Il manifesto, 29 marzo 2011, p. 16. Locandina della presentazione del libro: P. Ingrao, Indignarsi non basta
La Stampa, 17-21 agostso 2009
un quadro di Magritte
Cit. da Guido Crainz, "la Repubblica", 20 gennaio 2011
"Discorsi", cit. da Giuseppe Allegri, il manifesto, 24 febbraio 2011
il manifesto, 12 febbraio 2011
la Repubblica, 26 luglio 2010
Ragioniamo sulla rendita urbana
contributi di Edoardo Salzano
0. Introduzione
1. La rendita
2. Rendita e potere
Premessa
Quest’anno e il prossimo alla Scuola di eddyburg si parlerà di economia. In modo un po’ diverso da quello che adopera il mainstream urbanistico.
Quest’anno parleremo di rendita, l’anno prossimo di sviluppo. Si tratta, in entrambi i casi, di termini che hanno pesato e pesano molto sulla città e sulla buona urbanistica. Nelle cinque precedenti sessioni della scuola abbiamo ragionato del peso che “rendita” e “sviluppo” hanno avuto per il consumo di suolo (2005), per il paesaggio (2006), per la città pubblica (2007), per la vivibilità (2008), per lo spazio pubblico (2009). Nella sesta e nella settima andremo al cuore della questione.
In questi quattro giorni ci interrogheremo sui meccanismi che provocano la rendita (in particolare quella urbana) e la sua appropriazione privata; sull’evoluzione storica del peso della rendita urbana e sul suo significato odierno; sui modi e gli strumenti capaci di ridurne gli effetti negativi e utilizzarla “a fin di bene”. E l’anno prossimo ragioneremo analogamente su quell’altro termine così spesso presente nell’urbanistica odierna, e nelle sue mistificazioni: “sviluppo”.
Parleremo della rendita (e dello sviluppo) criticamente, come è d’uso in questa scuola. E ne parleremo da urbanisti e da cittadini, non da economisti: anche se valorosi economisti ci aiuteranno a non dire troppe sciocchezze dal punto di vista della loro scienza, e soprattutto ad approfondire alcune prospettive di lavoro.
Per cominciare, con una breve premessa, cercheremo di raccontare in che modo vediamo il mondo dell’economia partendo da una visione dell’uomo. Anche perchè ci muoviamo in un terreno - quello dell’economia - che, negli ultimi decenni è stato poco frequentato dall’urbanistica. A differenza di quanto succedeva mezzo secolo fa, l’urbanistica delle università e delle associazioni, come quella delle amministrazioni, si è fortemente tecnicizzata: si è separata dagli altri saperi, di cui ha utilizzato quasi esclusivamente le technicalities, gli aspetti più biecamente strumentali e tecnologici. Questo ci impone di prendere l’argomento un po’ alla larga.
I saperi
In un mondo abitato da una società giusta i diversi saperi, che concorrono allo sviluppo dell’uomo, dovrebbero essere in equilibrio tra loro e tutti finalizzati, appunto, al miglioramento della condizione umana: la filosofia e l’economia, l’arte e il diritto, la politica e la fisica – e via enumerando. Ciascuno dei saperi corrisponde infatti a un aspetto dell’uomo: una dimensione della sua intelligenza e della sua attività, volte a comprendere e a governare il mondo che lo circonda.
Secondo il buonsenso (e secondo gli studiosi più attenti[1]) oggi non c’è affatto un equilibrio tra i saperi. Uno di essi, la cui formazione si è consolidata nel corso degli ultimi 2-3 secoli, domina oggi sugli altri. Si tratta dell’economia, cui sono di fatto asservite tutte le altre dimensioni. Asservite in un duplice senso: che hanno minor peso sociale, minore considerazione, minore importanza nell’assunzione delle decisioni; nel senso che gli altri saperi sono ridotti al sostegno strumentale dell’economia.
Per di più, negli ultimi decenni la scienza economica ha smarrito, o ha fortemente ridotto, la sua capacità critica nei confronti della realtà. Non tutta la scienza economica, ma certamente quella dominante (l’economia mainstream) è ancora tutta racchiusa all’interno di questo sistema economico dato (il sistema capitalistico, così come si è venuto conformando nel XVIII e XIX secolo e come, da allora, si è venuto a modificare e reincarnare). Non ne critica i dati di fondo, così come l’analisi scientifica li ha individuati del XIX e nel XX secolo, ma analizza il funzionamento nei suoi apparati tecnici nell’impegno a lubrificarne i meccanismi.
Di conseguenza, si può affermare che si è perso un elemento decisivo, anzi basilare, del ragionamento dell’economia: la consapevolezza del suo ruolo ai fini dello sviluppo dell’uomo, intendo il termine sviluppo nel senso di miglioramento della sua condizione esistenziale e accrescimento delle sue capacità di conoscere e governare il mondo.
Il bisogno, il lavoro
Due concetti secondo me essenziali per riannodare correttamente l’economia all’uomo (e alle sue più generali finalità) sono costituiti dal bisogno e dal lavoro. Riporto qui una spiegazione abbastanza chiara di questi due termini, riprendendo alcune formulazioni di Claudio Napoleoni.
«I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di indefinito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici è una circostanza che risulta immediatamente evidente a una considerazione, anche superficiale, della realtà umana, così come essa si presenta in ogni momento dato. […] Ma dovrebbe pure risultare chiaro che i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni momento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni dell’uomo di oggi non sono certo gli stessi dell’uomo di duemila anni fa; e quella disponibilità di beni che nei tempi antichi poteva essere giudicata degna di un ricco, o magari di un sovrano, potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal più umile lavoratore. […] Questo sviluppo dei bisogni si presenta come illimitato, giacchè è il fatto stesso che certi bisogni siano stati soddisfatti ciò che fa nascere nuovi bisogni»[2].
E se l’uomo è riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni più immediati, più elementari, quelli cioè che dipendono dalla sua vita animale, i bisogni della sussistenza, ecco allora che
«vorrà poi soddisfare bisogni più propriamente umani, come quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare sono imposti o suggeriti all’uomo dalla sua vita fisica, dai suoi affetti, dalla necessità di vivere in una comunità, dal suo intelletto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddisfatti. Non c’è limite a questo processo, né si può immaginare l’eventualità che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale quindi l’uomo si possa fermare, cioè, in sostanza, non vivere più»[3].
Il consumo è l’attività economica finalizzata alla soddisfazione del bisogno, la produzione ha a sua volta la sua finalità nel consumo. Lo strumento mediante il quale l’uomo produce è il lavoro, altra dimensione essenziale del processo economico e del progresso dell’uomo. Seguendo anche qui la definizione di Napoleoni, il lavoro
«è, per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine. I fini che l’uomo può proporsi sono potenzialmente infiniti, ma l’uomo, come essere finito, li può perseguire e raggiungere solo in un processo, passando da ogni determinato ordine di fini ad altri ordini superiori, e intanto questo processo è pienamente umano in quanto ogni suo momento è una tappa per il passaggio ai momenti successivi, e mai un punto di arrivo definitivo. Corrispondentemente il lavoro, in condizioni naturali, realizza la sua natura di strumento universale solo passando sistematicamente attraverso una successione di determinazioni particolari, senza mai fissarsi in alcuna, ma anzi stando in ciascuna solo per conseguire fini che, una volta raggiunti, lo metteranno in grado di acquisire una maggiore efficacia come strumento e quindi di servire per fini superiori. In questo processo naturale di sviluppo, c’è dunque un rapporto di azione reciproca tra i fini e il lavoro: è il raggiungimento del fine che arricchisce il lavoro, ed è il lavoro arricchito che consente fini più alti»[4].
Accanto a queste definizioni vorrei aggiungere quelle sul lavoro di Karl Marx, che troverete anche nel Glossario di eddyburg:
«Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere»[5].
«In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita»[6].
In altri termini, il lavoro è lo strumento mediante il quale l’uomo è in grado di comprendere il mondo (cioè tutto ciò che è fuori di sé) e di governarlo (cioè di utilizzarlo ai fini propri e della propria specie.
Il sistema capitalistico
L’analisi di Marx ha avuto un lungo periodo d’oblio. Il suo metodo d’analisi e i fondamenti della sua descrizione del capitalismo sono riemersi negli ultimissimi anni, poiché sono stati considerata da molti come quelli da cui si poteva partire per interpretare in modo corretto la crisi nella quale è precipitato (ancor oggi sembra senza via d’uscita) il sistema capitalistico. Quest’ultimo non è solo un sistema di produzione: è un insieme di meccanismi e strumenti, di valori e di principi che condizione l’intera vita della società. É, al tempo stesso, una ideologia[7] e un dispositivo[8].
Se lo guardiamo criticamente e nel suo sviluppo storico, ha avuto grandissimi meriti e demeriti. Ha reso possibile uno sviluppo incredibile della produzione di beni, materiali e immateriali, utilizzabili per la sussistenza, quindi ha liberato potenzialmente l’umanità intera dalla fame e dalla malattia. Grazie alla dialettica sociale implicita nel conflitto tra capitale e lavoro ha consentito di riversare gran parte dei suoi benefici a strati amplissimi della popolazione (quasi alla totalità nelle regioni direttamente legate ai suoi meccanismi produttivi).
Ricco di elementi positivi, ma almeno altrettanto più ricco di quelli negativi. Tra questi vorrei sottolinearne due costitutivi (che cioè sono emersi ben prima della crisi attuale, e prima ancora che la consapevolezza dei limiti del nostro pianeta facesse apparire quello ecologico). Essi riguardano appunto il bisogno dell’uomo e il suo lavoro.
Nell’analisi marxiana il proprietario dei mezzi di produzione (il capitale) compra la forza lavoro, pagandola un prezzo inferiore al suo valore. Il profitto (cioè il guadagno dell’imprenditore in quanto tale) corrisponde alla differenza tra il valore del lavoro e il suo prezzo, cioè è il risultato dello sfruttamento del lavoro. Il punto essenziale ai fini del nostro ragionamento è il seguente. Riducendo il lavoro a merce, e con questo a mero strumento della produzione del plusvalore (del profitto), il capitalismo interrompe (per dirla ancora con Napoleoni) quel «processo naturale di sviluppo» dell’uomo che nasce dalla stretta interrelazione dinamica tra fini (bisogni) e mezzi (lavoro).
