistere” alle incursioni. Il prezzo pagato varrà la pena, se eviterà distruzioni. Costruzioni mimetizzate, difficili da individuare, costruzioni in altezza difficili da mirare, costruzioni in profondità, irraggiungibili, dove le bombe torpedini non recano danno se la copertura è costruita sul tipo di ricovero antiaereo, e la bomba perforante o ritardata provoca, al caso, solo danno parziale.

Creare una zona industriale, fa subito pensare che l’individuare l’obbiettivo da parte degli aerei sia più facile, perchè consente di trovare senza troppe ricerche l’area da colpire, ma se ciò è vero è anche vero che sarà anche più facile il concentramento della difesa contraerea e della difesa da caccia in volo, in quanto può essere realizzato nella migliore maniera il complesso protettivo a terra e si può neutralizzare l’attacco in volo data l'esiguità della zona.

Quindi concentramento efficace del tiro antiaereo sia di giorno che di notte, o intervento decisivo dei velivoli da caccia in ogni momento; oppure sbarramento luminoso dei riflettori, abbagliamento per l’invasore, poiché rimane sotto il tiro delle batterie e non può controbattere il caccia intercettatore che si trova avvantaggiato dal combattere dal buio alla luce. Questo accentramento di forze ha un valore altamente demoralizzante per il nemico.

Città aperta

Inoltre solo realizzando la zona industriale, che volente o nolente, in qualsiasi punto si trovi, raggruppata o no, deve essere considerata obbiettivo militare, si ha la possibilità di dichiarare effettivamente (durante lo stato di guerra) città aperta la zona residenziale, zona che effettivamente esclude obbiettivi bellici, ma che in ogni odo se anche questa civile ipotesi non si avverasse sarà più efficiente come difficile bersaglio, col suo sviluppo in altezza, sarà resistente se costruita in cemento armato, sarà sicura ai viventi se provvista di rifugi concentrati, consentirà una sua efficiente difesa attiva ed una sufficiente difesa passiva.

Tra la residenziale e l’industriale, troveranno posto le zone d’affari, sportive, culturali, di svago, e le stazioni (sotterranee) ecc. Esse non hanno necessità costruttive evidenti o diverse dalla residenziale circa la difesa dall’arma aerea: durante il giorno mentre l’attività si svolge intensamente, l’attacco aereo è assai difficile per la facilità d’avvistamento e le conseguenti contromisure; durante la notte le zone si troveranno quasi deserte, e se alcuni enti pubblici devono continuare la loro attività, sarà facile organizzare loro ricoveri perfettamente efficienti.

La zona sportiva e di svago, che non avrà valore come obiettivo bellico, non costituisce problemi difficili.

Organizzate le zone se ne coordineranno le comunicazioni, con trasporti rapidi sotterranei (metropolitane) diretti da punti di maggiore distanza, accelerati tra le zone intermedie, dentro le zone con mezzi normali, sostituendo ai tram i filobus, smistatori ottimi e veloci, e con impianti meno vulnerabili. Aeroporti civili, stazioni (sotterranee) saranno intermedi fra le zone.[...]

Conclusione

Suddividere dunque in zone, creare ricoveri comuni, mimetizzare, sono i problemi che bisogna affrontare e risolvere. Le incognite non esistono più e quindi la soluzione esiste.

Nota: è forse utile un confronto del presente testo, con la cultura anglosassone contemporanea della “urbanistica antiaerea”, nella versione della Commissione Barlow(f.b.)

Ciascuno dei tre temi intrecciati in questo scritto (orario di lavoro, trasporto, tempo libero) ha una propria ambivalenza: rappresenta una necessaria realizzazione dell’uomo moderno e provoca una particolare patologia. L’orario di lavoro eccessivo, o distribuito in turni malsani, determina fatica psicofisica ed è concausa di molteplici malattie e traumatismi [1]. Desoille e Le Guillant hanno riassunto già nel 1957 le numerose ricerche dimostranti una correlazione tra le assenze dal lavoro per malattia e la durata dell’orario settimanale (7% di assenze con 63 ore, 4% con 54 ore, 3% con 40 ore), un rapporto quasi costante tra fatica ed infortuni sul lavoro (che si riducono del 10-20% quando l’orario cala di un’ora al giorno), una incidenza degli orari eccessivi sulla salute mentale (astenia psico-fisica, turbe dell’umore e del carattere, disturbi del sonno, malattie psico-somatiche), un’influenza diretta della fatica sulla resistenza alle malattie infettive (dimostrata anche sperimentalmente sugli animali), e sulla propensione alle tossicomanie [2], Anche l’esposizione agli agenti nocivi fisici e chimici ed alle radiazioni è proporzionale alla durata del lavoro; vi è anzi una progressività per le noxae che si accumulano nell’organismo.

Questi fatti sono noti. Vengono meno riconosciuti, invece, altri fenomeni. Uno è che l’orario complessivo di lavoro, che è la somma delle ore contrattuali o legali (48 settimanali per l’Italia, in base alla Legge del 15 marzo 1923), delle ore straordinarie, del “doppio lavoro” e delle ore trascorse in itinere, da alcuni decenni tende alla stazionarietà o al peggioramento, dopo aver conosciuto una fase di progressiva riduzione tra la seconda metà del XIX e l’inizio del XX secolo [3]. Un secondo fenomeno è che in Italia (ma anche altrove) la durata del lavoro è paradossalmente più lunga per le occupazioni più faticose. Secondo le rilevazioni di M. Ancona [4] sui contratti di lavoro, gli operai dell’industria passano ad orari settimanali di 44, 42 e 40 ore, mentre gli impiegati statali hanno 36 ore. Gli autoferrotranvieri sono passati, dal 1954 al 1966, da 48 a 39 ore per gli impiegati (meno 9 ore) da 48 a 42 per gli operai (meno 6). All’interno della medesima amministrazione statale si ripresenta il paradosso: nelle Poste gli amministrativi hanno 36 ore, gli addetti al traffico ed ai servizi tecnici 42 ore; nella Difesa gli impiegati 36 ore, gli operai degli Arsenali e degli Stabilimenti 42 ore. Gli insegnanti delle scuole medie hanno in Italia gli orari più bassi del mondo: una media di 11 ore e mezzo alla settimana, e sono superati solo dai professori universitari [5]. Un terzo fenomeno è che l’organizzazione del lavoro industriale, saturando le pause e parcellizzando i movimenti in modo ossessivo, tende ad accrescere l’intensità delle ore lavorative, a provocare cioè una maggiore usura psico-fisica con durata del lavoro uguale o perfino inferiore.Patologia del trasporto

Il trasporto urbano e suburbano ha anch’esso la sua patologia, che fu già classificata in uno studio Delle malattie e lesioni che più spesso si osservano sulle linee delle ferrovie, pubblicato nello Stato Pontificio alla vigilia del 1870 [6]. L’autore, dopo aver osservato che la diffusione del trasporto “procura immense utilità alle scienze ed alle arti, e merita perciò di essere bene studiato, sotto il punto di vista della pubblica e della privata igiene”, elencava tre capitoli della patologia.

Il primo è quello “delle malattie che più di frequente attaccano gli impiegati” (gli addetti al trasporto) fra le quali predominavano allora “l’elemento reumatico e l’elemento palustre”. Oggi il quadro è diverso. Le ricerche sulle malattie degli autoferrotramvieri mostrano, insieme alla persistente incidenza delle forme infettive, reumatiche e artrosiche, un’incidenza sensibile di malattie degenerative e psicosomaitche. Rimando a più ampie statistiche per l’insieme della patologia [7]. Sottolineo soltanto che l’arteriosclerosi delle coronarie è altrettanto frequente nel personale viaggiante (20%0) e negli impiegati (21%0), nel primo caso per gli stress lavorativi, nel secondo per la sedentarietà, meno frequente negli operai (12%0). Le ulcere e le gastriti incidono maggiormente nel personale viaggiante (139%0), meno negli operai (81%0), meno ancora negli impiegati (20%), e le malattie nervose e mentali hanno la medesima distribuzione. È stato osservato che questa patologia neuropsichica deriva anche dal fatto che il personale viaggiante “posto di continuo a contatto con il pubblico, subisce le sue lamentele per i disservizi di orario e le scomodità di cui non è responsabile” [8]. Questa patologia professionale degli autoferrotramvieri tende oggi - quando tutti, o almeno i cittadini maschi adulti, diventano per .alcune ore giornaliere trasportatori di se stessi nelle difficoltà del traffico urbano - a divenire una patologia sociale, che colpisce l’insieme della popolazione.

Il secondo capitolo della patologia del trasporto era intitolato dal Tassi “sulle varie lesioni traumatiche, cui vanno soggetti gli addetti alle vie di ferro, e quelli che le percorrono”. Egli descriveva scontri, tamponamenti e perfino lo schiacciamento con “orribile morte” che “tocca a volte a quei guarda-linee e guarda-barriere, che dovendo dare nelle ore notturne il segnale ai treni di passaggio ... sopraffatti dalla stanchezza e dal sonno, si coricano durante la notte con la testa sopra una rotaia della linea, colla fatale speranza d’essere riscossi dal rumore comunicato dal treno che giunge, onde trovarsi all’erta ...”. Con la stessa “fatale speranza , nel XX secolo si è subita l’imposizione prioritaria dell’automobile come mezzo di trasporto urbano e suburbano, ed anche gli infortuni (come la malattie) dei trasportatori professionali sono divenuti infortuni di tutti. Oggi “l’automobile, unitamente alle malattie cardiovascolari ed al cancro, rappresenta la causa più importante di morte nei paesi progrediti”, e sulle strade del mondo “l’uomo si uccide ed uccide senza scopo e senza gloria più di quanto egli non abbia fatto nella seconda guerra mondiale” [9].

Il terzo capitolo trattava dell’influenza del trasporto “sulla salute dei viaggiatori e dei vicini abitanti”: erano qui compresi “nelle grandi metropoli ... gli impiegati e le persone di scarsi mezzi che per ragioni economiche dimorano ben lungi dal centro”, gli odierni pendolari; erano comprese a danno dei viaggiatori le frequenti apoplessie per “le ripetute sorprese, gli spaventi, le corse rapide e prolungate”, ed a danno dell’ambiente naturale “le mutate condizioni telluriche, i trafori, i disterri, il disboscamento dei luoghi”. Anche in questo caso, la novità sta nella estensione del danno: a tutto l’ambiente urbano ed extraurbano, ed a tutti i cittadini. È stato calcolato a Parigi, per esempio, che il pendolarismo “colpisce ora largamente la popolazione scolastica, il cui spostamento quotidiano supera il 10% degli spostamenti complessivi nell’agglomerazione urbana” [10]. La lunga durata del trasporto, che è quasi inevitabilmente legata all’espansione delle città a macchia d’olio, riduce fra l’altro il tempo dedicato allo svago, allo studio ed al riposo.

Tab. 1: Differenze dei giorni di ferie annuali tra operai e impiegati in alcuni settori industriali, prima dei recenti contratti

Metalmeccanici: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni

Dolciari: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 16 a 30 giorni

Chimici: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni

Tessili: operai da 12 a 16 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni

Ceramisti: operai da 12 a 22 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni

Minatori: operai da 12 a 18 giorni; impiegati da 15 a 30 giorni

Chi più fatica meno riposa

Giungiamo così alla patologia del “tempo libero”, che dipende dalla sua durata e dal suo impiego. La durata del riposo è regolata, in Italia, dal medesimo paradosso che ho segnalato per la durata dell’orario: chi più fatica meno ha diritto al riposo. Nel settore industriale, prima dei recenti contratti che hanno realizzato un sensibile avvicinamento, i giorni di ferie annuali, che crescono secondo l’anzianità lavorativa, erano così distribuiti tra operai e impiegati (tab. 1). Nell’impiego pubblico, la durata delle ferie è di almeno 30 giorni. La legge sul riordinamento del parastato, in discussione attualmente alla Camera dei Deputati, prevede anzi 30 giorni più le festività del mese, cioè 35 giorni. Il paradosso si accresce: con i contributi previdenziali tratti dal lavoro degli operai, che hanno 2-3 settimane di ferie, si pagano funzionari ed impiegati che vanno in ferie per 5 settimane; e quando l’operaio chiede la pensione, questi uffici previdenziali lo fanno spesso attendere per anni. Oltre alla durata, anche l’impiego del “tempo libero” è razionato secondo criteri classisti. A Roma, quasi tutti gli impianti sportivi sono localizzati nelle zone residenziali dei quartieri ricchi (Flaminio-Parioli ed EUR), mentre sono quasi totalmente sprovviste le borgate e le zone popolari. Per ogni servizio sociale e per le aree verdi, ovunque “la prescrizione quantitativa degli standard minimi per la sistemazione di spazi per le attrezzature viene ad essere non equamente distribuita fra le parti della città, per cui il grado di accessibilità da zona a zona viene ad essere anch’esso diverso”[11]. Le tessere per un sano riposo sono perciò inegualmente distribuite; ma sono sempre più rari coloro che sfuggono a questo razionamento; residenza, trasporto e lavoro congiurano infatti per impedire a qua sì tutti i cittadini il normale svolgimento non solo delle attività culturali, ma perfino delle tre funzioni naturali dalle quali dipende il recupero psico-fisico: alimentazione, movimento, sonno.

Uno studio dei consumi alimentari in Francia in funzione dell’urbanistica[12] ha documentato la riduzione del tempo e del lavoro consacrato alla nutrizione; la “saturazione di vecchi appetiti a lungo latenti”, con la copertura del fabbisogno calorico e l’aumento dei consumi di carne, pesce, frutta; la comparsa, per contro, di tendenze alimentari predisponenti a dismetabolismi e favorenti una delle “malattie del secolo”, l’obesità.

Questa, a sua volta, è uno dei quadri clinici (gli altri sono a carico dell’apparato cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, dell’equilibrio neuro-vegetativo ed ormonale, ed ovviamente dell’apparato locomotore) che hanno come concausa la riduzione del moto corporeo o ipocinesi[13]. È interessante la ricerca, che propone il Cerquiligni, delle “ragioni storico-culturali che hanno indotto l’umanità a cadere nell’errore di credere che “in fatto di lavoro il fa ancora meglio, e che in fatto di alimentazione sia vero il contrario”, ed è anche interessante l’ipotesi che ciò sia dovuto al fatto che “l’umanità ha sin troppo sofferto e tuttora in gran parte continua a soffrire la più dura necessità di diuturne ed estenuanti attività fisiche per procacciarsi un nutrimento che, per la maggior parte delle genti e ancora al giorno d’oggi, risulta impari non solo a ripagare il dispendio energetico corrispondente al lavoro richiesto dal suo stesso ottenimento, ma addirittura ad assicurare un ottimale processo di sviluppo ed un mantenimento al minimo regime motorio che un’esistenza umana possa comportare”. La propensione al poco movimento ed al molto cibo, non appena la tecnologia lo consente sarebbe perciò una scelta reattiva, un desiderio di riequilibrio storico spinto all’opposto eccesso. Vediamo però come è organizzato il lavoro industriale: “le macchine sono affiancate da cronometristi **[14]** millesimi di secondo) il movimento di alcuni gruppi muscolari e di immobilizzare gli altri gruppi superflui”[15]; i quadri di comando degli impianti meccanizzati sovraccaricano di stimoli e chiedono risposte rapidissime ad alcuni organi sensoriali, mentre neutralizzano altri sensi “distraenti”; la divisione del lavoro frantuma l’integrità psicofisica dell’operaio e lo spinge alla passività. Vediamo anche come è organizzata la scuola: la lunga immobilità corporea nei banchi e la supina permeabilità ad accogliere cumuli acritici di nozioni sono stati i due pilastri che hanno retto per secoli tutta l’impalcatura educativa, mentre l’attività nei laboratori, la ricerca sul campo, le ore ginnico-sportive, la pedagogia dell’apprendimento, la collaborazione didattica, la democrazia faticano ad affermarsi nelle istituzioni scolastiche. Vediamo infine come è organizzata la città; le distanze fra edifici sono inferiori ai minimi requisiti igienici, il verde at **** vengono ristretti e poi aboliti per far posto alle automobili, le piazze e i cortili diventano parcheggi. L’infarto del traffico, con le auto come corpuscoli circolanti che rompono le arterie stradali ed invadono il tessuto urbano, blocca ogni flusso vitale nella città.

Propensione al poco movimento? Certamente: ma è favorita, organizzata, utilizzata per trarre il massimo profitto dal lavoro salariato, la massima acquiescenza della scuola, la massima rendita dalla proprietà fondiaria, il massimo guadagno dalle automobili e dal petrolio.

Turbe dell’alimentazione, del movimento, ed infine del sonno. Dopo le ricerche di Begoin sulle telefoniste[16], nelle quali riscontrò ipersonnia diurna (34% dei casi), insonnia notturna (difficoltà di addormentarsi prima delle 1-2 del mattino, oppure risveglio dopo tre o quattro ore di sonno), sonno agitato e poco riposante (53% dei casi) con sogni ed a volte incubi “professionali”, molti hanno constatato che le ore di sonno vanno riducendosi di quantità e peggiorando di qualità reintegrative, per molte categorie di lavoratori e per gran parte della popolazione urbana[17], anche a causa dei rumori, dell’eccesso di illuminazione artificiale e del difetto di isolamento delle abitazioni.

Se otto ore vi sembran poche ...

Alla ricerca del silenzio e del riposo nella domenica o nelle ferie estive i cittadini si spostano verso il mare, i monti, le campagne. Ma qui subentra le bruit dans de loisir: “È paradossale - scrivono studiosi francesi del rumore urbano - pensare che il cittadino, logorato da una vita troppo attiva, depresso da troppe preoccupazioni, traumatizzato psicologicamente dai troppi rumori che incontra nella vita, consacra il suo svago ad attività frastornanti”[18]. La colpa, tuttavia, non può essere attribuita alla musica jazz che impera nei luoghi di vacanza (orchestre che superano, secondo Mounier, Kuhn e Morgon, i 95 decibel, raggiungendo fra 125 e i 2.000 hertz 122 decibel). Il Detti nota giustamente che “le condizioni della casa, del quartiere, e della città, e la maggiore mobilità dovuta prevalentemente al mezzo privato accrescono il senso di rifiuto per la città e quindi la naturale tendenza ad usufruire del riposo settimanale, dei ponti e delle ferie fuori delle città ... gli effetti provocano i grandi esodi, la congestione dei servizi di trasporto, del sistema viario e le alte perdite umane per incidenti”. Gli effetti consistono anche “nella crescita greggia ed abnorme dei luoghi di villeggiatura balneare e montana che ormai costituiscono dei veri e propri sistemi urbani ... in questi ambienti si stanno riproducendo gli stessi difetti di congestione che ha la città dalla quale si sfugge, e qui il prodotto ha aspetti speculativi e consumistici a scapito di quelli che dovrebbero interessare il riposo, la salute, le forme di vita e di svago per compensare i difetti della residenza stabile e del lavoro”[19].

Si riproduce, quindi, nel “tempo libero” la stessa patologia professionale ed urbana, la stessa carica di violenza sull’uomo che esiste nel lavoro e nella città[20]. Si giunge quindi ad una nuova fase, nella quale la lotta per la salute non può essere più condotta su fronti separati, ma richiede un’azione integrata nel lavoro, nella residenza, nel trasporto, nel “tempo libero”. Se riflettiamo alla storia dell’intreccio di fattori morbosi e di misure sanitarie collegate a questi molteplici aspetti della vita umana[21], possiamo dire probabilmente che nell’ultimo secolo si sono susseguite tre fasi. Nella prima, descritta in Francia da Villermé ed in Inghilterra da Engels[22], agiva una costellazione di fattori lavorativi, nutritivi, e abitativi sinergicamente patogeni. Villermé scrive che i tessitori cominciavano il lavoro all’alba per terminarlo alle 10 di sera, e vi erano “bambini di 4 anni che facevano questo mestiere”; i ragazzi “abitavano a volte due leghe dalla fabbrica e vi giungevano in inverno tra il freddo e la neve”; il riposo non raggiungeva 6 ore; l’alimentazione era insufficiente: gli operai “portavano in mano o nascondevano sotto la veste il pezzo di pane che doveva bastar loro fino al rientro in casa”; gli alloggi erano cantine, granai o case sovraffollate ove i proprietari “come in rue du Guet, facevano inchiodare le finestre per impedire che aprendole o chiudendole si rompessero i vetri”. La speranza di vita ad 1 anno (superata cioè l’altissima mortalità infantile) era allora 43 anni per gli industriali, 37 per i domestici, 20 per gli operai qualificati e 11 anni per i manovali delle filande. Il movimento operaio e l’opinione pubblica progressista lottarono per decenni sul triplice terreno della riduzione degli orari, del risanamento delle abitazioni e del fabbisogno alimentare. Le mondine del vercellese cantavano Se otto ore vi sembran poche j provate voi a lavorar, e troverete la differenza tra lavorare e comandar. I proletari di tutti i paesi intonavano la canzone delle 8 ore[23] di J.G. Blanchard: Noi vogliamo cambiare le cose - siamo stanchi di lavorare senza scopo - Noi vogliamo gioire del sole e dei fiori - 8 ore per lavorare - 8 ore per riposare - 8 ore per vivere e sognare.

In Italia, lo SFI (sindacato ferrovieri italiani) distribuiva gli orologi da tasca con sovraimpresso nel quadrante otto ore di lavoro, otto ore di riposo, otto ore di studio. Si giunse così, tra molte resistenze e dure lotte, alla seconda fase, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, nella quale gli orari furono ridotti, molte abitazioni vennero risanate, e nuovi quartieri più salubri costruiti, l’istruzione fu resa obbligatoria, e la durata media del taylorismo - fordismo nell’industria -, con la trasformazione delle città in metropoli, con l’esasperazione della motorizzazione privata si è entrati in una terza fase, in una nuova costellazione sinergica di fattori patogeni: lavoro legalmente ridotto nell’orario, ma più intenso e prolungato di fatto; fabbisogno calorico soddisfatto ma disordini orari e qualitativi della nutrizione; appartamento più o meno salubre in agglomerati urbani malsani; trasporto lungo e rischioso; e nuovi fattori psico-sociali di malattia. Scrive Le Guillant che oggi, per il lavoratore “è tutta l’esistenza ad essere coinvolta nella fatica: la sua posizione verso i problemi del lavoro e dell’ordine sociale, le sue difficoltà personali, materiali e morali, la distanza che deve percorrere per andare in fabbrica o in ufficio, il modo come abita, come sono i rapporti con la moglie, i figli, gli amici, ciò che mangia e ciò che beve, come sono il suo svago e le sue attività sindacali e politiche ... Tutto ciò entra in gioco, in maniera talvolta decisiva, nel suo adattamento agli sforzi che gli vengono richiesti. Incessantemente questi aspetti individuali intervengono a spiegare una rottura del suo equilibrio, l’abbandono di un posto, un infortunio, una malattia”[24].

In questa terza fase, in sostanza, si ripropone con una nuova patologia del lavoro, del trasporto e del “tempo libero”, una nuova subordinazione dell’intero ciclo della vita umana alle esigenze di valorizzazione del capitale. Chi visita ora la grande azienda petrolchimica SIR, nata in questi anni a Porto Torres, viene condotto nel piazzale interno, tra i tubi e gli impianti, tra i fumi ed i rumori, ad ammirare un elegante edificio residenziale con 600 posti-letto, al quale si è dato il nome poetico-dialettale Sa domo (la casa), costruito con l’intento di alloggiare in azienda i tecnici e gli operai (soprattutto i crumiri, in occasione di scioperi): purezza dell’aria, riposo distensivo, rapporti familiari, vita democratica, relazioni sociali, attività culturali, tutto sacrificato agli interessi aziendali. Ma questa aberrante eccezione conferma una regola che è comune agli insediamenti “normali”, al rapporto lavoro-residenza che si è configurato con lo sviluppo “della città come città-territorio. come sistema sociale globale dove si salda, dentro il processo complessivo di produzione, momento lavorativo e tempo libero, produzione e consumo”[25]. Sul piano economico, l’intreccio fra profitto e rendita condiziona oggi la fabbrica come la città; sul piano sanitario, il lungo e disagevole trasporto e la “malaria urbana” rendono difficile il ripristino della capacità lavorativa. e d’altra parte lo sfruttamento proietta la sua ombra patogena sulla intera giornata del lavoratore.

Lotte popolari per il diritto alla salute e al riposo

Negli ultimi anni, per reagire a questo sinergismo di noxae patogene e per affermare il diritto alla salute, al riposo, allo studio, vi sono state esperienze di lotte popolari senza precedenti, di cui alcuni circoli scientifici (per esempio, la Società Italiana di Medicina del Lavoro e l’ Associazione per l’Igiene e la Sanità Pubblica) hanno colto e approfondito il valore pratico e conoscitivo. Tali esperienze riguardano l’orario, il trasporto, il “tempo libero”, ed in qualche caso l’integrazione di questi tre temi. Sull’orario di lavoro, M. Ancona sottolinea la novità delle seguenti rivendicazioni sindacali: la durata del lavoro, “deve considerare tempi di lavoro anche i tempi esterni alla fabbrica, tuttavia connessi al lavoro, cioè il trasporto; la valutazione dell’orario di lavoro deve essere fatta in base ad un rapporto non tanto estensivo quanto intensivo (ritmi ambiente-salute)”[26]. S. Garavini sottolinea[27] il valore di un’altra richiesta: “la non obbligatorietà degli straordinari, o almeno la fissazione di limiti molto ristretti, è una conquista sindacale formale molto recente in Italia, già in Italia non generale, e quasi sconosciuta in altri paesi capitalistici sviluppati (è stata peraltro una delle rivendicazioni delle lotte contrattuali degli operai dell’auto in USA)”. G. Marri riprende questo accenno e riassume in quattro punti le linee sindacali volte a limitare la durata estensiva e intensiva del lavoro:

1) una spinta generale per la riduzione della settimana a cinque giorni lavorativi, spinta accompagnata dal rifiuto, che si va allargando a settori sempre più importanti della classe operaia, a compiere lavoro straordinario;

2) un rifiuto sempre più deciso a lavorare di notte, cioè un rifiuto ad ammettere la necessità sociale del lavoro a ciclo continuo;

3) l’applicazione sempre più diffusa del principio della non delega e della validazione consensuale nella determinazione dei tempi, dei ritmi di lavoro e delle pause, come mezzo per contenere e ridurre la durata intensiva della giornata lavorativa;

4) una spinta generale all’ aumento delle ferie annuali[28].

Queste tendenze ad attenuare la fatica operaia riducendo l’orario reale (somma delle ore contrattuali più ore straordinarie più trasporto, moltiplicata per l’intensità del lavoro e per i cicli malsani, cioè notturni o alterni) hanno un duplice significato, biologico e sociale, che tramuta gli interessi di una classe - i lavoratori salariati - in valori generali.

Sul piano biologico, mi pare che le rivendicazioni e le parziali conquiste ottenute tendano a recuperare il ritmo vivente della specie Homo Sapiens e dei singoli individui che la compongono, violentato dal ritmo imposto dal lavoro morto (il capitale, secondo la definizione marxiana) e che quindi, tra tanto parlare e assai meno realizzare nel campo della protezione della natura, rappresentino una delle poche esperienze di recupero della naturalità a noi più cara e più vicina, quella dell’uomo stesso [29].

Sul piano sociale, mi pare che le rivendicazioni e le parziali conquiste ottenute tendano ad affrontare una delle principali distorsioni che ha subito in questo secolo, e particolarmente negli ultimi venti anni, l’economia italiana: la riduzione della popolazione attiva, che alla data dei vari censimenti [30] risultava la seguente:

anno 1911: 48,2%; anno 1931: 45,3%; anno 1951: 43,5%; anno 1961: 39,8%; anno 1971: 34,7%.

La riduzione della durata e dell’intensità degli orari implica necessariamente maggiore occupazione nelle attività produttive. Si aggiunga che le Confederazioni Sindacali hanno ottenuti in numerosi accordi aziendali (p. es. FIAT, Alfa Romeo) l’impegno di investimenti nel Sud, e che per favorire lo sviluppo della occupazione nel mezzogiorno si sono dichiarate disponibili ad esaminare la temporanea sospensione della “settimana corta” e una diversa organizzazione dei turni, purché l’orario venga ridotto a 36 ore e siano migliorati i trasporti ed i servizi sociali.

“Fattore umano” e scelte obbligate

Su questo terreno le tendenze sindacali dei lavoratori dell’industria realizzano una prima saldatura con il riequilibrio degli insediamenti territoriali, condizione per il decongestionamento delle aree metropolitane, e con lo sviluppo dei trasporti pubblici, condizione per alleviare la fatica e gli infortuni del traffico urbano e suburbano. Questo medesimo risultato non può essere ottenuto puntando in modo esclusivo o prevalente sul “fattore umano negli incidenti del traffico”. Lo psicologo che introdusse in Italia questa tendenza, padre Gemelli [31] ricordava in un Convegno del 1959 che negli Stati Uniti “l’azione esercitata per prevenire gli infortuni automobilistici è posta sotto il segno di tre E: Engineering, ossia misure di ordine tecnico; Enforcement, ossia misure d’ordine repressivo; Education, ossia misure d’ordine psicologico”. I risultati sono noti: la somma delle tre E dà oltre cinquantamila morti all’anno. Padre Gemelli restringeva il “fattore umano” al piano individualistico, anziché allargarne la dimensione alle scelte sociali dell’uno o dell’altro mezzo di trasporto, dell’uno o dell’altro insediamento lavorativo e residenziale. Considerava che l’incidente è “precipuamente dovuto al comportamento del conducente del veicolo”, che nella guida “il fattore fondamentale è dato dalle caratteristiche dell’intelligenza”, e che perciò “la psicotecnica ci permette di selezionare coloro che hanno le qualità attitudinali per diventare buoni conducenti”. Il limite di questa impostazione, che pure ha qualche validità, è emerso subito anche sul piano scientifico. Già nel medesimo Convegno il Mitolo, oltre ad analizzare la costituzione infortunistica come “complesso psico-somatico congenito e caratteristico della personalità individuale che si manifesta con una specifica tendenza ad incorrere nell’infortunio” [32], dimostrava l’influenza (tutt’altro che congenita) sugli infortuni della fatica alla guida, delle intossicazioni “volontarie”, degli inquinamenti ambientali, dell’orario lavorativo. Ma il limite è emerso soprattutto sul piano sociale: quando chiunque lavora compie la scelta coatta di avere un proprio autoveicolo, la selezione psicotecnica dei conducenti ideali ha ben poco senso; e come misura preventiva, è certamente più efficace la riduzione del volume del traffico privato incentivando e rendendo più celere il trasporto pubblico.

I lavoratori autoferrotramvieri (ed i ferrovieri per gli spostamenti a lunga distanza), dopo esser stati vittime passive delle distorsioni della città e del trasporto, ed aver a volte perfino sollecitato, per maggiori compensi, prolungamenti straordinari di orario, sono divenuti cavie ribelli. Hanno chiesto orari ridotti, ed insieme ad alcune amministrazioni comunali hanno ottenuto la chiusura dei centri storici al traffico privato, corsie e strade preferenziali per i mezzi pubblici, acquisto di nuovi autobus, maggiore velocità commerciale, provvedimenti che alcuni anni fa rischiavano l’impopolarità ma che la crisi energetica e la congestione urbana hanno poi dimostrato, agli occhi di tutti, essere indispensabili. Vi è da augurarsi che le esperienze dell’ austerity automobilistica, di cui nel ’73-‘74 l’Italia ha più subito le improvvisate stranezze e i danni economici, che goduto i potenziali vantaggi, siano utilizzate per invertire almeno questo aspetto del “modello di sviluppo”: i trasporti e gli insediamenti.

Anche per la ripartizione e per l’uso del “tempo libero” vi sono recenti acquisizioni pratiche e concettuali del movimento dei lavoratori e delle amministrazioni locali. Nell’accordo aziendale firmato il 9 aprile di quest’anno alla FIAT per gli stabilimenti del gruppo veicoli industriali, per esempio, è stato concordato un interessante esperimento di scaglionamento delle ferie, in cinque turni di tre settimane ciascuno, dal 17 giugno al 29 settembre, con un giorno di ferie in più per chi usufruisce del primo o dell’ultimo turno: continuità produttiva, maggiore occupazione, decongestionamento della rete turistica diventano così, anziché brandelli di un incomprensibile puzzle, obiettivi raggiungibili. Nell’accordo che ha chiuso il 12 aprile la vertenza Italsider vi è un intreccio di misure che riguardano sia il lavoro che il “tempo libero”, sia la fabbrica che l’ambiente esterno: adeguamento degli organici evitando il ricorso allo straordinario; miglioramenti ecologici (trattamento delle acque di scarico, recupero dei fumi, rifacimento di alcuni impianti partecipazione dei lavoratori alle rilevazioni ambientali con addestramento e dotazione delle necessarie apparecchiature; erogazione da parte dell’azienda dello 0,8% delle retribuzioni a favore degli Enti locali che si impegnano in programmi sociali (case e trasporti). Parallelamente si sono affermati, per ora più nei programmi che nella realtà, principi nuovi di riassetto del territorio sulla base di due priorità agricoltura e mezzogiorno) che potrebbero decongestionare le aree metropolitane; si è sviluppato il movimento per lo sport come servizio sociale; si sono rivalutati il verde urbano, l’attività motoria, il trasporto pubblico; si sono estese nuove forme dì partecipazione democratica come i comitati di quartiere e di circoscrizione che possono saldare il Comune alla popolazione, come i Consigli sindacali di zona che possono saldare la fabbrica al territorio.

Ho ricordato queste esperienze pur conoscendone i limiti geografici, là precarietà, l’insufficienza, rispetto a opposte tendenze che aggravano anziché attenuare, il sinergismo dei fattori patogeni che agiscono nel lavoro, nel trasporto, nel “tempo libero”. Sono esperienze, però, che indicano una strada necessaria, anche se difficile e contrastata [33]. Per estenderle e per consolidarle, vorrei sottolineare i seguenti orientamenti:

1)Sul piano politico, molto dipende dall’attività dello Stato sia per le scelte produttive e sociali, sia per l’organizzazione deI servizi ( trasporti, sanità, scuola, sport). Basta pensare a! ruolo che potrebbero avere le Unità Sanitarie Locali sia nell’individuazione dei “sinergismi patogeni” che nella mobilitazione di capacità tecniche di forze popolari per l’attuazione di adeguate misure preventive.

2)Sul piano amministrativo, è stato sottolineato il valore della pianificazione urbanistica per attenuare fattori morbosi quali “l’inquinamento atmosferico, l’inquinamento delle acque e del suolo, il rumore, la disritmia e l’incoordinazione delle attività comunitarie, il sovraffollamento e la promiscuità, la difficoltà dei rapporti sociali, la potenzialità lesiva della motorizzazione” [34].

3)Sul piano legislativo, oltre all’urgenza del Servizio sanitario nazionale (che ha subito ora, nei programmi governativi, un ulteriore slittamento per studiare e per “verificare modalità e tempi di applicazione”), va ripresa la proposta di regolare con nuove norme l’orario di lavoro ed il riposo settimanale e annuale dei lavoratori, per generalizzare nell’industria le conquiste delle categorie sindacalmente più forti, per riequilibrare il rapporto operai-impiegati, per scoraggiare e colpire i frequenti abusi, per affrontare questioni mature come quella delle festività infrasettimanali e dello scaglionamento delle ferie.