«Con lo sfruttamento, infatti, il lavoro perde la sua natura di strumento universale, in quanto viene rinchiuso entro una cerchia definita e invalicabile di bisogni, quella dei bisogni della vita fisica. Quando quella parte della capacità lavorativa di un uomo che resta ancora disponibile dopo che egli ha soddisfatto i propri bisogni di sussistenza, e che potrebbe perciò essere ordinata alla soddisfazione di bisogni superiori, viene viceversa piegata verso la produzione occorrente per soddisfare i bisogni di sussistenza di un altro uomo, allora il lavoro rimane fissato entro una categoria determinata di bisogni, il rapporto di interazione tra lavoro e fini è spezzato, il processo stesso dello sviluppo umano (almeno come sviluppo interessante la generalità degli uomini) risulta interrotto»[9].
Il lavoro è “alienato”, ossia ordinato a fini diversi da quelli che naturalmente (secondo una determinata antropologia) sono suoi propri. E mano a mano che si è riusciti a soddisfare in modo ampio (all’interno dei mercati rilevanti per il sistema) quei determinati bisogni, ci si è unicamente adoperati a soddisfarli in modi sempre più complicati, ridondanti, “opulenti”.Questa doppia riduzione del bisogno e del lavoro ha la sua radice nel fatto che il sistema economico capitalistico è finalizzato alla massimizzazione del profitto ottenibile dai proprietari dei mezzi di produzione mediante il processo di trasformazione delle merci. Il consumo (e quindi il soddisfacimento del bisogno) è stato considerato come una variabile dipendente: consumare perché si possa produrre sempre di più; e consumare quelle determinate merci che il sistema è in grado di comprendere, quindi di produrre.
La scienza economica
Una definizione di scienza economica che mi sembra abbastanza ampia da abbracciare sia una visione generale dell’economia come attività umana che l’economia data (quella cioè all’interno del sistema capitalistico) è quella dell’economista inglese Lionel Robbins:
«La scienza economica studia le azioni che gli uomini compiono per soddisfare i propri bisogni in quanto tali azioni comportino delle scelte in conseguenza della limitatezza dei mezzi che possono rendersi disponibili per la soddisfazione dei bisogni stessi» [10].
Questa definizione ci fa comprendere che ciascuno di noi fa economia (è “economista”) ogni volta che si pone il problema di decidere a quali fini destinare risorse scarse: se impiegare una quota del suo tempo e una quota del suo reddito per andare alla scuola di eddyburg, o per passare tre giorni al mare, oppure per comprare dieci libri, cinque CD e una bottiglia di whiskey e stare a casa a leggere, sentire musica e bere. Così come fa politica (è “politico”) ciascuno di noi ogni volta che incontra altri e discute con loro come fare per risolvere un problema di carattere generale, che con altri condivide.
Naturalmente come tutti i saperi (e tutte le dimensioni dell’uomo cui i saperi corrispondono) anche l’economia ha le sue parole chiave, i suoi concetti e principi, le sue regole. Questi cambiano tutti a secondo delle diverse fasi della storia del mondo e delle civiltà che convivono e si susseguono. Quelli che adoperiamo oggi si sono sviluppati nell’ambito della nascita e dello sviluppo del sistema capitalistico e dell’analisi di esso. É a essi quindi che mi sono riferito e continuerò a riferirmi, pur tenendo presente che sarebbe un errore grave ritenere che questo sistema sia l’unico possibile.
Beni economici; valore d’uso e valore di scambio; bene e merce
Bene economico è qualsiasi cosa, materiale o immateriale, che sia idonea a soddisfare qualche bisogno e che sia disponibile solo in quantità limitata, ossia sia utile e scarsa (p. 9). Osserviamo che l’utilità può assumere caratteristiche diverse: può essere reale o percepita, può essere tale per uno specifico uomo oppure per una moltitudine, può essere effettiva oppure indotta. E osserviamo che la scarsità (cioè il fatto che quel bene sia disponibile in quantità inferiore a quanto sarebbe richiesto per soddisfare la totalità dei bisogni) può dipendere dalle caratteristiche proprie del bene, oppure dal fatto che esso è reso artificiosamente disponibile in quantità limitata.
Ogni bene può essere considerato in due modi:
- a seconda dell’utilità, ai fini della soddisfazione di un bisogno, che ne può ricavare un determinato soggetto, oppure
- a seconda del vantaggio che ne può ricavare il suo possessore dall’atto di scambiarlo con un altro soggetto.
Prescindendo dalla discussione su che cosa debba intendersi per valore (come esso si formi, da che cosa derivi ecc.) limitiamoci ad annotare che, a seconda di quei due modi, l’economia classica parla di valore d’uso e valore di scambio. Il primo è quella che deriva dall’utilità che ha quel bene, per la sua specifica corrispondenza a un determinato bisogno di un determinato soggetto; il secondo alla capacità di ottenere, in sostituzione di quel determinato bene, un altro qualsiasi bene.
Da questa fondamentale distinzione discende che il valore d’uso è legato ai concetti di individualità (del bene e del soggetto), di specificità, di bisogno, mentre il valore di scambio ai concetti di generalità, di fungibilità, di sostituibilità. Il valore d’uso è una caratteristica propria di quel determinato bene. Il valore di scambio è una caratteristica che accomuna tutti i beni oggetto di valutazione economica. In teoria nessun valore d’uso è riconducibile a un altro, mentre ogni valore di scambio è riconducibile (e riducibile) a moneta. Marx la definisce come l’”equivalente universale” di ogni valore di scambio.
Possono esserci beni che hanno valore d’uso ma non valore di scambio. In generale si tratta di beni che non posseggono la seconda caratteristica attribuita dl bene economico dalla definizione che ne abbiamo dato, cioè la scarsità: così l’aria ha certamente valore d’uso (è utile per un irrinunciabile bisogno di ogni uomo) ma non ha valore di scambio perché è presente in misura superiore al bisogno. Ed è aperta la lotta per conservare in questa condizione anche l’acqua, cui si vuole invece attribuire valore di scambio.
In eddyburg e nella sua scuola abbiamo spesso sottolineato la rilevanza della distinzione tra bene e merce. Abbiamo detto che si tratta di termini che si riferiscono ai medesimi elementi, ma li vedono da punti di vista diversi. Se considero, ad esempio, una pagnotta o una casa o un paio di scarpe dal punto di vista dell’utilità che ne traggo, quell’oggetto è per me un bene; se invece lo considero come qualcosa da scambiare con qualche altra cosa (magari per guadagnarci sopra), allora è giusto definirlo merce. Il bene è destinato all’uso, la merce allo scambio. É in relazione a questa distinzione che gli economisti classici parlavano di “valore d’uso” e “valore di scambio”, grosso modo coincidenti con il valore degli oggetti come beni o come merci. Naturalmente, ci sono beni che non sono merci: l’aria, l’acqua, l’amicizia, la solidarietà, l’informazione sono certamente beni, ma non sono merci.
La scienza economica ha conservato la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio e continua a parlare di entrambe le forme. Fino a qualche tempo fa si sosteneva che in ogni bene deve essere comunque presente un valore d’uso, altrimenti non sarebbe oggetto di scambio e quindi non avrebbe il valore corrispondente a questa virtualità. La cosiddetta finanziarizzazione dell’economia potrebbe portare a dubitare di questa affermazione. A meno che non si voglia considerare valore d’uso quello derivante dal possesso di un maggior potere. Disporre di un elevatissimo valore di scambio di qualcosa che dà potere (come una massa monetaria) potrebbe insomma essere considerato un bisogno. Certamente non nell’ambito di quei “bisogni umani” cui mi sono finora riferito.
Produzione, consumo
Produzione e consumo sono due parole importanti nel linguaggio (e nel procedimento) dell’economia.
«Il consumo è l’uso dei beni economici allo scopo di soddisfare direttamente certi bisogni […] La produzione è il processo mediante il quale il lavoro fa uso di beni economici allo scopo di ottenere con essi altri beni, che o sono beni di consumo o sono beni che, a loro volta, servono a ottenerne altri, lungo una catena che, prima o poi, mette capo a certi beni di consumo»[11].
Ci si può domandare se nel processo economico dato comandi il consumo o comandi la produzione. In linea teorica comanda il consumo, poiché non esiste produzione che non sia finalizzata a un determinato consumo. Ma l’analisi ha rivelato da tempo che in realtà gran parte dei consumi sono indotti dalla produzione. Chi controlla la produzione ha i mezzi per convincere gli uomini a sentire come propri determinati bisogni, o determinati modi di soddisfare bisogni preesistenti. A partire dallo studio di Vance Packard[12] è stato dimostrato che un impegno sempre maggiore è attribuito dai gestori della produzione a convincere il consumatore che ha bisogno di consumare (quindi comprare) determinati prodotti o servizi. L’induzione del consumo ha caratterizzato sempre di più la società moderna, nella quale il rapporto tra bisogni > consumo > produzione si è progressivamente allontanato da quello naturale, cui mi sono riferito all’inizio di questo scritto[13].
Napoleoni osserva che nel sistema capitalistico
«il consumo, anziché essere il fine del processo, è soltanto un vincolo; esso è (si potrebbe dire correttamente) un costo che il sistema deve pagare, perché qualunque sistema, comunque configurato, deve assicurare la riproduzione dei suoi membri. Ma una volta pagato questo costo, una volta osservato questo vincolo, il sistema procede all’espansione della ricchezza come obiettivo avente senso in se stesso»[14]
La riduzione dei bisogni a quelli della sussistenza, l’accumulazione del potere nelle mani dei gestori della produzione, hanno decisamente radicato il bastone del comando nelle mani della produzione e dei suoi gestori. Sono questi oramai che costruiscono (progettano) il consumo che serve. Foggiano il consumatore a immagine e somiglianza del potenziale acquirente dei prodotti che, sempre più abbondati e sempre più superflui, invaderanno il pianeta e le sue discariche.
1.1 Definizioni generali
Reddito: profitto, salario, rendita
Il reddito è il flusso di ricchezza che, in un determinato tempo (un giorno, un mese, un anno…), raggiunge un determinato soggetto. Nel sistema economico-sociale capitalistico le figure sociali sono tre: i capitalisti, i lavoratori, i proprietari fondiari Questi ricevono quote del reddito sotto forma – rispettivamente – di profitto, salario, rendita[15].
La rendita è la quota del reddito che è percepita dal proprietario fondiario per aver messo a disposizione del processo produttivo il terreno sul quale si è svolta l’attività. Il salario è il prezzo della forza lavoro: cioè è la fetta del reddito totale che viene percepita dal lavoratore per il fatto che esso mette a disposizione del capitalista la sua forza lavoro per un determinato tempo. Il profitto (in termini molto schematici) è il guadagno del gestore dell’attività produttiva: è la quota del reddito totale percepita dal capitalista, come differenza tra il prezzo che ottiene in cambio delle merci prodotte e ciò che ha dovuto pagare per comprare le merci adoperate nel processo produttivo (ivi comprese non solo le materie prime e i salari, ma anche i mezzi di produzione: capannoni, macchinari ecc.), nonché la rendita che ha dovuto pagare per ottenere lo spazio necessario alla produzione.
Come è facile comprendere la rendita ha una fondamentale differenza rispetto alle altre forme di reddito: ad essa non corrisponde nessuna attività (né quella lavorativa vera e propria = salario, né quella imprenditiva = profitto) ma solo la proprietà (anzi, il possesso) di un bene scarso e utile per lo svolgimento del processo produttivo. Perciò gli economisti classici attribuiscono alla rendita l’aggettivo di “parassitaria”. Questo non è un attributo che distingue un particolare tipo di rendita da un’altro, ma è un attributo generale della rendita.
É interessante domandarsi in che modo le tre figure sociali del sistema capitalistico impiegano la quota di reddito che spetta a ciascuno di essi. Il lavoratore impiegherà il salario per i bisogni della sussistenza (coprirsi, alimentarsi, procreare, riposarsi, comunicare con gli altri, apprendere, ricrearsi); la sua ambizione sarà di soddisfarli nel modo più completo e qualificato possibile, e successivamente di soddisfare nuovi bisogni che dal soddisfacimento di quelli elementari saranno scaturiti. Il capitalista dovrà impiegare il profitto primariamente per resistere alla concorrenza con gli altri capitalisti, e dunque dovrà investire nel miglioramento del suo apparato produttivo, nell’acquisizione di nuovi mercati, nella riduzione dei costi di produzione, nel miglioramento del prodotto, e nella ricerca finalizzata a questi obiettivi. Il rentier (percettore di rendita) sarà libero di spendere il suo reddito in qualsiasi forma lo desideri.
Il conflitto che necessariamente sorge tra le classi corrispondenti alle diverse figure sociali riguarda la ripartizione delle risorse tra le tre forme di reddito. Si tratta della matrice della “lotta di classe”, che la cultura revisionista ha preteso di cancellare dal vocabolario politico, come se fosse un’invenzione e non il portato inevitabile del sistema economico-sociale.
Rendita fondiaria agraria
Il concetto di rendita è stato analizzato inizialmente in riferimento alla rendita agraria: ossia al prezzo che il proprietario di un terreno poteva ottenere da un imprenditore che volesse usare quel terreno per coltivarlo e venderne i prodotti. Poi si è esteso al reddito proveniente da altre posizioni proprietarie che consentivano di agevolare od ostacolare determinati processi produttivi per la particolare posizione (in senso sia concreto che astratto) che quella proprietà ha in relazione al processo produttivo.
La rendita fondiaria agraria è la forma classica della rendita. È il reddito percepito dal proprietario fondiario (proprietario di terreno) in conseguenza del fatto che egli è proprietario di un bene (la terra) destinabile alla coltivazione o al pascolo.
La rendita fondiaria agraria consente di comprendere facilmente il meccanismo elementare della rendita. Supponiamo distinte le figure del proprietario terriero e del capitalista produttore agricolo. Se la terra complessivamente coltivabile in una determinata area è inferiore a quella che sarebbe necessario coltivare per produrre beni agricoli in quantità tale da soddisfare la domanda, è evidente che una parte di quelli che sarebbero disponibili a diventare produttori agricoli (e avessero i mezzi necessari per diventarlo) non possono invece diventarlo. Il proprietario terriero allora, in virtù del privilegio di essere proprietario di un bene scarso, ha la possibilità di far pagare un prezzo al produttore che voglia utilizzare il suo terreno.
Rendita assoluta e rendita differenziale
Fin qui ci siamo riferiti a beni disponibili in quantità scarse e alla rendita come forma di reddito percepibile per la scarsità generale di quel bene. Questo tipo di rendita è quella che si definisce “rendita assoluta”, e cioè - nel caso della rendita fondiaria - la rendita che sorge nella misura in cui la terra disponibile complessivamente nell’ambito di una determinata area economica è scarsa rispetto al fabbisogno.
Ma esiste anche un’altra forma di rendita, che generalmente si sovrappone e si aggiunge alla prima: è la “rendita differenziale”. Questa deriva dal fatto che, se la terra è generalmente scarsa, e quindi la proprietà di essa rende possibile la percezione di una rendita, esistono tuttavia differenze tra i vari tipi di terra in relazione all’uso che se ne vuole fare. La terra può essere più o meno fertile, più o meno vicina al mercato dei prodotti o ai nodi di trasporto, più o meno soggetta a calamità naturali. Esiste quindi una rendita differenziale, o relativa, che è la quota di reddito che il proprietario percepisce per il fatto che la sua terra, il suo fondo, è più fertile o più sicuro o meglio collocato rispetto agli altri.
In definitiva e riepilogando, ogni bene scarso dà luogo a un reddito, percepibile dal proprietario in quanto tale, il quale nella generalità dei casi è costituito da due parti: una parte. che c’è in ogni rendita, è la rendita assoluta e dipende dalla scarsità generale di quel bene; un’altra parte, che c’è solo in corrispondenza di un sottoinsieme di beni, è la rendita differenziale o relativa, e dipende dalla maggiore appetibilità, o utilizzabilità, di quel particolare bene rispetto ad altri della stessa categoria. È evidente che la rendita totale, cioè la rendita complessiva che il proprietario di un determinato bene percepisce per il fatto d’essere proprietario di un bene scarso, coincide con la rendita assoluta nel caso dei beni meno appetibili (per esempio, la terra meno fertile e più lontana).
1.2 La rendita urbana
che cos’è e come funziona
Che cos’è la rendita urbana
Alla rendita fondiaria agraria si sogliono assimilare altre forme di reddito derivanti dalla proprietà di beni scarsi. Alcune derivano dalla proprietà di altre risorse naturali (le miniere, le acque); altre derivano della proprietà di beni la cui scarsità è artificiale, ossia è provocata. Quando si tratta di beni resi artificiosamente disponibili in quantità più limitata di quella della domanda, molti autori ritengono più corretto parlare di “quasi rendita”, o di “guadagno differenziale”, o di “sovrapprofitto di monopolio”. Ma non c’è, in sede scientifica, alcuna controversia sull’assimilabilità alla rendita fondiaria di una particolare forma di rendita, che soprattutto ci interessa in questa sede: la “rendita fondiaria urbana”.
La rendita fondiaria urbana è il reddito che deriva dalla proprietà del suolo in relazione non suo uso agricolo, ma all’uso edilizio urbano. Suolo agricolo e suolo urbano sono entrambi beni scarsi, ma la loro scarsità è di natura e grado notevolmente differenti. Al limite, praticamente ogni suolo può essere destinato a un uso agricolo; l’utilizzabilità di un suolo a fini agricoli è sostanzialmente un connotato naturale del terreno.
Viceversa, mentre vediamo empiricamente che i suoli urbani sono una porzione limitata, più sostanzialmente osserviamo che essi sono quelli nei quali è avvenuto un processo storico di urbanizzazione: non nel senso che ogni suolo sul quale sia percepibile rendita fondiaria urbana sia stato concretamente investito da un processo di urbanizzazione in senso stretto, sia cioè dotato di strade, fogne, luce ecc., ma nel senso che ognuno di tali suoli è stato posto dalla storia in una collocazione tale da poter essere utilizzato a fini edilizi, e cioè concretamene urbanizzato.
Si può dire che ogni terreno è utilizzabile fini agricoli o silvo-pastorali con un investimento modesto, e al limite nullo; viceversa, sono utilizzabili a fini edilizi (urbani) solo i suoli i quali, con un più o meno modesto investimento di opere di urbanizzazione dirette, può essere collegato all’insieme dell’organizzazione urbana del territorio, ossia a quell’insieme di manufatti - prodotto storico della società - che consentono lo svolgimento delle varie attività della vita sociale.
La scarsità del bene “suolo urbano” non è quindi una scarsità naturale in senso proprio (come quello del suolo in generale), ma una scarsità che deriva dal fatto che solo un numero limitato di suoli è storicamente dotato di quei requisiti che ne rendono possibile, nell’immediato o mediatamente, una utilizzazione edilizia-urbana.
Rendita urbana assoluta, r. u. differenziale
Anche nel caso della rendita fondiaria urbana si può distinguere la componente assoluta dalla componente differenziale. La rendita fondiaria urbana assoluta è quella che deriva al terreno dal fatto che esso è edificabile, (o più esattamente, del fatto che per quel terreno l’utilizzazione edificatoria è conveniente rispetto all’utilizzazione agricola). La rendita differenziale è invece quella che deriva dal fatto che un particolare terreno presenta - ai fini della utilizzazione edilizia - vantaggi e requisiti che lo rendono più appetibile di altri.
La scarsità del terreno urbano è quindi una scarsità manovrabile. Più precisamente, è manovrabile sia la scarsità assoluta del terreno urbano (e quindi il differenziale tra la rendita fondiaria assoluta e la rendita urbana, che è molto elevato) sia la scarsità di terreni caratterizzati da determinati requisiti (quindi la rendita differenziale). E poiché il grado della scarsità influenza la rendita, anche i livelli della rendita sono manovrabili.
Rendita fondiaria urbana e intervento pubblico
Già da queste rapidissime annotazioni si comprende il ruolo che svolge l’intervento pubblico nell’influire sulla rendita fondiaria urbana. Infatti l’intervento pubblico:
a) con i piani urbanistici e, più in generale, con le politiche urbane (repressione dell’abisivismo, controllo dello sprawl, realizzazione delle opere di urbanizzazione ecc.) determina quali e quante aree sono potenzialmente edificabili, e quindi determina il passaggio dalla rendita fondiaria agraria alla rendita fondiaria urbana assoluta;
b) con la realizzazione delle opere di urbanizzazione, con l’inserimento delle aree nei programmi urbanistici e con il rilascio delle concessioni edilizie, rende le aree concretamente edificabili, e quindi incide in un primo modo sulla rendita fondiaria urbana differenziale;
c) con la quantità e la qualità delle opere di urbanizzazione e dei servizi, con la determinazione delle qualità edilizie e urbanistiche delle varie parti degli insediamenti (altezze, distacchi, densità ecc. ) accresce o diminuisce l’appetibilità relativa delle varie aree edificabili, e quindi incide sulla rendita urbana differenziale.
Rapporti tra estensione delle aree urbanizzabili
e livello complessivo della rendita.
Il rapporto tra grado di scarsità e livello della rendita è - nel campo della rendita fondiaria urbana – molo diverso da quanto sia in altri campi. In linea generale, maggiore è la disponibilità di un bene (cioè minore è la sua scarsità) minore è il livello della rendita assoluta. Questo per i beni che sono, in larga misura, fungibili, ossia per i beni nei quali la rendita assoluta è una parte consistente della rendita totale (es., il grano può essere di qualità migliore o peggiore, ma le differenze tra i prezzi del grano migliore e del grano peggiore sono modeste rispetto al prezzo medio; un aumento delle produzione di grano diminuisce quindi i prezzi).