4)Sul piano concettuale, infine, ricerche interdisciplinari e azioni coordinate dovrebbero tendere a colmare la separazione fra le conoscenze che abbiamo accumulato sui singoli brandelli dell’attività dell’uomo (il lavoro, il riposo, il trasporto, la residenza, il sonno, lo studio, le relazioni familiari e sociali), senza riuscite finora ad inquadrarli in una visione unitaria [35]. Anche per questo aspetto, esperienze degli ultimi anni come il recupero del tempo di studio nel lavoro operaio, come la spinta verso relazioni comunitarie nei quartieri dormitorio, come la partecipazione popolare alla vita della scuola, come l’apertura del microcosmo familiare verso la società, come lo sviluppo delle associazioni culturali di base, forniscono interessanti basi per la ricerca e stimoli crescenti al rinnovamento della città.

[1]Carozzo S., La fatica quale fattore e concausa di malattia, Istituto di Medicina Sociale, Roma 1964, pp. 117-126.

[2]Desoille H., Le Cuillant L., Effects de la fatigue sur la santé des travailleurs, Conference internationale sur l'influence des conditions de vie et de travail sur la Santé, Cannes, 27-29 settembre 1957.

[3]Sabatucci F., La durata del lavoro nei principali paesi industrializzati, Quaderni di Rassegna sindacale, n. 26. L’orario di lavoro, giugno 1970, pp. 80-98.

[4]Ancona M., Orario di lavoro, settimana corta, ferie,Bulzoni, Roma 1974.

[5]Legalmente, è vero che per essi l’anno è di sei mesi, la settimana di tre giorni, il giorno di un’ora e l’ora di quarantacinque minuti. La proposta del tempo pieno fu respinta nel 1967 con bizzarre argomentazioni: l’on. D’Amato, DC, sostenne: “non credo che Archimede, per esempio, dovesse essere impiegato full time. Come altrimenti avrebbe potuto gioiosamente gridare eureka? All’immagine di Archimede che faceva il bagno quando scoprì la famosa legge si associa il ricordo di Newton cui la caduta di una mela propiziò la scoperta della legge di gravità. E così per Galileo ecc.” (cfr. F. Froio: Università: mafia e potere, La Nuova Italia, Firenze 1973, pp. 56-65). La proposta del tempo pieno è stata respinta dalla maggioranza (DC, PSI, PSDI, PRI) anche in occasione del D.L. 1° ottobre 1973, Provvedimenti urgenti per l’Università.

[6]Tassi E., Delle malattie e lesioni che più spesso si osservano sulle linee delle ferrovie, ed in ispecie delle romane, con alcune riflessioni circa la necessità di un regolare servizio sanitario proprio delle medesime, Tipografia Belle Arti, Roma 1869.

[7]Berlinguer G., Malattie e igiene del lavoro degli autoferrotramvieri, Istituto di Medicina Sociale, Roma 1962, pp. 208, cfr. la bibliografia alle pp. 195-199.

[8]Saginario M., Sugli aspetti neuropsichici, nella Tavola rotonda Il problema delle malattie professionali degli autoferrotramvieri, Patronato INCA, Parma, 13 dicembre 1964. gi Cfr. anche la relazione di A.C. Dettori, Le malattie cardiovascolari.

[9]Tizzano A., La statistica negli infortuni stradali sotto il riflesso sociale, clinico e medico-legale, nel vol. L’aspetto medico dell’incidente stradale, Atti del Symposium di Salsomaggiore, 8-9 maggio 1959, pp. 15-16.

[10]Relazione ciclostilata per gli Etats generaux des trasports et de la circulation dans la regione parisienne, Salle de la mutalité, 16 giugno 1973.

[11]Ancona M., cit., pp. 75-78.

[12]E. Detti, Relazione urbanistica al Convegno, Orario di lavoro e tempo libero, ARCI-UISP, Roma, 15-16 novembre 1973, in corso di stampa.

[13]Claudian J., Vinit F. e altri, Evolution de la consommation alimentaire en fonction de l’urbanisation, nel vol. Maladies de la vie urbaine, Masson, Paris 1973, p. 67 e segg.

[14]Cerquiglini S., Le basi fisiologiche e Dagianti A., Fisiopatologia della malattia ipocinetica, nel quaderno n. 115 dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale, L’ipochinesi malattia sociale, 25 novembre 1971.

[15]Nella relazione di Wyss V., del Servizio sanitario FIAT su L’attività sportiva del lavoratore: aspetti fisiologici (nel Quaderno n. 88 dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale, Lo sport dei lavoratori, 27 marzo 1969) si afferma che l’attuale fatica nell’industria rende impossibile la pratica sportiva per i lavoratori.

[16]Begoin J., Le travail et la fatigue, La Raison, nn. 20-21, l° trimestre 1958, pp. 53-54.

[17]Sulla fisiologia del sonno e del suo ritmo biologico cfr. M. Jouvet, Veglia, sonno, sogno: l’approccio biologico, nel vol. a cura di tu R. Venturini, I livelli di vigilanza: coma, sonno, ipnosi, attenzione, Bulzoni, Roma 1973, p. 75 e segg. Sulla patologia del riposo in rapporto al lavoro cfr. W. Menzel, Il ritmo diurno e notturno dell’uomo e il lavoro a turni alterni, Benno Schwabe und Co., Bale, 1962, pp. 189 (con 811 riferimenti bibliografici).

[18]Mounier P., Kuhn, Morgon A., Le bruit dans la ville, nel cit. vol. Maladies de la vie urbaine, p. 14.

[19]E. Detti, Rel. cit. È da osservare che anche in questo caso silenzio, spazio e riposo del hanno un gradiente classista: i contadini, per esempio, vengono espulsi dalle campagne e inurbati, e le loro case sono vendute e trasforma te in residenze per week end e per l’estate. Vi è chi perde la tranquillità e chi la compra.

[20]I giornali italiani del 10 aprile 1974 hanno riferito statistiche sugli omicidi nelle città americane, elaborate da A. Barnett, del MIT, secondo il quale “un neonato che nasca oggi in una delle cinquanta grandi città degli USA ha più probabilità di venire ucciso di quanta non ne avesse avuto un soldato americano durante la seconda guerra mondiale”; egli ha riscontrato che “su 79 persone nate quest’anno a Boston almeno una dovrebbe venir assassinata nel corso della sua vita. Il rapporto si riduce ulteriormente a New York (una su 67) e tocca un livello allarmante a Washington (una su 40) e Detroit (una su 35)”.

[21]Sull’intreccio fra lavoro e riposo, cfr. Berlinguer G., La macchina uomo, Editori Riuniti, Roma 1960, ed il più recente Orario di lavoro e tempo libero, La critica sociologica, n. 28, inverno 1973-1974, pp. 8-30.

[22]Villermé L.R., Tableau de l’état physique et moral des ouvriers employés dans les manufactures de coton, de laine et de soie, 2 voll., Parigi 1840; Engels F., Die lege der arbeitenden Klasse in England, Leipzig 1845.

[23]Per una storia di queste lotte, ed anche per un’efficace interpretazione marxista del rapporto lavoro-riposo, cfr. Toti G., Il tempo libero, Editori Riuniti, Roma 1961, pp. 19-108.

[24]Le Guillant L., prefazione al cit. vol. di Begoin D.P., Le travail et la fatigue pag. l2.

[25]Delle Donne M., Città e società civile, Ed. dell’Ateneo-Officina, Roma 1973, p. 9.

[26]Ancona M., cit., pp. 8-9.

[27] Garavini S., Relazione sindacale al Convegno Orario di lavoro e tempo libero, cit.

[28] Marri G., La salute,nel cit. Quaderno di “Rassegna Sindacale” L’orario di lavoro, pp. 123-126.

[29]Gli aspetti sociali del ritmo biologico umano sono totalmente ignorati nel vol. di Gedda L., Breuci G., Cronogenetica. L’eredità del tempo biologico, Mondadori, Milano 1974. Gli autori ricordano che la natura vivente conosce ritmi circadiani (da dies), ritmi catameniali (da mensis), e ritmi annuali. Mentre i vegetali sono soprattutto soggetti a questi ultimi, l’uomo ha alcuni ritmi catameniali (mestruazioni della donna, e relative fasi ormonali) ed un forte ritmo circadiale, che condiziona sia la fisiologia (sonno, temperatura corporea, flusso espiratorio massimo, globuli bianchi nel sangue, tasso circolante ed escrezione urinaria dei corticosteroidi, sodio, potassio, aldosterone ecc.), sia la patologia (crisi parossistiche dell’asma notturno, ritmi delle allergie agli antibiotici, afflusso sanguigno nel polpaccio nella claudicazione intermittente, microfilarie dell’oncocercosi nel sangue periferico ecc.). Ricondurre il lavoro umano al tempo diurno, e consentire nelle ore lavorative l’equilibrio fra dispendio e recupero, rappresenta una conquista culturale che integra nella razionalità sociale degli uomini il substrato biologico della nostra esistenza.

[30]Annuario statistico italiano, 1973, Istituto centrale di statistica, Roma, p. 21.

[31]Gemelli A., Il fattore umano negli incidenti del traffico, nel cit. Symposium L’aspetto medico dell’incidente stradale, pp. 7-11.

[32]Mitolo M., Il problema della fatica e gli incidenti stradali, ivi, p. 268.

[33]Per l’orario, per es., nella cit. relazione di S. Garavini si ricorda che “il costo del lavoro, a parità di tempo complessivo di lavoro delle maestranze di un’impresa, tende a crescere con il numero di lavoratori occupati entro quel tempo complessivo di lavoro”; ciò spiega la resistenza padronale alle riduzioni di orario, ed il frequente ricorso agli straordinari.

[34]La programmazione urbanistica come metodica di medicina preventiva, Quaderno n. 4 dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale, 18 dicembre 68, relazioni di T, Martelli, P. Montelli, M. Cosa, G. Vecchioni, M. Nicoli.

[35]Anche per le varie età della vita sorge analoga esigenza: non mi pare più accettabile, infatti, l’idea che un terzo della vita umana sia dedicata nell’età giovanile alla preparazione, un terzo al lavoro e l’altro terzo al riposo. Sarebbe più giusto parlare di preminenza della formazione, del lavoro e del riposo nelle varie età.

Creatrice di nuove terre o esaltatrice della capacità produttiva delle terre vecchie, la bonifica è indubbiamente il principale mezzo di azione contro le tendenze urbanizzatrici. Ma non è il solo.

Ora, la difesa della ruralità ha tale importanza per l’avvenire del Paese da non permettere di trascurare nessuno degli altri modi di contribuirvi. Cosi meritano segnalazione due studi recentissimi, dell’Ing. Vincenzo Civico e del Dott. Augusto Alfani, che additano due provvedimenti efficaci contro la deruralizzazione (V. Civico, “Distribuire il lavoro per distribuire la popolazione”, Critica Fascista n. 14, 1942; A. Alfani, Il libro e l’istruzione tecnica contro la deruralizzazione, Firenze 1942).

Decentramento delle industrie

Il Civico, traendo occasione dalle decisioni del Governo a favore dello sviluppo delle industrie in quelle parti d’Italia che attualmente ne sono meno dotate, propugna la creazione di appositi nuovi centri urbani invece della costituzione, o dell’ampliamento, di zone industriali annesse a città esistenti, specie se queste già sono grandi.

Quasi tutti gli argomenti da lui addotti a sostegno dell’indirizzo che propone varrebbero, a suo avviso, a far riconoscere la utilità di questo al fine della difesa della ruralità.

Di tale utilità, con qualche riserva che esporremo, noi pure siamo convinti; ma principalmente per ragioni diverse da quelle del Civico, come diremo.

Va da sé che nei nuovi centri proposti non difettando lo spazio, almeno inizialmente, sarebbe agevole cosa creare quartieri residenziali sani ed ariosi, come il Civico osserva. Ci sembra invece illusoria la sua fiducia di riportare con quelli, stabilmente, la popolazione tutta a contatto diretto della campagna; assicurandole così la maggiore sanità fisica e morale che è poi cagione del potenziamento della razza.

A realizzare questa forma, attenuata ma pur sempre utile, di ritorno alla terra egli conta essenzialmente sulla possibilità di contenere entro limiti modesti lo sviluppo dei nuovi centri abitati, negando l’autorizzazione ad impianti che dovessero eccedere questi limiti; e sulla possibilità di contrarre gradua]mente le città esistenti, disponendo il trasferimento in altri centri, nuovi, degli impianti attuali in occasione della loro necessaria rinnovazione.

Ma è attuabile questo trasferimento?

I requisiti che rendono adatta una località all’esercizio di una attività industriale sono molti e vari e generalmente lasciano alla scelta un campo piuttosto ristretto. Prevalgono di solito, ineluttabilmente. le esigenze economiche; la riduzione del costo di produzione e di quello del trasporto dei prodotti ai mercati di consumo.

Giustamente lo stesso Civico ricorda che devesi aver molto riguardo alla vicinanza delle principali materie prime, delle fonti di energia, di una abbondante popolazione, nonché alla comodità e, poteva aggiungere, alla brevità delle comunicazioni coi luoghi di provenienza di altre materie prime, o sussidiarie, e con quelli di collocamento dei prodotti.

Egli nega che questi requisiti si trovino più spesso riuniti, nella maggiore misura possibile, nelle città, specie se grandi. A noi sembra invece innegabile che non casualmente l’industria abbia tanto contribuito allo sviluppo di città felicemente ubicate, che siano ad esempio dotate di buoni porti marittimi o corrispondano a fondamentali nodi ferroviari; particolarmente da quando gli elettrodotti ad alta od altissima tensione hanno reso molto economico il trasporto della energia idroelettrica a qualsiasi distanza.

Non possiamo infatti pensare che il creatore di una nuova industria dia qualche peso a diverse considerazioni, come quella della maggiore agevolezza di vita civile offerta al personale da una città che già sia modernamente attrezzata. A conferma, sono molte le città da secoli raccolte in una lor vita comoda prevalentemente intellettuale, e pressoché prive di industrie, mentre non mancano gli esempi, anche da noi, di città che l’industria ha create dal nulla, dotandole di ogni attrezzatura civile.

II trasferimento, sia pure graduale, delle industrie esistenti ci sembra dunque assai problematico e in definitiva non vantaggioso, in genere, alla economia della Nazione, perchè la loro ubicazione è già la più conveniente.

E spesso risulterà pure impossibile, e non giovevole al Paese, limitare lo sviluppo di nuovi centri industriali. Ben vero, vi sono taluni cicli produttivi che consigliano di procedere alle fasi successive di una lavorazione a catena in località diverse, talora anche molto distanti l’una dall’altra, al fine di giovarsi in ciascuna fase dei requisiti locali più favorevoli alle sue particolari esigenze. (Pensiamo ad esempio, da noi, all’industria dell’alluminio). Di solito però dalla coordinazione di varie industrie risulta invece la opportunità di sviluppare in una medesima località l’intero ciclo produttivo. Chi ragionevolmente potrà allora vietare che il nuovo centro industriale si accresca fino a togliere ai quartieri residenziali quella immediatezza di rapporti con la campagna che pur sarebbe desiderabile?

Confessiamo poi di non avere compreso perchè il camerata Civico confidi di ottenere, mediante il decentramento delle industrie, una maggiore loro protezione dalle offese belliche aeree.

L’argomento, come vedremo, non è privo di addentellato col problema della preservazione della ruralità, e così rientra pure nel nostro tema.

Il nostro accorto Autore non dice già di attendersi una migliore difesa dagli aerei come effetto della dispersione degli obbiettivi, cioè del maggiore numero loro e della minore entità di ciascuno di essi; giustamente perchè oggi anche un solo stabilimento industriale costituisce non trascurabile oggetto di offesa bellica e perchè il crescere del numero, della velocità e della autonomia dei mezzi aerei va togliendo importanza al problema del raggiungimento pressoché contemporaneo, in una medesima incursione, di numerosi obbiettivi distribuiti in .un ampio territorio. La disseminazione dei possibili obbiettivi di offesa, a nostro avviso, varrebbe invece a complicare il problema della difesa controaerea, moltiplicando le località da difendere attivamente.

E non crediamo nemmeno che il Civico abbia pensato ad una maggiore facilità della difesa possiva. È infatti ormai quasi unanime il riconoscimento che - ove si tratti comunque di obbiettivi densi, cioè di popolazione agglomerata - la difesa passiva riesce meno costosa e più efficace quando le abitazioni sono riunite in edifici di cinque o sei piani, che costituiscono da sé una buona copertura dei ricoveri sotterranei e consentono economicamente di assegnare a questi la capacità per ogni abitante, la robustezza, la protezione antigas, i servizi e la molteplicità di sicuri accessi che normalmente si richiedono.

Vogliamo anzi notare qui - ed è questo l’addentellato preannunciato - che dalla considerazione della vulnerabilità bellica viene ancora diminuita quella ragione di preferenza, ai fini della ruralità, degli appositi nuovi centri industriali della quale precedentemente si è discusso.

Le cennate dimensioni degli edifici, comunemente ammesse come le migliori nei riguardi della difesa passiva antiaerea, consentiranno pur sempre, infatti, di dotare i desiderati nuovi centri di quartieri residenziali sani ed ariosi, più economicamente che nei pressi di grandi città in relazione al minore costo delle aree; ma la distribuzione delle abitazioni in parecchi piani renderà comunque praticamente inutile di assegnare loro ampiamente orti e giardini atti a determinare nella popolazione industriale una certa attività rurale, sia pure soltanto collaterale, integrativa, dopolavoristica. Così quella forma, già molto superficiale, di ritorno alla terra di cui si è discorso verrebbe a ridursi ad una cotale prossimità delle abitazioni alla aperta campagna: troppo modesta circostanza perchè sia lecito sperarne un concorso non trascurabile al potenziamento della razza attraverso la formazione di abiti rurali.

Venendo di nuovo alle considerazioni belliche, esaminiamo la sola precisazione esplicita a che il Civico ci offre: i nuovi centri industriali dovrebbero essere ubicati in modo da risultare il più possibile sottratti alle offese belliche.

Ora, la possibilità di sottrazione a tali offese non può dipendere, già oggi, dalla distanza dai confini del territorio nazionale se questo è, relativamente, poco esteso. Non resta dunque che pensare di cercarla in una maggiore difficoltà di sorvolo; quale ancora si può avere, specie in talune circostanze stagionali, nelle regioni montagnose molto elevate ed incise da vallate profonde.

Ma quali dei requisiti che rendono una località più adatta alle attività industriali si potranno trovare in regioni di tal sorta ? Dato, come si è detto, che la più frequente possibilità di produrre sul luogo energia idroelettrica va perdendo di importanza, converrà collocare nuovi stabilimenti industriali in profonde vallate, racchiuse da alte montagne, solamente quando si debbano trasformare materie prime locali, oppure materie prime assai ricche, di trasporto pochissimo oneroso; come sempre è stato riconosciuto.

Gli altri argomenti che il Civico adduce a conforto della propria tesi - mentre pur riconosce giustamente che una nazione moderna, pena la sua decadenza, non può essere soltanto rurale - sono quelli stessi che ordinariamente vengono enunciati contro lo sviluppo industriale in genere, quale promotore prevalente della urbanizzazione.

Questi argomenti sono noti: l’industria spopola le campagne, sottrae braccia al lavoro della terra, mina le basi della salute e della potenza della nazione, che posano soprattutto sulla sua ruralità; lede inoltre gli stessi organismi urbani, addensandovi eccessivamente le fonti di lavoro e determinandone la elefantiasi.

Ma non teme il Civico che il primo gruppo di questi argomenti possa ritorcersi proprio contro di lui?

Mettere l’industria, per cosi dire, a portata di mano di ogni contadino, col disseminarla in tutto il territorio nazionale significherebbe moltiplicarne la forza di attrazione che oggi, in ragione delle distanze, non basta ancora a distogliere dalla terra poderose masse rurali.

È esperienza ormai fatta che la creazione di un nuovo centro industriale in aperta campagna ha in questa l’effetto immediato di frangere i nuclei famigliari e di fare abbandonare le lavorazioni agricole ai vecchi ed ai ragazzi.

E troppo magro compenso avrebbe la causa della preservazione della ruralità del Paese nella vicinanza alla campagna dei quartieri residenziali degli auspicati modesti centri industriali.

Tuttavia, proprio da quelle vecchie considerazioni di carattere generale ricaviamo le preannunciate ragioni, non viste dal Civico, le quali a parer nostro militano veramente a favore della sua tesi.

Il nuovo centro urbano, dedito quasi interamente ad attività industriali, per vivere chiede alle circostanti campagne diversi e più abbondanti prodotti, proprio mentre esse vengono disertate dai rurali validi. D’altra parte gli utili dell’industria cercano spesso nell’agricoltura un investimento, se non molto lucroso, sotto vari aspetti assai allettante: in pagine magistrali, a tutti note, ampiamente dimostrava già il Cattaneo il generale vantaggio di questo fenomeno economico sociale. L’effetto ultimo, sulle campagne, della creazione di un nuovo centro industriale è dunque necessariamente la bonifica; ed è, conseguentemente, la stabile sistemazione rurale di numerose famiglie contadine provenienti da altri territori, sovrapopolati, le quali vengono a sostituire quelle locali che la campagna hanno derelitta, mentre a loro volta sarebbero altrimenti affluite all’industria. Cosi l’industria e l’agricoltura cooperano all’armonico progresso del Paese e la ruralità di questo, in complesso, viene accresciuta.

Perciò noi siamo favorevoli alla creazione di nuovi centri industriali proposta dal Civico; pur senza nasconderci che la sua possibilità verrà frequentemente limitata da motivi economici, anche nazionali, che renderanno preferibile, tutto ben considerato, la aggregazione di nuove industrie a centri industriali esistenti dove cause storiche ed etniche hanno finora troppo esiguo lo sviluppo delle attività industriali, bene il Regime tende a promuoverne l’incremento; ma non è improbabile che anche quivi le nuove industrie opportunamente sorgano di preferenza nelle più importanti città portuali e ferroviarie. Quando però i giusti motivi a favore di tali ubicazioni non risultino molto accentuati, siamo col Civico nell’auspicare che l’industria si diffonda nelle campagne, perchè gioverà indirettamente alla ruralità del Paese, col dare generale impulso alle trasformazioni fondiarie.

Sui compiti della urbanistica

A queste nostre opinioni si potrà forse obbiettare che noi vediamo ogni fenomeno sotto la specie della bonifica.

Ma una obbiezione analoga, a parer nostro non senza fondamento, può muoversi al camerata Civico.

Vogliamo riferirci al titolo del suo interessante studio, il cui significato è bene chiarito nelle sue premesse.

Queste, sono le premesse: realizzare la organica distribuzione della popolazione è, nèlle città. uno dei compiti essenziali della urbanistica; ma oggi la unità urbanistica non è più la città, è la nazione; dunque oggi spetta alla urbanistica studiare la distribuzione organica della popolazione in tutto il territorio naziona1e; e lo strumento tecnico a ciò adatto la urbanistica già lo possiede, è il Piano regolatore territoriale.

Proprio da questo strumento tecnico già pronto pensiamo noi che il Civico sia condotto a gravare la urbanistica di tanto peso.

Ai cultori delle discipline matematiche è nota la fecondità dell’algoritmo. A risolvere un particolare problema - anche pratico, se opportunamènte schematizzato - si inventa una operazione nuova, accertandone la legittimità attraverso la verifica del suo inquadramento nelle leggi logiche fondamentali. Forgiato cosi un nuovo strumento tecnico, sembra poi quasi che questo lavori da sé. Il nuovo algoritmo trova infatti applicazione nei campi fisici più inopinati e porta a vere scoperte, ossia alla previsione di fatti che poi l’esperienza conferma.

Ma ciò dipende dal carattere astratto della matematica pura e dalla possibilità di ridurre ad un comune schema matematico i più disparati fenomeni fisici privandoli di tutte quelle note che concretamente li specificano, li differenziano e che pure sotto un certo profilo sono prescindibili. non sono essenziali.

Questo processo di astrazione non è invece possibile nello studio dei multiformi complicatissimi fenomeni della distribuzione della popolazione che si faccia allo scopo di disciplinarla, di indirizzarla - entro certi limiti - al raggiungimento di particolari fini. La sola astrazione qui consentita, anch’essa di carattere matematico, si traduce nelle indagini statistiche comparate che porgono un filo conduttore alla ricerca di intricati e non evidenti rapporti di causa ad effetto.

Solo il politico, con la propria sensibilità, con le proprie facoltà di sintesi, sia pure giovandosi di questo sottile filo conduttore, può percepire nella loro unità molteplice ma inscindibile cosi complessi fenomeni, dove confluiscono i caratteri naturali ed antropici delle varie zone del Paese, le esigenze tecniche ed economiche, le tendenze sociali e, se il politico è grande, la sua volontà di dominare e regolare gli eventi quanto all’uomo è consentito.

Saremmo ingiusti però se non dicessimo che ciò il Civico lo ha intuito. Invero egli soggiunge: che la distribuzione della popolazione è effetto della distribuzione dei mezzi e delle possibilità di vita, la quale secondo lui si riassume nella distribuzione del lavoro (Di qui il sottotitolo del suo studio, la sua formula distribuire il lavoro per distribuire la popolazione); che la distribuzione del lavoro è compito politico; che solo quando il politico ha distribuito il lavoro, può operare l’urbanista.

Pensiamo noi che la distribuzione della popolazione, se in definitiva è effetto anche della distribuzione del lavoro, inizialmente a sua volta influisca su questa, in qualsiasi provvedimento non potendosi mai prescindere dalla situazione che si vorrebbe correggere. Ma più ci preme osservare che quando il politico ha distribuito il lavoro - cioè nel caso in esame quando ha stabilito dove debbono sorgere le nuove industrie - l’ulteriore compito dell’urbanista si riduce sostanzialmente a quello tecnico, già noto e riconosciuto come a lui spettante, di studiare il piano regolatore della nuova città o della nuova zona industriale ad ampliamento di una città esistente. E allora non si comprende più perchè il Civico abbia affermato prima - citiamo testualmente - che o “uno dei compiti essenziali dell’urbanistica è quello di realizzare la organica distribuzione della popolazione su tutto il territorio nazionale”.

Biblioteche tecniche rurali

Una differenza essenziale fra le opinioni del Civico e dell’Alfani è nella precisazione delle cause principali della urbanizzazione. Secondo il Civico, ci si inurba sostanzialmente nella speranza, talora illusoria, di trovare da lavorare meglio e di più. Secondo l’Alfani, una delle maggiori cause di inurbamento è nello squilibrio che si è andato stabilendo, specie negli ultimi due secoli, fra le condizioni culturali dell’operaio delle industrie e quelle del lavoratore dei campi: dunque ci si inurberebbe principalmente mossi da un desiderio di istruzione.

Ci piace che entrambi gli Autori non diano rilievo, da noi, a cause secondarie quali l’attrattiva, non di rado fallace, di una vita più comoda e piacevole. È un giusto riconoscimento della intima serietà del nostro popolo.

Ciò premesso, diciamo che la ragione principale di insoddisfazione del lavoratore dei campi secondo l’Alfani, di ordine spirituale pure non essendo priva di riflessi materiali come vedremo, ci persuade di più; anche perchè dal riconoscimento di essa l’Alfani , è condotto a proporre un piano concreto di azione interessante e indubbiamente atto a contribuire efficacemente alla difesa della ruralità del Paese e, nel contempo, al suo progresso agricolo.

Bisogna, dice l’Autore, far si che il contadino “acquisti, nel proprio campo, una cultura, uni coscienza ed una competenza tecnica non inferiori a quelle dei camerati delle industrie”.

Non è vero, soggiunge, che “in sé e per sé il lavoro agricolo si presti meno del lavoro industriale ad un’elevazione culturale e tecnica di chi vi è addetto”.

Né è vero “che i rurali latini, e più specialmente italiani, abbiano meno bisogno di una minuziosa istruzione tecnica, che degenererebbe per loro in pedanteria, perchè si suppongono capaci di supplirvi con la genialità innata, improvvisando secondo le necessità”.

”I nostri lavoratori agricoli sono, nella maggior parte dei casi, una massa di ignari, ma non di inesperti, perchè nati e vissuti in stretta aderenza alla pratica; son dotati di una squisita logica, non artefatta, e sono fini conoscitori degli uomini e delle cose; posseggono inoltre una non comune resistenza fisica e sopportano spesso grandi disagi e privazioni. Se qualche volta sono, e molto più spesso a torto si sentono, inferiori agli altri lavoratori si è perchè non adeguatamente ci si è occupati finora di potenziare con l’istruzione tecnica il loro intuito e il loro attaccamento alla tradizione, sviluppando la loro personalità, dando loro la coscienza del proprio valore”.

”Questo altissimo scopo - capace di elevare anche materialmente ed economicamente il livello di vita del lavoratore dei campi e quindi di ovviare ai pericoli della deruralizzazione - si otterrà riscattandoli dall’ignoranza di cui non hanno colpa”.

Ricordato quanto già fa il Regime per la educazione e l’istruzione del popolo in genere ed accennato in particolare alle varie vie che si presentano, e già in parte sono seguite, per la elevazione tecnica dei contadini, il camerata Alfani precisa il suo pensiero proponendo una azione educativa continua e capillare, che avrà come arma principale il libro di agricoltura adatto ai lavoratori.

”Il libro è la vis, la scintilla che tiene deste le forze dello spirito, lo strumento più vigoroso per far avanzare la tecnica”.

La forma preferibile di questo strumento, per chi può dedicarsi alla lettura solo saltuariamente, è l’opuscolo monografico; attraente, chiaro, elementare.

Opuscoli di tal sorta costituiranno la fondamentale dotazione della auspicata biblioteca tecnica del rurale; la quale però dovrà anche essere fornita di numerosi manuali completi, sempre “piani e di facile comprensione, per quanto possibile rigorosamente scientifici”, atti a soddisfare la crescente sete di sapere dei frequentatori.

Qui non possiamo tentare di riassumere le numerosissime idee, notevoli e originali, esposte dall’Autore in oltre venti dense pagine circa la pratica organizzazione e il funzionamento della auspicata istituzione. Notiamo soltanto che da lui giustamente sono posti in massima luce i compiti degli istruttori, ai quali sarebbe affidata la capillarità dell’azione.

”Veri apostoli, gli istruttori dovrebbero essere scelti fra i migliori agronomi, educati ed istruiti in modo da renderli sempre meglio adatti al loro compito, per mezzo di appositi corsi di studio”. Spetterebbe ad essi indirizzare le letture dei singoli contadini, graduate secondo il progredire della loro preparazione; accompagnando la consegna di ogni libro con adatti commenti e al momento della restituzione discutendone “con garbo e senza parere per controllare se ha prodotto l’effetto desiderato”. Dotati di nozioni di psicologia e capaci di impartire lezioni dimostrative e di tenere letture pubbliche commentate negli ambienti più vari, gli istruttori dovrebbero saper discendere dalle altezze della scienza per legarsi alla pratica e conoscere sempre meglio quella mentalità peculiarissima che sono chiamati a modificare. Entusiasti ed energici, e abili ad insegnare anche l’ordine e la disciplina, dovrebbero avere una “profonda comprensione della mentalità dei lavoratori, possibile solo se frutto di un grande amore per loro”.

Sappiamo tutti di analoghi apostolati, nelle campagne; e però a noi non sembra utopistica la fiducia di trovare giovani di scienza e di fede che accettino fervidamente questa missione altamente umanitaria e patriottica. Essi medesimi potranno largamente cooperare, a nostro avviso, all’arricchimento della biblioteca tecnica del contadino con opuscoli particolarmente adatti ai singoli ambienti dove operano, compilati sotto la guida di agronomi più anziani ed esperti. Ma intanto si deve - e si può confidare che questi ultimi assumano il non lieve carico di formare l’ossatura della biblioteca stessa, costituita dei manuali fondamentali e degli opuscoli relativi a quelle pratiche agricole che, adattandosi agli ambienti più vari, si prestano alla più ampia diffusione. Quale compito più allettante, a coronamento di una vita dedicata all’insegnamento ed allo sviluppo agricolo del Paese?

A proposito dell’estensione in superficie assoluta dal progetto di nuovo piano regolatore, si leggono nella relazione illustrativa del progetto stesso le seguenti parole: “Per esteso che possa apparire il piano che si è studiato, sarebbe stato desiderabile che esso, nelle sue linee fondamentali, fosse prolungato oltre i confini del Comune. Sarebbe, in altre parole, stato desiderabile che il territorio del Comune avesse avuto ampiezza proporzionata a quella che già oggi è la zona abitata. Ora, mentre nella parte occidentale e meridionale oltre la zona abitata si ha un vasto territorio tuttora adibito a scopi agricoli che consente al Comune di raggiungere con provvedimenti tempestivi la sua sistemazione, nella parte settentrionale ed orientale l’opera disciplinatrice del Comune giunge con grande ritardo e sarebbe conveniente un ampliamento del territorio comunale di tale estensione da permettere al Comune di riprendere la sua funzione che deve essere, essenzialmente, antiveggente. Che se tale estensione non si potesse ottenere, si dovrebbe auspicare lo studio di un piano regionale il quale, pur lasciando ai singoli comuni una giusta autonomia per quanto riguarda la soluzione dei loro particolari problemi, regolasse la sistemazione della regione circostante a Milano in modo che essa tutta si informasse a direttive unitarie”.

Poiché l’estendere ulteriormente il territorio comunale è così vasto e complesso problema che sfugge alla competenza di chi considera la questione esclusivamente nei riguardi tecnici; e poiché è poco probabile che a tal soluzione si addivenga in tempo prossimo, si deve considerare l’altra possibilità: lo studio di un piano regionale.

Molto si è già scritto, al riguardo, dagli studiosi di urbanistica e parecchi equivoci sono anche stati fomentati. Non v’è concorso che si rispetti che non richieda almeno uno schema di piano regionale. Ora, è bene senz’altro avvertirlo, un piano regionale può tornare utile e conveniente quando si verifichino determinate situazioni e non già intorno a qualsiasi centro abitato. Un piano regolatore richiede, anzitutto, l’esistenza di una “regione” che costituisca, in certo modo, il complemento della città; che questa regione abbia stretti rapporti di lavoro e di scambi con la città; che la popolazione vi sia disseminata in centri secondari che siano tributari della città capoluogo; che si determini naturalmente un orientamento di fenomeni che renda opportuna la considerazione unitaria dei problemi che interessano la regione.

Un piano regolatore non può consistere semplicemente nel progetto di una rete di strade turistiche che abbia lo scopo di valorizzare i dintorni del capoluogo e di avvicinarli alla popolazione agglomerata ; ma deve comprendere, oltre la migliore organizzazione della rete stradale, la sistemazione idraulica del territorio, la predisposizione delle possibilità di sviluppo dei vari servizi e, soprattutto, di quelli di trasporto considerati da un punto di vista generale, prescindendo, cioè, dagli egoismi del capoluogo e dagli egoismi dei centri secondari per assurgere alla visione integrale della migliore organizzazione della vita civile nel territorio. Si deve raggiungere, se è lecito così dire, una visione corporativa delle applicazioni urbanistiche alla regione. così che ne risulti per tutti proporzionato vantaggio nell’orbita del vantaggio della regione.