Ma i terreni urbani hanno due caratteristiche. La prima è che la rendita urbana assoluta è molto più elevata della rendita agraria, anche quando questa assume valori elevati. La seconda è a che la rendita differenziale è molto più consistente delle rendita assoluta, e che - nell’attuale situazione delle grandi e medie città - le differenze delle qualità dei terreni sono notevolissime. Si può dire, al limite, che ogni terreno ha una sua qualità differente da tutte le altre.
In una situazione di questo tipo, l’immissione nel mercato di una consistente quantità di nuove aree edificabili determina un innalzamento generale del valore (e quindi della rendita) in tutte le aree che erano già riconosciute edificabili. Questa considerazione è particolarmente importante per valutare sia gli effetti della urbanizzazione abusiva e dello sprawl urbano sia per il dimensionamento dei piani regolatori e i suoi effetti sulla rendita.
Una dimostrazione molto efficace del rapporto tra valore della rendita ed estensione della città fu elaborata dall’economista Siro Lombardini in un suo lavoro sulla riforma urbanistica nel 1963[16]. In sintesi, possiamo immaginare l’andamento dei valori della rendita come una curva crescente a seconda che dalla “periferia” ci si avvicina al “centro” (intendendo per “centro” il luogo che ha ma maggiore appetibilità, e quindi il valore della rendita più alto, e per “periferia” il contrario). Ora il valore del punto più periferico (per definizione: rendita urbana assoluta) è comunque molto più alto di quello della rendita agraria.
Se inseriamo nell’ambito urbano un’ulteriore area, questa sarà meno appetibile della precedente, la quale presenterà a questo punto un valore più alto: Ma quella che giò era più vicina al “centro” conserverà la differenza con la precedente, quindi assumerà un valore più alto di quello che aveva prima. Via via, tutta la curva dei valori della rendita subirà una traslazione verso l’alto. Il valore complessivo della rendita in quel contesto avrà subito un aumento generale.
Rendita immobiliare; altre rendite connesse alla città
Quando si parla di rendita urbana ci si riferisce generalmente alla rendita fondiaria: ossia alla rendita derivante dalla proprietà di un fondo, di un terreno potenzialmente o effettivamente edificabile. Esiste peraltro - ed è distinta dalla rendita fondiaria - un’altra forma di rendita urbana, ed è la rendita edilizia. Per comprendere questa distinzione basterà fare una ipotesi del tutto teorica: l’ipotesi, cioè, di un assetto del regime proprietario tale che le aree edificabili non siano di proprietà privata, ma siano espropriate dalla mano pubblica e cedute in uso a chi voglia utilizzarle a un prezzo uguale a zero. In questo caso, evidentemente, non c’è più rendita fondiaria urbana. (Più precisamente si dovrebbe dire che il proprietario, in questo caso pubblico, rinuncia alla rendita che le logica del sistema gli consentirebbe di percepire).
Ma chi ha ricevuto in uso il terreno può costruirvi a utilizzare il costruito a suo piacimento. Ci troveremo perciò di fronte a questa situazione: avremo una nuova categoria di beni - anch’essi scarsi e anch’essi in appartenenza a qualcuno a titolo proprietario. Anche qui, dunque, avremo un meccanismo di rendita: con una componente assoluta, dipendente dalla scarsità generale di edifici rispetto al fabbisogno, e una rendita differenziale, nella quale entrano quelle stesse componenti di differenziazione qualitativa e d’uso tra i vari edifici che avevamo già visto nel caso dei terreni urbani.
Possiamo dire che, nel corso del processo di urbanizzazione ed edificazione, la rendita fondiaria viene trasformata in rendita edilizia. L’insieme dell’una e dell’altra la chiameremo “rendita immobiliare”, la quale comprende quindi sia la rendita fondiaria urbana che la rendita edilizia.
La rendita immobiliare non è l’unica forma di rendita offerta dalla città (e, più in generale, dal territorio urbanizzato) ai privilegiati che si trovino un una posizione tale da poter esigere una forma di pedaggio.
Pensiamo alla gestione dei servizi urbani, per loro natura tendenzialmente monopolistici (trasporti, acqua, elettricità, gas, informazioni). Pensiamo alla realizzazione delle opere pubbliche (controllo degli appalti e relativi sovraprofitti).
1.3. Gli effetti della rendita
Gli effetti sul sistema economico-sociale
Se teniamo presente che il reddito totale prodotto in un determinato periodo è un dato, e che esso va distribuito tra tre soggetti (tra tre figure economiche) è evidente che maggiore è la quota che va alla rendita, minore è quella che dovranno dividersi profitti e salari (cioè capitalisti e lavoratori). Le conseguenze di una crescita eccessiva della rendita in generale (compresa la rendita immobiliare) sono una riduzione dei salari e/o una riduzione dei profitti. Nel primo caso peggiorano le condizioni di vita dei lavoratori (quindi della grande maggioranza degli abitanti), nel secondo caso si riduce l’attività di ricerca e di progresso della produzione, quindi perde competitività l’area dove questo avviene. Lo avevano compreso bene i protagonisti del “capitalismo avanzato” in Italia negli anni Sessanta e Settata del secolo scorso, quando scesero in campo a favore di una riforma urbanistica che riducesse il peso della rendita immobiliare.
Nell'autunno del 1972 poi - con una intervista al settimanale Espresso che fece clamore, e successivamente in una conferenza-stampa organizzata all'inaugurazione del Salone internazionale dell'auto e con un documento pubblico mandato al presidente del Consiglio - i due fratelli Agnelli, padroni della Fiat, entrarono direttamente nell'agone, nel quadro dell'iniziativa da essi stessi promossa per provocare un mutamento di linea e di scenario al vertice della Confindustria (Gianni Agnelli venne poi eletto presidente dell'organizzazione il 30 maggio 1974). Afferma Agnelli:
«Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire (...) Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza» [17].
L'iniziativa degli Agnelli suscitò larga eco sui giornali e nella stampa; provocò scompiglio ai vertici dell'organizzazione degli industriali. Essa era certamente mossa da motivi anche strumentali; ma è certo che si collocava in una atmosfera più che pronta a recepirla, come è altrettanto certo che a rileggere oggi alcune delle formulazioni e motivazioni di allora, sembra quasi di esser discesi su di un altro pianeta. Scrive ad esempio nel 1973 un giornale molto vicino agli industriali, pur dimostrando un certo stupore:
«I Giovani Industriali credono di avere le carte in regola e parlano con estrema chiarezza. Per loro, ad esempio, non c'è alcun dubbio che per salvare il profitto, inteso come giusta remunerazione dell'attività imprenditoriale e come misura dell'efficienza produttiva, occorre mollare e gettare in mare le rendite parassitarie e speculative ed anche, al, limite, le classi ad esse più tradizionalmente abbarbicate. (...) Requiem per la rendita fondiaria potrebbe ben intitolarsi la relazione presentata dal prof. Bastianini, assistente al Politecnico di Torino e - mi dicono - liberale. Egli ha in effetti difeso il "diritto di superficie" ("concessione a tempo" l'ha chiamato, definendola anche "una scelta di civiltà che dobbiamo compiere a favore delle generazioni future") contro il diritto di proprietà. Bastianini ha anche compiuto una stima del costo globale della rendita urbana in Italia rilevando che, nel 1972, in rapporto ad un valore aggiunto nel settore delle abitazioni risultato pari a 3,037 miliardi di lire, la quota pagata alla rendita è stata di 750-800 miliardi» [18].
In quegli anni il capitalismo industriale italiano tentava anche altre strade. In collaborazione con l’industria di stato (IRI) e con le cooperative si proponeva come promotore, pianificatore e gestore di interventi urbani complessi (“Sistemi urbani”) nei quali la posta economica in gioco era, oltre al profitto, l’insieme delle rendite urbane[19]. La scelta di privilegiare nettamente la rendita avvenne più tardi. Ma di questo parleremo più avanti, e se ne tratterà più ampiamente nella giornata di domani.
La rendita e la città
C’è un’intera letteratura sugli effetti della rendita (anzi, dell’appropriazione privata della crescente rendita immobiliare) sulla città, sia nella capacità di governarla a fini diversi da quello dell’ulteriore accrescimento della rendita, sia nella sua vivibilità (in termini di funzionalità, equità, bellezza).
Mi limiterò a citare pochi brani di Hans Bernoulli. La critica dell’autore di La città e il suolo urbano parte dal racconto di ciò che avvenne quando – nello sfaldarsi della civiltà medievale e nell’arretrare dal diritto comune al diritto individuale – vennero aboliti i vincoli, dominicali e regolamentari, sui terreni urbani: quando il suolo urbano fu suddiviso, e da bene divenne merce.
«Il diritto fondiario della nobiltà venne meno, come anche la maggior parte dei diritti di proprietà del comune. […] Il monopolio del suolo passò alla proprietà privata e la proprietà privata divenne un bene commerciabile»[20].
Il suolo urbano non fu più la base della casa della società, il fondamento del suo ordine e della sua bellezza: divenne una merce come quelle che le fabbriche producevano a getto continuo.
«La terra, sfuggita di mano alla comunità quasi per errore e ora proprietà di contadini avveduti e cittadini oculati, era destinata a divenire in breve un vero e proprio oggetto di speculazione. […] La città si trovò quindi ad una svolta: il diritto fondiario di proprietà influì sulla sua struttura e sulle sue costruzioni. L’età moderna, risvegliatasi all’improvviso in piena industrializzazione offriva al proprietario quasi illimitate possibilità di speculazione sul proprio terreno. Ognuno poteva vendere il proprio terreno al più alto prezzo raggiungibile sul mercato. […] Questa speculazione venne metodicamente condotta dalle società fondiarie. La massima rendita si ottiene col massimo sfruttamento del suolo; quindi, in ragione della possibilità di costruire su un dato lotto cinque piani piuttosto che tre, oppure tre quarti dell'area piuttosto che un quarto. determina diversità notevoli di rendita e quindi diversità notevoli del prezzo di vendita del lotto. Come la speculazione sui terreni aveva ottenuto un frazionamento tale da moltiplicare gli angoli fabbricativi, cosi è riuscita ad ottenere un progressivo aumento delle altezze di fabbricazione» [21].
Come distrugge la bellezza, così il nuovo regime proprietario distrugge la funzionalità. La città è una realtà dinamica. Mutano le esigenze che essa deve soddisfare, mutano le possibilità di soddisfarle: tutte, però comportano l’uso di spazio, di suolo urbano. Se la città fosse rimasta, o fosse divenuta, proprietaria del suolo avrebbe avuto campo libero, ora invece non è più così. Dopo la privatizzazione del suolo urbano accade che
«quando la città, per una miglioria che deve servire a tutti, per esempio un nuovo parco, un campo sportivo, una caserma per pompieri, un cimitero, deve rivolgersi al proprietario privato del terreno o dell’edificio, questi si mette sorridendo a disposizione della comunità, ma dà gentilmente a comprendere che l’affare sarà un po' costoso. Comincia un contrattare, un mercanteggiare che non ha mai fine; tanto più l’area conviene per lo scopo che la città prefigge, tanto più si eleva il prezzo che il proprietà richiede. Spesso il rappresentante del Comune se ne deve andare scuotendo deluso le spalle. La ricerca del terre per molti edifici pubblici diventa spesso una faccenda dolorosa, poiché con ritagli casuali di terreno non si possono costruire né un teatro, né un museo, né un municipio […] E per questa ragione che le nostre città difettano di ampie località libere per il riposo delle persone anziane e di ampi campi di gioco per i bambini. L'alto prezzo delle aree spaventa tutti»[22].
2.1. Il ruolo della politica
Rendita e governo del territorio
La necessità di sottrarre le decisioni sull’organizzazione del territorio allo spontaneismo concorrenziale proprio del sistema economico-sociale del capitalismo è nato agli albori dell’affermazione storica di quel sistema. Le leggi che consentivano di costruire strade, ferrovie e canali vincendo gli ostacoli e riducendo le pretese economiche dei proprietari fondiari nascono in Europa già alla fine del XVIII secolo. Il piano regolatore di New York (1811) può essere considerato il primo dell’età contemporanea. Il prelievo fiscale del plusvalore fondiario (cioè dell’aumento della rendita provocato dalle opere di urbanizzazione) fu uno degli strumenti impiegati dalle borghesia ottocentesche per pagare gli investimenti pubblici.
In Italia le prime leggi che aiutano a contenere gli effetti dell’appropriazione privata delle crescenti rendite urbane sono tra le prime approvate nel quadro dell’unità nazionale. Domani Piero Bevilacqua e Vezio De Lucia ve ne parleranno in un quadro storico. Qui vogliamo parlarvi dei principali strumenti adoperati.
Se li esaminiamo con attenzione vediamo che sono tutti ispirati ad alcuni principi. Ne voglio sottolineare due.
1) L’esigenza di regolare con l’autorità pubblica l’urbanizzazione (pianificazione delle città, realizzazione delle reti di trasporti e altre infrastrutture ecc.) deve comporsi con la tutela della proprietà privata ma, in caso di contrasto, la prima esigenza deve prevalere anche autoritativamente, compensando il proprietario con un indennizzo.
2) Il gradiente di valore che ha un terreno quando da agricolo diventa urbano (quando è compreso in un ambito di edificabilità, oppure quando è reso più facilmente collegato alla rete delle città mediante le infrastrutture di trasporto), è il risultato di decisioni e investimenti pubblici.
Da questi principi derivano alcune conseguenze.
1) Tra gli strumenti dell’azione pubblica deve essere prevista l’espropriazione, come mezzo per vincere la volontà dei proprietari che ostacolano l’acquisizione delle aree necessarie per gli interventi pubblici. Questi possono prevalere sugli interessi privati solo se sono correttamente motivati con un interesse pubblico.
2) Al proprietario deve essere riconosciuto un’indennità che compensi la riduzione di valore derivante dalla mutilazione della sua proprietà, e cioè dal minor reddito che potrà percepire rispetto alla precedente utilizzazione (in generale agricola).
3) Dal reddito del proprietario può essere prelevato, in tutto o in parte, il maggior valore che la sua proprietà (o la parte residua di essa) ottiene grazie alla decisione o all’investimento pubblico.
Naturalmente, accanto a questi principi e alle pratiche conseguenti si affiancano tesi più determinate, che portano a maggiore coerenza il principio dell’appartenenza pubblica del gradiente della rendita urbana e quello del carattere parassitario della rendita, e quindi del danno allo sviluppo capitalistico (allo sviluppo della ricchezza nazionale) determinato dall’appropriazione privata della rendita fondiaria. É, quest’ultimo, il caso di un singolare pensatore nordamericano, Henry George[23], le cui teorie ebbero largo influsso sia negli USA che in Europa e ispirarono protagonisti del dibattito urbanistico europeo come Hans Bernoulli.
I tentativi, nel corso della storia
La politica italiana ha vissuto diverse fasi nel rapporto con la rendita urbana. Domani se ne parlerà a lungo. Oggi vogliamo solo accennarvi, per collocare in un quadro comprensibile l’ultima parte di questo intervento, nel quale si cercherà di comprendere ciò che sta succedendo oggi, ed è molto diverso da tutto quello che è stato prima.
I principi ora illustrati, e le conseguenti pratiche, sono quelle che i Parlamenti e i Governi italiani hanno sostanzialmente seguito nelle fasi della formazione e del consolidamento dello stato prefascista, con oscillazioni non molto sensibili tra il periodo costitutivo del nuovo stato (Destra storica), sia in quelli successivi (Sinistra storica e periodo giolittiano). Rispetto ad altri stati si può dire che in Italia abbia prevalso un potere forte della proprietà (rendita) rispetto all’impresa (profitto), in virtù sia della debole presenza del potere statale e dell’amministrazione pubblica (a differenza della Gran Bretagna e della Francia), sia dalla forza conservata dalla proprietà feudale nel processo di unificazione (a differenza che negli altri paesi del centro e nord Europa) grazie al compromesso storico con la borghesia industriale.
Come scrive Luigi Scano
«non pare illegittimo riconoscere nel legislatore del 1865, operante in un contesto, culturale e giuridico, ma anche, e soprattutto, sociale ed economico, tale da motivare, se non da giustificare, il riferimento ai valori di mercato per la determinazione delle indennità espropriative, l'embrionale coscienza di un concetto che fu poi chiaramente espresso nel Parlamento Italiano nel 1907, discutendosi la legge Giolitti: il concetto per cui non è ammissibile riconoscere ai proprietari dei beni immobili gli aumenti di valore del bene che non sono prodotti né dal capitale né dal lavoro del proprietario, ma che sono dovuti al capitale e al lavoro della collettività»[24].
Le legge Giolitti del 11 luglio1907, n. 502 “Provvedimenti per la città di Roma” prescrive che per le aree fabbricabili comprese nel perimetro del nuovo piano regolatore il comune è autorizzato a espropriare «a un prezzo corrispondente al valore dichiarata dal proprietario delle aree agii effetti della tassa sulle aree stesse», tassa che a sua volta colpisce quella parte di valore capitale che ecceda ciò ch'è rappresentato dalla rendita della coltura agraria colpita da imposta fondiaria»;[25]
Una fase particolare e molto poco studiata a questo proposito è quella fascista, nella quale la prevalenza del potere pubblico statale sulla proprietà fondiaria diede luogo come vedremo domattina, a pratiche largamente basate sull’espropriazione con indennità di moderata entità, e a una legge urbanistica notevolmente avanzata.
Una fase di grande rilievo fu quella degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso in cui, se non si giunse a provvedimenti radicali e completi di riforma del settore, si approdo a soluzioni che rendevano in larga misura indipendenti dal prevalere degli interessi dei proprietari e dal peso economico della rendita urbana sia la realizzazione di opere pubbliche di notevole entità e diffusione (non solo infrastrutture, ma “standard urbanistici”, sia la realizzazione di nuove urbanizzazioni residenziali, industriali e commerciali. Anche di questo si parlerà domani e dopo domani.
2.2 La rendita oggi
La rendita nell’età del neoliberalismo e della globalizzazione
La riflessione della Scuola di edddyburg sui cambiamenti intervenuti, nella città e nei principi e strumenti del suo governo, nella fase della globalizzazione - o del turbocapitalismo, o del neoliberismo – sono aperte da tempo. Un recente scritto di Walter Tocci affronta proprio il tema di questa sessione della Scuola riferendolo alla fase attuale della società[26]. L’autore parte dalla considerazione che con la crisi che, a partire dagli USA, ha scosso il mondo:
«Sono cadute insieme le due forme di rendita, quella finanziaria e quella immobiliare, come erano cresciute insieme nel decennio passato, rivelando un indissolubile legame strutturale e, forse più, una medesima visione del mondo. La condivisione di ascesa e declino mette in luce la natura anfibia di questa economia di carta e di mattone, capace di librarsi su quanto di più etereo e, d’altro canto, saldamente ancorata a quanto di più solido»[27].
«L’immobiliare – continua Tocci - è stato il proseguimento della finanziarizzazione con altri mezzi e mai il rapporto era stato così organico tra questi due modi di formazione della ricchezza. Da questa totalità discende una forte capacità di organizzare la società e di modificare lo spazio. Così, la rendita, a dispetto della scarsa attenzione ricevuta dalla pubblicistica corrente, è stata una forza che ha agito in profondità modellando le strutture produttive, gli assetti territoriali, l'immaginario collettivo e i comportamenti dei diversi attori politici, tecnici ed economici».
La rendita urbana ha svolto in passato due funzioni ed ha assunto due caratteristiche diverse, che Tocci definisce rispettivamente della rendita marginale e della rendita differenziale[28].
«Nella fase di espansione urbana che va dalla ricostruzione del dopoguerra fino agli anni settanta ha prevalso la rendita marginale prodotta dal progressivo ampliamento dei tessuti edilizi: la decisione pubblica di spostare i confini dell’edificato valorizzava i terreni limitrofi sottraendoli all’uso agricolo. Il salto era enorme e corrispondeva a una mutazione di specie della valorizzazione che passava dagli irrisori redditi dominicali al florido mercato immobiliare. La finanza entrava nel processo nel modo semplice e tutto sommato subalterno del credito bancario, che consentiva al costruttore di sopportare i costi di costruzione per poi incamerare con la vendita degli immobili una rendita di gran lunga superiore ad un ordinario profitto industriale. Gli attori protagonisti del processo erano pochi e ben definiti: il politico e il costruttore prendevano le decisioni e il tecnico svolgeva una funzione servente, ma in alcuni casi anche di coscienza critica del processo».
Più tardi, negli anni Ottanta, con la “rivoluzione terziaria” cambiò il verso della trasformazione.