La regione circostante a Milano è tra le pochissime in Italia per le quali tornerebbe non solo assai conveniente, ma sarebbe necessario lo studio di un piano generale, come già avvenne in condizioni analoghe per le regioni industriali di Essen, di Merseburg e per moltissime regioni inglesi. Lo sviluppo intenso delle grandi opere pubbliche, la sempre maggiore importanza assunta dai pubblici servizi hanno sempre più accentuata la stretta interdipendenza che esiste tra Milano e la regione che la circonda; interdipendenza che, diciamolo subito perchè non si equivochi, non deriva da una particolare attitudine assimilatrice del centro metropolitano, ma dai reciproci rapporti che determinano una differenziazione di funzioni tra Milano ed i centri secondari della regione milanese, così che e Milano ed i centri secondari dànno e ricevono alla loro volta e sarebbe difficile concepire le funzioni degli uni che non fossero integrate dalle funzioni degli altri.

In proporzioni ben maggiori, quali derivano dall’accresciuta potenzialità dei mezzi di comunicazione, dall’intensificarsi dei rapporti industriali e commerciali, dall’affluire delle masse lavoratrici e dei prodotti finiti alla città dove è il mercato e l’emporio di vendita, si è verificato oggi quello stesso fenomeno per cui settant’anni addietro Milano città sentì il bisogno di fondersi coi cosiddetti “Corpi Santi” che assediavano la città e reciprocamente si intralciavano paralizzando le energie che invece, dopo l’unione dei due enti, si svilupparono formidabili.

Oggidì il problema è assai più vasto e sarebbe probabilmente errato il procedere per aggregazioni a formare una Milano mastodontica difficile ad amministrare con quei criteri unitari che si addicono ad un unico ente. Sarebbe invece grandemente utile e desiderabile che i grandi problemi interessanti la regione potessero essere considerati da un punto di vista generale allo scopo di raggiungere la miglior soluzione indipendentemente da quelli che possono essere i piccoli desideri locali.

Il problema dei trasporti, in primo luogo, può avere una soluzione integrale sia nei riguardi della rete stradale, sia nei riguardi dei mezzi di trasporto, soltanto quando lo studio della loro progettazione non dipenda né dai criteri prevalenti nell’interesse del capoluogo né da quelli voluti dai centri minori, ma si ispiri bensì all’interesse complessivo della regione e, soprattutto, ai rapporti reali che tra il capoluogo e la regione esistono.

Non altrimenti deve considerarsi il problema delle acque. Il piano regionale deve studiare la questione nel suo complesso, né può concepirsi che un Comune o un gruppo di Comuni possa scaricare i propri rifiuti in un corso d’acqua senza preoccuparsi se quel corso d’acqua riuscirà poi molesto ai Comuni che traverserà, uscito che sia dai propri confini territoriali. Ancor meno si può pensare che un Comune solo si addossi l’onere di formare una riserva di verde nel proprio territorio evitando, per esempio, la distruzione di un annoso bosco, quando ciò sia di vantaggio per tutta una regione.

Abbiamo accennato solo sommariamente ad alcuni tra i problemi che un piano regionale dovrebbe risolvere. Uno studio più approfondito ne rivelerebbe altri non meno importanti. Certo è che, allorquando una regione è densa di abitati, quando pel legame di interessi che la unisce essa rappresenta un organismo compiuto, le stesse ragioni che militano per la formazione di piani regolatori per le città militano per la formazione di piani regolatori regionali.

La meta è sempre la stessa: evitare il sorgere disordinato di servizi; evitare di dover domani disfare ciò che imprevidentemente fosse stato fatto oggi. In questo momento Londra spende somme enormi per dare un assetto unitario alla sua rete di metropolitane formatasi caoticamente sotto l’impulso di interessi volta a volta prevalenti. L’esempio vale per tutti gli impianti che interessano una regione: impianti che in un piano regionale devono essere previsti nelle loro grandi linee lasciando ai singoli centri la possibilità di soluzioni varie, purché si inquadrino nella soluzione generale dei singoli problemi che deve essere dal piano preventivamente determinata.

Fortunatamente non mancano esempi del modo con cui si può raggiungere la meta senza che nello studio del piallo prevalgano interessi di singoli centri; e neppure mancano esempi dell’organizzazione amministrativa più conveniente per lo studio di un piano regolatore.

Nota: ho reso disponibile un file PDF scaricabile, dove si vedono un po' meglio le immagini (f.b.)

Titolo originale: Remarks of the Commissioners for Laying Out Streets and Roads in the City of New York, Under the Act of April 3, 1807 – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

I Commissari alle Vie e Strade della Città di New York nominati da una legge relativa alle questioni del miglioramento delle vie e strade di New York, e per altri scopi, il terzo giorno di aprile dell’anno del Signore milleottocentosette hanno approvato secondo forme ed effetti della suddetta legge, le proprie considerazioni sulla mappa qui allegata.

Non appena hanno potuto incontrarsi e prestare il dovuto giuramento, sono entrati nelle cariche del proprio ufficio, e hanno cercato persone di fiducia per effettuare indagini sull’isola di Manhattan, ed acquisire così le informazioni necessarie a proseguire il proprio lavoro, che è stato di molto ritardato dalla difficoltà di reperire personale competente entro i limiti economici che si erano autoimposti, oltre che da altre circostanze sfavorevoli.

Uno dei primi problemi ad attrarre la loro attenzione è stata la forma e maniera di eseguire il compito; ovvero, se ci si dovesse limitare alle strade rettilinee e ad angolo retto, oppure se si dovesse adottare alcuni dei miglioramenti quali circoli, ovali, stelle, che di certo rendono più bella una pianta, qualunque possa esserne l’effetto riguardo alla convenienza e utilità. Nel considerare questo soggetto, non hanno potuto non tenere in considerazione il fatto che una città deve essere composta principalmente dalle abitazioni degli uomini, e che le case con lati dritti e angoli retti sono le più economiche da costruirsi, e convenienti da viverci. L’effetto di queste lineari e semplici riflessioni fu decisivo.

Avendo quindi determinato che l’impianto in generale dovesse essere ad angoli retti, un’altra – a loro parere importante – considerazione fu quella di omogeneizzarsi ai progetti già adottati da singoli, e non indurre grandi trasformazioni nella loro organizzazione.

Ciò, se possibile coerentemente col massimo interesse pubblico, era desiderabile, non solo perché avrebbe reso il lavoro più accettabile in generale, ma anche perché avrebbe potuto essere un modo di limitare le spese. Fu dunque un aspetto di particolare attenzione da parte dei Commissari, perseguito sin quando vari tentativi falliti ne provarono l’estrema difficoltà, e che fu abbandonato infine solo per necessità. Raccontare gli ostacoli che frustrarono ogni sforzo non sarebbe di nessuna utilità. Sarà forse di maggior giovamento per chi possa sentirsi colpito, chiedersi se non si sarebbe sentito anche peggio se i propri progetti fossero stati sacrificati a favore di un vicino più fortunato. Se dovesse essere chiesto perché sia stato adottato il presente piano, preferendolo ad altri, la risposta è perché, dopo aver preso in considerazione tutte le opzioni possibili, sembrava il migliore, o, in altri e più precisi termini più, era quello che presentava meno inconvenienti.

Può essere per molti una ragione di sorpresa, il fatto che siano stati lasciato così pochi spazi vuoti, e tanto piccoli, per i benefici dell’aria aperta e la relativa tutela della salute. Certo, se la città di New York avesse avuto come destino quello di stare sulle rive di un piccolo corso d’acqua come la Senna o il Tamigi, ci sarebbe stato bisogno di molti ampi spazi. Ma i grandi bracci di mare che circondano l’isola di Manhattan ne rendono la condizione, riguardo alla salute così come alla gradevolezza e comodità per il commercio, particolarmente felice. E dunque quando per gli stessi motivi i prezzi dei terreni sono tanto particolarmente alti, appare adeguato conferire ai principi dell’economia un peso maggiore di quello che avrebbero avuto, in circostanze differenti, i dettami della prudenza e il senso del dovere. Sembra adeguato, ad ogni modo, scegliere e conservare spazi sufficienti in posizione elevata a costituire un’ampia riserva, per quando si giudicherà necessario fornire la città, attraverso un acquedotto o macchinari idraulici, di copiose quantità di acqua pura e salubre. Nel frattempo, e anche in seguito, lo stesso spazio può essere consacrato agli scopi della scienza, quando lo spirito pubblico suggerirà la costruzione di un osservatorio. Non sembrava giusto, solo sentito come indispensabile, destinare spazi più ampi per le esercitazioni militari, o per radunare in caso di bisogno le forze destinate e difendere la città. Il problema quindi non era se ci dovesse essere un grande spazio da parata, ma dove dovesse collocarsi e quali dimensioni dovesse avere; e qui ancora va lamentato che ora è tardi perché quello spazio da parata possa essere spostato più a sud ed essere più grande, senza incorrere in una spesa spaventosa. Il luogo che è stato possibile individuare più vicino alla parte di città già edificata considerando l’economia, è ai piedi delle alture chiamate Inklingberg, nelle vicinanze di Kip’s Bay. Non si può negare che sia troppo lontano e troppo piccolo, ma si presume che chi è incline alla critica su questo punto possa in qualche modo ammorbidirsi quando l’esattore chiederà loro la quota della grossa e immediata tassa richiesta anche da questo piccolo e lontano spazio da parata.

Un altro ampio spazio, quasi necessario come il precedente, è quello che in un tempo non lontano sarà richiesto per il pubblico mercato. La città del New York contiene già una popolazione sufficiente a collocarla nei ranghi delle città di secondo ordine, e sta rapidamente avanzando verso il livello del primo. Quindi è forse previsione non irragionevole che in mezzo secolo la città verrà edificata fittamente sino ai margini nord dello spazio da parata, a contenere quattrocentomila anime. Il solo potere della necessità avrà da tempo insegnato, allora, ai suoi abitanti i vantaggi di acquistare le proprie provviste di carne macellata, pollame, pesce, cacciagione, verdura e frutta da commercianti dei paraggi. Chi tratta questi articoli troverà pure conveniente, come chi compera, incontrarsi in un mercato generale. Ciò tende a fissare e rendere equi i prezzi per l’intera città. Il macellaio all’ingrosso, l’orticoltore, il fattore ecc., potranno calcolare con una certa cura le quote a cui cedere le proprie provviste; aggiunto il ragionevole profitto del dettagliante il prezzo per il consumatore varierà più per la qualità dei prodotti che per qualunque altra circostanza. Non è una considerazione marginale il fatto che con questo metodo di approvvigionamento per i bisogni di una grande città c’è un gran risparmio di tempo e di prodotti consumati. Per una persona impegnata in un’attività profittevole un’ora trascorsa al mercato spesso vale più di quanto acquisti; e talvolta è obbligata a comprare una quantità maggiore di quanto non abbia occasione di, e l’eccesso viene sprecato. In più, il tempo speso da chi trasporta articoli di scarso valore dalla campagna per rivenderli al dettaglio pesa in così gran quota sugli stessi prodotti, da aumentarne il prezzo oltre quanto dovrebbe essere.

In breve, dato che l’esperienza mostra i vantaggi di questo tipo di organizzazione per ogni grande aggregazione di umanità, è ragionevole concludere che in futuro verrà adottata, e dunque è adeguato provvedere ad essa da ora. Né è del tutto priva di valore la considerazione secondo cui l’istituzione di un grande mercato generale lascerà disponibili spazi ora usati per questo scopo in parti della città più fittamente edificate di quanto sia perfettamente coerente con salute e pulizia.

Lo spazio scelto per questo scopo è un acquitrino salmastro e, per questo motivo, di prezzo inferiore – anche se di grande valore per la destinazione – ad altri terreni. Il materiale escavato da un largo canale posto nel mezzo, per l’accesso delle imbarcazioni da carico, darà la dovuta elevazione e solidità alle sponde; e in uno spazio lungo un chilometro e largo trecento metri ci sarà, si presume, anche dopo aver tolto quello necessario al canale e al mercato stesso, spazio sufficiente per carri e convogli senza scomodità a chi lo voglia frequentare, per affari o curiosità.

Sarà per molti motivo di sorpresa il fatto che non si sia destinata l’intera isola alla città. Per altri potrà essere motivo di divertimento, che i Commissari abbiano destinato spazio sufficiente ad una popolazione maggiore a quella che si può trovare in qualunque luogo da qui alla Cina. Da questo punto di vista, essi sono stati guidati dalla forma del terreno. Non è improbabile che un consistente numero di persone possa concentrarsi ad Harlem prima che le alte colline a sud vengano contruite in forma di città; ed è improbabile che (per secoli a venire) i terreni a nord di Harlem Flat vengano ricoperti da case. Un’estensione inferiore quindi avrebbe deluso giuste aspettative; e una superiore avrebbe potuto offrire materia al pernicioso spirito della speculazione.

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Nota: la versione integrale e originale di questo famoso documento, al ricchissimo sito di documenti storici dell’urbanistica curato da John Reps alla Cornell University (f.b.)

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DIFESA E VALORIZZAZIONE DELL’AMBIENTE FISICO E CULTURALE

80. Sono già stati rilevati i danni inferti dall’intenso sviluppo di questi decenni all’ambiente naturale e alle condizioni di vita del nostro paese ed è stato chiarito come la creazione di un rapporto equilibrato tra l’uomo e il suo ambiente costituisca una finalità della programmazione.

Di seguito sono indicate nelle linee generali le direttive di una politica di vasto respiro e di lungo periodo che consenta, attraverso un attivo intervento dello stato e della regione, di riparare i danni più vistosi, di contrastare le tendenze al deterioramento dell’ambiente, di creare le condizioni di una nuova civiltà del territorio, nella quale siano armoniosamente composte le esigenze della tecnica, della cultura, della natura.

Il primo gruppo di problemi riguarda l’ambiente fisico e culturale: difesa del suolo. tutela e valorizzazione delle risorse naturali, tutela del paesaggio, preservazione del patrimonio storico-artistico.

Difesa del suolo

81. L’impostazione data alla difesa del suolo dal programma economico nazionale 1966-70 - di cui si conferma la validità - richiede l’unitarietà dell’azione pubblica, resa difficile dalla ripartizione delle competenze oggi esistenti. Si profila l’esigenza di istituire un’agenzia per la difesa del suolo, capace di formulare e gestire un piano generale di interventi e di coordinare - d’intesa con le regioni - gli organismi pubblici operanti in questo campo.

La necessità di ampliare e di migliorare la manutenzione delle superfici boschive richiede inoltre un allargamento del demanio forestale. A questo scopo dovrà essere conferita all’azienda di stato la possibilità di acquisire superfici appartenenti ai demani comunali, di acquistare terreni di proprietà privata e, nei casi più emergenti, di sottoporre a vincoli di miglioria i terreni minacciati, sotto pena di espropriazione in caso di inadempienza.

L’azione di rimboschimento dovrà essere affiancata da un’azione preventiva, intesa alla conservazione degli ambienti silvo-pastorali, al recupero forestale di ampi territori, alla prevenzione dei gravissimi danni recati dal fuoco alla superficie forestale.

Sarà opportuno estendere la soluzione adottata per il regime idrografico del Po ad altri bacini idrografici istituendo magistrature responsabili della gestione di tutti gli interventi a monte e a valle, sulla base di piani regolatori dei bacini idrografici.

Tutela delle risorse naturali

82. Nel recente passato la utilizzazione delle risorse naturali, con riferimento oltre che al suolo ad alcune grandi categorie di beni ad utilizzazione collettiva - l’acqua, l’aria, la flora, la fauna - ha assunto caratteristiche di sfruttamento distruttivo, anziché di gestione razionale ed efficiente. In questo modo si sono depauperate - per fini economici di breve periodo e di interesse strettamente locale o settoriale - risorse insostituibili, di inestimabile valore per la collettività.

La politica di tutela delle risorse naturali si baserà sul riconoscimento pieno ed effettivo del carattere di beni collettivi di tali risorse. Il riconoscimento della funzione sociale della natura implicherà il rispetto del principio secondo il quale ogni deterioramento delle risorse naturali può essere in ogni caso orientata e contenuta, entro precisi limiti, utilizzando varie forme di azione pubblica, di prevenzione, di riparazione e di compensazione.

83. Le risorse idriche sono minacciate dal depauperamento e dall’inquinamento. Un bilancio nazionale delle risorse e dei fabbisogni idrici dovrà prevedere le esigenze di consumo e di produzione di acqua in relazione alle risorse, ivi comprese quelle ottenibili attraverso processi di desalinazione. Quanto all’inquinamento, è necessario predisporre una legge sulla disciplina generale delle acque, che contenga norme di conservazione, regolamento e distribuzione delle risorse idriche e di tutela contro l’inquinamento delle acque marine e delle acque interne.

84. La difesa contro l’inquinamento dell’aria va condotta con altrettanta energia. Occorre evitare la costruzione di impianti industriali che comportino particolari effetti di inquinamento in aree prossime a centri abitati, e curare che le zone destinate a nuovi insediamenti industriali vengano parzialmente urbanizzate. Occorre inoltre un più rigoroso controllo e una severa disciplina relativa all’impiego dei combustibili negli impianti termici e dei carburanti nelle auto; come pure una disciplina in materia di biocidi, di scorie radioattive, di inquinamento degli ambienti chiusi (locali pubblici e mezzi di trasporto).

85. Anche il depauperamento della flora e della fauna richiede provvedimenti di difesa, intesi a ristabilire l’equilibrio biologico. A questa esigenza dovrà ispirarsi una revisione della disciplina di caccia e pesca. Un apposito servizio per la protezione della natura dovrebbe sovraintendere alle attività di tutela e di conservazione del patrimonio floro-faunistico.

86. La difesa dell’ambiente naturale richiede una “politica del verde” basata su iniziative di grande respiro. Una nuova disciplina dovrà consentire di vincolare, nell’ambito dei grandi sistemi territoriali metropolitani dei quali si tratta più oltre, vaste unità ambientali da adibire a parco naturale, i parchi saranno di interesse nazionale, regionale o locale secondo la loro estensione, funzione e caratteristiche specifiche. La disciplina urbanistica dei parchi sarà differenziata secondo le esigenze specifiche che ciascuno di essi presenta: dal massimo della tutela in zone di riserva naturale assoluta al massimo di utilizzazione in zone atte a costituire parchi metropolitani attrezzati. È opportuno che le unità maggiori, di interesse nazionale, siano disciplinate in enti autonomi, opportunamente coordinati al centro. Le altre unità saranno disciplinate nell’ambito dell’ordinamento regionale.

La formazione dei parchi implicherà un’azione intesa all’espansione e al coordinamento della proprietà pubblica nelle zone agricole povere di collina e di montagna, ad eminente vocazione silvo-pastorale, Questa azione dovrà essere condotta attraverso una coordinata politica di acquisti, espropriazioni, cessioni e trasferimenti di terreni, che consenta di valorizzare come parchi e riserve naturali ampie superfici di boschi e di parchi, oggi praticamente abbandonate.

In appendice I sono indicate, sulla base di studi preliminari, le zone suscettibili di essere organizzate come parchi e riserve di preminente interesse nazionale.

Tutela delle bellezze naturali

87. La tutela delle bellezze naturali e del paesaggio rende necessaria la predisposizione di una “carta nazionale” dei luoghi da salvaguardare o da ripristinare, come base di riferimento per gli opportuni interventi.

Preservazione del patrimonio storico e artistico

88. L’immenso patrimonio storico, artistico, archeologico e monumentale di cui dispone l’Italia è oggi sottoposto a un grave rischio di deterioramento e di perdita, La comunità nazionale deve al riguardo assumere una precisa responsabilità, anche nei confronti della cultura mondiale.

Gli interventi si ispireranno alla preoccupazione di salvaguardare il primato dei valori e delle tradizioni della cultura nel processo di sviluppo, senza sottovalutare la funzione che i beni culturali svolgono anche a fini economici. A questo scopo sarà necessario, anzitutto, formulare un inventario completo di tutto il patrimonio storico, artistico e monumentale, attuare una revisione delle leggi e disposizioni esistenti, per definire con precisione i vincoli nella destinazione e nell’uso dei vari beni e le misure necessarie ad impedire il saccheggio del patrimonio stesso, che si sta compiendo da parte di privati e di mercanti; provvedere di mezzi finanziari adeguati, di mezzi tecnici moderni e di procedure di intervento agili e rapide le sovrintendenze; ampliare la proprietà pubblica nelle zone suscettibili di ritrovamenti archeologici.

89. Particolare rilievo dovranno assumere iniziative dirette alla protezione e alla valorizzazione dei centri storici. A un’azione di emergenza intesa ad arginare il deterioramento con opere di consolidamento, restauro e ripristino, si accompagneranno iniziative rivolte a promuovere la vitalità economica e sociale là ove i centri versino in condizioni di abbandono e di progressivo degradamento. Data la vastità del patrimonio rappresentato dai centri storici, occorrerà scegliere e definire un insieme di concrete operazioni che tengano conto della natura e dell’urgenza dei problemi da risolvere (particolarmente evidenti nel caso della città di Venezia). In alcuni casi queste operazioni dovranno costituire elemento di più complessi progetti, rivolti a dare un ordinato assetto metropolitano allo sviluppo di grandi città (con speciale riferimento a quelle indicate nel prospetto successivamente esposto).

Un forte impegno dovrà essere rivolto alla valorizzazione turistica dei centri stessi. Nuovi circuiti turistici, opportunamente predisposti dal punto di vista sia della “offerta” di attrezzature adeguate sia della promozione della “domanda”, dovranno consentire di diffondere su vaste parti del territorio nazionale, soprattutto nell’Italia centro-meridionale, i flussi turistici che oggi si concentrano in un limitato numero di aree, sovraccaricandole e congestionandole.

90. Va infine posto in rilievo - accanto all’azione di difesa e di valorizzazione - il debito che ogni generazione ha di arricchire il patrimonio estetico delle città.

Per un paese come l’Italia, dove ogni secolo ha lasciato un segno di arte e di bellezza, questa è una responsabilità particolarmente impegnativa. Una maggiore attenzione alle esigenze architettoniche, nel campo dell’edilizia pubblica, potrà evitare soluzioni dozzinali e sgradevoli e incoraggiare nuove espressioni artistiche.

ORIENTAMENTO DELLO SVILUPPO URBANO

91. Lo sviluppo urbano sarà forse l’aspetto dominante degli anni settanta. In Italia l’evoluzione verso grandi aggregati metropolitani è cominciata in ritardo rispetto ad altri paesi, ma sta procedendo con grande rapidità.

È in corso un processo di gravitazione urbana verso un ristretto numero di aree. Questo processo tende a svuotare e a impoverire il tessuto cittadino e la vita economica e sociale di vaste zone, e a creare condizioni di sovraccarico e di congestione nelle aree di afflusso.

Se si proiettano nel futuro le attuali tendenze, si può prevedere che nel 1980 il 37%della popolazione italiana sarà concentrata in otto aree metropolitane (Milano, Napoli, Roma, Torino, Genova, Firenze, Palermo, Bologna) che rappresentano il 4% della superficie, e che nel 2000 tale percentuale salirà al 45%.

È necessario contrastare questo movimento centripeto attraverso un’attiva politica che si proponga di realizzare un nuovo tipo di civiltà urbana. Essa si fonderà su due premesse. La prima è il riconoscimento della necessità dell’evoluzione urbana verso dimensioni “metropolitane”. Soltanto a certe dimensioni è possibile infatti assicurare ai cittadini i beni e i servizi propri di una società evoluta. La seconda è l’esigenza che tale processo si verifichi in modo equilibrato, all’interno di ogni area urbanizzata e nei rapporti tra le varie aree.

92. Queste due esigenze possono essere soddisfatte con un nuovo modello di sviluppo urbano che preveda la realizzazione - nel lungo periodo - di una serie di “sistemi di città” (o “metropolitani”) i quali dovrebbero: presentare proporzioni e dimensioni non molto diverse l’uno dall’altro; coprire l’intera area urbanizzata del territorio nazionale; assicurare al loro interno una ripartizione e organizzazione dello spazio e dei servizi tali da consentire a tutti i cittadini facili e rapidi accessi alle attività di lavoro e di tempo libero; rispettare e valorizzare le caratteristiche differenziali -storiche, tradizionali e culturali - del territorio.

93. I sistemi metropolitani non devono essere quindi intesi come aree urbanizzate compatte, disposte attorno ad un unico centro, ma come strutture articolate e policentriche. Ciascuno di essi sarà naturalmente configurato in modo diverso: alcuni sistemi si fonderanno su un centro urbano di maggiori dimensioni, collegato a centri minori; altri su una rete di centri equivalenti, variamente collegati e integrati tra loro. Ciascun sistema dovrà comunque presentare certi requisiti e misure fondamentali, riguardanti: la consistenza demografica minima; i tempi di percorrenza massimi all’interno di ciascun sistema; la presenza di una organizzazione economica complessa e differenziata, capace di offrire possibilità di lavoro in un’ampia gamma di attività produttive; la presenza di un minimo di istituzioni e attrezzature e servizi civili, sociali e culturali; le disponibilità di spazio per il tempo libero.

Di tali misure e requisiti si forniscono alcune indicazioni orientative nell’appendice.

94. La compiuta attuazione di una rete nazionale di sistemi metropolitani costituisce naturalmente un problema di lungo periodo, che si porrà per varie decine di anni. Ciò non significa che la sua realizzazione non imponga misure urgenti. Al contrario, la forza delle attuali tendenze centripete è tale che soltanto un’azione vasta e vigorosa, da intraprendere nei prossimi anni, potrà arrestarne il corso e porre le premesse per la progressiva attuazione dei nuovi indirizzi. Questo impegno richiede la determinazione di orientamenti precisi quanto al “disegno” generale dei sistemi, e la predisposizione di politiche e di interventi urbanistici.

95. Nell’appendice I si presenta un disegno dei sistemi metropolitani, quale può essere fin d’ora configurato - in forma ancora approssimativa - sulla base di una prima indagine. Tale disegno servirà come base per le consultazioni che si svolgeranno nella fase di predisposizione del programma economico nazionale 1971-75, che determinerà i contorni geografici dei vari sistemi. Fin d’ora è possibile definire alcuni criteri essenziali.

96. Sarà opportuno distinguere i sistemi fondati sulla base delle attuali principali aree metropolitane, dai sistemi di riequilibrio e dai sistemi alternativi. Nei riguardi dei primi l’intervento dovrà essere rivolto principalmente alla decongestione e al decentramento interno, contrastando le tendenze all’ulteriore concentrazione.

Sistemi di riequilibrio saranno considerati quelli adiacenti alle attuali aree metropolitane, che presentano condizioni atte a un rapido sviluppo metropolitano, ma che rischiano di essere attratti nell’area di gravitazione delle suddette aree. Nei riguardi di questi sistemi sarà necessario adottare politiche urbanistiche, imprenditoriali e di trasporto che ne rafforzino le tendenze alla coesione e indeboliscano l’attrazione esercitata dai sistemi del primo tipo.

I sistemi del terzo tipo comprendono zone più lontane dalle attuali aree di gravitazione. La progressiva realizzazione di tali sistemi costituisce una vera e propria alternativa rispetto alle attuali tendenze centripete. Naturalmente una politica di realizzazione di sistemi alternativi comporta l’adozione di determinati ordini di priorità. In una prima fase, corrispondente grosso modo al prossimo decennio, sarà necessario concentrare l’azione pubblica sulla realizzazione di un primo gruppo di sistemi, che riveste particolare importanza ai fini dell’ordinamento policentrico dell’assetto territoriale nazionale e che presenta al tempo stesso tutte le condizioni per uno sviluppo economico e urbanistico intensivo. Nell’appendice I questo gruppo è individuato nei sistemi friulano-giuliano al nord, toscano inferiore e umbro-laziale al centro e nei sistemi del territorio pugliese, della Sicilia occidentale e della Sardegna meridionale al sud.

97. La progressiva realizzazione di sistemi metropolitani secondo i criteri generali indicati, comporta la destinazione alle infrastrutture urbane di risorse molto più ampie di quella finora rese disponibili e l’attuazione di politiche urbanistiche, di trasporti metropolitani e di infrastrutture coordinate, sia nell’ambito nazionale sia con le regioni.

98. Quanto alle politiche necessarie per realizzare concretamente la rete dei sistemi metropolitani, sarà opportuno che per ogni sistema urbano si elabori un progetto specifico e che nell’ambito di ciascun progetto siano definite le responsabilità degli organi nazionali e di quelli regionali.

I progetti metropolitani dovranno, sulla base di una rigorosa ricognizione delle caratteristiche di ciascun sistema e dei fattori limitativi del suo sviluppo, definire le esigenze di intervento nel campo delle infrastrutture e dei servizi sociali e culturali, in quello economico-produttivo, in quello residenziale, in quello dei trasporti e delle comunicazioni.

Dovranno in particolare essere definite, nell’ambito dei territori compresi in ogni sistema: le nuove aree residenziali; le aree destinate ad accogliere i servizi urbani di ordine superiore (istruzione superiore, università, ricerca, centri direzionali); le aree produttive; le aree di salvaguardia naturalistica e artistica; le aree destinate al tempo libero (parchi, aree archeologiche e monumentali, riserve naturalistiche, itinerari panoramici); le aree destinate alla saldatura dei differenti sistemi di trasporto, metropolitani e nazionali.

RIASSETTO DELLE ZONE POVERE

99. Le direttive più oltre delineate sulla politica agricola pongono in evidenza il problema di un’azione a favore del mondo rurale, non circoscritta nell’ambito del settore agricolo ma rivolta a una più ampia promozione della vita rurale e basata su molteplici forme d’intervento in vari settori. Per quanto riguarda l’assetto del territorio, questa direttiva implica una precisa delimitazione delle “zone povere” e di progetti specifici di intervento in ciascuna zona. Tali progetti, elaborati in sede regionale nell’ambito degli schemi di sviluppo economico e di assetto territoriale, dovranno essere inseriti nel piano e successivamente attuati secondo la ripartizione delle competenze tra stato e regioni, in modo coordinato.

SISTEMA DEI TRASPORTI E DELLE COMUNICAZIONI

100. I grandi spostamenti di popolazione e il ritmo dello sviluppo economico a livelli di reddito via via più elevati intensificheranno fortemente la “mobilità geografica” nell’ambito del sistema economico italiano e tra questo e gli altri sistemi, Si può stimare per il 1980 un raddoppio del volume di merci trasportate, una quadruplicazione del traffico dei passeggeri, un raddoppio del traffico internazionale.

Le infrastrutture di trasporto dovranno adeguarsi a questo volume di domanda. Ciò richiederà anzitutto la destinazione di risorse finanziarie che si possono calcolare dell’ordine di quattro volte quelle attualmente disponibili.

101. La politica dei trasporti si proporrà, come obiettivi essenziali, il profondo inserimento dell’Italia nella rete dei flussi di traffico internazionale e la realizzazione di eguali possibilità di accesso a tutti i punti del territorio per tutti i cittadini. La scelta tra i vari mezzi di trasporto dovrà essere effettuata in modo che siano utilizzate al massimo le capacità e le caratteristiche di ogni mezzo; che sia minimizzato l’ingombro; che sia massimizzata - attraverso l’integrazione dei mezzi - la rapidità e l’economia totale dei flussi di trasporto.

Tali scelte dovranno essere compiute, per quanto possibile, sulla base di analisi di costi e di benefici, nell’ambito di progetti raggruppabili nelle seguenti principali categorie: collegamenti internazionali; collegamenti tra i sistemi metropolitani (rete primaria); collegamenti interni ai sistemi metropolitani (rete metropolitana).

102. Per quanto riguarda tipi di infrastrutture di trasporto (valichi, trafori, porti, aereoporti, strade, ferrovie) si forniscono in appendice alcune indicazioni specifiche, che potranno - dopo la fase di consultazione - costituire la base dei progetti inseriti nel piano.

Una volta completata la rete autostradale e il sistema dei collegamenti stradali e ferroviari internazionali attraverso le Alpi, l’impegno dovrà essere concentrato:

a) sulle infrastrutture portuali, opportunamente differenziate secondo le funzioni specifiche (grandi sistemi portuali continentali dell’alto Tirreno e dell’alto Adriatico; grandi sistemi portuali peninsulari del basso Tirreno e del basso Adriatico; porti di cabotaggio; porti pescherecci; porti turistici, porti industriali e petroliferi) e modernamente attrezzate, specie per quanto riguarda le nuove tecniche di trasporto attraverso contenitori;

b) nel sistema degli aeroporti intercontinentali e regionali;

c) nel sistema ferroviario, sia per quanto riguarda il traffico di lunga distanza, specie di merci, sia per quanto riguarda la più fitta trama dei trasporti metropolitani.

Un’importante funzione dovrà inoltre essere assolta, nell’ambito della viabilità, dalle autostrade urbane e dai collegamenti tra sistemi metropolitani intesi a correggere le attuali tendenze centripete dell’assetto territoriale.

103. Importanza crescente dovrà assumere, in relazione all’esigenza generale di una più stretta integrazione tra i vari sistemi di trasporto, la costituzione di centri interregionali di raccolta e smistamento delle merci, in corrispondenza di grandi terminali di trasporto, specialmente marittimo.

ISTITUZIONI DELLA POLITICA TERRITORIALE

104. Le direttive generali delineate in merito alla politica territoriale nei suoi vari aspetti implicano la soluzione di importanti problemi istituzionali. Il primo riguarda la definizione e la distinzione delle responsabilità e delle competenze attribuite allo stato e alle regioni.

Le soluzioni che si adotteranno nell’applicazione del dettato costituzionale dovranno tener presente l’esigenza di mantenere, pur nella distinzione delle diverse sfere di autonomia e di responsabilità, il carattere unitario degli interventi. A tal fine sembra necessario che ogni soluzione concreta si ispiri non tanto alla preoccupazione di ripartire le competenze per materie o per settori secondo linee di demarcazione astratte ed arbitrarie, quanto al criterio di individuare - per ogni materia o settore di intervento - i progetti specifici, nell’ambito dei quali possano essere individuate le rispettive zone di autonomia e di responsabilità. Una programmazione concepita come una serie di operazioni concrete e organiche non si adatta a ripartizioni di competenze troppo rigide e astratte.

105. Nell’ambito delle responsabilità di politica territoriale dovranno essere anche considerati i numerosi strumenti di intervento oggi esistenti, come il piano di coordinamento degli interventi ordinari e straordinari nel Mezzogiorno, il piano di coordinamento degli interventi nelle zone depresse e nei territori montani dell’Italia settentrionale e centrale, il piano di coordinamento degli interventi in agricoltura, i piani generali degli acquedotti e dei metanodotti, i piani per la costruzione di autostrade, il piano di rinnovamento delle ferrovie dello stato, i programmi per l’edilizia scolastica e ospedaliera, il programma per la difesa del suolo.

Ciascuno di questi programmi implica interventi sul territorio che non possono essere concepiti indipendentemente l’uno dall’altro, secondo una logica “dipartimentale”. La programmazione per progetti dovrà consentire di impostare i vari interventi sulla base di una visione unitaria. Essa richiede quindi l’esistenza, all’interno del governo, di un centro di responsabilità unitario per l’assetto del territorio.

106. Infine, le direttive delineate nei precedenti paragrafi richiedono, per essere attuate, un’estensione dell’area della proprietà pubblica dei terreni, soprattulto nei territori destinati a pascoli e riserve naturali o interessali da intensi processi di urbanizzazione, con le forme di acquisizione che si riveleranno più opportune nei singoli casi.