«Si tornò a operare all’interno della città per rispondere ai bisogni localizzativi e di prestigio delle nuove funzioni terziarie, utilizzando gli immobili liberati nel contempo dalla dismissione industriale e dalle funzioni pubbliche (caserme, ferrovie, poste, uffici amministrativi ecc.). Prevalse quindi la cosiddetta rendita differenziale, termine […] che indica la valorizzazione di immobili interni alla città, dotati di vantaggi posizionali diversi tra loro e comunque superiori a quelli marginali. La trasformazione divenne molto più complessa e meno decifrabile per quanto riguarda sia gli attori sia le modalità. Tipicamente la decisione pubblica consisteva nel modificare la destinazione d’uso di immobili già esistenti […] Il capitalismo industriale, che fino a quel momento aveva guardato con aristocratica diffidenza l’imprenditoria del mattone, dovette fare i conti con le regole della trasformazione per portare a termine il riuso dei grandi impianti produttivi, dal Lingotto alla Bicocca per citare due casi emblematici».
Ed ecco il punto:
«La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più».
All’inizio degli anni Novanta la bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande e si aprì la fase della “rendita pura”. Conviene soffermarvisi.
La fase della “rendita pura”
Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con i livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si dispone di un nuovo strumento: il fondo immobiliare introdotto proprio in quel periodo in Italia, seppure in ritardo rispetto agli altri paesi.
Tocci rileva che
«il fondo immobiliare consente di raggruppare in un portafoglio unico le proprietà di una vasta gamma di immobili e di coinvolgere anche i piccoli risparmiatori su operazioni altrimenti fuori dalla loro portata, godendo altresì di agevolazioni fiscali negate ai comuni cittadini. Con il fondo la valorizzazione [immobiliare] approda a una rendita immobiliare pura, distante dalle concrete condizioni fisiche della trasformazione edilizia e connessa alle tendenze macroeconomiche determinate dalla finanziarizzazione. Allo stesso tempo, però, il fondo immobiliare consente una maggiore opacità delle operazioni rispetto alla normale gestione finanziaria».
Il “fondo immobiliare” è in sostanza la forma nuova, istituzionalizzata, del “blocco edilizio” analizzato da Valentino Parlato nel 1970 [29]
Vauro, "il manifesto", 29 dicembre 2010
L'Unità, 16 dicembre 2010
Altan, "La Repubblica", 9 dicembre 2010
"Il manifesto", 1 dicembre 2010
Citato da Salvatore Settis, "Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l´ambiente contro il degrado civile" (Einaudi, pagg. 326, euro 19). L'icona è tratta da La morte di Seneca, di Rubens.
Passione civile, consapevolezza del valore del bene comune costituito dal paesaggio, rispetto della Costituzione e delle priorità che essa stabilisce: questi sono i presupposti del recentissimo Primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica di Italia Nostra, curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi, vicedirettori di questo sito oltre che consiglieri nazionali dell’associazione. Sarà utile ragionare sui moltissimi spunti che ne emergono, ma voglio subito sottolinearne alcuni elementi.
Il rapporto colma un vuoto informativo e di analisi che risale almeno alla fine degli anni Ottanta: dalla legge Galasso in poi, infatti, nulla è stato fatto da chi avrebbe dovuto per verificare gli esiti di quella legge in termini di efficacia del governo del territorio; e nulla, a maggior ragione, si conosce, a quasi tre anni dall’approvazione del Codice dei beni culturali sull’efficacia del nostro sistema della tutela del paesaggio.
Esso costituisce il primo organico tentativo di uscire da questa situazione di omertà informativa. Questo obiettivo di per sè, oltre a costituire un sicuro pregio di questa iniziativa, evidenzia quella che rimane una delle tragiche carenze del nostro apparato normativo. Le leggi spesso sono eccellenti, come del resto lo stesso Codice, sotto il profilo della costruzione giuridica, ma incapace di presidiare la propria efficacia attraverso i necessari strumenti: tra questi, un sistema di monitoraggi indipendenti. A chi ricorda il passato, lo stesso avvenne per la legge dell’equo canone, che completò nel 1978 il disegno dell’intervento pubblico nel settore della casa, e che avrebbe dovuto essere sottoposto a una verifica annuale da parte del governo e del parlamento nazionali.
“Elusione” è il termine che meglio di ogni altro sintetizza la vicenda della pianificazione paesaggistica in Italia. Salvo rarissime eccezioni (il rapporto non ne enumera più di due) le regioni o non si sono dotate affatto di piani paesaggistici, oppure si sono limitate a piani a carattere prevalentemente descrittivo, rinunciando alle proprie competenze di programmazione su area vasta per demandarle ai livelli amministrativi inferiori, praticamente senza controlli. Anche quelle (Emilia Romagna, Marche, Umbria) che si erano dotate, in adeguamento alla Galasso, di una pianificazione efficace e prescrittiva, ne hanno via via “ammorbidito” l’impianto, talora fino a stravolgerlo.
Né le cose sono andate meglio per quanto riguarda l’altro attore coinvolto, lo Stato. Questo, attraverso il Ministero beni culturali, era chiamato dal Codice a un rilancio della pianificazione che, per la prima volta nella storia legislativa italiana, coinvolgeva direttamente nel governo del territorio i rappresentanti della tutela. Eppure, come il rapporto testimonia, è questo attore che sta sostanzialmente affossando l’operazione di copianificazione. Ciò accade sia per un’intrinseca debolezza politica e culturale del ministero, certamente non adeguato a svolgere i compiti cui lo chiamava il Codice, ma soprattutto perchè (come testimoniano gli ultimi documenti ufficiali richiamati nel rapporto) è stata dichiaratamente ribaltata la gerarchia costituzionale sancita dall’art. 9, che proclamava la prevalenza delle ragioni delle tutela del patrimonio culturale e del paesaggio su qualsiasi altra: ha prevalso invece il “contemperamento” di tali ragioni con quelle dello “sviluppo”, e di quel particolare “sviluppo” teso alla devastazione del territorio..
Il guaio è che su questa di elusione eversiva, i cui passaggi sono lucidamente indicati nel rapporto, Stato e regioni stanno trovando una convergenza viziosa che mina la pianificazione del paesaggio in Italia non solo nei tempi e nei metodi, ma negli stessi contenuti.
Il documento di Italia nostra non è solo una denuncia pessimistica: come affermano gli autori, indicando alcuni percorsi sui quali lavorare, “la vicenda della copianificazione paesaggistica non può essere abbandonata nel novero delle battaglie perdute”. Anche perché la devastazione raggiunge livelli incredibili. Mentre rileggo queste pagine, giungono le notizie di una vera e propria guerra in Campania. Drammatiche, ancor più delle immagini degli scontri, le dichiarazioni delle popolazioni di Terzigno e dei paesi vicini: “Essere civili non serve”. A quei cittadini che lottano per preservare il loro territorio, sconvolto anche perchè Stato ed enti locali assieme hanno, per primi, tradito l’art. 9 della Costituzione, si rivolge innanzi tutto l’appello contenuto in questo primo rapporto sulla pianificazione paesaggistica: sasso di civiltà lanciato contro l’illegalità che ci governa.
Il mio compito in questa giornata è delineare un “ritratto” di Luigi Scano, l’uomo del quale ci proponiamo di utilizzare l’insegnamento e di proseguire l’azione anche utilizzando le carte che ci ha lasciato, e che mi sembra trovino la sede ideale qui, nella bella Casa della memoria e della storia dell’”Istituto veneto della storia della resistenza e della città contemporanea”, dove Mario Isnenghi e Marco Borghi, presidente e direttore dell’Iveser, li hanno accolti scongiurandone la dispersione.
Per cercare alcuni lineamenti della sua persona non affidandomi solo ai miei ricordi, ho riletto ciò che è stato detto e scritto su Gigi, dopo la sua morte, e che è raccolto in eddyburg. Parto da un pensiero di Montesquieu, che credo proprio Gigi mi abbia segnalato: «La virtù politica è una rinuncia a se stessi, ciò che è sempre molto faticoso da sopportare. Questa virtù consiste nella preferenza continua dell'interesse pubblico agli interessi propri». Con questa frase ricordammo Gigi su eddyburg, all’indomani della sua scomparsa.
Antonio Casellati, lo stesso triste giorno, nell’esprimere la sua commozione affermava che quella di Gigi era stata «una vita per la politica intesa nel suo significato più puro, dedicata disinteressatamente alla polis come servizio laico alla comunità civile».
Anche Vezio De Lucia, nella breve orazione che la commozione gli impedì di esporre al funerale, ricordava la «sua prepotente passione politica», tradottasi nella «collaborazione alle associazioni culturali, ai movimenti, a Italia nostra, al No Mose, al comitato di Fiesole», e sottolineava come Scano fosse «disposto a ogni rinuncia, sacrificando all’interesse pubblico le proprie più elementari necessità» e commentava: «è morto povero».
Anna Renzini, nell’incontro nell’aula consiliare del Comune di Venezia dedicato al ricordo di Gigi poche settimane dopo la sua morte, riferendosi alla scomparsa dalla politica della «dimensione della scelta e dell’impegno», per ridursi alla frivolezza e all’indecenza, sospettava che «l’allontanarsi di Gigi, ma non solo di Gigi, dalla politica abbia probabilmente a che fare con qualcosa del genere». E poiché per Gigi «la politica e la vita in qualche modo coincidevano», si chiedeva «se qualcosa del genere non abbia a che fare con il progressivo allontanamento di Gigi anche dalla vita».
In ciascuno di noi c’è una dimensione che – nei casi migliori - non prevarica sulle altre, non le schiaccia e le annulla, ma le guida e ispira. Questa era per Gigi la politica.
Una dimensione politica molto distante da quella che oggi prevale. Basata, in Gigi, sulla verità, non sul successo. Sulla visione ampia, non sulla miopia. Sulla ragione, non sull’emozione. Sul sacrificio personale, non sulla gratificazione.
Era ovviamente consapevole che la politica doveva condurre a risultati concreti; di conseguenza aborriva una politica affidata ai “profeti disarmati”, ma sapeva che i compromessi necessari non possono negare i principi per i quali si combatte né appannarli. Così come sapeva che le conquiste parziali che si raggiungevano dovevano essere viste e gestite non come traguardi sui quali arrestarsi, ma come tappe in un percorso. Una visione riformatrice, potremmo dire, e non “riformista”.
Esemplare a questo proposito fu il primo “compromesso” sul quale ci incontrammo. Si trattava dell’approvazione dei cosiddetti “piani particolareggiato” della città storica di Venezia. Erano piani estremamente difettosi e pieni di errori, che peraltro si volevano a ogni costo approvare (correva l’anno 1974), perché solo con la loro approvazione si sarebbero potuti ottenere i finanziamenti della legge speciale di Venezia e avviare così il risanamento della città. Il suo partito, il PRI, era nettamente contrario, per ottime ragioni. E infatti, nel passaggio da una maggioranza di centro a una maggioranza di sinistra il PRI, che apparteneva a quest’area, si pose all’opposizione. Ma Gigi – che di quel partito era un leader e il rappresentante in Comune - lavorò tenacemente alle controdeduzioni che avrebbero dovuto concludere l’iter di quei piani e ne approvò il risultato.
In effetti non solo si era riusciti a introdurre modifiche significative, che cancellavano numerosi errori, ma si erano poste alcune premesse par la formazione di uno strumento di pianificazione più maturo ed efficace, si era cominciato a definirne criteri, metodi e strumenti.
Si era insomma iniziato il percorso della formazione di quel piano regolatore della città storica di Venezia, definitivamente approvato nel 1990, di cui a Gigi e a Edgarda Feletti spetta la parte largamente più consistente di paternità. Quel piano che fu il coronamento del pluridecennale lavoro di Gigi per la città storica di Venezia, e insieme un robusto contributo all’innovazione della pianificazione urbanistica. Ma su questo si tornerà più avanti.
L’altra dimensione che dominava negli interessi, nell’azione e nelle competenze di Gigi era del resto l’urbanistica. Credo che la passione per questo campo venisse a Gigi dalla consapevolezza dell’importanza del territorio e della sua organizzazione nella vita degli uomini e della società, dalla constatazione dei danni che al territorio e alle sue qualità apportavano le azioni sconsiderate degli uomini, dalla necessità di un governo del territorio che avesse nella pianificazione urbanistica il suo strumento essenziale.
Attenzione per il territorio, per la sua consistenza e forma fisica, la sua natura di habitat dell’uomo, in ragione della ricchezza che esso nasconde e rivela, dei rischi e i guasti che lo minacciano; e insieme attenzione per le istituzioni, per la capacità degli uomini di foggiare e utilizzare gli strumenti mediante quali il territorio e la società che lo abita vengono governati. Quindi, di nuovo, rinvio alla politica.
La sua formazione giuridica era il trait d‘union pratico tra quelle due competenze: la politica e l’urbanistica. Le regole, che il diritto aiuta a formulare, sono infatti il modo nel quale l’urbanistica diventa efficace in un mondo – quale quello che viviamo - dominato dalla dialettica tra il privatismo proprietario e l’interesse comune, nella quale il primo è divenuto di gran lunga prevalente. E la formazione e gestione delle regole sono amministrate dalla politica.
Un politico davvero singolare, Gigi Scano, se lo confrontiamo con quelli di adesso. Un politico che studia, che approfondisce le questioni nelle quali è chiamato a operare. Mi veniva di pensare a Gigi e a quelli che erano politici come lui quando, qualche giorno fa, ho letto (e ho riportato su eddyburg) questa frase di Achille Occhetto: «Quello che rimpiango più di tutto del PCI è l´umiltà, l´impegno, il coraggio di studiare, studiare e ancora studiare …». Altri tempi
Gigi offriva le sue competenze a chi prometteva di utilizzarle: e moltissimi sono quelli che – come amministratori o come legislatori, ai vari livelli del governo della Repubblica - le hanno utilizzate. Questa sua disponibilità al servizio pubblico gli procurò anche battute che, sebbene non gli abbiano nuociuto, lo infastidivano. Come quando Massimo Cacciari, riferendosi alla sua continua attività di sostegno culturale al governo cittadino egemonizzato da Gianni Pellicani, definiva il piccolo partito di Gigi, il PRI veneziano, «il centro studio del PCI». Come gli procurò qualche fastidio qualcuno che tentò di ostacolare la sua collaborazione a un comune col pretesto che non era laureato – come non lo erano, del resto, Benedetto Croce, Carlo Scarpa e Claudio Napoleoni, ciascuno dei quali eccellente nel suo ambito molto più di molti accademici. E devo ricordare che se non giunse alla laurea fu perché lo inducemmo (io per primo) a utilizzare la sua splendida tesi di laurea, già pronta per la discussione, per farne un libro su Venezia da “spendere”in una campagna elettorale che speravamo intelligente.
Se la politica e l’urbanistica erano i fuochi della sua azione, la sua attenzione si estendeva a numerosi campi dai quali i suoi interessi principali traevano alimento: come – oltre al diritto – la filosofia, l’economia, la storia. La storia soprattutto. Direi che la sua attenzione al territorio – il suo amore per il territorio e le città – aveva nella storia la sua radice.
Era dalla ricerca del modo in cui la collaborazione tra natura e storia aveva foggiato i beni del paesaggio, della cultura, della città che Gigi cercava di trarre le regole – e i criteri, gli indirizzi, i metodi – che consentissero di trasformare conservando.
Questo vale soprattutto (ma non esclusivamente) per gli ambiti principali della sua attenzione: la città storica e la Laguna. Per quest’ultima (di cui parlerà più diffusamente Flavio Cogo) aveva esplorato a fondo i modi tecnici, amministrativi e politici, mediante i quali la Serenissima aveva assicurato la sopravvivenza dell’equilibrio tra natura e storia che il bacino lagunare rappresenta. E si deve a lui il recupero, nella legge speciale per Venezia del 1984, ancor oggi vigente, dei famosi tre requisiti che ieri la Repubblica Serenissima (oggi, ma solo a chiacchiere, la Repubblica italiana) si impegnavano ad assicurare a ogni intervento in Laguna: sperimentalità, gradualità, reversibilità.
Per la città storica Gigi contribuì moltissimo a mettere a punto un procedimento di pianificazione che consentisse, appunto, di partire dalla lettura della formazione storica dell’edilizia veneziana (e di qualunque altra area geografica in qualche modo segnata dalla storia) per individuare regole capaci di guidare le trasformazioni lasciando intatta l’essenza del messaggio del passato: le regole capaci di consentire alla società, oggi diversa da quella di ieri, di conservare trasformando, evitando sia l’imbalsamazione delle forme sia la distruzione della memoria.
La strada che percorremmo insieme partiva – soprattutto grazie all’apporto decisivo di Gigi e di Edgarda Feletti – dall’elaborazione di una scuola di pensiero che aveva in Saverio Muratori il suo maestro, e negli studi su Venezia anche di Gianfranco Caniggia e Paolo Maretto alcuni dei suoi più rilevanti prosecutori. Era una linea di ricerca che permise di giungere, nel 1990 e nel succedersi di più d’una giunta e una maggioranza, a un piano urbanistico che avrebbe consentito di guidare e controllare le trasformazioni della città con rigore e flessibilità, solo che fosse stato gestito da una intelligente volontà politica. Questa purtroppo mancò – come del resto in tutto il paese – quando, incapaci di utilizzare le regole nelle loro potenzialità di governare con rigore e flessibilità, si preferì abbatterle.
In realtà, l’applicazione di quel metodo alle trasformazioni fisiche e funzionali dell’edilizia storica aveva un difetto notevole per i politici d’oggi: evitava la discrezionalità delle decisioni. Stabiliva con precisione quali elementi dell’edilizia storica dovevano essere conservati e quali trasformati, e a quali condizioni. Consentiva – nell’ambito delle invarianti – modifiche anche consistenti, ma non le affidava alla discrezionalità dell’ufficio o dell’assessore, poiché imponeva invece una procedura trasparente. Per la discrezionalità del politico di turno esprimeva insomma un lacciuolo del quale era meglio liberarsi. E infatti, se ne liberarono.
Al modo in cui questo avvenne rinvio, chi voglia approfondire la questione, all’ultimo ponderoso scritto di Gigi, in appendice al suo libro Venezia: Terra e acqua. Oppure allo scritto che Edgarda Feletti, impossibilitata per un improvviso malore a raggiungerci oggi, ha promesso di inviarmi, e che pubblicherò in eddyburg. Oppure ancora, per comprendere e verificare in modo ancora più compiuto, allo studio sulle carte del Fondo Luigi Scano che è depositato qui, nella Casa della memoria e della storia.
Quel piano della città storica - avviato alla fine degli anni 70, adottato nel 1990 e demolito negli anni successivi - fu la matrice (una delle matrici) di un’innovazione a mio parere di grande rilevanza nei metodi di pianificazione in Italia. Fu infatti in quel piano che iniziammo a sperimentare due innovazioni che da allora trovarono applicazione (per la verità, spesso approssimativa e a volte distorta) in molte successive applicazioni, sia legislative che amministrative. Mi riferisco alle “invarianti strutturali” e alla distinzione tra “componente strutturale” e “componente operativa” della pianificazione.
Con la prima espressione si indica il fatto che, nell’ambito delle scelte territoriali finalizzate prioritariamente alla tutela delle qualità ambientali, culturali e paesaggistiche, non si procede a un vincolo generalizzato, da superare mediante un procedimento di solito aperto al compromesso discrezionale, ma si individua con la massima precisione possibile quali elementi devono essere conservati, e quali invece possono essere trasformati e secondo quali regole.
Con la seconda espressione si stabilisce una differenza tra una componente del piano che contiene le scelte fondamentali, valide nel lungo e nel lunghissimo periodo, riguardanti le invarianti strutturali e le scelte strategiche (intendendo la strategia come il lungo periodo), mentre le seconde, che non possono contraddire le prime, ne costituiscono in qualche modo l’attuazione e l’elemento di flessibilità.
Nel ricordare Gigi Scano nei giorni immediatamente successivi alla sua scomparsa Massimo Cacciari ricordava come i temi delle battaglie di Gigi costituissero ancora problemi irrisolti per la città. Il fatto è che per ciascuno di quei temi c’era non solo l’analisi e – dove necessario – la denuncia e la protesta, ma anche la proposta. Il più delle volte le sue proposte non sono state accolte. Ecco alcuni, di quei temi.
Il rapporto tra Venezia, la Laguna, l’area intercomunale gravitante su l’una e sull’altra. Gigi (lo ricorderanno certamente Toni Casellati e Cino Casson nel loro intervento) fu tra i propugnatori della dimensione dell’area vasta come nuova entità di governo di quella che fu poi chiamata “città metropolitana”. La prima sperimentazione di un governo esteso a quest’area fu il piano comprensoriale, previsto dalla legge speciale del 1973, al quale lavorò prima con Vezio De Lucia, e poi formulando una robusta osservazione integrativa presentata dal comune di Venezia. Ma il piano non fu mai definitivamente approvato, per colpa del boicottaggio della Regione, che pure del consiglio di comprensorio faceva parte (ma ne era anche il controllore).
Quell’esperienza influì sulla più matura formulazione del problema dell’area vasta nella legge 142 del 1985, in cui fu essenziale il contributo dei parlamentari veneti Lucio Strumendo e Adriana Vigneri. Ma in nessuna regione d’Italia le “nuove ragioni” della politica consentirono di avviare la formazione delle “città metropolitane”, strumento essenziale per il governo dei fenomeni che si verificano e si controllano solo sull’area vasta (la mobilità, il consumo di suolo, l’ambiente naturale, i servizi sovralocali, la politica della casa).