Titolo originale: Community development in wartime - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

I problemi sociali e industriali che devono essere fronteggiati a causa delle condizioni di guerra non hanno caratteristiche diverse da quelli che si affrontano in tempi di pace. Ma la loro urgenza e intensità locale, dovuta allo stimolo artificiale dato alle industrie belliche in alcuni luoghi, unita al fatto che l’attenzione pubblica è focalizzata su di essi in relazione alla difesa nazionale, dà loro apparenza di problemi nuovi. Da qui, il grande bisogno di una cultura di governo costruttiva per misurasi con essi. Le cose che si chiedono ai leaders pubblici al giorno d’oggi sono coraggio, decisioni rapide, e immaginazione, invece dei metodi timidi, indecisi, dilatori della mentalità legale che controlla la nostra politica in condizioni normali. Dobbiamo prenderci dei rischi, che lo vogliamo o no. Dobbiamo smetterla di rastrellare nelle ceneri dei precedenti ( alla ricerca di soluzioni n.d.t.). Dobbiamo pensare in termini di grandi idee, e di grandi somme di denaro.

Questa guerra si sta combattendo, come è stato detto, non solo per rendere il mondo più sicuro per la democrazia, ma anche per rendere la democrazia più sicura per il mondo. Ma per rendere la democrazia più sicura noi dobbiamo sconfiggere i suoi nemici in patria così come all’estero; dobbiamo trovare i mezzi per diminuire l’ignoranza e l’imprudenza che crescono dalla mancanza di istruzione e da condizioni di vita insalubri. A fondamento di tutte le democrazie c’è il carattere del popolo: istruito o non istruito, sano o non sano, contento o scontento. Un popolo istruito sa che la vera educazione è più una faccenda di ambiente, che di istruzione in senso stretto. Le condizioni sociali insalubri non solo abbassano la vitalità e diminuiscono l’efficienza, ma costituiscono una delle principali cause di irrequietezza nel mondo industriale (con riferimento alle condizioni del Sud Galles, Mr. Thomas Richards, Segretario della Miners’ Federation, dichiara che il socialismo e il sindacalismo hanno fatto progressi a causa della monotonia e squallore delle condizioni abitative e dell’ambiente circostante).

Per rendere la democrazia forte e duratura, per renderla degna di combattere e morire per essa, tutte le nazioni democratiche devono adottare per il futuro misure più aggressive per migliorare il carattere e il fisico dei propri cittadini. Negli ultimi anni abbiamo visto una fuorviata autocrazia distruggere il benessere monetario accumulato di intere generazioni. Un giorno, una democrazia male alloggiata, sovra-urbanizzata, impoverita, potrebbe fare lo stesso con il benessere edificato a partire dalla riduzione in schiavitù dentro la povertà e i quartieri degradati. L’istruzione pubblica nelle scuole mette in pericolo, anziché salvaguardare, una democrazia, quando il popolo soffre cattive condizioni sociali. Su questo continente ( l’America, n.d.t) abbiamo la maggiore, e non la minore, responsabilità, perché dobbiamo preparare e migliorare una popolazione mista, inclusi i molti che sono privi di tradizioni di libertà politica, dei vantaggi dell’istruzione, o di ambizioni verso un migliore standard e comodità nelle abitazioni.

La schiavitù non sarà morta, finché esisteranno gli slums. Ogni sforzo fatto per rimuovere le cattive condizioni abitative in America va nella direzione di dare realtà alla Dichiarazione di Indipendenza. In Germania, le cattive abitazioni non contano così tanto, visto che lo Stato è gestito per il popolo, non dal popolo; ma negli Stati Uniti e in Canada, il progresso futuro dipende dalla crescita in intelligenza della massa delle persone. La povertà e il sovraffollamento nelle grandi città da un lato, e la povertà e isolamento dei remoti distretti rurali dall’altro, stanno entrambi distruggendo intelligenza, e causando degenerazione fisica e morale. È una questione aperta, se i progressi della scienza moderna nei campi connessi alla salute pubblica, con i costosi miglioramenti municipali, la pubblica istruzione nelle scuole, non siano più che controbilanciati dalle perdite dovute alle condizioni insalubri, alla distribuzione casuale della popolazione, e al fallimento delle nazioni moderne nell’alloggiare in modo proprio i loro lavoratori industriali.

Il problema dell’abitazione come parte del problema urbano

Il problema dell’abitazione non può essere risolto semplicemente demolendo case malsane e costruendo salubri piccionaie, né rimpiazzando gradualmente tutti i cattivi alloggi con altri buoni. Il problema dell’abitazione è solo parte di un più ampio problema sociale, connesso alla vita della comunità in tutte le sue fasi. È in larga parte un problema di corretta o scorretta urbanizzazione dei terreni a scopi industriali e di alloggio, e in larga parte un problema di corretta o scorretta organizzazione delle forze sociali dell’industria. La stretta connessione fra urbanistica e realizzazione di case, fra produzione agricola e realizzazione di case, e fra efficienza bellica e realizzazione di case, non è ancora stata afferrata in questo continente. Quando le nazioni occidentali avranno speciali divisioni dei governi statali e federali, che dedichino tutta la loro attenzione ai problemi della costruzione urbana e dell’abitazione, avranno iniziato a mostrare adeguato riconoscimento dell’importanza di questi problemi.

Uno sviluppo urbano con caratteristiche artificiali

Una delle cause principali della passata indifferenza per un cattivo sviluppo urbano, è stata l’erronea assunzione che esso consistesse di, o dovesse essere lasciato a, una “crescita naturale”. Di sicuro, se c’è qualcosa di artificiale, questo è la moderna città o cittadina. Se qualcosa ha bisogno che vi venga applicata la scienza, e una salutare ed esperta mano di governo a promuovere forme salubri di sviluppo e a prevenirne delle malsane, questa è la città industriale di oggi.

Non abbiamo sbagliato a costruire intere comunità industriali; non abbiamo nemmeno tentato, di costruirle. Abbiamo lasciato che la loro costruzione procedesse, non solo senza pianificazione o orientamento, ma incoraggiando la speculazione fondiaria e sistemi di edificazione dispersivi, proteggendo chi affermava artificiali diritti di proprietà, anche quando ne è risultato che le vite e la salute del popolo sono state ferite.

Noi non vogliamo riformare il nostro sistema di urbanizzazione e realizzazione di case; noi vogliamo iniziare ad impiegare un sistema. Noi non vogliamo mettere in pericolo gli interessi proprietari legittimi, ma stabilirli. Noi non vogliamo inaugurare estremismi socialisti, ma prevenirli. Noi non vogliamo diminuire la libertà, ma renderla più diffusa. E, riconoscendo che la vita è più importante della proprietà, che il fine di tutta la produzione è la vita e non il denaro, e che la ricchezza nazionale deve essere misurata dalla salute del popolo, dobbiamo o esercitare un controllo sul diritto di proprietà in modo che non danneggi la convivenza nell’insieme degli insediamenti, oppure affrontare l’inevitabile decadenza. Così, le alternative pratiche che le nazioni civili moderne devono apparentemente fronteggiare sono: o l’applicazione di metodi scientifici di controllo e orientamento della loro vita comunitaria, senza interferenze con l’eguaglianza di opportunità per tutti i cittadini, oppure che le attuali forme parassite e disordinate di sviluppo industriale continuino come prima, vanificando qualunque sforzo fatto per migliorare le condizioni sociali del popolo.

L’opportunità Americana

I paesi in guerra vedono queste cose sotto una luce più forte che durante i tempi di pace, e ora viene all’America una speciale opportunità di applicare metodo e organizzazione a pianificare e costruire nuove città, che aiuteranno a mostrare le linee sane e pratiche lungo cui si può orientare la crescita sia dei vecchi che dei nuovi centri, quando la guerra sarà finita.

Non serve essere ciechi al fatto che le cattive abitazioni e condizioni industriali non sono state create dalla guerra, ma esistevano, in larga misura, sia negli Stati Uniti che in Canada, da prima della guerra. Allora, come ora, anche se in grado minore, avevamo il problema di una urbanizzazione eccessiva della popolazione, mezzi di distribuzione difettosi, e incrementi nel costo della vita; avevamo il costante e casuale spostamento di popolazione a seguire la tendenza dell’industria a cercare nuovi campi; avevamo i mali della speculazione sui terreni che si avvantaggiava di ogni nuovo crescente concentrazione di persone e dirottava gli incrementi di valore creati dalla crescita delle comunità nelle tasche di non-produttori. Questi problemi sono vecchi, ma ultimamente sono stati resi più acuti e più visibili allo sguardo pubblico. La domanda dell’Europa per il surplus di cibo dall’America e la sottrazione di un grande numero di lavoratori rurali per scopi militari ha ulteriormente incrementato il costo della vita; la diversione di ingenti risorse finanziarie entro canali governativi e la sua redistribuzione ha creato false prosperità, che hanno dato alla gente più ampie capacità di spesa e ancora aumentato il costo della vita come risultato di una domanda gonfiata; la creazione di industrie di guerra su larga scala in vaste aree ha causato un inusuale rapido movimento di popolazione da un distretto all’altro, e rivelato l’impotenza dell’imprenditoria privata a provvedere sistemazioni abitative soddisfacenti in queste condizioni; l’assorbimento da parte del Governo di capitali altrimenti disponibili per lavori di costruzione ha ulteriormente indebolito la capacità dell’impresa privata di impegnarsi in queste operazioni, anche su basi pre-belliche; infine l’alto costo dei terreni a ragionevole distanza da strutture sociali e di trasporto mostra come la speculazione fondiaria intralci la fornitura di strutture abitative in situazioni salubri.

Gli unici fattori realmente nuovi in questa situazione sono, primo, che la necessità di rapida produzione ha condotto gli industriali manifatturieri e navali a comprendere che una buona abitazione, accompagnata da una organizzazione sociale, è essenziale ad assicurare efficienza e soddisfazione sul versante dei lavoratori; in secondo luogo, i governi statali e federale hanno iniziato a riconoscere di avere una distinta responsabilità nel provvedere le strutture necessarie ad ottenere questa efficienza e soddisfazione. Il primo di questi nuovi fattori non è del tutto nuovo, visto che nell’ultima decade o anche più, grandi gruppi industriali come la Steel Corporation, hanno mostrato di riconoscere che l’organizzazione sociale e delle abitazioni per i propri lavoratori era essenziale ad ottenere efficienza industriale. Riguardo al secondo aspetto, sembra essere vero negli Stati Uniti che l’aiuto federale per l’abitazione è erogato puramente come misura da tempo di guerra, e non perché il Governo ha qualunque convinzione circa la propria responsabilità in materia. Nondimeno, una volta che il Governo entri nel campo dell’abitazione e dello sviluppo urbano, sarà difficile tornare al vecchio ordine di cose; e con tutti i vantaggi che possiede nell’ottenere competenze esperte e impiegare una grande organizzazione, sarà in grado di influenzare enormemente direzione e caratteri dell’industria edilizia residenziale del futuro.

Molto del lavoro dei dipartimenti governativi che affronteranno l’abitazione di guerra deve essere diretto ad alloggiare piccoli gruppi di lavoratori in numerose località, e alla costruzione di nuovi accrescimenti suburbani a città e cittadine esistenti. I problemi sorgeranno in connessione a tutti i tipi di progetto, grandi e piccoli, sui migliori metodi di pianificazione, i relativi meriti dell’abitazione temporanea o permanente, la ripartizione dei costi e delle responsabilità fra i governi federale e locale, e fra i governi e i dirigenti industriali. Queste e molte altre questioni non possono essere affrontate in questo articolo. L’obiettivo dello scritto è di indicare le grandi questioni aperte e le opportunità che si presentano nelle presenti condizioni, di impegnare con qualche sistema e sano metodo organizzativo lo sviluppo urbano di questo continente.

Perché non creare Nuove Città?

Si assume che almeno in alcuni casi, come nella zona di Philadelphia dove si sta realizzando un vasto insediamento cantieristico navale, ci sarà l’opportunità di realizzare una o più città completamente nuove, auto-centrate e auto-contenute, con tutte le strutture e attrattive sociali necessarie a soddisfare i bisogni della popolazione. In questi casi, la separazione dalla grande città è desiderabile, ma l’accessibilità ad essa con mezzi di trasporto rapido sarà probabilmente un vantaggio, in particolare durante i primi stadi di crescita. Avrà il Governo lungimiranza e saggezza sufficiente per creare nove città o provvederà semplicemente il denaro per perpetuare i metodi disordinati e a-scientifici che hanno prevalso sinora? Possiamo accettare come salda dottrina il fatto che, se è praticabile l’incoraggiare la costruzione di nuove città di moderata dimensione, con un circondario agricolo, preferendola all’incoraggiare ulteriore crescita di ingovernabili città, con il concomitante isolamento agricolo, esso sarà di beneficio alla nazione. Quali sono dunque gli elementi che lo rendono, o no, praticabile?

Lo schema della Città Giardino come esempio di saldo sviluppo urbano

Il migliore esempio di applicazione dei principi di fondazione di una nuova città si può trovare in Inghilterra, nel caso della Città Giardino di Letchworth. Sfortunatamente, non è l’esempio che avrebbe potuto essere se le circostanze in cui si iniziò fossero state tali da farne un successo finanziario più rapido. Per motivi perfettamente ovvi, è stata lenta la realizzazione delle aspettative finanziarie dei fondatori, ma, come mi sforzerò di dimostrare, queste ragioni non devono necessariamente applicarsi nel caso di un esperimento simile portato avanti sotto auspici Governativi e con capitale sufficiente, ed esse non viziano in alcun modo la saldezza dei principi che sostengono lo schema.

Gli obiettivi generali dello schema possono essere riassunti come segue:

  1. acquisto di un vasto appezzamento agricolo su cui stabilire una cittadina industriale e residenziale, in primo luogo per assicurare un concordato movimento di lavoratori dell’industria dai centri affollati.
    2 - contenimento dell’area destinata allo sviluppo urbano, e vincolo permanente della maggiore porzione dell’appezzamento a scopi agricoli.
    3 - pianificazione dell’intera area allo scopo di assicurare salute, bellezza, funzionalità ed efficienza.
    4 - limitazione dei dividendi degli azionisti a, diciamo, il 5 per cento annuo, con il resto dei profitti da usarsi a beneficio della città e dei suoi abitanti.

Si noterà che il successo di un simile schema dipende dall’attrattività che può essere offerta ai lavoratori per migrare verso il sito. Muovere lavoratori industriali verso un territorio puramente rurale, a 34 miglia da una città, significa che essi dovevano avere offerti dei vantaggi, uguali o migliori di quelli ottenibili in centri di popolazione esistenti. Nella Città Giardino il terreno, avendo solo valore agricolo, tanto per cominciare era a buon prezzo, ma questa era solo una delle considerazioni. C’erano anche i desideri di strutture di trasporto, energia, posti di lavoro, luce, acqua, strade, a costi ragionevoli. Tutto questo ha dovuto essere creato, e creato in anticipo. Ha dovuto essere messo a disposizione ad un prezzo che non superasse quello che avrebbero pagato altrove, e ancora produrre adeguati ritorni per gli investitori. Nei primi tempi dell’impresa, tutto era puramente teorico. Non si poteva ottenere lavoro senza abitazioni, e così le case dovettero essere realizzate prima, e non dopo, che si creasse una domanda. Quanto ai risultati, nonostante queste difficili condizioni, è sufficiente ricordare, per quanto ci interessa ora, che circa trenta fabbriche si sono stabilite in città; che c’è una popolazione di circa 13.000 persone, su un’area che nel 1903 consisteva di soli campi coltivati. Per questa popolazione sono state realizzate reti idriche, fognature, gas, un impianto per la produzione di energia elettrica, una nuova stazione ferroviaria, edifici pubblici, alberghi, parchi, un campo da golf, dieci miglia di strada in aggiunta alle molte miglia esistenti quando fu acquistato il terreno, 15 miglia di condutture del gas, 14 miglia di fogne, e altri servizi.

Il finanziamento di una Città Giardino

Ho qui davanti a me il bilancio del 30 Settembre 1917. Mostra che anche oggi, il capitale totale in titoli ordinari ammonta a meno di $ 1.000.000, e che le azioni privilegiate, obbligazioni, ipoteche e mutui ammonta a meno di $ 1.600.000. Dunque con un capitale totale di $ 2.600.000, una larga porzione del quale è investita in beni immobili, è stata costruita una città di più di 13.000 abitanti, ovvero $ 2.000 pro capite. In alcune città del Canada occidentale il valore stimato del solo terreno ammonta a circa questa cifra pro capite, e in una città di 15.000 abitanti il valore del terreno è di $ 1.150. Per questi 2.000 dollari la Garden City Company, e indirettamente gli abitanti della città per cui la Compagnia agisce come Trust, possiedono un terzo di acro di terreno a testa, oltre a valutabili reti elettriche e di gas, alberghi, strade, acquedotti, fogne, ecc. come già elencato. Una considerevole porzione del capitale della Compagnia è stato usato anche per finanziare operazioni edilizie. La Compagnia non ha diviso con nessuno la proprietà, e l’intero incremento di valore va a suo beneficio. Dopo che è stato pagato il dividendo – ristretto al 5 per cento – agli azionisti, il resto dell’incremento ritorna agli abitanti.

Il valore lordo del terreno e dei summenzionati servizi ammonta a circa $ 3.000.000. Se gli interessi della Garden City Company potessero essere venduti correntemente, senza dubbio se ne potrebbe ricavare un prezzo tale da dare un largo profitto dopo aver pagato capitale e interessi. Se la Compagnia avesse potuto far partire il progetto con un capitale di $ 3.000.000 anziché di soli $ 1.000.000, sarebbe stato un successo più rapido, e forse ci sarebbe già il doppio dell’attuale popolazione in città. Così come stanno le cose, gli interessi sono stati regolarmente pagati sulle azioni privilegiate e sui mutui, e si è iniziato col pagamento degli interessi sui titoli ordinari. Durante lo scorso anno i ricavi ammontano a $ 145.420, inclusi $ 70.000 di profitti su gas, acqua, elettricità (salvo deprezzamento), vendita di materiali in sovrappiù, lavori eseguiti, ecc. Il terreno è affittato a novantanove anni per edificazione a quanto è conosciuto come “ ground-rents” e queste, ammontanti a circa $ 35.000, capitalizzate a venti anni, hanno un valore di $ 700.000. Non sono permesse più di venti case da edificarsi su ogni ettaro, prevenendo così la possibilità di sovraffollamento del suolo.

Si noterà che i profitti annuali dai servizi pubblici (gas, elettricità ecc.) ammontano al doppio dell’incremento in valore fondiario rappresentato dagli affitti dei suoli, un fatto che indica uno dei principali vantaggi della formula Città Giardino come strumento per produrre reddito. Creare sobborghi dove ci sono già strutture esistenti di fornitura gas, elettricità e acqua (invece di creare nuove città), non solo fa pagare un prezzo più alto per i terreni a causa dell’esistenza di servizi pubblici, ma si perde una sorgente di reddito, che potrebbe anche eccedere quella ottenuta dall’incremento di valore dei suoli.

Il pericolo principale nel mettere in pratica uno schema di città giardino è che, quando si poggia su risorse private come capitale, la somma raccolta per finanziarla sia insufficiente per sostenere l’impresa oltre il periodo preliminare, e che la popolazione non arrivi abbastanza rapidamente da produrre i ritorni necessari. Il piano di Letchworth non è mai stato sostenuto adeguatamente dal capitale, e se lo fosse stato, le operazioni della Compagnia avrebbero potuto essere condotte più economicamente, e la popolazione sarebbe aumentata con maggior rapidità. Al momento presente, centinaia di case si rendono necessarie, per rispondere alla domanda creata dalle crescenti industrie locali, e ogni nuova casa significa accresciuti affitti del terreno, e profitti aggiuntivi per i servizi pubblici. Ma è difficile ottenere capitale, oggi, e l’intero progetto è quindi ostacolato. Questa spiegazione non è un modo di scusarsi per un fallimento, visto che esiste ogni evidenza di come il completo successo arriverà. Serve a mostrare che ci sono buone ragioni per realizzare lentamente le grandi aspettative dei promotori, che avevano buone basi teoriche per stimare una dimensione e rapidità di successo che avrebbe dimostrato la grande superiorità della forma di sviluppo urbano della Città Giardino, sulle non-scientifiche e casuali forme prevalenti.

Nel creare una città giardino fondata sui principi già elencati, da parte dell’impresa privata, ci sono naturalmente altre difficoltà oltre a quelle riferite, che devono essere affrontate. La scelta della località in Inghilterra, con il suo sistema terriero feudale e le sue aree residenziali ampiamente sparse, a un prezzo ragionevole e pure con i requisiti richiesti per uno sviluppo industriale, non è stata cosa facile. La terra doveva essere comperata a un prezzo basso per mettere la Compagnia in grado di offrirla a prezzi tali, dopo aver costruito strade e provveduto acqua e fognature, da indurre gli industriali a spostarsi dai centri esistenti. Doveva anche essere comprata a buon mercato, abbastanza da consentire alla Compagnia di portare avanti il principio di riservare due terzi dell’area a cintura agricola permanente.

Una volta scelta l’area, non solo doveva essere creato tutto, ma dovevano essere superate le solite obiezioni a un progetto innovativo. La compagnia ferroviaria non voleva costruire una nuova stazione finché la gente non si fosse stabilita, e la gente non sarebbe venuta prima che fossero provvedute le strutture di trasporto. Gli industriali volevano essere sicuri di trovare lavoratori, e i lavoratori dovevano ricevere assicurazioni anticipate riguardo ai posti di lavoro. Queste difficoltà furono tutte superate da un gruppo di uomini che non avevano avuto esperienze precedenti di imprese simili, e il fatto che fossero sopraffatti dal capitale inadeguato non fu un fatto importante per la semplice ragione che i vantaggi di questo modo di costruire una comunità sono così tanti, e così grandi.

I vantaggi dello sviluppo urbano secondo i principi della Città Giardino

Ho lo spazio solo per enumerare brevemente uno o due dei vantaggi, dato un sito adatto acquisito a valore agricolo, un’attenta gestione, e qualche grado di sicurezza riguardo all’attirare industrie e popolazione. C’è, in primo luogo, l’incremento nel valore del suolo dovuto alla sua trasformazione da uso agricolo a uso edilizio. Qualche idea di quanto grande s possa essere questo valore, si può cogliere dalla seguente dichiarazione, del Dr. Murray Haig riguardo all’incremento nei valori del suolo di Gary come risultato dell’insediamento di una nuova città industriale. Dopo aver svolto un’indagine, il Dr. Murray Haig condensa i risultati della sua analisi come segue:

“Il valore di mercato del terreno di Gary nel 1906, esclusa la parte occupata dagli impianti dell’acciaieria, è stimato a $ 6.414.455, e al presente valutato a $ 33.445.900. L’incremento nel periodo di dieci anni, dunque, ammonta a $ 27.031.445. L’esame dei valori dei servizi forniti da coloro che sono entrati in possesso di questo incremento indica che è stata resa necessaria una disponibilità di, forse, $ 200.000 per necessarie spese amministrative, che non più di $ 1.000.000 possono essere accreditati a causa di tasse su terreni non utilizzati, e che $ 4.025.712,70 devono essere calcolati come pagamento da parte di proprietari per miglioramenti locali. Il valore monetario totale dei servizi di questi beneficiari dell’incremento ammonta quindi a $ 5.225.712,70. L’ammontare dell’incremento che può essere ragionevolmente calcolato quindi è di $ 21.805.732,30”.

L’autore di questa dichiarazione ammette la possibilità di aver trascurato alcuni fattori, ma considera conservatrice la sua stima di incremento di valore. Ma anche se il valore fosse la metà di quello stimato, sarebbe un profitto consistente, ricavato dalla creazione di una città in un periodo di dieci anni. Le indagini condotte dal Dr. Murray Haig e da altri negli Stati Uniti, mostrano che una buona stima dell’incremento di valori del suolo prodotto dalla realizzazione di città, dopo aver dedotto il valore che è da attribuire a tutte le spese per miglioramenti locali ecc. va da $ 400 a $ 450 pro capite. Le valutazioni complessive per le città Canadesi confermano queste cifre. Se si prende il valore più basso, può essere stimato che la creazione di una città nuova di 50.000 persone può creare un incremento aggregato di valore di $ 20.000.000. A questo devono essere aggiunti i profitti realizzabili dai comuni servizi municipali, inclusi trasporti, acqua, energia, luce, avendo riguardo di tener conto delle grandi economie che si possono realizzare costruendo servizi a larga scala per rispondere a una domanda che si conosce in anticipo, e ai risparmi sui pesanti costi in terreno e promozione.

Dove si può contare su una rapida crescita di popolazione, e col sito ottenibile a prezzi agricoli, è evidente che si possano fare enormi profitti con la creazione di nuove città. Non è sorprendente dunque che le grandi imprese industriali stiano rivolgendo attenzione a questa forma di investimento.

Ci sono anche le opportunità offerte dal terreno a buon mercato per ampie aree da adibire a costruzioni industriali di progettazione moderna, con luce e grandi spazi per l’espansione. Tutte le fabbriche possono essere raggruppate insieme per diminuire i costi di distribuzione dell’energia. Luce, acqua, e assicurare comodo accesso ai mezzi di trasporto. I costi di trasporto possono essere ridotti al minimo con una pianificazione corretta, e con enormi risparmi per gli industriali. Le residenze per i lavoratori possono essere raggruppate vicino ai luoghi di lavoro, e grandi risparmi realizzati nella costruzione di strade azzonando la città a residenza, fabbriche, uffici, e simili. Si possono provvedere spazi aperti dove il terreno è meno valutabile per l’edificazione, e a prezzi agricoli. Una cintura di terreni agricoli può essere riservata in modo perenne per consentire colture intensive da realizzarsi nelle immediate vicinanze della città e dunque assicurare cibo per la comunità al costo più basso. L’esempio di Letchworth mostra la flessibilità di tutto questo realizzato in pratica, e le cifre dei valori fondiari in America mostrano che i profitti di questo tipo di intrapresa sarebbero immensamente più grandi che in Inghilterra.

Un’opportunità di impresa per il Governo

Perché il Governo degli Stati Uniti non dovrebbe usare l’attuale opportunità per creare almeno un oggetto-esempio di questo tipo in America? Nessuna delle difficoltà che ho menzionato gli sbarrerebbero la strada. Ha ampi capitali e ha deciso di spendere da $ 50.000.000 a $ 100.000.000 in imprese di costruzione residenziale. Sta già creando industrie di dimensione e scopo sufficiente per impiegare una grande quantità di lavoro e renderla indipendente dalla difficoltà di attirare gli industriali privati verso nuovi siti. Non ha bisogno di speculare sull’arrivo di nuove industrie e popolazione nei distretti in cui, in ogni caso, stabilirà industrie e attirerà lavoratori. Tutto quello che il Governo ha bisogno di fare è di essere attento nella selezione del luogo, pianificare correttamente l’area che ha intenzione di urbanizzare, stabilire principi simili a quelli che sottostanno allo schema della Città Giardino, e costruire una organizzazione per provvedere buone condizioni sociali e servizi aggiornati di trasporto e di comunità. Ha stabilito una politica nazionale per l’abitazione. Queste abitazioni devono realizzarsi completamente in base ai metodi miopi e non-scientifici di costruire piccoli accrescimenti ai centri esistenti, dove i valori del suolo sono già alti e non c’è l’opportunità di far partire ex-novo e pianificare secondo saldi principi scientifici ed economici?

Quale può essere l’obiezione a creare nuove città? Non può essere che si tratta di un’idea non sperimentata, visto che è stato mostrato come sia risultata pratica a fronte di circostanze immensamente più difficili di quelle che un governo può incontrare. Non può essere che il metodo sia socialista, dato che la questione è semplicemente di selezionare una forma scientifica di organizzazione nella costruzione della comunità, in un caso dove il Governo ha già deciso di adottare una politica di creazione di nuova comunità. Non può essere perché non ci sono cervelli per costruire nuove città in una terra dove c’è così tanta capacità di organizzare gli affari, e non può essere per la novità della proposta in una nazione che è stata costruita dall’iniziativa e dalla ricchezza di risorse dei suoi cittadini.

Prendiamo un possibile caso per una azione organizzativa da parte del Governo. Assumiamo che nelle vicinanze di una dei grandi cantieri navali si preveda che ci sarà richiesta per una sistemazione residenziale permanente di 10.000 lavoratori ben pagati. Questi uomini, le loro famiglie, e le persone richieste per rispondere ai loro vari bisogni sociali, significano che occorrerà provvedere per una popolazione di 50.000 abitanti. In un caso come questo la cosa più corretta non è di costruire un accrescimento suburbano a città e cittadine esistenti, per passare l’incremento di valore del suolo agli speculatori, affollare le case l’una sull’altra per pagare gli alti costi dei terreni, creare profitti per le esistenti e altamente sovvenzionate imprese di pubblici servizi, ma adottare una audace e più efficiente politica di creazione di una nuova città, proprio come ha fatto la Steel Corporation.

Un’area da 12 a 15 miglia quadrate di terreno agricolo dovrebbe essere acquistata entro un raggio di 3 o 5 miglia dagli impianti, vicino a una linea principale ferroviaria. Dovrebbe essere messa a disposizione una struttura di trasporto rapido per consentire ai lavoratori di raggiungere gli stabilimenti in quindici o venti minuti, la città dovrebbe essere pianificata, le reti dell’acqua potabile e gli altri impianti installati, costruite le strade e le fogne, i teatri, negozi, e gli edifici pubblici eretti. Dovrebbero provvedersi e incoraggiarsi industrie ausiliarie. L’impresa privata dovrebbe essere invitata a partecipare allo sviluppo strutturale. Il capitale impiegato non ha bisogno di essere maggiore di quanto sarebbe necessario per qualunque altro tipo di progetto, visto che i risparmi nel costo dei suoli saranno sufficienti a pagare i costi di fornitura per infrastrutture pubbliche e servizi sociali. Dopo aver pagato, diciamo, il 5 o 6 per cento sul capitale impiegato, tutti i profitti dovrebbero essere girati alla comunità per il beneficio della città Una larga porzione del terreno dovrebbe essere permanentemente adibita a appezzamenti agricoli.

Sui vantaggi di portare avanti almeno un esempio di costruzione scientifica della città secondo le linee indicate, c’è poco da dire. È ovvio, almeno, che nessuna quantità di teoria avrà mai un valore uguale a quello della dimostrazione pratica nell’educare il popolo riguardo ai migliori metodi di realizzazione delle abitazioni e costruzione della città. Può darsi che nel realizzare questo progetto ci sia molto da imparare riguardo a quanto debba essere evitato, così come riguardo a cosa debba essere fatto, relativamente a futuri sviluppi; ma questo aggiungerà valore al progetto, anziché sottrarne. Non si suggerisce di tentare un esperimento nel mezzo di una guerra; l’esperimento è stato fatto, e i vantaggi del metodo provati.

Il periodo della ricostruzione si stende davanti alle nazioni belligeranti. Questa ricostruzione consisterà di un mero riaggiustamento del vecchio insieme di condizioni, con i loro fallimenti nel soddisfare i bisogni sociali, nel provvedere ripari decenti e ambienti sani per le masse popolari, con la relativa minaccia a tutte le istituzioni democratiche? Oppure sarà una vera ricostruzione, attraverso la quale sarà fatto uno sforzo per costruire gradualmente una più sana vita di comunità, integrata nel suo ambiente in città e campagna, liberata dai falsi standards economici, ed efficiente nell’organizzazione civica così come nell’impresa privata?

Le condizioni economiche del giorno d’oggi ci insegnano che alle domande del lavoro non si può mai rispondere con il mero incremento degli stipendi. Si risponde a questi bisogni solo con l’organizzazione scientifica e l’equa distribuzione delle risorse nazionali, e con un più serio sforzo per innalzare lo standard di vita e conservare la vita ed energia umana ora sprecate negli slums delle grandi città, e nelle isolate catapecchie della campagna. Quello con cui c’è più bisogno di misurarsi nella riforma delle condizioni urbane è la promozione di nuovi metodi di pianificazione e organizzazione della crescita e sviluppo delle comunità, con l’obiettivo di assicurare a ciascuna, per quanto possibile, i vantaggi combinati della città e della campagna. La creazione di una città giardino non può fare di più, che indicare la strada, ma questo è precisamente quello di cui c’è bisogno; perché, in materia di ricostruzione industriale e sociale, stiamo ad un crocicchio,a chiederci da che parte andare per andare davvero avanti.

Nota: il testo in originale è disponibile anche online sul bellissimo sito di John Reps alla Cornell University; di Thomas Adams, autore poco conosciuto e tradotto in Italia, anche l'introduzione allo studio originario sulla Unità di Vicinato di Clarence Perry, del 1930 (f.b.)

L’Ente per la colonizzazione della Maremma tosco-laziale e del territorio del Fucino è stato istituito con Decreto del Presidente della Repubblica del 7 febbraio 1951, n. 66, con lo scopo, previsto dalla legge del 12 maggio 1950, n. 230, di esercitare nel suo vasto comprensorio, delineato dall’Agro Romano, dalle colline del Viterbese, dal Monte Amiata, dal Volterrano e dal mare, nonché nel bacino del Fucino, le funzioni relative alla espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini.

L’Ente è amministrato dal Presidente, attualmente il Sen. Giuseppe Medici, nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’Agricoltura e Foreste. Il Presidente dell’ Ente è assistito da un Consiglio di dodici membri, dei quali sette scelti fra persone specialmente esperte dei problemi inerenti alla trasformazione fondiaria ed alla colonizzazione o rappresentanti delle categorie agricole e cinque in rappresentanza, rispettivamente, dei Ministeri delle Finanze, del Tesoro, dell’Agricoltura e delle Foreste, dei LL. PP. e del Lavoro e della Previdenza Sociale.

Dal Presidente dipendono direttamente i due settori fondamentali dell’Ente, quello dei Servizi Tecnici (alle dipendenze del Direttore Generale) e quello dei Servizi Sociali ( diretto dal Capo Servizio Assistenza e Cooperazione). Ai servizi tecnici fanno capo: la Direzione delle Aziende di Colonizzazione, la Direzione dei Centri di colonizzazione, la Direzione Amministrativa. I Servizi a loro volta si suddividono in: Servizio Assistenza, Servizio Cooperazione, Servizio Stampa, Informazione e Cinema. Nelle quattro principali provincie del comprensorio maremmano (Pisa, Grosseto, Viterbo, Roma) sono stati costituiti altrettanti Centri provinciali di colonizzazione e corrispondenti Uffici Provinciali di Assistenza e Cooperazione. Per il comprensorio del Fucino è stata costituita un’Azienda Autonoma, la quale comprende anche un Ufficio del Servizio Assistenza e Cooperazione.

Premessa

Nell’impostare il problema urbanistico di una determinata regione, è evidente che occorrerebbe premettere un vasto e attento studio di tutte le condizioni non solo fisiche, ma economiche e sociali, con particolare riferimento al settore demografico.

Tanto più necessaria una simile indagine e precisazione, quando trattasi di territori in via di attiva trasformazione evolutiva determinata, come è il caso nostro, da particolari provvidenze bonificatorie e riformatrici.

È evidente che l’attuazione di un simile disegno, richiederebbe assai lungo studio, e minute analisi, da condurre in equipe tra tecnici, economisti, sociologi, ingegneri e architetti-urbanisti, raccogliendo, coordinando ed elaborando tutti gli studi specifici già esistenti sulle regioni considerate, aggiornandoli. adeguatamente e correlandoli ai disposti piani di bonifica e riforma. Compito, come si vede, di grandissimo impegno e di notevole difficoltà.

Nel caso che ci riguarda, e cioè per quanto concerne i territori ai quali è interessato l’Ente di Riforma per la Maremma e per il Fucino, è evidentemente pacifica la impossibilità di poter oggi impostare un simile discorso, sulla base cioè di una compiuta ed organica visione come sopra accennata.

Senza contare che, anche in ben altre condizioni di già avvenute rivelazioni ed elaborazioni similari, non potrebbe mai pensarsi a pianificazioni urbanistiche “definitive”, ma solo graduate nel tempo e nello spazio.

Si tenga inoltre presente che, nel nostro caso, si tratta di un Ente che opera necessariamente per zone distaccate, a sé stanti, disperse nel vasto comprensorio maremmano e che nel loro complesso non costituiscono che una modesta parte del tutto. Questo, è il dato di fatto che più deve far meditare in quanto rende impensabile in partenza, una impostazione urbanistica inquadrata in una visione organica e integrale delle necessità regionali ; che sarebbe disegno quanto mai ardito e inopportunamente ambizioso, nelle condizioni in cui l’Ente deve attualmente operare.

E si consideri che devesi precisamente operare in una regione che se ha in linea generale una base, dirò così un plafond, di caratteristiche comuni, si risolve tuttavia in notevoli differenziazioni da circoscrizione a circoscrizione e da zona a zona. È il tipico caso di una regione, nella quale un piano generale urbanistico dovrebbe necessariamente articolarsi nei tre specifici e distinti indirizzi cui fa cenno il dr. Sebregondi nella sua Relazione e cioè: urbanistica di trasformazione, urbanistica di evoluzione, e urbanistica di sistemazione; piano d’altronde dominato, come in nessun altro caso forse, dai limiti e dai modi dei predisposti interventi finanziari dello Stato.

Sguardo sommario all’ambiente

Basti accennare qui ad alcuni fondamentali elementi fisico-economici del vasto territorio in questione. Si tratta, prescindendo per ora dalla zona del Fucino, di una intera regione: la “maremma tosco-laziale”, della complessiva superficie di circa 1 milione di ettari, dei quali quasi due terzi in Toscana (provincie di Grosseto, Pisa, Livorno, Siena) e oltre un terzo nel Lazio (provincie di Viterbo e Roma); e dove l’Ente. opererà qua e là, dispersamente, sopra appena un quinto, in complesso, della detta estensione territoriale. Caratterizzata, tutta la regione, da una delle più basse densità demografiche del Paese: 57 abitanti per kmq. (di fronte alla media nazionale di 116) ; da una agricoltura generalmente di tipo estensivo, con terreni destinati per quasi la metà a seminativo, per quasi un terzo a bosco e quasi un quarto a pascolo, con particolare allevamento bovino brado e ovino stanziale e transumante da una struttura fondiaria con alta prevalenza della grande proprietà (il 73%), e assai scarsa rappresentanza della media (16%) e della piccola (11%) (struttura che testimonia la propria anormalità con le sue sole 800 grandi e grandissime ditte, e le polverizzate 80.000 piccole proprietà); da due essenziali tipi di conduzione nettamente prevalenti, la mezzadria nella parte toscana, e il salariato in quella laziale; da un assorbimento di lavoro rurale che raggiunge in media appena 0,15 unità lavorative ad ettaro (cioè 7 ettari per unità lavorativa) pur salendo a 0,28 nella piccola proprietà coltivatrice (3,5 ettari per unità lavorativa).

Indubbiamente, già questi dati sommari e sintetici, danno un’idea generale dell’ambiente in mezzo al quale deve operare l’Ente; ma che non possono essere lontanamente sufficienti ad una sia pur approssimata pianificazione urbanistica, che richiederebbe ben altre precisazioni e localizzazioni, almeno zonali. E bastino a convincere i due esposti estremi della vasta e della minuscola proprietà. Dove sono esse localizzate? E con quale continuità o dispersione? E come e perchè correlate agli attuali tipi di insediamento ? E via e via dicendo.

Necessità pertanto di rinunciare, almeno in primo tempo - da parte di un Ente che deve agire con la massima sollecitudine, spintovi dalle istanze sociali che urgono - ad ambiziose impostazioni di piani urbanistici regionali, per raccogliersi invece nella più modesta e circoscritta, ma concreta, azione progettuale relativa alle singole e precisate zone di intervento. Il che si potrà e dovrà pure attuare con una intelligente capacità coordinativa in rapporto alle peculiari condizioni fisico-economico-demografiche che caratterizzano l’ambiente entro il quale insiste ciascuna di quelle specifiche zone.

Certo, anche questa necessariamente ristretta e disunita programmazione, pur si aggancia ad una preliminare constatazione generale e cioè che - almeno per la più gran parte del territorio nel quale l’Ente è destinato ad operare - una caratteristica dominante da tener presente è quella del prevalente tipo degli insediamenti accentrati e distanziati tra loro, di una notevole scarsità di comunicazioni e di collegati servizi, di una scarsa percentuale di dimore sparse e comunque di un assai ridotto numero assoluto di dimore rurali (nell’indagine statistica diretta da uno degli scriventi nel 1933 sulle case rurali in Italia, la minima densità di esse venne proprio registrata dalla, provincia di Grosseto).

Orientamenti d’azione

Per concludere, Sembra chiara la forzata necessità di limitare per ora, da parte dell’Ente sia le programmazioni che le realizzazioni urbanistiche, ai soli e singoli territori di sua pertinenza, sia pure con il rispetto delle sopra accennate correlazioni. Dal che intanto consegue una opportunità evidente: quella di orientarsi sempre verso soluzioni le più elastiche possibili e le più facilmente capaci di modifiche e integrazioni future, Solo quando debbasi operare in ristrettissime zone a sé stanti, adatte ad organizzazioni di piccoli gruppi aziendali o di singole aziende, ci si potrà orientare, come ci si è orientati, verso più precise e più rigide soluzioni.

Ma ciò ammesso, sembra anche logico premettere a quelle più determinate progettazioni - delle quali si riportano più avanti i tipici casi considerati - qualche considerazione orientativa, a guida e chiarimento dei motivi che a quelle progettazioni di massima condussero.

Alcuni anni addietro, in una conferenza tenuta a Foggia in occasione di un convegno tecnico per la trasformazione fondiaria del Tavoliere, uno dei sottoscritti riepilogava in 4 tipi le molteplici e spesso commiste forme del dimorare contadino nei territori ad economia latifondistica in via di trasformazione. Riassuntivamente i 4 tipi venivano così schematizzati:

a) zone ad insediamento rurale sparso più o meno intenso: zone mezzadrili a fattorie o a poderi autonomi; piccole proprietà coltivatrici con case proprie, e simili;

b) zone ad insediamento rurale accentrato: masserie; corti; compartecipazioni collettive unite e singole; con dimore dei lavoratori in luogo;

c) zone a proprietà frazionata divisa, con salariati non dimoranti in luogo, zone di latifondo contadino esimili;

d) zone a latifondo accentrato: masserie; corti, più o meno trasformate, con partecipazione collettiva unita, senza o con scarsa dimora in luogo dei lavoratori.

E chiariva, l’autore, come ai fini dell’organizzazione civile delle popolazioni rurali a quei modi insediate, fosse logico provvedere, urbanisticamente, nei primi due casi a) e b) alla edificazione di “borghi di servizio”, e negli altri due casi c) e d) di “borghi residenziali”.

Ora, sta di fatto che nelle svariate condizioni d’ambiente nelle quali l’Ente per la Maremma e per il Fucino deve operare, tutti i 4 tipi sopra schematizzati, hanno un proprio loro luogo di opportunità.

Si tratterà pertanto, da parte dell’Ente, della consapevole scelta del più rispondente tipo da adottare, caso per caso.

Già, infatti, nella prima visione programmatica dell’attività urbanistica dell’Ente, fu prevista la necessità di orientarsi sui due essenziali tipi di insediamento, sparso e accentrato. E venne valutato a circa il 60% di tutta la superficie interessata, quella da ordinarsi in forme poderali, con borghi di servizio; e a circa il 40% quella da attuarsi in forme di minuta quotizzazione e richiedente il tipo di insediamento accentrato, a borghi residenziali. Tanto nel primo che nel secondo caso, si prospettava la necessità di realizzare alcune “aziende di colonizzamento” a tipica organizzazione a sé stante, e alcuni subordinati “nuclei demografici” ; le une e gli altri, organicamente collegati ai previsti scherni urbanistici pei due tipi di trasformazione.

Non potendosi qui individuare ancora la localizzazione esatta dei vari tipi urbanistici programmati (la progettazione esecutiva è già attuata per talune zone, ed è tuttora in corso per altre), pensiamo essere opportuno ed utile limitarci, intanto, ad esporre i fondamentali concetti che si ritiene necessario porre a base di ognuno dei tipi considerati; soffermandoci partitamente sui tipi di colonizzazione ad insediamento raggruppato, su quello ad insediamento decentrato con particolare considerazione sui problemi dell’edilizia popolare, ed infine con un cenno su un particolare tipo di azienda cooperativa agro-pastorale.

I centri di gestione

Premettiamo brevi cenni illustrativi sulle cosi dette “aziende di colonizzazione” o “centri di gestione”.

Abbiamo già accennato come, in ogni caso, sia da pensare alla costituzione di centri di gestione o aziende di colonizzazione (o di riforma, o primigenie), questa, una esigenza assoluta che giustamente è stata posta a base dell’azione degli enti riformatori, sia per la indispensabile assistenza tecnico-economica e morale alle aziende contadine per il loro funzionamento e consolidamento, sia per la opportunità di una gestione associata di taluni servizi, quali per esempio la lavorazione meccanica dei terreni, la trebbiatura, la trasformazione di alcuni prodotti e la conservazione di altri, l’acquisto, deposito e distribuzione mangimi, concimi, anticrittogamici, nonché i servizi di trasporto ecc.

È evidente che l’organizzazione tecnica generale e dei singoli servizi, dovrà avere una sede nella indicata azienda di colonizzazione, che dovrà: curare lo sviluppo della cooperazione, l’assistenza e il rifornimento di mezzi produttivi; il che è condizione imperativa affinché la riforma fondiaria non si risolva in atomistica formazione di piccole proprietà disperse e a sé stanti, con i singoli, miseri e inattrezzati contadini, incapaci di provvedere alla propria organizzazione aziendale, nella scarsa preparazione tecnica e deficienza di capitali che li caratterizza; il che impedirebbe ogni progresso agricolo e, in definitiva, vanificherebbe le ragioni e le finalità della voluta riforma.

Solo con l’organizzazione degli accennati “centri di gestione”, i contadini, che come scrive il Medici, “sono i veri protagonisti della riforma, troveranno chi li assista, li consigli, li guidi, li aiuti, nel momento del bisogno”.

Si pensa che l’ampiezza della “azienda di colonizzazione”, che potrà essere preferibilmente unita, o formata di più appezzamenti situati in un raggio di azione ragionevole; possa variare dai 2.000 agli 8.000 ettari, almeno in un primo tempo.

Quanto all’ubicazione della sede di detta azienda, un concetto di opportunità suggerisce di sfruttare il più possibile preesistenti insediamenti accentrati, affiancandola o inserendola nel borgo di servizio se trattasi di zona ad insediamento sparso, o ubicandola in posizione eccentrica nel caso di favorevole condizione di servizi già offerti da esistenti centri demografici, o anche quando possano essere utilizzati per essa preesistenti gruppi di fabbricati aziendali accentrati, che ne rendessero più economica e confacente la realizzazione. Spesso sarà conveniente non accentrare presso la sede dell’azienda di colonizzazione tutti i servizi ad essa inerenti, e ciò per evidenti ragioni tecniche e spaziali. Così, ad esempio, le stazioni di monta bovina (naturale e artificiale) e suina, sarà opportuno dislocarle entro determinati raggi di influenza (per esempio, per ogni 1000 ettari di superficie) presso aziende contadine, gestite da coloni proprietari che ne cureranno il funzionamento e ai quali verrà fatto obbligo di giovarsi dell’opera di sanitari specialisti. Così, ancora, sarà opportuno che i trattori per i normali lavori agricoli abbiano la propria sede stagionale, od anche permanente, in ricoveri-tettoia ogni 400-500 ettari di superficie, mentre quelli adatti ai lavori speciali dovranno essere raccolti nell’officina-rimessa della cooperativa presso la sede aziendale. Così, per citare un ultimo esempio, i magazzini di deposito temporaneo per somministrazione e ritiro dei prodotti, sarà opportuno dislocarli (sia pure presso le corti di aziende contadine per facilitarne la sorveglianza) in modo che ognuno possa facilmente servire una prestabilita zona, la cui ampiezza potrebbe valutarsi intorno ai 2.000 ettari. Con tali criteri ed in tal senso, si riporta uno schema di zonizzazione, di “azienda di colonizzamento” secondo un piano di massima di trasformazione di primo tempo. Naturalmente, lo schema potrà variare successivamente, quando il ritmo produttivo avrà raggiunto una intensità maggiore di quella prevista.

Quanto al modo di articolare i vari fabbricati e locali del centro di colonizzazione secondo la loro specifica funzione, sembrano potersi schematizzare, nel seguente elenco, gli edifici indispensabili ed utili:

a) come indispensabili: una abitazione per il direttore di azienda, idem per uno o più assistenti tecnici; idem per il contabile; qualche stanza per l’ufficio tecnico-amministrativo; una rimessa-tettoia per le varie macchine; una officina attrezzata per la riparazione e manutenzione; un magazzino per il deposito e rifornimento dei prodotti; una stazione di selezione sementi ; un mulino frangitutto;

b) come utili: una cantina sociale, un caseificio, o centro di raccolta; una porcilaia; una stazione di monta equina; un oleificio; una segheria o falegnameria, ecc.

PREMESSE

LA RICOSTRUZIONE, ANCHE DAL PUNTO DI VISTA URBANISTICO DEVE INCOMINCIARE DALLA CAMPAGNA

La ricostruzione, è da augurarsi, si volgerà innanzi tutto a restituire la casa a chi l’ha perduta, cominciando dalle classi meno abbienti. Ma sarà irrimediabile errore, urbanistico e sociale, se tale ricostruzione avrà inizio nella città, anche se colà la guerra ha portato le maggiori distruzioni e, rovine. Se nella città esistono individui che hanno perduto la casa, nelle campagne vi sono intere categorie che una casa vera e propria non l’hanno avuta mai, cioè non hanno mai goduto di un’istituzione civile di vita e di lavoro.

La metodologia del procedimento, nella ricostruzione, sarà quella di partire dalle r a di ci della città, che si diramano fino alle più lontane località rurali le quali arrivano vicendevolmente per notevole sviluppo urbanistico alla città: è la campagna che arriva alla città, non viceversa.

Partire con la ricostruzione dalla città si. rivela quindi un fenomeno antinaturale e rappresenta un assurdo, anche se il ritorno alla città o la corsa alla città è una forza in atto, travolgente ma folle che costituisce il maggior pericolo per la ricostruzione e la renderà senz’altro convulsa e caotica.

Facendo arrivare allo spasimo, al suo eccesso il ragionamento, si potrà asserire: costruiamo in maniera meravigliosa anzitutto le campagne e lasciamo per ora le rovine nella città; rallentandone il rifacimento, porteremo un contributo essenziale al disurbamento ed all’urbanistica.

Fino a che i paesi rurali saranno peggiori dei quartieri operai, e così le case, e le condizioni di vita del contadino peggiori di quelle dell’operaio, parlare di disurbamento o di antinurbamento sarà pura follia.

Il problema rurale quindi è urbanisticamente collegato a quello delle città e non li si può considerare indipendenti.

Ciò abbiamo premesso perchè ci serva di monito e guida nel redigere le pagine di questo volume che si rivolgono particolarmente all’avvenire e riguardano la trasformazione dell’edilizia come strumento organizzativo della futura riforma agraria.


cascina in terreni asciutti cascina in terreni irrigui

PER LA CASA DEL CONTADINO.

Ogni attività umana si concreta nell’edilizia che riflette le condizioni di vita dell’uomo e del suo lavoro e ne denuncia il grado di civiltà. Così l’attività rurale, la cui attrezzatura architettonica ed edile si presenta ancora poverissima.

Eppure essa deve considerarsi come fulcro della vita di una nazione, la cui forza sicura e perenne viene pur sempre dalla terra, poiché la terra non muore mai, non tradisce mai. La sua architettura, la sua edilizia sono dell’ordine naturale della vegetazione e si associano intimamente alla spontaneità del processo vegetativo, ripudiano (salvo casi eccezionali) ogni finzione costruttiva, ogni decorazione: tutto in esse è funzionale.

Questo termine, oggi di gran moda, che fa esaltare o rabbrividire i teorici dell’architettura urbana, è da secoli in uso praticamente nell’edilizia, nelle opere e nel lavoro delle campagne, e le sue realizzazioni esulano da qualsiasi senso retorico, del quale in contrapposto troviamo spesso inquinata l’architettura cittadina espressa in un’estetica che fa del funzionalismo soltanto un motivo decorativo, al pari del “floreale” o del “liberty”.

L’architettura rurale che i tempi ci hanno tramandata è nata funzionale perchè la natura imprime al carattere degli uomini che la servono una linearità ed una onestà che sono ben lontane dall’ esibizionismo pseudo-stilistico della città.

Solo, questa architettura, questa edilizia della terra, questa organizzazione dei campi è stata ed è lenta nel rinnovarsi, nell’adeguarsi ai tempi: essa ci è giunta quasi come è nata, cioè funzionale solo rispetto ai sistemi agricoli antichi, di modo che, esatta e definita per altri tempi, non lo è più rispetto alle attuali esigenze del lavoro dell’azienda e della vita del rurale.

La casa è il fulcro delle nostre osservazioni ed intendiamo col nostro studio giungere a risultati pratici e diretti che si colleghino ad un concetto assolutamente realistico, definito, indipendentemente da ogni altra considerazione, riluttante decisamente da ogni atteggiamento di carattere pietistico.

Le nostre osservazioni nella scala del 25.000 (regioni e zone agricole), nella scala del 2.000 (agglomerati rurali), sull’organizzazione cellulare (azienda rurale) che rappresentano i passi del nostro studio saranno sempre in funzione di una riforma del trattamento e delle condizioni di vita del lavoratore, del bracciante salariato in particolare, al fine di dimostrare che le case rurali non debbono sorgere per gesti di carità, ma per una modificata economia nelle spettanze del contadino. Al concetto di carità si sostituisca quello di una solidarietà civile che consideri il contadino su un piano partecipante al consorzio normale della società. Il contadino non deve essere escluso dai benefici del progresso elargiti agli altri lavoratori: egli è un lavoratore e dev’essere considerato e retribuito alla pari di tutti i lavoratori. Poiché è ovvio che sia proprio l’insufficiente retribuzione che non gli consente economicamente un miglior tenore di vita, una casa sufficiente, ci proporremo di indagare quale sia il fenomeno che ritarda oltre l’appagamento delle sue legittime esigenze, e la possibilità di pagarsi il giusto affitto di una casa, sul piano di quella che già è stata destinata - dagli Istituti delle Case Popolari - ai lavoratori delle città.

Allo stato attuale, la rendita dell’organizzazione agricola sembrerebbe non consentire ciò, quindi per ottenere una soluzione del problema non pietistica e transitoria, ma realistica, si dovrà arrivare ad una riforma agraria che si rifaccia a queste considerazioni:

A) potenziare la produzione ed i redditi agricoli con sistemi di coltura razionale ed intensiva attraverso: un equo frazionamento delle proprietà e delle affittanze, un’efficiente meccanizzazione, un più esteso uso del silos per la conservazione del foraggio (specialmente nelle medie e piccole aziende), la regolazione e l’utilizzazione delle acque vecchie e nuove, un sistema di piantagione razionale degli alberi d’alto fusto, e infine l’adeguamento delle colture in base agli scambi internazionali intensificando le produzioni a carattere pregiato.

B) Adottare per ogni zona agricola sistemi di conduzione coerenti con la natura del terreno, con preferenza per le forme imperniate sull’affittanza a diretti lavoratori, sulla mezzadria, sulla compartecipazione, sul sistema delle cooperative e, dove ciò non sia possibile, sulla grande azienda (proprietario od affittuario non diretto lavoratore), dove però il contadino salariato abbia un trattamento pari a quello dell’operaio e la sua abitazione venga finalmente disimpegnata dall’ambito dell’azienda. (il contadino salariato deve vivere in una casa sufficiente, a lui destinata, situata in un paese, in un consorzio collettivo di vita civile: non sperso nella campagna e relegato in un cascinale).

C) Diminuire i prezzi delle costruzioni attraverso una progettistica evoluta della casa rurale, dell’azienda rurale, derivata da ben definite concezioni sociali e tecniche, dallo studio delle condizioni biologiche nella composizione attuale e futura della famiglia rurale.

D) Instaurare un’economia particolare delle case rurali autonoma rispetto al resto dell’azienda.

Può essere difficile stabilire fin d’ora quale sarà il rivoluzionamento delle colture e della produzione in vista di una riforma agraria. Essa dipenderà da condizioni post-belliche, le quali imporranno quell’indirizzo naturale che la contingenza detterà, per la tutela e la salvaguardia degli interessi nazionali in funzione internazionale. Tuttavia però, a priori, valutando la potenzialità produttiva delle diverse nazioni, si potrà intuire, come prima ed approssimata conclusione, che la ricchezza della nostra agricoltura avvenire non sarà legata al predominio delle nostre colture cerealicole, ma risulterà dal suo graduale adattamento a colture nuove per prodotti pregiati (frutta, vite, ecc.) e dall’intensificazione delle colture foraggere per una produzione prevalente di latticini e di carne da macello. Allo scopo occorrerà aumentare l’entità geometrica coltivata, ma occorrerà innanzitutto: primo, instaurare un sistema razionale per la preservazione e la conservazione dei foraggi; secondo, difendere e selezionare gli allevamenti attraverso igienici sistemi di stabulazione; terzo, far dipendere da un perfetto sistema organizzativo il processo produttivo.


cascinali in terreni a risaie paese a funzione solo agricola

I nostri propositi di potenziare le campagne collimano con i concetti fondamentali di conservare, attraverso al maggior utile che ne deriva (e che dovrà spettare al rurale), gli uomini alla terra.

La persistente emigrazione interna, il passaggio cioè di uomini dall’agricoltura all’industria è dovuto alle cattive condizioni di vita del rurale. Attualmente perfino le zone rurali più ricche sono soggette ad esodi considerevoli. In una provincia ruralmente ricchissima come quella di Cremona, la differenza tra emigrati ed immigrati fu per qualche anno di tremila persone, nonostante che quivi il reddito agricolo superi quello industriale, e l’incremento della produzione agricola, per i provvedimenti tecnici intervenuti, sia stato negli stessi anni ingentissimo: per il frumento di 160.000 Ql. (da 670.000 a 830.000), per il granoturco nostrano di 161.000 Ql. (da 1.021.000 a 1.182.000), per quello quarantino di 14.000 (da 37.000 a 51.480), per le barbabietole da zucchero addirittura di 275.000 Ql. (da 90.000 a 365.000), per il prato agricolo di 1 milione di Ql. (da 5.890.000 a 6.809.000). (Confronti tra la produzione del 1913 e quella del 1930).

La causa è quindi solo parzialmente da ricercarsi nell’insufficienza della campagna e nella sua scarsa capacità produttiva, e ciò si comprende se si riflette che con i sistemi salariali in vigore il guadagno del contadino salariato è quasi indipendente dal tenore produttivo della terra. Eccettuata la compartecipazione del granoturco e l’allevamento del baco da seta, il salario per patto colonico è valutato in quantità fisse, indipendentemente dal buono o cattivo raccolto: l’efficienza produttiva non gioca nell’interesse del salariato. Se si vuole che il contadino salariato (che è quello che generalmente emigra) rimanga legato alla terra, occorrerà che buona parte delle risorse economiche, attualmente fuorviate in favore di categorie che alla terra danno solo il nome sui registri della proprietà, venga riconosciuta di sua spettanza ed a lui rimessa; occorrerà farlo partecipare direttamente, in una qualsiasi maniera, ai benefici dell’incremento produttivo, cioè metterlo in condizione che al miglioramento produttivo agricolo, che può ancora verificarsi, corrisponda un miglioramento del suo tenore di vita. Ciò posto ed a questo scopo, in zone dove non si è ancora raggiunta la massima produttività, questa deve essere appunto potenziata e dove (pochi casi) l’efficienza massima è stata raggiunta, essa deve essere assolutamente conservata.

Ancora, la causa dell’emigrazione del rurale va ricercata nelle maggiori possibilità che gli offre la città di impiegare i membri della sua famiglia in industrie: in proposito si deve considerare che se in territori come quelli agricoli della Valle Padana non ci si deve augurare l’intensificarsi travolgente delle attività industriali (che sono da lasciare di preferenza a zone meno dotate in campo agricolo: zone asciutte od ingrate) la giusta ubicazione di qualche industria (specialmente industrie attinenti alla produzione agricola) non svilirebbe l’organismo o la purezza agricola della zona, ma contribuirebbe anzi alla agognata equiparazione della classe rurale con le altre classi lavoratrici.

Evidentemente, a ciò si potrà arrivare solo attraverso l’organizzazione di un piano generale rurale-industriale, che ponga come presupposto l’appagamento delle necessità vitali del lavoratore agricolo e specialmente del salariato, il quale non pensi oltre a disertare per i miraggi più proficui del lavoro industriale della città, e venga legato a questa benedetta terra ed alla campagna non solo dall’amore, ma dal benessere materiale che sarà reso possibile da una sua nuova organizzazione.

Il concetto di bonifica della terra, nella sua semplice espressione di aumentare geometricamente gli ettari coltivabili di una nazione è stato immediatamente capito. Quello della bonifica della vita e della casa del contadino trova la più forte noncuranza, specialmente da parte di quei proprietari (conduttori o non), di quei conduttori non lavoratori che sono numerosi specialmente dove le terre offrono pingui prodotti e disertano dove le terre sono ingrate. In altre parole, esiste la grande azienda con proprietario, fittabile, e salariato dove le terre sono buone: esiste la mezzadria e tutte le forme comportanti i diretti lavoratori dove le terre rendono poco (sono sabbiose, asciutte, acquitrinose, ecc.).

In generale è la mancanza di un capitale, talvolta di un piccolo capitale privato che obbliga e soffoca le forze del lavoro, che le tiene relegate nel loro miserando stato.

Eppure questa categoria di forti lavoratori sana e tenace potrebbe con una migliore educazione dirigersi da sé, senza che si pongano altre inframittenze tra essa e la terra (attualmente due e talvolta tre).

Gente capace di silenziosi e lunghi sacrifici, gente modesta ed onesta in generale, di fondamento morale, religioso, aliena da deviazioni e pervertimenti, questa gente è costretta alla servitù del lavoro obbligato per mancanza di un capitale.

Solo l’intervento legislativo dello Stato, coordinante la situazione sociale di tutte le categorie che producono, può essere risolutivo al riguardo. È lo Stato che deve attendere alla razionalizzazione delle attività in modo che il tornaconto dell’individuo confluisca nel benessere della comunità.

La casa è lo specchio delle condizioni sociali di chi la abita.

Il primo passo per migliorare le condizioni di vita del contadino è la bonifica della sua casa, cioè dargli i mezzi per averla e per conservarla. Occorre però vedere innanzitutto come essa deve essere costituita e costruita.

La casa dell’operaio gode oramai di una sua progettistica nazionale ed internazionale, ed in questo settore si conoscono indiscussi ed esaurienti studi tecnici ed economici.

Cosa si può contrapporre nel campo rurale ? Qualcosa di imponente e di vasta mole è stato promosso per l’abitazione e l’azienda delle bonifiche (Agro Pontino, Volturno, ecc.). Ma noi non intendiamo qui occuparci delle abitazioni di bonifica rurale, ma della bonifica delle abitazioni rurali, che concerne una massa enorme di abitazioni esistenti, interessa una parte preminente della popolazione, per cui la casa è rimasta allo stato primordiale, il che comporta un sistema organizzativo altrettanto primordiale.

L’edilizia attuale, come stato di consistenza e come sviluppo, è diretta discendente dall’antica. Ha raggiunto nelle varie regioni una particolare fisionomia che si collega agli usi di lavoro, ai tipi di coltivazione, ai sistemi di conduzione. Essa si è fissata nel tempo su caratteristiche edili ed organizzative che hanno valori propri, pratici e concretissimi, ma in tema di civiltà e di sviluppi tecnici e sociali da troppo tempo non ha fatto progressi, specialmente in paragone alle costruzioni ed all’organizzazione delle industrie ed alla tecnica costruttiva in generale.

La casa rurale in particolare è un settore di edilizia ancora estraneo ai progressi tecnici e non è adeguata all’andamento produttivo dell’azienda agricola attuale, neanche nella misura nella quale si sono adeguate, in molti casi, le stalle, le attrezzature meccaniche e gli edifici che riguardano direttamente il lavoro. Tutto è fermo, in contrasto stridente con un costume sociale che è in continuo sviluppo e che agisce sullo spirito del contadino.

L’organizzazione famigliare rurale nella sua forma biologica e sociologica ha subito sensibilissime modificazioni. Come considerazione dei sistemi lavorativi in uso: anche se praticamente si allaccia all’ordine antico delle grandi categorie inerenti ai fondamentali tipi di conduzione,

(lavorazione della terra a colonia con organizzazione famigliare delle parentele: la famiglia rappresenta un’unità produttiva completa e chiusa. in seno allo Stato,

lavorazione della terra con l’ausilio di mano d’opera bracciante salariata: l’individuo posto come “unità lavorativa”, indipendente dalla famiglia, rappresenta l’organo sociale),

si tende all’ordine sociale moderno del lavoro libero

(lavorazione della terra in comunità: il gruppo di lavoratori rurali che si erigono ad impresa cooperativa ne rappresentano l’organo sociale,

lavorazione della terra attraverso lo Stato).

Come riflesso spirituale derivante da modificati usi nei rapporti intimi della famiglia:

A) Come riflesso dell’emancipazione e della libertà della donna di città, la donna di campagna si è liberata dalla acuta soggezione all’autorità del padre prima, del marito poi. (il “voi” dalla moglie al marito è quasi scomparso, e così dai figli verso i genitori).

B) Per maggior educazione e cultura nella scuola e nella vita: attraverso la radio, il giornale, i rapporti più frequenti con i centri urbani, il contadino viene gradatamente liberandosi dal concetto tradizionale di lavoro “obbligato”. Egli si ribella all’ingerenza del conduttore nei suoi interessi famigliari, orienta la sua visione politica verso quelle forme di conduzione che pongono come premessa il lavoro della terra in proprio e momentaneamente (intanto che non può arrivare a questo) si orienta verso le forme di conduzione più progressiste. Inoltre procede con un senso nuovo e più libero nell’indirizzare l’attività dei vari componenti la famiglia verso le forme lavorative dell’artigianato e dell’industria. A questo modificato senso si oppone il conduttore, il quale ancor oggi considera come sostanziale privilegio della sua casta il diritto di libertà di cultura e di padronanza, mentre vorrebbe un contadino sottomesso ed allevato solo al senso del lavoro “obbligato”.

C) Per apporto del progresso, attraverso ai mezzi di comunicazione e di trasporto che offrono la possibilità, specialmente ai giovani durante il periodo del servizio militare, di conoscere nuovi mondi e nuovi metodi e li istruisce a nuove invenzioni, a più decenti sistemi igienici.

In questo stato di parziale dualismo contrastante di condizioni materiali (in maggioranza ferme) e spirituali (in progresso) è logico che i migliori, i più audaci sognino di abbandonare il tetto antico per l’appagamento delle loro “migliorate” esigenze in luoghi più rispondenti al loro spirito (città).

I limitati redditi agricoli di certi periodi sembrerebbero essere l’ostacolo maggiore ed il motivo che tiene legato il rurale salariato alla sua miserevole condizione. La terra però ha anche dimostrato che può rendere tanto da permettere a molti conduttori di fondi non diretti lavoratori di diventare essi stessi nel giro di poche generazioni i proprietari dei fondi da loro coltivati ed anche di altri.

A ciò non ha corrisposto generalmente, salvo casi estremamente meritori, un adeguato miglioramento delle condizioni civili di lavoro e di vita dei contadini, ciò per carattere specifico di un’economia privata imperniata sul tornaconto dell’individuo come l’attuale in uso: anzi le costruzioni. che si rinnovano sono limitatissime ed il privilegio del miglioramento avviene solo in quei settori che imprimono al fondo un aumento del reddito dominicale. I fabbricati che si migliorano così sono sempre le stalle, i silos, le case dei conduttori: mai o ultime le case rurali.

Questo stato di fatto viene giustificato con motivi di pregiudizio (i quali non possono essere considerati con serietà) : che il contadino se la gode, che sta fin troppo bene, che è un errore dotare la sua casa di certe comodità, che concedendogliele si creano degli spostati, che chi ha dotato la casa del contadino col bagno l’ha visto poi riempito di terra e seminato di patate, che chi ha rivestito le pareti della casa rurale di piastrelle in ceramica (che in città si usano per i gabinetti di decenza) le ha viste rompere dal contadino che aveva necessità di piantare un chiodo, che il contadino non apprezza, che il contadino non merita. Oggi i veri spostati sono, è vero, i contadini, ma solamente a causa delle loro pessime condizioni che non permettono loro di partecipare attivamente agli sviluppi del clima sociale e civile del mondo moderno. (Si è ben riusciti a superare per le abitazioni operaie questi pregiudizi che pure in un primo tempo avevano, anche in questo settore, frenato le iniziative).

È ovvio che alle condizioni attuali di li ber t à in ti ma dai vincoli medievali dovrà implicitamente corrispondere per i salariati, in un futuro non lontano, una libertà vissuta e riconosciuta. Quali saranno allora le condizioni di abitabilità, le condizioni per una nuova progettistica? Le case rurali anche recenti (ed additate dalle competenti istituzioni quali modelli da imitare) non rispondono allo scopo perchè, ripetendo gli schemi antichi, attribuiscono ad ogni famiglia un alloggio nell’ambito della cascina composto di una cucina e una o due stanze da letto e con gabinetti distanti dall’abitazione.

Il programma funzionale-costruttivo della casa rurale dovrà essere all’opposto dedotto (e non improvvisato) come fabbisogno vitale riferito alle esigenze della vita e del lavoro: fabbisogno concepito per l’interno (casa vera e propria), per “l’intorno” della casa (cortile, giardino, orto, rustici), per l’esterno (paese): elementi che integrano il valore dell’abitazione stessa.

Il paese rurale com’è attualmente (piccolissimo), il cascinale sparso per la campagna contribuiscono ad aggravare la miserevole consistenza della casa, peggiorando sopratutto lo stato educativo, igienico, sanitario degli abitanti.

Come primo fondamento, il caso rurale, quindi, come del resto quello urbano, ha da risolvere il problema della densità costruttiva, o il rapporto tra le parti costruite in relazione agli spazi liberi espressi nei loro valori planimetrici e volumetrici.

Il programma economico-costruttivo del problema rurale in generale non può uniformarsi all’attuale, specialmente per ciò che riguarda la casa rurale, il cui valore risulta conglobato col valore del fondo (il sistema non è redditizio né per l’azienda né per il rurale), ma prenderà una fisionomia di economia a sé, staccata dal resto dell’azienda.

I guadagni del contadino salariato sono quelli di spettanza (se ne vedrà la consistenza in altra parte) e sarebbe assurdo pensare ad un salariato che migliori da sé la propria abitazione e le proprie condizioni di vita.

Egli ha appena il sufficiente per esistere (vedi in proposito in altra parte del volume gli studi di medici che, attraverso le loro esperienze, tendono a dimostrare ancor oggi se il rurale si nutre sufficientemente in relazione al lavoro che compie). Ciò fa cadere qualsiasi presupposto che faccia colpa ad una sua presunta pigrizia, incapacità amministrativa o rassegnazione. Si è dimostrato che quando emigra esprime un atto di reazione contro la sua condizione.

Vogliamo pertanto promuovere (ed è quanto ci sforziamo di raggiungere) con questo volume che riguarda le regioni dell’alta Italia una progettistica approfondita nell’architettura rurale eliminando da essa i dilettanti, gli estetizzanti e coloro che operano sui canoni del passato; determinare e diffondere, regione per regione, zona per zona le norme costruttive per le case, per ogni edificio agricolo; inquadrare ogni cosa in piani generali e particolari: delle aziende, dell’agglomerato rurale riferito e collegato alla città, ai capoluoghi. In conclusione occorre razionalizzare l’attrezzatura edilizia e planimetrica dell’agricoltura; sacrificando dove necessita l’esistente, che quasi sempre si presenta irrazionale e vecchio. Una competenza progettistica deve instaurarsi nelle campagne in luogo dell’attuale competenza tradizionale per l’organizzazione e la razionale distribuzione degli edifici in agglomerati che siano in relazione all’agricoltura, alle abitazioni, alle aziende, ai luoghi di riunione, alla scuola, alla biblioteca, allo sport, ai divertimenti.

Dal momento che l’architettura rurale nel passato non ha rivestito le forme classiche dell’architettura degli stili e del “gusto”, ci potrà essere mossa l’obbiezione se questi esami rientrano nell’ambito dell’architettura e nelle mansioni dell’architetto.

Essi rientrano nell’ambito dell’architettura: 1°) come riflesso politico moderno (liberazione da deprecati sistemi in uso che legano il contadino in uno stato antistorico); 2°) per diritto di azione, rappresentando l’architettura rurale il simbolo dell’architettura organica (essa opera in stretto contatto con la natura e come la natura nasce e vive naturalmente in concomitanza con un organismo sociale rurale che imprime all’ambiente le condizioni utili per un’architettura antidecorativa).

Quindi architettura purissima perchè delle classi povere (non architettura povera) e il benessere che potrà ricavare l’umanità dall’apporto dell’architetto in questo campo sarà infinitamente più grande di quello che egli potrà recare operando per le case dei ricchi. Sarà architettura purissima perchè riflette stadi della vita dell’uomo (considerato il rurale un uomo qualunque) e condizioni sociali che si risolvono in edifici, in agglomerati di edifici organizzati.

Questi edifici stanno all’agricoltura come gli edifici cittadini stanno all’urbanistica. Ecco perchè di questi problemi generali e sociali ci siamo interessati e ci interessiamo appassionatamente. Ed a paragone dell’urbanistica che le è sorella ci è piaciuto foggiare una denominazione affine: RURALISTICA.

La ruralistica quindi deve suscitare il rinnovamento di questa organizzazione edilizia delle campagne pur mantenendosi nei limiti di sua pertinenza perchè, dobbiamo precisare, la ruralistica non rappresenta la disciplina o la tecnica delle colture e della coltivazione, né la tecnica agraria, ma, sul piano analogo col quale l’urbanistica opera per le industrie, deve attendere all’organizzazione edile di tutte le opere in funzione delle colture è quindi del rendimento della terra, in funzione della vita e dello stato sociale di chi, lavorando, la bagna di sudore.

L'antica città italica, benché gelosamente racchiusa dentro il vallo, o le mura, ebbe innata la intuizione dei rapporti intercorrenti fra nucleo urbano e zona rurale circostante. Il pomerium sacro agli dei tutelari e la zona dei mille passus, che fu sempre considerata come parte integrante della città murata, erano la fascia di protezione, sulla quale, colla tutela del vincolo religioso o della potestà militare o civile, la città sentiva il bisogno di estendere il suo controllo.

Nei tempi moderni, quando sotto la spinta del crescente inurbamento, le nostre città, superate le vecchie cinte murarie, saturata la zona interna ed invasa l'esterna,, colle loro propaggini raggiunsero il limiti amministrativi del loro territorio,, penetrando prepotentemente nei Comuni contermini, la prima preoccupazione delle Amministrazioni fu di nuovo prevalentemente territoriale: ampliare i confini del Comune per procurare una conveniente estensione alla espansione urbana con indirizzo amministrativo accentrato e non federativo.

Si ebbero allora le graduali rettifiche di confini, il progressivo arrotondamento del territorio colla annessione di zone confinanti, finché, dal 1923 in poi, si addivenne a grandiosi provvedimenti di incorporamento di interi Comuni rurali nel Comune urbano, fra i quali, primi in ordine di tempo e di importanza, quelli per Milano, Genova, Napoli.

Ma, risolto il problema territoriale, si impose alla attenzione dei pubblici poteri il problema demografico. Il fenomeno dell'inurbamento, pur non raggiungendo ancora da noi - per particolari ragioni di ambiente e di tradizione - i paurosi aspetti di altri paesi, comincia tuttavia a farsi sensibile. Il Governo fascista, rendendosene chiaro conto, corse ai ripari con una collana di organici provvedimenti. Il decr. del Novembre 1927, che assoggetta a determinate condizioni l'impianto dei nuovi stabilimenti nelle grandi città, le nuove leggi che promuovono il ritorno alla terra, ed il recentissimo provvedimento che dà particolari facoltà ai Prefetti per limitare l'immigrazione nella città, sono le prime tangibili prove di questa vigile cura.

Il problema dello sviluppo dei quartieri periferici della città assume oggi per noi fra tutti i problemi urbani una posizione di primo piano, in diretto rapporto colle attuali direttive demografiche del Governo Nazionale.

E' ai margini appunto delle città che si svolge la lotta giornaliera fra i due elementi antagonistici: la «città» e la «campagna». Nei sistemi di estensione che si adottano per le nostre città è il più efficace mezzo tecnico per affiancare l'opera del Governo nella lotta contro l'urbanesimo.

E' bene chiarire che colla parola «sistema» non si intende qui di fare riferimento ai minuti particolari di tracciamento interno di un piano. Il problema in esame non può confinarsi nella ristretta discussione fra schemi classici o romantici, rettilineo o curva, simmetria spontanea o artificiose asimmetrie.. Esso è ben più vasto ed investe la intera costituzione somatica cittadina.

Il processo di accrescimento tipico dei nostri centri urbani nell'ultimo secolo - ove non esistevano particolari cause perturbatrici - è quella a «macchia d'olio» e cioè isotropo, uniforme, senza soluzioni di continuità.

Pure adattandosi a schemi strutturali diversi esso si ripete da Torino a Napoli, da Palermo a Bologna. Non ne restano purtroppo del tutto immuni neppure Firenze e Roma, quantunque meglio difese dalla loro tradizione artistica, dalla loro postura e da qualche indovinato provvedimento.

A questa legge «monocentrica» di accrescimento si tende oggi a sostituire quella «policentrica» nel senso cioè di limitare volutamente lo sviluppo dell'agglomerato principale cittadino per dare vita ad un'organizzazione periferica di «unità suburbane» nettamente disegnate, sufficientemente organizzate in ogni loro servizio, capaci di una vita relativamente autonoma, cinte da spazi liberi e convenientemente collegate da poche buone arterie col centro principale e fra di loro. E' il primo passo verso la necessaria concezione «regionale» del problema urbano.

Siamo per il momento ancora in una fase ancora tendenziale di applicazione di questo indirizzo. Se ne hanno però chiari accenni nei nuovi piani di Roma e di Napoli e nelle direttive enunciate fin dal 1924 dalla Amministrazione Comunale di Milano quando, ampliato il territorio colla aggregazione di undici Comuni contermini, si iniziarono gli studi del nuovo Piano di ampliamento. La tendenza venne riconfermata al Congresso di Urbanismo di Torino (1926) e ricompare adattata alle particolari circostanze negli studi e nei concorsi per altri recentissimi Piani di nostre città.

L'aggregato urbano non può crescere indefinitamente. Oltre un certo limite - che sarà necessariamente diverso da caso a caso - esso deve dare luogo ad un processo di differenziazione, arrestando il proprio sviluppo per dare vita intorno a se ad unità minori che, pure nel quadro generale di una comune organizzazione, conservino spiccate caratteristiche proprie.

Questa tendenza che si è venuta nettamente delineando fra gli studiosi negli ultimi anni trova perfetta aderenza ai recentissimi programmi governativi, assumendo con ciò una sanzione ufficiale.

Il criterio di differenziazione sarà naturalmente diverso da caso a caso.

La grande città deve creare ai suoi margini dei nuovi «centri civici» nei quali realmente si decentrino le sue funzioni industriali, commerciali, amministrative. Intorno a questi, entro un perimetro ben disegnato, può concentrarsi, con sicura economia di mezzi, lo sviluppo della rete stradale e dei servizi pubblici ed intensificarsi la fabbricazione per la creazione di nuove zone industriali o residenziali, di villaggi o sobborghi satelliti, ecc., invece di disperdere i mezzi privati e pubblici sopra una maglia troppo vasta di sviluppo periferico isotropo.

Per le città minori, di impronta prevalentemente agricola, gli elementi periferici ai quali può appoggiarsi il piano di sviluppo assumeranno invece sopratutto le caratteristiche di «borgate rurali». I provvedimenti legislativi del 7 Febbraio 1926 e del 27 febbraio 1927 favoriscono particolarmente lo sviluppo di queste borgate [1]. La città di Foggia nel suo recentissimo concorso per lo studio del Piano di Ampliamento (previsto per una comunità di 200.000 ab.) pose come condizione ai concorrenti lo studio di un gruppo di borgate rurali periferiche, a conveniente distanza dall'aggregato urbano, capaci di accogliere complessivamente 2000 Famiglie.

L'esempio merita di essere segnalato perchè indica una notevole tappa nei criteri urbanistici del Mezzogiorno d'Italia, dove l'addensamento della popolazione nelle città e la non residenza del contadino presso i suoi campi erano una triste conseguenza delle vicende storiche passate, disastrosa per il progresso agricolo.

Il sistema di sviluppo per «unità periferiche» ben individuate, anziché per anelli isotropi intorno al vecchio nucleo urbano, ha particolare interesse per le città italiane anche perchè permette di meglio conservare le caratteristiche storiche ed ambientali del loro suburbio invece di affogarle nell'uniforme assorbimento entro le maglie della espansione edilizia.

Può porsi a questo punto la domanda se, per le maggiori città, gli esistenti nuclei fabbricati suburbani e gli antichi villaggi della zona circostante possono utilmente costituire le cellule dei nuovi centri in espansione. In linea generale, pure costituendo questi nuclei per evidenti ragioni topografiche e demografiche dei punti inevitabili di richiamo, è da evitarsi assolutamente l'errore di applicare ad essi la pratica dei rimaneggiamenti e degli sventramenti per tentare di renderli atti a nuovi scopi. Meglio conservare ad essi fin dove è possibile la loro personalità, talora simpatica, senza costose manomissioni di dubbio risultato, e cercare invece nei terreni adiacenti od in zone vergini i luoghi più convenienti alla nuova espansione edilizia.

La voluta limitazione dello sviluppo urbano «a macchia d'olio» e l'adozione del sistema di espansione per enti periferici ben circoscritti ed individuati possono effettivamente realizzarsi solo a patto di conseguire la reale separazione dei futuri aggregati fabbricati con «zone libere» permanentemente conservate alla loro funzione agricola.

Indipendentemente dalla creazione di parchi o di giardini - nostalgici ricordi del divino Pincio, dell'impareggiabile viale dei Colli, delle Cascine o del Valentino - si tratta in primo luogo di «ruralizzare» la città, di spezzare la infinita successione di muri e di tetti, incuneando fra le propaggini suburbane ampie «riserve» di terreni agricoli permanentemente sottratti ad ogni forma di fabbricazione, che non sia quella strettamente necessaria ai particolari usi agricoli, o sportivi, o di ricreazione.

Assicurate, coi mezzi legali di cui parleremo più avanti, queste riserve, il problema dei parchi e dei giardini pubblici veri e propri può trovare nel suburbio elementi per la sua soluzione in quel patrimonio di antiche ville o di giardini patrizi che, perdendo gradatamente, coll'estendersi della città, la loro primitiva funzione, devono trasferirsi a beneficio della collettività.

Un piano di ampliamento a nuclei frazionati intramezzati da spazi liberi per la sua scioltezza ed adattabilità al terreno si presta meglio di quanto non lo potessero i poderosi e meccanici piani di vecchio stile alla valorizzazione di tutte queste note artistiche ed ambientali, talune delle quali, pur non costituendo monumenti d'arte o bellezze naturali «ufficialmente» protetti dalle speciali leggi di difesa delle Belle arti o del paesaggio, meritano tuttavia l'attenzione dell'urbanista.

Nella ricerca di queste note caratteristiche della geografia urbana viene oggi offerto un prezioso aiuto dai nuovi metodi di rilevamento fotografico aereo, che fanno rivivere il terreno in tutte le più minute particolarità che sfuggirebbero anche al più diligente topografo.

Parecchie città italiane se ne sono valse: Milano aveva iniziato nel 1925 un rilevamento sistematico della sua zona esterna, Foggia predispose per il bando del suo Concorso un completo rilievo fotografico.

La disposizione più conveniente da darsi a queste zone libere è in generale quella radiale penetrante a cuneo verso la città. Essa permette, colla maggiore economia, la massima penetrazione verso l'interno ed una progressiva espansione superficiale man mano che si procede verso la periferia.

Fra i settori contigui di zone libere potranno in qualche punto utilmente stabilirsi dei collegamenti trasversali costituenti dei tratti di corona anulare intorno alla vecchia città interposti fra questa e taluni dei nuovi nuclei fabbricati suburbani.

Non crediamo però in generale praticamente possibile la creazione di una intera fascia anulare di protezione intorno al vecchio centro principale a completa separazione di questo dai nuclei suburbani a meno che la zona libera non si riduca ad un semplice nastro verde, quali ne esistono intorno alle mura di qualche nostra città (vedasi ad esempio il nuovo Piano Regolatore di Grosseto) ma per ragioni soprattutto decorative e non come elemento formativo dello sviluppo cittadino.

Ai nuovi criteri di espansione edilizia corrispondono pure nuovi criteri ordinativi delle vie e dei mezzi di trasporto.

Conseguenza dei vecchi Piani regolatori isotropi troppo vasti e troppo simmetrici è una rete stradale onerosissima quasi sempre inadeguatamente sfruttata dalla fabbricazione sporadica e disordinata. I bilanci comunali ne danno la esauriente documentazione.

Non è economicamente possibile procedere con questi criteri anche per le nuove estensioni dei piani ed occorre concentrare i mezzi pubblici e privati entro limiti molto più ristretti.

Non quindi ragnatele amorfe di strade indifferenziate ma una chiara previsione delle funzioni da attribuire a ciascuna arteria; regolandone il tracciato e la sezione alle caratteristiche della zona da servire, alla natura ed intensità del traffico, con una netta differenziazione da caso a caso.

Da una buona soluzione periferica dei problemi del traffico restano enormemente facilitate anche le difficili condizioni della città interna.

Delle tre funzioni tipiche di collegamento - radiale, anulare e trasversale - affidate alle grandi arterie, la prima merita particolare attenzione per evitare il ripetersi di inconvenienti che oggi riscontriamo in molte delle nostre città.

Le grandi vie di comunicazione regionale costituite dalle antiche strade provinciali o nazionali non rispondono affatto, almeno nei loro tronchi più prossimi alla città, alle necessità del traffico per la loro ristretta sezione, per la ingombrante presenza di linee tramviarie e perchè vincolate dalla fabbricazione che si è lasciata sorgere - in applicazione agli antichi Codici della strada - troppo prossima ai loro cigli. Cosicché quando si vollero creare più rapide comunicazioni automobilistiche fra i grandi centri si dovette anche per ciò rinunciare a valersi di queste arterie e si ricorse a nuove concezioni quali le Autostrade.

Fra i problemi più urgenti della sistemazione periferica della città è quindi lo studio delle vie di allacciamento colla Regione sussidiarie delle insufficienti strade provinciali e nazionali e studiate in modo da permettere, col frazionamento delle carreggiate secondo la natura e la rapidità dei veicoli e colla indipendenza delle sedi tramviarie, il più comodo accesso alla città di tutti i moderni mezzi di trasporto stradali o tramviari. Il collocamento di bande verdi e di alberate conferirà all'estetica di queste grandi arterie suburbane e la assegnazione di larghe zone private di rispetto ai lati della via sarà la valvola di sicurezza per possibili ampliamenti futuri.

E merita pure accenno la tendenza che sull'esempio delle Autostrade altri vorrebbe applicata anche alle strade suburbane, di una netta separazione delle arterie radiali di grande comunicazione regionale dalle radiali di collegamento locale fra il centro ed i suoi sobborghi o nelle unità satelliti suburbane. Le prime dovrebbero possibilmente disporsi entro i settori agricoli penetranti a cuneo nella città ed essere perciò completamente libere dalla fabbricazione lungo i loro cigli e da confluenze ed incagli di traffico locale. Le seconde invece raccoglierebbero appunto il traffico locale da e per la città delle zone fabbricate che le fiancheggiano od a cui fanno capo.

Ove non sia possibile addivenire a questo netto sdoppiamento di funzioni, la separazione delle carreggiate potrà sempre dare buoni risultati.

L'argomento delle grandi vie esterne radiali ci porta a considerare anche il problema dei mezzi di comunicazione che collegando il centro coi sobborghi e colla regione circostante interessano specialmente le zone periferiche urbane.

In generale le nostre città ebbero nel passato una spiccata tendenza ad escludere dal proprio centro le teste delle linee tramviarie di comunicazione col contado, nella preoccupazione che esse servissero a sottrarre alla popolazione stabile - e quindi contribuente - notevoli masse che dalla città godevano giornalmente i benefici, sottraendosi ogni giorno agli obblighi fiscali con periodico riflusso serale alle campagne.

Oggi invece il fenomeno viene considerato con tutt'altro spirito e con più chiara comprensione del poderoso aiuto che da una rete di facili comunicazioni extra urbane deriva dalla lotta contro l'urbanesimo.

L'autore ebbe occasione di dimostrare in un suo recente scritto [2] che ogni nuovo cittadino immigrato in Milano grava sull'economia generale per una spesa di «impianto» (occorrente per fornirgli in città l'alloggio ed i più elementari servizi annessi) di L. 18.000. Questa cifra richiama l'attenzione sulla convenienza economica, oltre che demografica e morale, di arginare con tutti i mezzi - e fra questi importantissimi i trasporti -la tendenza all'inurbamento.

Va quindi favorita a questo scopo la penetrazione delle linee foresi nell'interno della città. Ciò non deve voler dire però confusione di attribuzioni fra i diversi mezzi di trasporto urbano.

Una netta separazione va fatta fra linee urbane, linee suburbane e linee regionali e sarebbe, a nostro modesto avviso, un grave errore, ad esempio, la inserzione di linee esterne a lungo percorso sulla rete di una linea metropolitana sotterranea destinata all'intenso servizio della zona più centrale. Le differenze di caratteristiche, di prestazioni, di orari, di velocità dei diversi mezzi richiedono linee indipendenti.

I problemi edilizi di ordine puramente estetico costituiscono un elemento - per quanto di primaria importanza - troppo particolare e locale per trovare posto in una trattazione di carattere generale.

Riaffermata la inscindibilità dei rapporti fra edilizia e piano regolatore, più che ai particolari architettonici esecutivi giova soffermarsi ai grandi problemi distributivi dell'edilizia.

La indisciplina delle costruzioni è il difetto più grave dei nuovi quartieri a combattere il quale non giovano i Regolamenti edilizi. Rispettati i capisaldi stradali, i vincoli di massima altezza, ed un minimo di sopportabile decenza esteriore, il proprietario è libero di utilizzare il terreno come meglio crede. Da ciò le caotiche promiscuità di danno particolare e collettivo.

Il male era troppo evidente per non richiamare l'attenzione. Fin dal 1910 in uno studio per la città di Napoli il concetto della «specializzazione edilizia delle zone» fa la sua apparizione. Parziali applicazioni esso trova nei piani di Milano (1912) e di Roma, più coraggiose in quello di Fiume, di Trieste (1925) e di Napoli (1927). Esso appare infine unanimemente accettato in tutti gli studi per i Concorsi per piani di Milano e di Brescia (1926), di Grosseto (1927), di Foggia (1928), e del nuovo piano di Salsomaggiore (1928).

Occorre però che la applicazione pratica del principio sia fatta con grande discernimento e con opportuna limitazione della casistica.

La «specializzazione» può considerarsi da un doppio punto di vista e cioè secondo la destinazione e secondo la densità. I due criteri si intrecciano e si sovrappongono, ma mentre il secondo è suscettibile di una precisa regolamentazione, il primo non può che avere un carattere tendenziale.

Negli esempi più sopra citati il primo criterio ha trovato nei quartieri periferici la sua applicazione nella suddivisione in zone residenziali e zone industriali, il secondo nella suddivisione in zone a fabbricazione intensiva od a fabbricazione estensiva, nella quale suddivisione il graduale spontaneo decrescere della intensità di fabbricazione col procedere verso la periferia deve trovare la sua espressione.

Le esigenze della vita industriale hanno particolare incidenza sullo sviluppo dei quartieri periferici. Se vi sono industrie che tendono a lasciare definitivamente la città, altre non possono rinunciare al mercato della mano d'opera urbana e denotano solo una tendenza al decentramento locale, ad un ordinamento periferico ai margini della città valorizzati dai nuovi mezzi di trasporto. Il loro collocamento è vincolato alle condizioni di accessibilità per lo spostamento giornaliero delle masse operaie che per la loro instabilità non sono necessariamente residenti nelle adiacenze dell'officina.

La massima dislocazione delle zone industriali è quella dei capilinea dei mezzi di trasporto suburbani. Se buoni mezzi di trasporto mancano gli stabilimenti si collocheranno più vicini al centro soffocandolo, e ciò tanto più quanto maggiore è il temporaneo bisogno di maestranze.

Assegnata in tal modo la più conveniente dislocazione delle zone industriali, tenendo conto di tutti gli altri elementi influenti - stazioni, raccordi, vie d'acqua, ecc. - occorre per conseguire effettivamente un ordinato sviluppo delle città richiamare verso queste i nuovi impianti industriali. La molla di richiamo può trovarsi nel giuoco combinato di speciali agevolazioni nella applicazione dei regolamenti edilizi in relazione alle necessità dell'industria ed in una opportuna politica fiscale esclusivamente riservata alle zone prescelte.

Le questioni ora accennate ci richiamano all'argomento più generale dei mezzi legali ed economici coi quali si possono praticamente applicare le direttive illustrate per la sistemazione dei nuovi quartieri nei piani di ampliamento.

Dal punto di vista economico l'elemento più influente sullo sviluppo dei piani di ampliamento è il regime della proprietà fondiaria.

Disgraziatamente in Italia la proprietà dei terreni intorno alle città non è che in minima parte di pertinenza comunale. Le leggi fondamentali del 1865 e del 1896 non incoraggiano la creazione di un demanio fondiario comunale. Poche città hanno seguito una politica fondiaria attiva. Fa eccezione Milano che fin dal 1906 faceva larghi acquisti di aree nelle zone suburbane e che anche in seguito proseguiva colle stesse direttive. Ma siamo ad ogni modo ben lontani dalle fortunate situazioni di molte città dell'estero grandi proprietarie di terreni suburbani. Per le altre città italiane - Roma compresa - le condizioni sono ancor meno favorevoli.

La trattazione già fatta di questo argomento al precedente Congresso di Vienna ci esonera dal parlarne ora. Passiamo piuttosto a considerare gli aspetti legali del problema.

La necessità da tempo sentita di un aggiornamento del nostro diritto in relazione alle nuove necessità urbanistiche ha dato origine ad un poderoso studio di riforma della legge fondamentale del 1865. Il nuovo testo proposto, ma non ancora discusso dal Parlamento, pur contenendo utili disposizioni non assurge però ancora al valore di una vera e propria «Legge edile».

Sono tuttavia notevoli fra le nuove disposizioni, oltre alla obbligatorietà dei piani per tutti i Centri con popolazione superiore ai 10.000 abitanti, la facoltà concessa ai Comuni di regolare la fabbricazione in genere anche nelle zone esterne al piano e la distanza delle costruzioni delle strade esterne vicine alle zone comprese nei piani e di addivenire, attraverso la fusione delle preesistenti piccole proprietà private, alla formazione dei cosiddetti «comparti» ossia di convenienti unità da fabbricarsi con speciali norme.

Gli scopi che la nuova legge si propone sarebbero però meglio assicurati se si rendesse assoluto il divieto di fabbricazione all'infuori dei limiti predisposti dal piano, dando al Comune o ad una superiore Autorità la facoltà di esercitare questo vincolo su una zona di convenienti dimensioni intorno alla città e superando le difficoltà che nascono dai limiti di competenza territoriale. L'istituto dei «comparti» dovrebbe pure trovare il suo logico complemento in quello della «rifusione dei confini» che permetterebbe di arrivare ad una migliore sistemazione edificatoria del terreno anche senza ricorrere alla integrale fusione di parecchie proprietà in un unico comparto che potrebbe costituire una unità edilizia troppo estesa ed economicamente conveniente.

Nello studio del piano per la città di Salsomaggiore (1928) che scrive ha voluto tentare una applicazione di questi concetti, domandando che essi fossero accolti nella legge speciale colla quale sarà approvato il piano. Se la domanda avrà favorevole accoglienza si avrà una anticipazione legislativa di principi che necessariamente devono presto o tardi trovare accoglienza nel nostro diritto pubblico.

Anche nella disciplina cronologica della esecuzione del piano sarebbe convincente dare ai Comuni qualche arma per diminuire i disturbi della saltuaria e caotica utilizzazione edilizia che i privati fanno delle loro aree, costringendo il Comune a seguire coi suoi servizi i capricci dell'edilizia senza compenso adeguato all'onere.

Merita pure di essere ricordato un difetto - per quanto mi consta comune a tutte le legislazioni: quello di non adeguare l'abito legale alla statura dell'organismo al quale si applica.

Le leggi in generale considerano l'entità astratta «Comune» senza distinguere se esso abbia poche migliaia od un milione di abitanti, se caratteristiche industriali od agricole ecc.

Ben diverse sono invece - particolarmente nei riguardi dei problemi di sviluppo che qui appunto esaminiamo - le condizioni, le necessità, le difficoltà da caso a caso e giustamente il Legislatore ne deve tener conto per rendere meglio aderente il diritto alla realtà e per foggiare nelle nuove leggi l'arma veramente utile alla disciplina dello sviluppo urbano.

Nota: in questa stessa cartella, sono disponibili altri testi dello stesso Autore, e più o meno contemporanei sullo stesso tema (f.b.)

[1] Il R.D. 7 Febbraio 1926 (art.32) ed il D.M. 27 Febbraio 1927 (art.1) per facilitare la formazione e lo sviluppo di borgate rurali nel Mezzogiorno assegnano una dotazione di L. 25.000.000, - da erogarsi in premi ai costruttori di nuove case in zone rurali distanti almeno 3 km. dal più vicino centro urbano.

[2] Cesare Chiodi, «Aspetti demografici ed economici del Piano Regolatore di Milano» - Giornale Il Politecnico - 1929 - Vallardi Editore.

Se la presenza di grandi zone verdi nell’interno della città di Padova ha permesso a questa di accrescersi comodamente sino ad un decennio fa senza aver bisogno di espandersi eccessivamente fuori dalla cinta daziaria, oggi tuttavia la città tende ad invadere il contado spingendosi spontaneamente nella campagna verso Nord-Est e Sud-Est.

Difatti sono queste le due direzioni più favorevoli allo sviluppo soprattutto oggi, per una città che è chiusa a Ovest e a Nord da una quasi insormontabile cinta ferroviaria lungo la quale sono allineati per di più il campo d’aviazione, il Tiro a segno, il Manicomio Provinciale, il Cimitero israelitico, l’Ospedale d’isolamento ed il Cimitero monumentale; impianti questi che costituiscono un impedimento od una ragione negativa allo sviluppo della città in direzione Ovest.

Verso Est invece, cioè verso Venezia, la città ha tutta una magnifica zona libera che ha come direttrici principali la strada provinciale di Venezia, quella di Piove di Sacco e quella di Bovolenta.

Ed è appunto nella direzione di queste strade che la città si è sviluppata nei secoli spostando anche successivamente il proprio centro da Ovest a Est e recentemente, con la creazione della stazione ferroviaria, verso Nord.


In questi successivi spostamenti del centro, da Piazza del Duomo a Piazza Erbe, da questa all’Università, e da questa all’odierna Piazza Garibaldi, una larga zona del quartiere di S. Lucia, è venuta a trovarsi con le sue case caratteristiche ma in parte malsane e con le sue viuzze tortuose proprio accanto al nuovo centro città, ad ovest di Piazza Garibaldi: di qui l’idea di valorizzare e sfruttare le aree centrali di questo vecchio quartiere, demolendolo completamente per trasportarvi un nuovo centro più moderno, idea sulla quale si basa il piano regolatore attualmente in vigore. Il quale piano prevede anche la creazione di una grande piazza al posto dell’attuale Ghetto che verrebbe pure demolito.

Moltissimi e gravissimi sono i difetti di un tale piano e qui si accenna solo a quelli di carattere generale:


a) Spostamento del centro verso Ovest cioè nella direzione opposta a quella verso la quale il centro si è spostato nei secoli e opposta alla direzione dello sviluppo moderno della città, con evidente danno generale dell’organismo di questa.

b) Distruzione inutile e stupida di due caratteristici quartieri della città con la pretesa del risanamento mentre questo necessario scopo si sarebbe dovuto raggiungere non con lo sventramento ma col metodo del diradamento edilizio, obbedendo solo a necessità igieniche e di viabilità, dove queste veramente sussistono.

c) La zona monumentale delle Piazze Erbe, Frutti e Signori verrebbe a trovarsi chiusa fra due centri moderni, per collegare i quali sarà necessario aprire nuove strade distruggendo l’ambiente artistico e storico senza vantaggi pratici.

d) Ridicola e malinconica l’idea di una piazza del mercato al posto del Ghetto con stazione tramviaria delle linee dei colli: i mercati si fanno più modernamente e le tramvie devono essere collegate con le stazioni principali.

e) Difficoltà assoluta di manovra per le comunicazioni in queste condizioni e nessun collegamento con i quartieri periferici ad Est della città.

f) Sperpero inutile di denaro.

Oltre a questo piano dei quartieri centrali esiste un piano di ampliamento.

Di questo è inutile parlare; basta dire che non è altro che una scacchiera malamente tracciata; che lascia la zona industriale dove è oggi, cioè tra la stazione ed il centro; che chiude lo sviluppo di questa zona con un quartiere popolare a Est della città; che non prevede né parchi, né campi sportivi, né piazze degne di tal nome, né scuole, né quartieri ... solo un lottizzazione e nulla più.

Il Gruppo degli Urbanisti non ha preteso risolvere tutti i problemi ma solo indicare la strada da seguire per la loro soluzione.

Premesso che il perfetto collegamento del piano di ampliamento con quello regolatore interno è la prima condizione necessaria perchè un piano possa aver spontanea applicazione pratica, il Gruppo degli Urbanisti si è posto i seguenti obbiettivi:


1. Congiungimento delle strade di Vicenza e dei colli con il centro e la stazione.

2. Congiungimento delle strade di Venezia e di Piove con il centro e la stazione.

3. Congiungimento del quartiere di Vanzo e della strada di Bovolenta con il centro e con la stazione.

4. Trasporto e sviluppo della zona industriale, quindi utilizzazione edilizia dell’area centrale occupata attualmente dalla zona industriale.

5. Creazione e collegamento tra loro, di nuovi veri quartieri periferici.

6. Creazione di un nuovo centro grandioso, in luogo adatto, e risanamento dei quartieri antichi in questione.

Per realizzare il punto 1 cioè il congiungimento con la stazione delle strade dei colli e di Vicenza, si è tratto profitto del vialone di Porta Codalunga (larg.m.60) proseguendolo oltre Piazza Mazzini attraverso il vecchio quartiere di via Savonarola fino all’incrocio di questa con la Riviera S. Benedetto, e da qui, attraverso le grandi zone libere delle caserme, oltre le mura, fino alla periferia dove si congiunge con l’attuale strada dei colli.

Vantaggi: pochissime demolizioni, risanamento del quartiere Savonarola, sfollamento e abbandono di traffico delle vecchie e inadatte via San Giovanni, via Vescovado, Porta San Giovanni. Le tramvie anziché ingombrare Piazza del Duomo o una futura piazza del mercato, sono logicamente incanalate alla stazione.

Da via Savonarola una nuova arteria, oltrepassando il canale, traversa via San Pietro, passa attraverso giardini, senza demolizioni, taglia via R. da Piazzola, via Dante, il quartiere S.Lucia e finisce a Piazza Garibaldi.


Per realizzare il punto 2, cioè congiungimento delle strade di Venezia e di Piove con la stazione e il centro, si è tratto profitto del grande viale Falloppio (larg.m.50) proseguendo questo, da una parte fino alla stazione, oltre il fiume, creando così una grande arteria quasi simmetrica al Viale Codalunga; dall’altra parte fuori delle mura a Sud-Est fino ad incontrare al di là di queste il centro di un grande quartiere periferico di espansione e la strada provinciale Piove di Sacco.

La strada di Venezia che arriva già attualmente al viale Falloppio lungo via G. B. Belzoni, verrebbe portata al centro attraverso una nuova arteria cittadina parallela alla vecchia via Altinate, passante per giardini quasi senza demolizioni fino a Piazza Garibaldi. Questa arteria porterebbe al centro anche il traffico dei Quartieri universitari e della Fiera Campionaria.

Vantaggi: sfollamento di Porta Pontecorvo e quartiere San Francesco, via Altinate, via Zabarella; utilizzazione edilizia dell’attuale zona industriale; creazione di una grandiosa arteria di espansione dalla stazione e dal centro verso Sud-Est; quasi nessuna demolizione.

Quanto al punto 3, il quartiere di Vanzo dovrebbe arrivare al centro lungo la riviera XX Settembre, via Roma, Canton del Gallo.

Via Roma dovrebbe essere porticata nel lato Est per guadagnare la larghezza del marciapiede. Vantaggi: nessun sventramento o demolizione.

La città verrebbe così un sistema di grandi arterie direttrici: una mediana Nord-Sud (Corso del Popolo) che condurrebbe dalla stazione al centro e alla città antica; una laterale Nord, Sud-Ovest dalla stazione ai colli; una laterale Nord, Sud-Est dalla stazione alla parte nuova della città.

Una trasversale da Ovest a Est congiungerebbe queste tre direttrici.

Quanto al centro, questo non è concepito come una piazza, ma, molto più modernamente, come un sistema di strade e piazze; sulle sue arterie di traffico avrebbero modo di sorgere grandi palazzi, negozi, ecc., e le piazze potrebbero nobilitarsi di edifizi pubblici dei quali la città ha bisogno. Il quartiere del Ghetto dovrebbe essere lasciato nel suo carattere, solo diradato con qualche demolizione delle case più infelici, aereato con la creazione di larghi e piazzette, reso più vivace con ritocchi edilizi: risanato insomma.


Le moderne regole vogliono che 1/2 circa dell’area totale della città venga riservato a zone verdi (prati, campi sportivi, giardini ecc.), congiunte in sistema con viali alberati. Padova consente facilmente di ottemperare a questa necessità: un parco situato fuori Porta Venezia, prima della zona industriale, presso le curve pittoresche dei canali, potrebbe essere congiunto, lungo tutta la periferia delle vecchie mura, con altri giardini e con il grande campo polisportivo a Sud-Ovest (attuale Tiro a segno, Canottieri, Soc. nuoto ecc.).

Ogni quartiere periferico (Bassanello, strada Bovolenta, Quartiere Liviano, quartiere operaio presso le industrie, Arcella, quartiere Euganeo) dovrebbe essere provveduto di scuole con ampi campi sportivi e di giuoco.

Tutti questi quartieri dovrebbero poi essere congiunti tra di loro con arterie periferiche, mentre un grande anello finale di circonvallazione chiude tutta la città separandola anche dalla zona industriale.

Padova ha bisogno di un mercato generale: è stato collocato a Nord-Est presso la ferrovia. Di lì si irradia una rete stradale che servirà a portare le derrate in tutti i quartieri centrali e periferici, dotati ciascuno di un mercato locale.

Occorre inoltre un moderno nuovo ospedale: è stato collocato presso l’attuale, ma fuori delle mura, vicino al Parco, in facile comunicazione con le cliniche universitarie.

Quanto alla futura rete tranviaria dieci linee principali, di cui cinque trasversali e cinque anulari, saranno sufficienti a servire a tutto il movimento della città portando le prime dalla periferia al centro, le seconde congiungendo tra di loro i centri periferici.

Quando si presenta il problema della trasformazione e dell’ampliamento di una antica città, si delinea generalmente una corrente di opinioni, comune e volgare, la quale insiste perchè vengano demolite e ricostruite le vecchie zone centrali ormai insufficienti, sovrapponendo quindi un nuovo centro ad uno antico; convinta che questo voglia dire rinnovare, svecchiare, sicura di rappresentare la tendenza giovanile e più libera non si accorge invece di rappresentare il più arretrato conservatorismo.

I sostenitori di questo ordine di idee partono dal presupposto antistorico che il centro di una città è sempre stato e sempre sarà immobile pressappoco nello stesso punto e che allontanarsene sia per lo meno impossibile. Essi concepiscono l’ingrandimento di una città come l’allargarsi concentrico di una macchia d’olio; in cui tutta la periferia deve riferirsi al centro e su questo gravare: concezione ormai medioevale che i mezzi di locomozione, il genere della vita di oggi e la rapidità degli sviluppi edilizi hanno ormai superato nella pratica.

Il centro di una città si è sempre spostato inevitabilmente verso i nuovi centri di attrazione, ed un ritorno al passato non si pu• fare senza la distruzione completa delle bellezze artistiche, il soffocamento delle fonti degli sviluppi ulteriori, l’impedimento del traffico.

Bologna, Milano, Firenze ... hanno già distrutto in parte l’ambiente delle bellezze artistiche del loro passato appunto per non aver saputo vedere con ampiezza e modernità di linee (né dati i tempi avrebbero potuto farlo) quali erano le direzioni e le forze che consentivano la creazione di nuovi centri veramente moderni, accanto agli antichi centri storici; i quali alla loro volta, risanati con modestia e buon senso, sarebbero rimasti preziose cittadelle del nostro patrimonio monumentale che purtroppo, per la inesperienza degli uomini, riceve ogni giorno inutili e dolorose mutilazioni.

Padova fino ad oggi aveva salvato la propria ricchezza: l’attuale piano regolatore in vigore, se sarà attuato, la distruggerà, senza in compenso dare alla città il largo respiro, il ritmo e la quadratura di una città moderna.

È per impedire questo che il Gruppo degli Urbanisti ha voluto recare il proprio modesto contributo di studio e di esperienza con la speranza che l’opera non sia tutta perduta e con la profonda convinzione che, se non si presterà maggiore attenzione in Italia ai problemi dell’urbanesimo, la pienezza della vita delle nostre città, il loro patrimonio artistico e le esigenze del traffico, saranno compromessi dalla imprevidenza degli uomini.

Il Gruppo degli Urbanisti Romani

E. Faludi, E. Fuselli, R. Lavagnino, L. Lenzi, G. Minnucci, L. Piccinato (Relatore), C.Valle.

Nota: le citazioni sono assolutamente testuali, salvo i titoli in corsivo, scelti arbitrariamente dal sottoscritto. In fondo, è disponibile anche una mappa del piano in PDF, di pessima qualità ma leggibile (f.b.)

Municipio di Bologna, Relazione della Giunta al Consiglio circa il Piano Edilizio Regolatore e di Ampliamento della Città [1885], Regia Tipografia, Bologna 1890

Quarant’anni di durata

Restringendo ad un breve periodo le nostre mire, avremmo potuto ridurre a modesti contorni il piano da attuare; ma non si sarebbe data così soddisfazione che ad una troppo piccola parte delle tante aspirazioni, in fatto di opere pubbliche, nutrite di lunga mano dai nostri concittadini. I quali, ponendo le condizioni della città nostra a confronto dei tanti abbellimenti delle città sorelle e dei progetti che vi stanno maturando, non possono rassegnarsi a tollerare, almeno in alcuni dei punti di maggiore importanza, quei difetti e quegli sconci, che le abitudini moderne rendono di giorno in giorno più sentiti. E neppure sarebbe stato prudente di mirare colle proposte ad un avvenire oltremodo remoto, accogliendo un lasso di tempo, fuori d’ogni esempio nella nostra legislazione, ed accrescendo così quelle incertezze e quelle oscurità, che accompagnano sempre le umane previsioni. Ci è parso quindi che un periodo di quaranta anni potesse evitare prudentemente gli opposti pericoli, tanto più se si consideri, che da parecchie opere all’interno poco aumento di abitazioni ne potrà derivare e che riuscendo esse assai costose era mestieri di poterle ripartire in modo, da renderne meno grave il peso sulle finanze del Comune. La vita delle città non si deve ragguagliare ad uno stesso metro con quella degli uomini; né sarebbe ragionevole di giudicare come inadeguati al bisogno taluni provvedimenti edilizi, solo perché noi non potremo essere testimoni del loro completo svolgimento. (pp. 11-12)

La demolizione delle mura

Le zone d’ampliamento abbisognano, com’è chiaro, di essere collegate, per quanto possibile, ai quartieri interni, ove siederanno sempre gli uffici e gli stabilimenti di maggiore importanza e convergerà più frequente il movimento dei cittadini. Di qui la necessità di frastagliare le mura, moltiplicare i passaggi e togliere quindi alla vecchia cinta quel carattere severo e maestoso, che emerge soprattutto dalla continuità e dalla lunga distesa di questi antichi baluardi. Né ci sembra che, con talune moderne costruzioni, si potesse correggere la deformità delle ripetute aperture praticate nelle mura; parendoci piuttosto che si dovesse esaminare se, sotto il punto di vista storico ed archeologico, fosse possibile di conservare qualche parte dell’antica costruzione, in modo da tramandare ai posteri il tipo della sua struttura e le tracce del suo andamento. E poiché talune porte potranno, come si è detto, essere conservate, isolandole nel mezzo di adatti piazzali, sarà così dato di aggiungere, anche per questa parte, un qualche saggio della vecchia cinta. (p. 14)

Il “grande disegno”

noi avremmo potuto seguire il metodo che, nel 1876, fu adottato dal Consiglio Comunale di Milano. Quella Giunta fece eseguire e presentò al Consiglio un piano regolatore generale, non già perché ne fosse chiesta l’approvazione a termini di legge e venisse così impegnato il Comune alla sua completa esecuzione, ma perché quel grande piano comprendesse, per dir così, i capisaldi delle opere future e servisse di norma alle successive proposte di piani parziali e definitivamente regolatori. La vecchia e la nuova cerchia di quella città intersecate, di tratto in tratto, dalle grandi strade radiali, che bastano quasi alle comunicazioni del suburbio, fino a che l’abitato si raccoglie in esigue zone lungo quelle vie, venivano a formare delle grandi figure quadrilatere, alle quali si sarebbero applicate gradatamente le disposizioni dei piani regolatori. E i lavori circoscritti a semplici allargamenti di strade avrebbero poi fatto oggetto di proposte distinte, ritenuta la loro indipendenza dai vincoli di un piano generale. Il Consiglio Comunale di Milano prese quindi soltanto atto del piano edilizio presentato, e approvò di coerenza ad esso, il piano d’ingrandimento di una parte del suburbio.

Questo metodo può avere indiscutibilmente dei vantaggi; esso permette di restringere in modo notevole il complesso delle opere; facilita la previsione dei mezzi finanziari ai quali si potrà ricorrere; e riserva una maggiore libertà d’azione per adattare i progetti alle nuove circostanze, seguendo così, secondo i dati dell’esperienza, lo sviluppo spontaneo della fabbricazione. Ma una delle ragioni principali, che possono indurre un municipio a stabilire un piano regolatore, può rimanere, con questo procedimento, frustrata. Le opere secondarie possono bensì considerarsi, entro certi limiti, come indipendenti le une dalle altre e si può quindi ammettere, che i progetti relativi siano suscettibili, senza grave inconveniente, di modificazioni successive. (pp. 24-25)

Pubblico/Privato

Il concetto essenziale del piano regolatore si fonda sul bisogno di fissare anticipatamente le norme, alle quali devono conformarsi i privati colle nuove loro costruzioni. Una volta fissate queste norme, il compito dell’Amministrazione dovrà consistere, generalmente parlando, nel secondare l’iniziativa privata, man mano che la fabbricazione si verrà estendendo e nel compiere le sistemazioni e le opere stradali relative. Alla parte di opere e di spese devoluta al Comune, un’altra dunque se ne deve aggiungere, non meno importante, quella delle nuove edificazioni, che rimangono affidate all’attività e all’industria dei privati. E quest’attività e quest’industria devono essere in grado di assegnare alla realizzazione del piano regolatore dei capitali anche maggiori di quelli, che il Comune è tenuto di dedicarvi. (p. 31)

La città ideale

la forma che più si presterebbe per una città, sarebbe quella in cui i vari punti del perimetro si trovassero equidistanti dal centro; e però la figura che generalmente si riscontra nelle piante della città è la figura poligonale, che tanto meglio si accosterebbe alla forma anzidetta quanto maggiore fosse la regolarità ed il numero dei lati del poligono.

Si è quindi considerato se fosse stato possibile e conveniente di dare al limite esterno della città da ampliarsi un andamento che tale che, discostandosi per forma da quello delle mura attuali, avesse permesso di variare il numero dei lati del nuovo perimetro poligonale. Ma si è riscontrato che ciò non era attuabile senza andare incontro a gravi inconvenienti; e che non si poteva rinunciare, senza rilevantissime spese, alla forma esistente della città:per cui la periferia dell’ampliamento segue presso a poco la disposizione dei circuito d’oggi. (p. 99)

Bologna piano 1885

Una breve premessa

È stato Lodo Meneghetti, sulle pagine di Eddyburg, a proporre lo studio per il piano regionale della Valle d’Aosta come uno dei paradigmi fondativi del rapporto fra urbanistica e paesaggio, sviluppato proprio nel periodo in cui la disciplina della pianificazione assume in Italia le forme che le saranno caratteristiche nel Novecento (per il secolo presente, vedremo).

E ha ragione da vendere, Meneghetti, anche oltre i temi che esplicitamente propone, come la sensibilità di una certa parte dell’architettura moderna dell’epoca per i temi del rapporto con la natura e dell’intreccio ambiente/sviluppo. Per capirlo, basta scorrere il testo proposto di seguito, che fu pubblicato su Rassegna di Architettura dopo la mostra che proponeva il Piano, ma cinque anni prima della sua effettiva e definitiva pubblicazione in volume (1943). Ne emergono temi complessi, come il connotarsi in “bonifica integrale” della pianificazione montana, di cui gli aspetti strettamente spaziali rappresentano solo la punta dell’iceberg. Ne emerge, in un passaggio affatto secondario, un anelito a quanto chiameremmo oggi “progettazione partecipata” (leggere per credere). Rinvio comunque il lettore, per un giudizio complessivo, al documento integrale di piano del 1943, ripubblicato dalle Edizioni di Comunità nel 2001. Resta comunque valida la tesi, ampiamente sostenuta dai vari interventi su questo sito, secondo cui ambiente, paesaggio, territorio, tutela e pianificazione, sono anelli inscindibili di una catena naturale e logica. Separali è astorico. Oppure, molto più semplicemente e probabilmente, arbitraria operazione di bassissimo profilo (Fabrizio Bottini)

Uno studio di piano regolatore che esce dai limiti consueti per l’ampiezza del tema proposto e per la varietà dei problemi che intende risolvere.

Parte dall’analisi delle condizioni naturali, sociali ed economiche che si verificano in una vasta zona montana e, tenendo in debito conto quanto l’arte, la natura e le possibilità locali offrono all’interesse dei visitatori, propone piani regolatori e miglioramenti edilizi nei centri maggiori e minori, nuove arterie stradali, il risanamento delle abitazioni, la messa in valore delle bellezze naturali o artistiche, l’incremento delle iniziative artigiane, commerciali e, possibilmente, industriali, la costruzione di alberghi: l’impianto di nuovi e più rapidi mezzi di comunicazione.

È quindi un piano che si può chiamare di bonifica integrale, in quanto, descritte con larga visione le condizioni di fatto attuali degli uomini e dell’ambiente, prospetta i rimedi intesi a risolvere il problema dello spopolamento delle montagne, che si verifica con aspetti identici o simili in quasi tutte le valli alpine e in parte delle prealpine, e costituisce un danno e un pericolo per la Nazione. Dalla fine della guerra mondiale in poi, queste popolazioni, che in passato rimediavano al deficiente reddito economico locale col guadagno ricavato dal lavoro temporaneo all’estero, hanno veduto chiudersi le frontiere senza trovare né in luogo né in patria possibilità di impiego delle loro provate capacità di lavoro. In luogo, la natura del suolo e il clima non permettono che tentativi per un eventuale limitatissimo incremento della produzione agraria, a raggiungere il quale, quand’anche si ottenga, basta il lavoro delle donne, dei bambini e dei vecchi, come in passato, mentre le città non hanno potuto né potranno effettivamente assorbire che una limitata parte dell’esercito di artieri disponibili, cosicché questi sono e dovrebbero rimanere disoccupati o nei centri maggiori o nei propri paesi.

Qualche sollievo a questa situazione è stato già portato col trasporto di famiglie coloniche, o che intendano ritornare alla terra, in zone più adatte, che presentano possibilità di miglioramento agrario, con gli aiuti dati dall’artigianato locale e con la bonifica della montagna a fini turistici.

I compilatori del piano regolatore hanno creduto opportuno di occuparsi anzitutto di quanto si riferisce a quest’ultimo punto, riservando ad un secondo tempo le proposte riguardanti altri problemi la cui importanza appare ad essi quasi secondaria rispetto al turismo, industria caratteristicamente italiana, essi scrivono, che nel caso in questione può assumere un valore preminente date le eccezionali attrazioni naturali dell’ambiente.

Effettivamente per la Valle d’Aosta, e, in genere, per gran parte delle altre, le possibilità turistiche sono certamente quelle che meglio affidano per ottenere un miglioramento dell’economia locale tale da influire sensibilmente sul tenore di vita, l’igiene, l’agricoltura, ecc. Ma l’esperienza insegna che i risultati dovuti a questo fattore non sono decisivi a risolvere il problema capitale che sta nel progressivo spopolamento della montagna, il quale persiste anche nei paesi che turisticamente progrediscono.

L’inurbanamento della montagna porta opere nuove, una accresciuta circolazione di denaro e di persone, ma in genere non modifica utilmente la mentalità e le attività della popolazione locale. Vi è quindi una necessità di educazione turistica di quelle popolazioni, tale che risolva la soluzione di continuità che ora si verifica tra la vita d’importazione e quella locale, che ammaestri a ricavare profitto dal forestiero con tutte quelle iniziative che vanno dal piccolo albergo, alle case d’alloggio, alle pensioni, all’artigianato, compatibili con le risorse degli abitanti e modeste in sé, ma efficacissime e imponenti ove partecipino effettivamente gli stessi interessati.

Non è qui il luogo per insistere su questo argomento e per un esame dello sviluppo del turismo in confronto alle condizioni ambientali in Val d’Aosta e altrove, ma non va dimenticato che la Svizzera, l’Alto Adige e, in parte, altre valli del nostro confine orientale devono la loro fortuna alto spirito accogliente degli abitanti in gran parte interessati all’incremento dell’industria del forestiero.

Certo, il problema delle valli montane non si limita a quello sopra accennato, e disordini idrici, disboscamento, frane, frazionamento della proprietà, mancanza di buone comunicazioni, deficiente istruzione pubblica, prospettano una situazione, che è all’infuori della buona volontà degli abitanti, supera le possibilità dei privati e degli enti locali e richiede l’intervento dello Stato.

È di questi giorni un provvedimento del ministro Bottai che avoca appunto allo Stato diverse scuole comunali montane della Valle d’Aosta, provvedimento che può apparire modesto ed è invece importante e significativo perchè attesta come al Governo non sfugga che una delle premesse indispensabili, la maggiore, alla rinascita sta anche nella più diffusa e migliorata educazione pubblica.

A questo primo passo altri seguiranno certamente a rimedio alle altre deficienze, nell’interesse della Nazione e delle popolazioni che ne custodiscono i confini.

E intanto, siano benvenuti questi studi che propongono il problema e ne diffondono la conoscenza ad un più largo pubblico, anche se i progetti che ne derivano possono suscitare opinioni non del tutto conformi a quelle dei proponenti, in quanto la constatazione della realtà è fuori d’ogni discussione e unico il fine che si intende di raggiungere.

Nota: qui il commento di Lodo Meneghetti, tra l’altro, anche al Piano per la Valle d’Aosta e alla cultura italiana del paesaggio (f.b.)

E' ben noto che solo dopo molte esitazioni furono inserite nella legge sull'espropriazione per pubblica utilità le norme relative alla formazione e all'esecuzione dei piani regolatori edilizi e di ampliamento e che, decisa la loro introduzione, si cerca di ridurre al minimo la facoltà dei Comuni di disporre sistemazioni edilizie, per non turbare troppo profondamente gl'interessi della proprietà immobiliare.

Tale circospezione era perfettamente spiegabile all'epoca, ormai lontana, di approvazione della predetta legge, poiché ben diversa era in quei tempi la condizione dei centri abitati; e le ragioni, che potevano consigliare a regolare la loro trasformazione o a dettare norme per il loro ampliamento, non avevano ancora raggiunto quel grado di importanza ch'esse hanno oggi conseguito.

L’intensità del traffico, ad esempio, era assai limitata anche nelle città più popolose e non era nemmeno lontanamente paragonabile a quella che si nota oggi in alcuni centri urbani, nei quali l'enorme sviluppo dei mezzi di locomozione e trazione meccanica ha reso tanto penosa la circolazione da far pensare che non bastino più sventramenti e demolizioni, ma che, anche per non intaccare le peculiari caratteristiche di alcune città, convenga deviare nel sottosuolo un parte del traffico, con la costruzione di adatte reti metropolitane, quando non siano sufficienti altre provvidenze intese a dare un diverso ordinamento ai servizi di trasporto in comune [1].

Altrettanto dicasi per i bisogni d'igiene e di decoro edilizio, che a termini delle disposizioni in vigore possono giustificare l'approvazione di piani regolatori e di ampliamento, dato il grande cammino compiuto dal 1865 ad oggi nella valutazione dell'importanza dei bisogni stessi e nella ricerca dei mezzi più idonei per soddisfarli.

E' evidente, quindi, che in una revisione dell'attuale legislazione urbanistica il problema dei piani regolatori dovrà essere affrontato con la convinzione assoluta della necessità di ampliare notevolmente il contenuto dei piani stessi, per eliminare i molteplici inconvenienti cui dà luogo l'attuale insufficienza delle norme in materia di sistemazioni interne e di sviluppo dei centri abitati.

Ma l'opera di revisione non potrà riguardare soltanto il contenuto dei piani regolatori: anche i criteri relativi alla loro estensione dovranno essere opportunamente riveduti per accertare se non debbasi allargarne la funzione regolatrice oltre la cerchia del territorio dei singoli comuni, per disciplinare la sistemazione della rete stradale e lo svolgimento dell'attività edilizia in una intera regione.

Lo sviluppo assunto dagli scambi commerciali, il movimento turistico più notevole e altre cause collegate col diffondersi dei moderni mezzi di locomozione, per cui sono resi possibili rapidi spostamenti d'individui fra località assai distanti, hanno modificato essenzialmente quello stato di fatto in forza del quale ciascuna città poteva considerarsi, agli effetti del traffico, come area isolata, avente cioè poca o nessuna influenza sulle regioni limitrofe. La vita attiva che si svolge in un centro urbano si fa sentire spesso a molti chilometri di distanza dalla cerchia delle sue mura, dando luogo non soltanto ad un aumento del traffico ma bene spesso anche al sorgere di nuovi nuclei edilizi (città giardino, sobborghi industriali, villaggi operai, zone orticole, ecc.), che della città rappresentano un complemento necessario, fino a formare con essa una vera e propria inscindibile unità.

Oggi, quindi, allo stesso modo come si verifica un rapporto d’interdipendenza fra lo sviluppo dei quartieri periferici e la sistemazione delle zone interne, esiste un legame assai stretto fra la vita dell'aggregato edilizio urbano e quella del territorio che lo circonda per un raggio più o meno grande: ciò che obbliga a considerare come oggetto di disciplina urbanistica un «comprensorio» ben più esteso del comune isolato, cioè la «regione».

A tale necessità, che può manifestarsi indipendentemente dall'esistenza di centri urbani, in tutte le località dove siasi sviluppata una intensa attività industriale o dove interessi turistici o bellezze panoramiche consiglino a regolare i mezzi di comunicazione e l'attività edilizia tenendo presenti i vantaggi o i danni che da determinati provvedimenti saranno per derivare alle varie località, è stato convenientemente provveduto altrove con la formazione di piani regionali, di cui numerosi esempi si hanno negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Germania.

Negli Stati Uniti essi sono puramente facoltativi: compilati sotto la sorveglianza della «Division of Building and Housing» del Bureau of Standards, istituito presso il Dipartimento del Commercio, si prefiggono in genere di evitare uno sviluppo disordinato delle costruzioni o la congestione del traffico. Al 1° Gennaio 1931 essi avevano raggiunto il numero di 67 [2].

In Inghilterra la compilazione di piani regionali ha luogo sotto la direzione di Comitati composti di rappresentanti delle amministrazioni interessate (Joint Committees), ai quali queste delegano, con o senza restrizioni, i poteri di cui dispongono in materia di piani regolatori [3]. Secondo l'estensione della delega queste commissioni assumono il carattere di semplici collegi consultivi incaricati della semplice preparazione del piano, salvo a ciascuna amministrazione il diritto di determinarsi liberamente in merito alle proposte da essi presentate, ovvero, caso ben più raro, la veste di organi incaricati della preparazione e attuazione del piano, funzionando in modo analogo ai consorzi amministrativi creati in Italia per l'impianto o lo svolgimento dei pubblici servizi.

Il numero dei «Joint Committees» va aumentando continuamente. Nell'anno 1927 essi erano già 53, riunendo autorità locali [4] ed un territorio complessivo di 7 milioni di acri con una popolazione di 19 milioni di abitanti. Alla fine del 1930 essi erano saliti a 60, comprendenti 880 autorità locali, sopra un'estensione di 52.600 Kmq., con una popolazione di 31 milioni di abitanti.

L'esempio più importante di piani regionali è quello de «La più grande Londra», che riguarda una superficie complessiva di 1846 miglia quadrate e alla cui compilazione sovrintende un «Joint Committee» composto di rappresentanti del Consiglio della Contea di Londra, delle amministrazioni municipali della città e degli altri Consigli di contea e «County boroughs» interessati. Alla del suddetto Comitato funzionano Comitati regionali o rappresentanze speciali intercomunali. Il piano viene redatto per zone e sottoposto per l'approvazione al Ministro dell'Igiene, la cui attività si estende in Inghilterra molto al di là della semplice tutela della salute pubblica e i cui poteri in materia di piani regolatori sono assai estesi, soprattutto per quanto riguarda l'imposizione di speciali obblighi ai proprietari dei beni immobili. I Comitati regionali, composti in maggioranza di urbanisti, sono particolarmente incaricati della coordinazione dei vari progetti. Alle spese necessarie per il loro funzionamento si provvede con i proventi di un'imposta sulla proprietà fondiaria ammontante a 1 80 di penny per ogni lira sterlina di rendita [5].

In Germania esistono già vari esempi di piani regionali, la cui compilazione e attuazione segue più o meno l'esempio della regione della Ruhr. Quivi funziona una Federazione (costituita in forza della legge prussiana del 5 Maggio 1920), la quale esercita funzioni amministrative in parte di coordinazione e in parte di sostituzione dell'attività dei comuni. Essa estende la sua giurisdizione alle circoscrizioni amministrative di Düsseldorf, Arnsberg e Münster, e, nell'ambito del territorio in esse comprese, ha per compito di:

1) collaborare nella formazione di piani di allineamento e di sistemazione, modificando o correggendo eventualmente piani approvati in precedenza. In particolare ha il diritto di fissare l'allineamento di strade che toccano il territorio di più Comuni ed assumerne altresì la costruzione [6];

2) accelerare la costruzione di piccole ferrovie, particolarmente di quelle interessanti il traffico fra i Comuni appartenenti alla Federazione;

3) riservare o creare spazi liberi da costruzione [7];

4) preparare i piani di sviluppo dei centri abitati [8];

5) emanare o abrogare ordinanze sulle nuove costruzioni o sugli alloggi, udito il parere delle Amministrazioni municipali interessate;

6) provvedere alla esecuzione della legge prussiana del 10 Agosto 1904, riguardante la costruzione di case.

Le singole amministrazioni municipali possono provvedere alla compilazione del piano regolatore riguardante il rispettivo comune, salvo alla Federazione il diritto di rivederlo ed eventualmente richiederne la modificazione per accordarlo al piano regolatore regionale. I Comuni rurali, essendo generalmente sprovvisti di organi tecnici idonei, danno incarico alla Federazione di redigere il piano regolatore locale [9].

In Francia gli articoli 8 e 9 della legge urbanistica del 1924 prevedono la formazione di piani regionali attraverso l'istituzione di consorzi ( syndicats de communes) in conformità alle prescrizioni contenute negli art. 116 e 169 della legge 5 Aprile 1884. La procedura in essi prescritta, che pone i comuni interessati allo stesso livello a richiede quindi il pieno accordo di tutti, non è stata però ritenuta applicabile alla regione Parigina, dove i Comuni limitrofi alla Capitale sono in tale condizione di dipendenza dal nucleo urbano centrale da non poter logicamente opporre i loro piani regolatori particolari alle esigenze della regione di cui fanno parte e dove, quindi, si richiede una autorità che, essendo al disopra delle varie amministrazioni, possa accordare gl'interessi contrastanti [10].

Al riguardo giova tener presente che negli ultimi cinquanta anni l'aggregato edilizio parigino, per effetto della sempre crescente immigrazione, ha invaso successivamente i dipartimenti della Senna, della Senna e Oise, e della Senna e Marna e sta per invadere anche quello dell'Oise; d'altra parte lo sviluppo industriale verificatosi senza la guida di un criterio coordinatore ha riempito i dintorni di Parigi di stabilimenti industriali, creando cause molteplici d'insalubrità, danneggiando il paesaggio e aggravando la crisi degli alloggi.

Un sentimento di rispetto per le circoscrizioni municipali esistenti, che ci permettiamo di considerare eccessivo [11], ha impedito al Governo di rimediare ai suddetti inconvenienti, decretando l'aggregazione a Parigi dei territori dei comuni limitrofi venuti a far parte della città. Fu ritenuto invece che alle varie necessità potesse rimediarsi con opportuni provvedimenti da parte del Consiglio generale della Senna: ma se questo è stato possibile fino a qualche tempo fa, quando la zona d'influenza della città non si estendeva oltre il dipartimento della Senna, non lo è più da quando, come si è detto, essa è penetrata in altri dipartimenti. E' stato quindi necessario pensare a un provvedimento che permetta di assicurare una direttiva unica nella sistemazione della regione Parigina e si è giunti così alla compilazione del disegno di legge su «L'aménagement de la région parisienne» che ha riportato l'approvazione della Camera il 20 giugno 1930.

In base alle norme in esso contenute, la preparazione di un piano regionale sarà effettuata a spese dello Stato dal «Comité supérieur de l'aménagement et de l'organisation générale de la région parisienne», istituito nel 1928 e, dopo udito il parere dei Comuni, delle Camere di commercio, delle Camere d'agricoltura, delle Commissioni urbanistiche dipartimentali e dei Consigli Generali interessati, sarà approvato e dichiarato di pubblica mediante una legge che determinerà le modalità e i mezzi finanziari per la sua attuazione.

Entro un anno dalla predetta dichiarazione di pubblica utilità i comuni compresi nella regione dovranno provvedere alla compilazione del piano regolatore o modificare quello precedentemente approvato per metterlo in accordo col piano regionale. L'esecuzione dei lavori da questo previsti avrà luogo a cura dei comuni interessati, per la parte riguardante il rispettivo territorio, o dei consorzi di comuni, rimanendo allo Stato il compito di eseguire lavori recanti modificazione o ampliamento della rete delle strade nazionali o delle ferrovie d'interesse generale.

In Italia un primo tentativo ufficiale di compilazione di piani regionali è stato fatto dalla Commissione nominata nel 1930 dal Governatorato di Roma, con l'incarico di procedere alla preparazione del nuovo piano regolatore dell'Urbe. L'autorevole consesso, partendo dal principio che i problemi dello sviluppo futuro della Capitale sono intimamente legati all'assetto delle comunicazioni con i nuclei abitati ai confini dell'Agro Romano, in ispecie nella direzione dei Castelli e del mare, tracciò fra l'altro uno schema inteso a disciplinare gli allacciamenti della metropoli con i predetti centri satelliti, mediante ritocchi alle comunicazioni ferroviarie a tranviarie, con la costruzione di un'altra autostrada, la creazione di una grande arteria litoranea e con opportuno collegamento del nuovo porto di Ostia col quartiere industriale di San Paolo [12].

Detto piano non ha ricevuto sanzione legale in occasione dell'approvazione del piano generale edilizio e di ampliamento, avvenuta col citato decreto legge 6 luglio 1931, n. 981, dato il suo carattere di larga massima. E' da ritenere tuttavia che l'approvazione sarebbe mancata anche se esso fosse stato molto più dettagliato, in quanto stenta a penetrare nella grande maggioranza del popolo italiano la convinzione se non della necessità almeno della grandissima utilità dei piani regionali.

Ancora ha presa sulla coscienza comune il concetto che il piano regolatore rappresenti un vincolo troppo grave alla proprietà edilizia, un espediente a favore delle amministrazioni municipali per svolgere programmi edilizi spesso temerari, un incentivo a compiere vere e proprie distruzioni di ricchezze e non già un mezzo per aumentare il valore del patrimonio fondiario attraverso il miglioramento delle condizioni igieniche, estetiche e di traffico dei nuclei abitati. Ogni estensione che si voglia dare a questo istituto, entrato a suo tempo nel diritto vigente quasi contro la stessa volontà del legislatore, è guardata con diffidenza, ed ogni difficoltà che presenti nel suo svolgimento è considerata come ostacolo insormontabile. La stessa Commissione reale per la riforma delle leggi sull'espropriazione per pubblica utilità nominata nel 1926 non credette nel suo progetto di far cenno alcuno dei piani regionali, ciò che potrebbe far ritenere che il problema non solo non sia urgente ma che debbasi ritenere non esservi bisogno alcuno di portarlo in discussione.

Noi riteniamo, tuttavia, che debba essere affrontata sollecitamente la disciplina giuridica di questa importante materia. Vi sono, infatti, anche in Italia esigenze alle quali può farsi fronte soltanto se determinati criteri vengono applicati sopra un territorio ben più vasto di quello di un solo comune. L'esempio di Roma, la cui circoscrizione municipale è molto più estesa di molte provincie e dove pure si è intesa la necessità di abbozzare un piano regionale, sta a dimostrare che occorre pensare seriamente a mezzi idonei per la disciplina delle costruzioni e per la sistemazione della rete delle comunicazioni in zone di territorio abbraccianti varie circoscrizioni comunali contermini.

Fra i bisogni più importanti sono da tener presenti:

1) Tutela del panorama. - Esistono in Italia paesaggi deliziosi, la cui suggestività dipende in gran parte dalla speciale ubicazione dei nuclei abitati, dalla varietà della vegetazione, dalla disposizione delle strade, da un complesso insomma di elementi imponderabili, i quali, tutti insieme, concorrono a formare delle bellezze uniche al mondo. Ed invero la nostra terra «per la sua conformazione, principalmente montuosa; per le sue lunghe riviere, sulle quali digradano, ultime propaggini appenniniche, aspri promontori e verdi colline, spesso tagliate da valli e da burroni profondi; per la sua antichissima storia che ha impresso in ogni angolo, su ogni pietra, su ogni zolla la poesia dei ricordi, è ricca, come nessun altro paese in Europa, di singolarissimi aspetti, di curiosità geologiche, di cose interessantissime, poste in siti spesso remoti, viventi in una vita propria, confuse in confini determinati, che permettono di apprenderle in uno sguardo, di descriverle con pochi tratti, di misurarle talvolta» [13]. Orbene, questi scenari meravigliosi possono esser resi ancora più interessanti da una saggia disciplina dell'attività edilizia, così come possono essere irreparabilmente deturpati da abbattimenti di alberi, da costruzioni non intonate all'ambiente, da edifici male disposti, da impianti industriali o ferroviari che non tengano conto della necessità di lasciare immutate alcune zone caratteristiche.

L'introduzione di norme di piano regolatore, aventi carattere obbligatorio per tutti i Comuni compresi nella regione, s'impone, pertanto, come unico rimedio per assicurare l'integrità di un patrimonio nazionale che ci è tanto invidiato.

Del tutto inadeguato è, infatti, il potere concesso al Ministero dell'Educazione Nazionale dall'art. 4 della legge 11 giugno 1922, n. 778, nei casi di nuove costruzioni e ricostruzioni, di prescrivere distanze, misure ed altre norme necessarie perché le nuove opere non danneggino l'aspetto e il pieno godimento delle bellezze panoramiche. Non possedendo alcun mezzo per far giungere a tempo la sua azione, la Direzione Generale di Antichità e Belle arti, deve attendere che le sia indicata la nuova opera: e, quando le giunge la segnalazione, nella maggior parte dei casi nulla può fare perché lo scempio è già avvenuto.

In base alle norme contenute nella legge suddetta il Ministero dell'Educazione Nazionale ha facoltà altresì di notificare ai proprietari l'interesse panoramico di determinati immobili e impedire in tal modo che si inizi qualsiasi trasformazione: ma, come abbiamo già rilevato, le bellezze paesistiche sfuggono ad una precisa identificazione, e quindi si dovrebbe finire per notificare più della metà degli immobili presenti nel territorio italiano; il che è assolutamente inconcepibile, date le formalità che debbono accompagnare la notificazione e i ricorsi cui questa può dare luogo.

Per salvare il paesaggio è stato anche escogitato l'espediente dell'emanazione di decreti ministeriali affissi per sei mesi all'albo pretorio dei Comuni interessati, recanti il divieto di «ostruire le scene panoramiche o di offenderle in qualunque modo con opere non in armonia con i luoghi o in assoluto contrasto col godimento di essi». Senonchè un provvedimento di questo genere, che fu adottato molto opportunamente per Capri e per Taormina, non potrebbe essere esteso agli innumerevoli luoghi degni di particolare tutela dal punto di vista del paesaggio, perché il carattere semplicemente negativo di esso finirebbe per arrestare qualsiasi iniziativa e turberebbe interessi altrettanto gravi quanto quelli che si vogliono tutelare. Invece un piano regionale ben congegnato può, attraverso opportune indicazioni sulla futura dislocazione dei nuovi nuclei edilizi e sulla particolare sistemazione di determinate zone, costituire una preziosa guida per i proprietari d'immobili nell'accertamento di quello che ad essi è permesso fare sui loro beni, permettendo così di fissare programmi per la migliore utilizzazione dei terreni o delle costruzioni senza il pericolo che durante l'esecuzione delle opere intervengano divieti o sospensioni da parte delle autorità preposte alla tutela del paesaggio.

2) Miglioramento del traffico. - Il perfezionamento dei sistemi di trasporto a trazione meccanica ha aumentato enormemente il numero dei veicoli e la loro varietà nei riguardi della velocità, ciò che rende necessario esaminare la possibilità di una ripartizione del traffico su strade diverse, alcune riservate ai mezzi veloci e leggeri (autostrade) altre ai carichi pesanti e lenti o ai veicoli facenti servizio locale [14], accertare le modificazioni da introdurre nei nuclei edilizi di minore importanza attraversati da strade di grande comunicazione, provvedere alla creazione di nuove arterie di collegamento, che facilitino gli scambi tra il centro urbano e altri centri minori in istretta relazione con esso. A tal fine particolarmente utile può riuscire un piano regolatore che si estenda ad una regione abbastanza vasta e che disciplini anche gl'impianti ferroviari, non solo per evitare che la loro presenza costituisca una barriera al deflusso del traffico stradale verso determinate direzioni, ma anche per ovviare alla possibilità di un errato impiego di capitali nella costruzione di ferrovie, le quali non potrebbero offrire oggi tutti quei benefici che indubbiamente avrebbero recato molti anni fa, quando l'automobilismo era ben lontano dall'attuale sviluppo.

Sotto questo punto di vista, anzi, non è esagerato pensare alla opportunità di compilare in un avvenire più o meno lontano un piano regolatore nazionale (comprendente i vari piani regionali convenientemente coordinati fra loro), di cui si notano già le prime basi nel programma di azione dell'Azienda autonoma della Strada, programma che dovrà inevitabilmente risultare sempre più strettamente coordinato al piano regolatore generale delle comunicazioni ferroviarie.

3) Economia nell'impianto e nel funzionamento dei servizi pubblici. - Un piano regolatore, che coordini le iniziative e i provvedimenti volti ad assicurare la sistemazione e lo sviluppo dei nuclei abitati esistenti in un territorio abbastanza esteso, permette a ciascuna amministrazione di raggiungere con una spesa minore il soddisfacimento di determinati bisogni (approvvigionamento idrico, comunicazioni tranviarie intercomunali, impianti per deflusso e smaltimento di acque luride, ecc.).

Esso può inoltre evitare inconvenienti particolarmente gravi nel funzionamento di alcuni servizi pubblici. Al Congresso internazionale di Scienze amministrative, tenuto a Madrid nell'ottobre 1930, un delegato francese, parlando della necessità di ordinamenti amministrativi locali che permettano di risolvere determinati problemi interessanti varie circoscrizioni municipali, segnalò il caso di due comuni contermini, l'uno dei quali prendeva da un piccolo lago l'acqua per uso potabile e l'altro ne aveva fatto luogo di scarico e di smaltimento delle immondizie; e fece presente come inconvenienti di questo genere, moti dei quali sussistono nella «banlieu» parigina, potranno facilmente essere superati soltanto attraverso un piano regolatore appoggiato nella sua applicazione su norme coercitive per tutte le amministrazioni interessate.

Senza dubbio, non esiste in Italia alcuna città nella quale siasi verificato uno stato di cose anche lontanamente paragonabile alle condizioni della regione parigina, dove circa sei milioni di abitanti (quasi il sesto della popolazione dell'intera Francia) vivono agglomerati in uno spazio inferiore alla cinquantesima parte del territorio dello Stato. Si tratta di un fenomeno di addensamento unico al mondo, che non ha riscontro nemmeno a Londra, a New York e a Berlino. Ciò non toglie, peraltro, che uno stato di cose analogo, sebbene in misura ridotta, possa verificarsi in avvenire anche nel territorio circondante qualcuno dei nostri centri urbani, per cui l'adozione di norme intese a disciplinare la materia dei piani regionali farà sì che non si debba mai lanciare gridi d'allarme simili a quelli che per Parigi sono contenuti nella relazione della Commissione parlamentare francese incaricata di esaminare il progetto di piano regionale del quale abbiamo già parlato [15].

4) Zonizzazione. - La storia di questi ultimi anni è caratterizzata da un accrescimento enorme della popolazione delle città [16], da cui è derivato un incremento più che notevole dell'attività edilizia, come necessaria conseguenza della penuria di abitazioni, palesatasi in alcuni luoghi con fenomeni veramente preoccupanti.

Qua e là, peraltro, si è manifestata la tendenza da parte di persone, che nei centri urbani svolgono la loro attività a fissare l'abitazione in comuni vicini o in nuclei edilizi sorti a qualche chilometro dalla città, e ciò principalmente sotto la spinta di ragioni economiche o per il desiderio di trascorrere in tranquillità le ore destinate al riposo.

Questa tendenza, che è stata favorita dalla facilità e dal basso costo delle comunicazioni esistenti fra la città e le località predette, potrà ricevere grande impulso in avvenire col progressivo perfezionamento delle comunicazioni stesse e col costante miglioramento delle reti stradali, che ovunque si sta attuando. Essa, comunque, dovrà essere favorita dalle amministrazioni cittadine come mezzo per alleggerire il traffico e rendere meno ardua la soluzione dei problemi collegati col troppo rapido sviluppo dell'aggregato edilizio.

E' di sommo interesse, peraltro, che ai vantaggi realizzati nelle città non si contrappongano gravi inconvenienti causati dal sorgere caotico di costruzioni ai margini del loro territorio, ciò che può facilmente verificarsi, specialmente quando la speculazione di proprietari di terreni suscettibili di fabbricazione non venga attentamente controllata e tenuta a freno con l'applicazione di opportune norme fissate in ben congegnati piani edilizi. Evidentemente, se un piano regionale avesse disciplinato lo sviluppo delle costruzioni e l'impianto di opifici nella «banlieue» parigina, oggi non si avrebbero a deplorare quei mali che la relazione De Fels ha messo in evidenza.

Si comprende quindi facilmente perché nello studio del piano regionale della «Greater London» il Joint Committee incaricato della compilazione si sia molto preoccupato della questione del sorgere di costruzioni a nastro lungo le strade di maggior traffico ( ribbon development), consigliando l'esercizio del potere di espropriazione dei terreni attigui alle strade principali conferito al Ministro dei Trasporti, e abbia voluto approfondire il problema del «decentramento» delle industrie in modo da distendere sopra un più vasto territorio il traffico da esse prodotto [17].

E poiché gli stessi inconvenienti, sia pure con intensità minore possono verificarsi in molte città italiane, specialmente in quelle dove le industrie si sono maggiormente sviluppate, deve considerarsi come impellente la necessità di una vasta rete di piani regionali, che elimini tempestivamente questo pericolo.

In altri termini, il principio della zonizzazione deve applicarsi anche nel campo della regione, attraverso un piano che determini l'uso al quale ciascuna parte del territorio può essere assegnata, in relazione alle sue speciale caratteristiche, alla posizione geografica e ai rapporti con altre località (zone agricole, zone industriali, zone residenziali, ecc.), e che assicuri una conveniente riserva di spazi liberi, avuto riguardo non soltanto ai bisogni presenti ma anche a quelli futuri.

Sotto questo punto di vista la zonizzazione rappresenta l'unico mezzo per evitare che terreni particolarmente adatti per l'impianto di parchi, zone di ricreazione, ecc. siano irrimediabilmente deturpati da costruzioni prima dell'effettiva destinazione della superficie a tale uso: essa quindi costituisce anche un mezzo per aumentare le attrattive turistiche nei dintorni delle città più importanti, questione che si ricollega alla tutela del paesaggio, di cui abbiamo già parlato, e che ha enorme importanza per il nostro paese, il quale nello sviluppo del turismo vede una fonte non disprezzabile di ricchezza.

Come è ovvio, la destinazione di alcuni terreni agli usi sopraindicati, nell'interesse della popolazione non di un solo centro abitato ma di un'intera regione, potrà far apparire equa la distribuzione del carico finanziario fra tutti i comuni avvantaggiati, anche se l'attuazione del piano regionale sia fatta a cura dell'amministrazione municipale nel cui territorio sono situati i terreni medesimi: ma a tale distribuzione di oneri potrà, se necessario, facilmente provvedersi, applicando al piano regionale il principio del concorso nella spesa, in vigore per le opere pubbliche, considerando cioè i vari comuni obbligati al pagamento di un contributo in misura proporzionale all'utile risentito.

Disciplina giuridica dei piani regionali

Per la formazione e per l'esecuzione dei piani regionali sono sufficienti le norme attualmente in vigore?

Come è facile rilevare dalla lettura delle disposizioni contenute nella legge 25 giugno 1865, questa non fornisce alle amministrazioni municipali i poteri che sarebbero necessari. Nè applicabili possono considerarsi le norme vigenti in materia di Consorzi, poiché gli articoli 10 e 12 del R. Decreto-legge 30 dicembre 1923, n. 2839, portante modificazioni alla legge comunale e provinciale, chiaramente dispongono che la costituzione di consorzi fra comuni deve avere per oggetto «spese o servizi di carattere obbligatorio, quando i comuni stessi non siano in grado di provvedervi isolatamente». Esula quindi da questo campo la materia dei piani regolatori, che implica la determinazione di norme, alle quali ciascun comune consorziato dovrebbe sottostare nello svolgimento dell'attività riguardante sistemazioni edilizie e stradali nel proprio territorio, e l'esecuzione di opere pubbliche connesse con tali sistemazioni.

Ai bisogni che in passato si sono manifestati in qualche comune, per la cui soddisfazione era necessario disporre in tutto o in parte del territorio di altri comuni, si è cercato di rimediare con modificazioni alla circoscrizione territoriale, disponendo cioè variazioni di confini o fusioni di più Comuni in uno solo. Al riguardo è da tener presente che già l'art. 14 del testo unico della legge comunale e provinciale 20 marzo 1865, allegato A) aveva disposto l'unione coattiva di più comuni nell'interesse di quello fra essi, che, non avendo territorio oltre il limite della zona fabbricabile (comune murato) o non avendolo sufficiente, fosse costretto a collocare sul territorio degli altri una parte importante dei suoi servizi [18].

Le suddette disposizioni, integralmente riportate nei successivi testi unici, fino a quello ultimo del 4 febbraio 1915 (art. 119), dettero la possibilità al Governo di rimediare a gravi difficoltà, nelle quali alcuni grandi Comuni erano venuti a trovarsi [19].

Con l'art. 8 del R. Decreto 30 dicembre 1923, n. 2839 fu estesa la portata dell'art. 19 del predetto Testo Unico, stabilendo che l'ampliamento del territorio di un comune potesse esser disposto non soltanto quando esso fosse riconosciuto indispensabile per l'impianto, l'incremento o il miglioramento dei servizi pubblici, ivi comprese le opere portuali, marittime, fluviali o lacuali, ma anche nel caso in cui l'insufficienza del territorio risultasse d'impedimento allo sviluppo economico del Comune stesso.

Successivamente con Decreto-legge 17 marzo 1927, n.383, venne conferita al Governo la facoltà di provvedere entro un biennio ad una revisione generale delle circoscrizioni comunali per disporre l'ampliamento e la riunione o comunque la modificazione del territorio dei vari Comuni anche all'infuori dei casi sopraindicati: ed in base a tale facoltà numerosi provvedimenti sono stati attuati, i quali hanno più che notevolmente ampliato la circoscrizione di grandi Comuni [20].

Questi provvedimenti hanno permesso a molti centri urbani importantissimi di risolvere problemi assai difficili di sistemazione interna e di sviluppo dell'abitato, in quanto è stata data loro la possibilità di disporre l'ampliamento di arterie stradali, di distribuire razionalmente edifici e di sistemare impianti per servizi pubblici senza la preoccupazione di ostacoli insuperabili, quali prima di allora avevano incontrato nella inerzia o nella resistenza delle amministrazioni municipali contermini.

L'inerzia o la resistenza furono determinate talvolta dalla naturale incomprensione di determinate necessità attinenti allo sviluppo cittadino, ma più spesso dalla mancanza dei mezzi finanziari indispensabili per trasformazioni edilizie o sistemazioni stradali relativamente assai costose. E poiché sotto questo punto di vista le condizioni dei Comuni non sono molto cambiate, non è da attendersi nemmeno per l'avvenire una larga collaborazione fra amministrazioni di circoscrizioni municipali contigue per lo svolgimento di una conveniente attività urbanistica.

D'altra parte sarebbe mera illusione il credere che a tutti i bisogni, cui abbiamo accennato in precedenza, sia sempre possibile provvedere con aggregazioni al centro urbano di comuni finitimi o con la fusione in uno solo di più comuni obbligati a risolvere d'accordo determinati problemi. A parte la considerazione che, ingrandendo a dismisura il territorio dei Comuni, le rispettive amministrazioni finirebbero inevitabilmente per perdere la visione esatta dei vari problemi di carattere locale, non si potrebbe mai spingere troppo oltre tale ingrandimento senza andare incontro a difficoltà di carattere amministrativo, finanziario e politico tutt'altro che lievi. Giunti a un certo limite, le questioni relative allo sviluppo edilizio o al funzionamento dei servizi pubblici interessanti più comuni non possono essere affrontate che attraverso la fissazione di norme, alle quali tutte le amministrazioni siano tenute a conformarsi, norme che nei piani regionali trovano la loro sede naturale e la forma più conveniente di attuazione.

In rapporto a tali piani debbono tuttavia porsi varie questioni: a) quale debba essere la loro estensione; b) quale la forma e il contenuto; c) chi dovrà provvedere alla compilazione; d) in quale modo dovranno essere attuati.

Estensione del piano regionale. - Come è ovvio, ogni piano regionale deve abbracciare le circoscrizioni territoriali di tutti i Comuni la cui vita e il cui sviluppo siano in qualche modo legati fra di loro o gravitino sul centro urbano, sì da far ritenere che determinati provvedimenti, volti alla modificazione e allo sviluppo dell'abitato, alla sistemazione della viabilità, all'impianto o alla trasformazione dei servizi di trasporto o di altri servizi pubblici adottati in un comune possano direttamente influire sugli altri e dar luogo ad un miglioramento o ad un peggioramento delle condizioni economiche, igieniche, estetiche o di traffico dell'intera zona cui il piano si riferisce.

Non si possono quindi fissare «a priori» limiti all'estensione dei piani regionali: è da ritenere peraltro che ciascuno di essi non debba in nessun caso oltrepassare i confini della Provincia, sia perché questa rappresenta una entità territoriale basata sopra comunanza d'interessi e di tradizioni e sopra condizioni topografiche ed economiche che distinguono quasi sempre nettamente il territorio appartenente a circoscrizioni diverse, sia perché molto più difficile risulterebbe certamente la compilazione e l'attuazione del piano quando dovesse procedere da organi dipendenti da autorità amministrative di provincie diverse.

D'altra parte, mentre i piani regolatori dei singoli comuni debbono costituire tante maglie del piano regionale, coordinati, quindi, ai criteri generali informatori di questo, i vari piani regionali sono destinati a rappresentare il tessuto di un piano regolatore, sia pure ideale, abbracciante tutto il territorio dello Stato, ciò che autorizzerà l'autorità centrale ad esigere la modificazione di piani regionali appartenenti a provincie diverse, quando qualcuno di essi presentasse caratteristiche tali da contrastare con i principi posti a fondamento dei piani regionali attigui.

Contenuto e forma del piano regionale. - Il contenuto del piano regionale potrà evidentemente essere diverso a seconda delle condizioni del territorio, della natura delle industrie che in esso vengono esercitate, del grado di sviluppo della produzione agricola, della vastità della rete ferroviaria, della presenza o meno di porti, canali di navigazione, ecc. In ogni caso, peraltro, esso dovrà predisporre tutti i provvedimenti necessari per assicurare la sistemazione e lo sviluppo dei vari nuclei abitati, attraverso un coordinamento dei piani regolatori esistenti o che potranno in seguito essere preparati dalle amministrazioni municipali interessate.

Nel piano regionale, pertanto, saranno indicati:

1) l'allineamento delle strade più importanti, sia di quelle già costruite, sia di quelle che dovranno esserlo in avvenire;

2) le modificazioni da apportare alle vie interne degli abitati in relazione alle esigenze del traffico svolgentesi nelle strade suddette: tali modificazioni saranno segnate nel piano regionale come indicazione di massima e dovranno essere opportunamente sviluppate nel piano regolatore speciale di ciascun comune;

3) la distinzione delle zone destinate all'agricoltura da quelle suscettibili di impianti industriali e da quelle in cui potranno sorgere case d'alloggio;

4) l'indicazione delle caratteristiche dei nuclei edilizi di futura costruzione (città giardino, ville signorili, case operaie, ecc.);

5) le zone di rispetto e cioè i nuclei abitati o i terreni che per ragioni igieniche, artistiche o panoramiche, non debbano subire trasformazioni o che possano essere solo parzialmente modificate con l'osservanza di determinate cautele;

6) la natura e l'ubicazione degli spazi liberi (parchi, giardini, zone sportive, ecc.) o degl'impianti indispensabili per il funzionamento di servizi d'interesse generale (acquedotti, collettori per smaltimento di acque luride, mattatoi, tranvie intercomunali, aeroporti, opere per la navigazione, lavori di protezione contro inondazioni, stabilimenti di assistenza e d'igiene, ecc.).

Organo incaricato della preparazione del piano regionale. - Due possono essere le soluzioni: o affidare la compilazione all'amministrazione del Comune più importante della regione, intorno al quale gravitano gli altri comuni come centri satelliti; o demandarla ad un organo tecnico regionale.

La prima soluzione appare indispensabile per quelle regioni nelle quali esista una città assai popolosa o un centro industriale importante, la cui vita influisca in modo preponderante su quella di tutto il territorio, determinando speciali correnti di traffico, attivi scambi commerciali, movimento turistico, ecc. La seconda soluzione è da preferire in quelle località in cui non esista un nucleo abitato, che rappresenti il fulcro della vita della regione, ciò che può verificarsi in una zona mineraria, in una regione litoranea, in un territorio affollato di stazioni climatiche, ecc.

Non è consigliabile affidare un compito così delicato ad assemblee o a commissioni formate da rappresentanti dei Comuni compresi nel territorio, cui il piano si riferisce, perché, più ancora che la diversità di opinioni in rapporto ai vari problemi, gl'interessi eventualmente in contrasto dei vari enti rappresentati farebbero degenerare in vana accademia il lavoro d'indagine circa le condizioni speciali delle varie località, la determinazione dei rispettivi bisogni e lo studio dei mezziper soddisfarli: in ogni caso farebbero mancare quell'unità di vedute assolutamente indispensabile in così delicata materia.

Si è d'avviso quindi che la compilazione del progetto, quando non possa provvedervi la città considerata come centro della regione, debba essere affidata a persona o ente scelto dallo stesso organo incaricato di esaminarlo e proporne l'approvazione, il quale dovrebbe fissarne in precedenza i criteri fondamentali per evitare eventuali insuperabili contrasti con interessi la cui tutela sia esercitata dallo Stato per mezzo di altri organi centrali o locali.

In ogni caso, poi, a garanzia degl'interessi dei singoli Comuni, dovrebbero essere resi obbligatori la pubblicazione preventiva del progetto e l'invito a tutte le amministrazioni municipali a presentare eventuali deduzioni e reclami: lo stesso invito dovrebbe esser rivolto all'Azienda statale della strada e all'Amministrazione provinciale, per le conseguenze che il piano regionale può avere nei riguardi della rete stradale affidata alla loro gestione o di stabilimenti di loro pertinenza.

Dovrebbe infine essere reso possibile il contraddittorio fra ente compilatore e comuni o proprietari interessati e favorita una la rga collaborazione da parte degli organi di associazioni sindacali in modo da assicurare la perfezione assoluta del progetto prima della sua definitiva approvazione.

Esecuzione del piano regionale. - In altri paesi, dove da tempo è in uso la compilazione di piani regionali, l'attuazione di questi ha dato luogo a difficoltà non lievi, in quanto non esiste un organo autorizzato a ordinare ai vari enti il compimento di opere d'interesse comune previste dai piani stessi, modificando eventualmente i rispettivi piani regolatori locali.

Il piano regionale rappresenta in detti paesi una importante obbligazione morale, ma in molti casi non basta per attuare una perfetta collaborazione fra le varie amministrazioni municipali nella fase esecutiva, indubbiamente la più delicata, anche per le conseguenze che può avere sugli altri Comuni interessati il fatto che un'amministrazione municipale non osservi gli obblighi fissati nel piano medesimo. E' perciò che tutte le commissioni incaricate di provvedere alla compilazione di piani regionali in Inghilterra hanno fatto presente nei loro rapporti la necessità di creare uno speciale organo (Executive Committee), avente il compito di controllare il perfetto accordo dei piani regolatori locali con quello regionale e di sovrintendere all'esecuzione di questo, tanto per le opere di competenza delle singole autorità locali quanto per quelle da compiersi mediante accordo fra tutti gli enti interessati [21].

Riteniamo quindi che, introducendo nella nostr alegislazione urbanistica norme sulla compilazione dei piani regionali, debba anche provvedersi all'istituzione di una funzione di vigilanza, che ne assicuri la perfetta attuazione, sia nella sostanza che nel tempo.

Giova osservare a questo proposito che l'esecuzione del piano regionale rende necessari due ordini di provvedimenti:

a) eventuali modificazioni ai piani regolatori dei vari comuni della regione per adattare gli allineamenti, i criteri di zonizzazione e la disposizione di opere pubbliche alle direttive generali stabilite dal piano regionale;

b) esecuzione di opere pubbliche giudicate indispensabili per raggiungere gli scopi posti a fondamento del piano regionale.

Mentre i provvedimenti della prima categoria sono facilmente attuabili o per libera determinazione dei Comuni interessati, ai quali sia rivolto apposito invito dall'autorità tutoria, o d'ufficio, quando l'invito risulti inefficace, non altrettanto facile si presenta l'attuazione dei provvedimenti della seconda categoria. Per questi, infatti, trattasi di stabilire anzitutto la data dell'esecuzione e le modalità di finanziamento, materie sulle quali i Comuni interessati possono manifestare delle intenzioni non rispondenti alle reali necessità. Il verificarsi di siffatta eventualità può far perdere al piano regionale gran parte della sua efficacia, specialmente quando dall'esecuzione di una determinata opera in un Comune dipenda la possibilità di eliminare difficoltà al traffico o al regolare funzionamento dei pubblici servizi nell'intera regione.

La visione di questi inconvenienti, molto gravi per la regione parigina, dato ch'essa occupa circoscrizioni dipartimentali diverse, ha spinto uno studioso della materia a proclamare che l'attuazione del piano della «più grande Parigi» dipenderà unicamente dalla soluzione del problema dell'autorità dirigente e che tale soluzione potrà essere conseguita con l'unificazione dei servizi pubblici d'interesse generale nell'ambito dell'amministrazione dipartimentale della Senna [22].

Noi non crediamo che in Italia si debba arrivare fino a questo punto, sia perché, come abbiamo già avuto occasione di rilevare, non esistono nel nostro paese casi di agglomerazione urbana che possano anche lontanamente paragonarsi a quella parigina, sia perché la legge comunale e provinciale permette la fusione di più comuni nei casi in cui si presentino legami assai stretti fra circoscrizioni comunali contermini ovvero si manifesti la necessità di unificazione per il migliore funzionamento di importanti servizi pubblici, sia perché a molti servizi d'interesse comune può provvedersi con l'istituzione di appositi consorzi amministrativi.

Rimane però sempre l'opportunità di una direzione unica per quanto riguarda la data di esecuzione delle singole opere e questa potrà essere ottenuta anzitutto indicando nelle norme di attuazione allegate al piano regionale l'ordine di successione di quelle più importanti e affidando inoltre al Prefetto il compito di imporre ai Comuni obbligati al compimento delle singole opere di provvedervi entro un certo termine, sotto minaccia di esecuzione d'ufficio.

Il Prefetto dovrebbe anche essere autorizzato a imporre all'amministrazione provinciale l'esecuzione delle opere di sua competenza e a sollecitare gli organis tatali (Azienda della strada, Amministrazione feroviaria, ecc.) ad attuare i provvedimenti che il piano regionale avesse posto a loro carico e dei quali fosse accertata l'indifferibilità.

Esaminato, come modestamente abbiamo cercato di fare, il problema dei piani regionali sotto tutti gli aspetti, appare evidente che la sua soluzione, mentre risulta ormai improrogabile, in vista di bisogni cui i piani regolatori comunali non possono sufficientemente provvedere, non comprometterà in alcun modo nè gli interessi delle amministrazioni municipali nè quelle dei proprietari di immobili.

Infatti l'introduzione dei piani stessi, in forma obbligatoria o facoltativa, non sarà per recare pesi troppo gravi nè alle une nè agli altri. Al contrario, anzi, è da ritenere che tanto gli enti pubblici quanto i proprietari potranno esserne notevolmente avvantaggiati.

Spariranno per i Comuni molte delle difficoltà, cui essi oggi vanno incontro nel determinare i criteri di estensione dell'abitato e nel procedere alle sistemazioni relative, in quanto queste non risulteranno intralciate da eventuali contrarie iniziative adottate da altri enti o da privati, fuori della cerchia dell'abitato o oltre i limiti della circoscrizione municipale.

Lo Stato e le Provincie non vedranno resa più difficile la loro azione nel campo delle opere pubbliche da provvedimenti delle amministrazioni in contrasto con le direttive poste a fondamento delle opere stesse o da un impiego dei beni privati tale da renderne più onerosa l'attuazione.

I proprietari infine potranno con maggiore tranquillità predisporre l'utilizzazione degl'immobili loro appartenenti, senza la preoccupazione di vedere in un'avvenire più o meno lontano compromessi i risultati della loro attività dall'adozione di iniziative, da parte degli enti pubblici, contrarie alla forma di sfruttamento dei beni stessi a suo tempo prescelta.

Saranno così evitati in molti casi l'abbattimento di costruzioni o la trasformazione di immobili, cui oggi è quasi sempre subordinata l'esecuzione di opere pubbliche, provvedimenti questi che, se sono ampiamente giustificati da un interesse superiore da tutelare, rappresentano tuttavia delle vere e proprie distruzioni di ricchezza e, come tali, hanno una ripercussione non favorevole sull'economia privata e di riflesso su quella della collettività.

[1]Cfr. Ugo Vallecchi: Il problema del traffico in rapporto ai piani regolatori urbani e regionali. Relazione al XIII Congresso Internazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori nel Volume edito dalla «International Federation for Housing and Town Planning», London, 1931.

[2]The American City, Agosto 1931, pag. 3.

[3]Henry Puget: La legislation anglaise en matière d'urbanisme, Bruxelles, 1931.

[4] E' opportuno tener presente che l'ordinamento amministrativo inglese diversifica profondamente dal nostro. Per «autorità locale» si devono intendere i Consigli dei Boroughs, o i Consigli dei distretti urbani o rurali. Solo un centinaio di città costituiscono dei boroughs: per quelle che non lo sono la compilazione e attuazione del Piano Regolatore è compresa nelle attribuzioni del «District», circoscrizione creata sopratutto per provvedere al funzionamento dei servizi della viabilità e dell'igiene.

[5]First Report of the Greater London Regional Plan Committee, Dicembre 1929.

[6] Nel periodo 1927-1930 la Federazione ha intrapreso direttamente la costruzione di 130 km. di strade destinate a facilitare le comunicazioni su un territorio di 4571 kmq.

[7]Alla data del 1° Giugno 1931 l'estensione degli spazi verdi intercomunali, di cui la Federazione ha assicurato il mantenimento, rappresentava più di un terzo della superficie totale del territorio su cui la Federazione stessa esercita la sua giurisdizione.

[8] Mediante questi piani, aventi carattere obbligatorio per le autorità locali, è possibile alla Federazione fissare per una determinata zona lo spazio necessario alla circolazione e le aree rispettivamente destinate alla costruzione di case, a stabilimenti industriali, a pubblici passaggi, ecc.; quando ciò non sia stato fatto attraverso il piano regolatore generale.

[9] «Landesplanung und Verwaltungsgebiete in Ruhrgebiet» (International Housing and Town Planning Bulletin, Maggio 1930, n. 22).

[10] Confr. Francois Latour: Le «plus grand Paris» problème d'autorité, Paris, 1930.

[11]Tale rispetto è stato spinto fino al punto di conservare l'autonomia del Comune di Montmartre, che, come è noto, occupa una delle zone centrali di Parigi.

[12] Cfr. Relazione programma al Capo del Governo sul progetto del Piano regolatore di Roma, redatta dall'Accademico Marcello Piacentini, pubblicata nel volume «Piano Regolatore di Roma - 1931, anno IX», edito dal Governatorato di Roma, pag. 21.

[13] Relazione dell'avv. Luigi Parpagliolo sulla «difesa del paesaggio», Le Vie d'Italia, aprile 1931.

[14] Cfr. E.Fuselli: Il problema del traffico in rapporto ai piani regolatori regionali. Studio pubblicato nel volume delle Relazioni al XIII Congresso Internazionale dell'Abitazione e dei Piani Regolatori.

[15]Il relatore On. De Fels, parlando delle attuali condizioni delle banlieu parigine dichiara: «Cette formidable, cette monstrueuse agglomération humaine, qui n'a pas de précédent dans l'histoire, se développe presqu'au hasard et crèe pour la nation tout entière une très grave menace politique, sociale et économique. «Politiquement, la grande pitié des banlieues conduit trop souvent à la misère et au mécontentement justifié. Ce sont peut-être le seules régions de France qui transforment, par suite des difficultés qu'ils y recontrent, le spetits propriétaires en revoltés contre l'ordre social. Au sein de populations si énervées et si déprimées, les voix des orateurs communistes rencontrent des échos nombreux. Depius dix ans, autour de la capitale, la «ceinture rouge» s'est reserrèe.

«Socialment, dans ces milieux, où les plus élémentaires principes d'hygiène individuelle et familiale et social ne sont pas respectés, la santè publique est menacée. Dans les taudis, dans les cités empuanties par la fumée des usines, la tubercolose et le cancer trouvent un milieu favorable. La mortalité enfantine atteint un coefficient tragique. Par manque d'oeuvres sociales, par pénurie d'écoles des enfants errent abandonnés, sans contrôle, sans surveillance. Faute d'espaces libres, de terrains de de sports organisés, la jeunesse ne peut arriver à son complet développement. L'avenir de la race est en péril.

«Economiquement, les pertes de richesses, les manque à gagner, sont aussi faciles à déterminer. On travaille mal dans le désordre. Une organisation irrationelle pour l'habitation, la circulation, les transports, le zoning entraîne, comme conséquences, une absence de coordination et de liason entre les divers facteurs de la production et un perte de temps énorme. Cette élévation des fraix généraux des entreprises se traduit finalement par une perte de richesse et un affaiblissement dans la concurrence internationale.

«Ainsi, les problemes posés par la région parisienne dépassent largement le cadre des préoccupations locales. Ils intéressent toute la collectivité francaise. Aucun citoyen si làches que soient le sliens qui le rattachent à la capitale, n'à le droit de demeurer indifférent devant une situation qui peut divenir tragique. Mais c'est aussi son intérêt bien entendu, qui lui interdit toute abstension».

[16] Come risulta dal seguente prospetto negli ultimi sessanta anni la popolazione di molti capoluoghi di Provincia si è raddoppiata o triplicata ed in alcuni addirittura più che quadruplicata (di seguito: Città, Censimento 1871, Censimento 1901, Censimento 1931).

Bari 50.524, 77.478, 171.810; Bologna 115.957, 152.009, 246.280; Brescia 38.906, 70.614, 118.839; Catania 84.397, 149.295, 227.765; Cosenza 15.962, 21.545, 36.113; Firenze 167.093, 205.589, 316.286; Genova 130.269, 234.710, 608.096; Grosseto 6.316, 9.599, 23.997; La Spezia 24.127, 65.612, 107. 958; Milano 199.009, 491.460, 992.036; Napoli 448.335, 563.540, 839.390; Roma 244.484, 462.783, 1.008.083; Taranto 27.546, 60.733, 105.946; Terni 15.037, 30.641, 62.741; Torino 252.644, 335.656, 597.260; Venezia 128.901, 151.840, 260.247.

[17]Cfr. Relazione citata della Commissione per il piano regionale de «La più grande Londra», pag. 4.

[18] Siffatta necessità, che sussiste tuttora per alcuni Comuni nei riguardi della stazione ferroviaria, si verificò in passato abbastanza spesso per servizi cittadini importanti, come il gazometro, l'impianto di distribuzione idrica, ecc., e talvolta perfino per il cimitero e la casa comunale.

[19]Fra i vari provvedimenti adottati citiamo l'ampliamento dei comuni di Milano (1873), Siena (1876), Lodi (1877), Pistoia (1877), Brescia (1880).

[20] Sedici capoluoghi di provincia hanno ricevuto notevoli ampliamenti del territorio dal 1923 in poi, come risulta dai seguenti dati statistici: [di seguito Città, Numero di Comuni o Frazioni aggregate, Superficie del territorio annesso in ettari, Popolazione dei comuni annessi al Censimento 1921]. Aquila 9, 42.920, 23.882; Bergamo 4, 1.227, 9.063; Brescia 1, 1.103, 4.426; Cagliari 4, 7.224, 18.117; Campobasso 3, 6.148, 6.431; Genova 16, 18.042, 174.633; Gorizia 1, 1.215, 2.431; Imperia 3, 1.865, 21.896; Messina 1, 807, 1.477; Milano 13, 12.939, 98.288; Napoli 8, 9.855, 92.947; Parma 5, 25.197, 39.267; Reggio Calabria 14, 17.957, 48.703; Rieti 3, 12.190, 8.373; Venezia 5, 13.132, 35.561; Verona 5, 8.319, 24.650; Viterbo 3, 3.607, 6.519.

[21]Cfr. Relazione della Commissione per il piano regionale della «Grande Londra», pag. 5. Cfr. anche «Report prepared for the North West Surrey Joint Town Planning Committee», pag. 49.

[22]Francois Latour, Op. cit., pag. 26.

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