Il turismo divoratore della bellezza e della società. La forma del turismo che sta divorando Venezia (come molti altri luoghi belli d’Italia e del mondo) ha rivelato la sua natura nefasta da alcuni decenni. Ed è almeno dal 1990 che Gigi fu tra quelli che avviarono un ragionamento propositivo sul tema. Fu dopo l’esperienza del tentativodi far svolgere a Venezia l’Expo 2000 - fallito grazie al movimento di quegli anni - che Gigi elaborò quel metodo che definì “governo programmato dell’offerta turistica”; un approccio al problema che avrebbe consentito non solo di contenere l’entità dei flussi turistici, ma soprattutto di indirizzarlo (con un mix sapiente di politiche nei vari settori) verso le forme di visita dalla città indirizzate a conoscerla e a goderla nelle sue qualità e nel suo insegnamento, scoraggiando quelle che si riducono a “mordere e fuggire”.
Del resto, le stesse norme di controllo delle destinazioni d’uso residenziali e commerciali del piano regolatore del 1990 erano indirizzate a tutelare le residenze e il commercio quotidiano dall’invasione barbarica del turismo mordi e fuggi. Furono le prime regole a essere smantellate.
Antonio Casellati e Cino Casson ci parleranno del ruolo di Gigi e del “suo” PRI nella politica veneziana; Vezio De Lucia ci illustrerà più ampiamente il ruolo che Gigi svolse come urbanista a livello nazionale; Alessandra Bonesini racconterà del fondo costituito dalle sue carte – il cui deposito in questa sede è la ragione primaria di questo incontro; Flavio Cogo del rapporto di Gigi con la Laguna e con i movimenti che la difendono oggi. Io vorrei concludere tornando per un attimo su quei due fuochi del lavoro di Gigi (la politica e l’urbanistica) dai quali sono partito.
Il nesso tra questi due fuochi – quelle due dimensioni – è strettissimo. Afferma Francesco Indovina che «il piano è un atto politico tecnicamente assistito»; dice Leonardo Benevolo che «l’urbanistica è una parte della politica». Ciò rende facile a chi abbia entrambe le passioni di passare dall’una all’altra: come è accaduto a Gigi, il quale è stato per molti anni essenzialmente un uomo della politica (senza mai perdere le sue competenze e capacità di urbanista) e si è dedicato in altri anni quasi esclusivamente all’attività di urbanista (senza mai perdere lo sguardo politico sulla realtà). A questo punto mi pongo due domande.
La prima: esiste un’autonomia dell’urbanista dal politico, quando queste due figure sono distinte? E se c’è, dove risiede? De Lucia, proprio parlando di Gigi, dà la sua risposta, che condivido:
«L’unica garanzia, per evitare il naufragio sugli scogli dell’eccesso di disponibilità oppure su quelli opposti della malintesa autonomia, sta nell’essere portatori e garanti di una propria concezione etica, estetica e culturale, politica, se si vuole […]. Una condizione rara […] che si realizza solo quando la committenza pubblica è animata dalle stesse concezioni dei tecnici chiamati a collaborare».
La seconda domanda, conclusiva di questo mio intervento. Se il legame tra urbanistica e politica è così stretto, che cosa fa l’urbanista quando – come oggi – la politica è in crisi, oppure quando la committenza pubblica è animata da concezioni diverse? Ed ecco la mia risposta. La politica non si riduce a quella delle formazioni politiche della Seconda Repubblica né a ciò che oggi le istituzioni sono diventate. Aver disgregato la dimensione partito, aver lasciato deperire le istituzioni, sono stati perdite gravi.
Ma la politica come dimensione della vita dell’uomo non è scomparsa. Essa (per citare una frase di don Lorenzo Milani) è là dove più persone riconoscono che i loro problemi sono anche i problemi degli altri, e s’incontrano e lavorano insieme per affrontarli e risolverli insieme.
Qui è la politica oggi, e qui Gigi l’ha incontrata di nuovo quando ha contribuito al nascere e al crescere di movimenti, associazioni, comitati – come quelli per la Laguna e per Venezia, con i quali avremmo dovuto ragionare oggi pomeriggio per comprendere meglio che cosa fare oggi, qui a Venezia, per proseguire la lotta di Gigi. Ci incontreremo con loro, per proseguire i discorsi iniziati oggi, in una prossima occasione, in questa bellissima sede.
Di seguito l’indice del saggio e il testo del terzo capitolo. In calce è scaricabile il testo integrale in formato .pdf
INDICE
1. Ieri. Nasce il “diritto alla città” nell’Italia post-fascista
Il dopoguerra
L’Italia alle soglie degli anni 60
Lotte sociali e disastri territoriali
Un biennio decisivo: 1968-1969
Quale idea di città
2. Oggi. Forma e sostanza della città del neoliberalismo
Il contesto, nel mondo e in Italia
La città del neoliberalismo
Le piazze e gli spazi pubblici
Lo spazio pubblico e la democrazia
3. Domani. Una nuova ideologia: La città come bene comune
La speranza dei movimenti
Città come bene comune
Quali soggetti nella “città globale”
Riconquistare la storia e lo spazio pubblico
Il compito dell’urbanista
3. DOMANI
UNA NUOVA IDEOLOGIA: LA CITTÀ COME BENE COMUNE
La speranza dei movimenti
Come riprendere oggi un cammino che consenta di restituire al popolo qualcosa che abbia la dignità di essere definito “diritto alla città”? E quale idea di città, esprimibile in una frase semplice e semplicemente comprensibile, può riassumere oggi i contenuti di quel “diritto”? Questa è l’ultima parte – la più difficile – del mio intervento.
Partiamo dalle cose. Se si conviene che l’idea di città proposta e praticata dal neoliberismo sia insoddisfacente, che l’ideologia che la sorregge debba essere contrastata e sostituita, che per l’habitat dell’uomo (perché a questo ci riferiamo quando parliamo di “città” al di là degli esempi consegnatici dalla storia) debba essere individuato un diverso futuro, allora dobbiamo riferirci a ciò che resiste alle attuali tendenze e cerca di opporsi e di proporre delle alternative. Guardando alla società possiamo dire che il punto di partenza può essere costituito dalla miriade di episodi che nascono spontaneamente, che esprimono sofferenze individuali che però appartengono a moltissime persone, che si traducono spesso in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta). “Dentro queste nuove esperienze – ha scritto un uomo che viene dalla letteratura e dalla politica e che si è immerso nel movimento ambientalista - circola una gran quantità di energie nuove, diverse, provviste di un pensiero forte. Lo stesso potrebbe dirsi delle associazioni nel campo dei diritti civili” .
Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti. Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità. La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche. Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti; difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro. La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale. La privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.
Questi temi toccano direttamente l’esperienza di vita dei cittadini. Meno direttamente la toccano altri temi, che pure hanno sollecitato un movimento molto vasto, che costituisce il tessuto connettivo tra moltissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva. Mi riferisco al movimento che tenta di contrastare il consumo di suolo: la trasformazione sempre più estesa di terreni naturali, spesso caratterizzati da una buona agricoltura o da piacevoli paesaggi rurali, in aree urbanizzate dalla speculazione immobiliare o dall’abusivismo. Il consumo di suolo è molto esteso in Italia. Esso è considerato particolarmente grave perchè in Italia, a differenza che in altri paesi europei, le aree pianeggianti e di fondo valle (che sono quelle più interessate dalla trasformazione in cemento e asfalto) sono una porzione molto limitata del territorio nazionale, perché il territorio è ricchissimo di testimonianze storiche disperse per ogni doive, e perché sono del tutto assenti politiche governative e regionali tendenti a contrastarlo. Fino a pochi anni fa la stessa cultura accademica ignorava il fenomeno e la sua entità. Oggi, a parole, il consumo di suolo è criticato da tutti, ma solo un ampio movimento popolare ha intrapreso una lotta conseguente .
E insieme a questi temi, direttamente legati al territorio e ai beni comuni materiali, quelli dei diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.
Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione di quel ragazzo della Scuola di Barbiana, nelle colline tra Firenze e Bologna, quando disse che aveva compreso una cosa decisiva: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» . É la stessa molla che spinse i proletari in fabbrica a diventare forti utilizzando l’unico strumento che potevano opporre alla proprietà del capitale: la solidarietà dei possessori della forza lavoro. Allora il luogo nel quale il conflitto si svolgeva era di per se stesso tale da spingere alla solidarietà: era la fabbrica. Oggi l’habitat dell’uomo è un luogo nel quale è pervasiva la tendenza alla dispersione, alla frammentazione, alla segregazione.
C’è un concetto allora, al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato, sul quale si può (e si deve) far leva: occorre che la città (e per estensione l’intero habitat dell’uomo) sia considerato un bene comune. Ma su questa parole converrà soffermarsi.
Città come bene comune
Per comprendere il significato dell’espressione “città bene comune” è utile riflettere su ciascuna delle tre parole che la compongono.
Città
Nell’esperienza europea (ma probabilmente nell’esperienza storica di tutte le civiltà del mondo) la città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città non è un aggregato di case, è la casa di una comunità.
Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.
Bene
Dire che la città è un bene significa affermare che essa non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per comprendere la moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi, e anzi per certi versi opposti, di vedere e vivere gli stessi oggetti.
Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.
Un bene, invece, è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.
Comune
Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.
Il termine “comune” presenta peraltro una possibile declinazione negativa, più esplicito nel termine derivato “comunità”. Una comunità è una figura sociale che include (i membri di quell’organismo comune) ma contemporaneamente esclude (gli altri). Né questa declinazione può essere risolta sostituendo a “comune” il termine “collettivo”. É opportuno allora precisare il termine comune” (e “comunità”) con una ulteriore precisazione. Nell’esperienza della vita contemporanea ogni persona appartiene, di fatto, a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera quotidianamente. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande.
Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo, cittadino del mondo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.
Quali soggetti nella “città globale”
Nella città l’eguaglianza è sempre stata l’obiettivo di una dialettica mai placata. Sempre vi sono state differenze, più o meno profonde, tra i soggetti che l’abitavano. Differenze tra le diverse categorie di soggetti in relazione alla produzione della città (basta pensare a quelle tra i proprietari di fondi e di edifici e i non proprietari), e differenze in relazione all’uso della città (nell’accesso alle sue diverse parti e componenti, nella scelta tra usi alternativi delle risorse destinate al suo governo). Perciò la città è stata sempre anche il luogo dei conflitti, nei quali le categorie più svantaggiate hanno tentato di raggiungere un livello accettabile di soddisfacimento delle loro esigenze.
Possiamo dire che una città giusta è quella nella quale vi è un ragionevole equilibrio delle condizioni offerte ai diversi gruppi sociali, e nelle quali tendenzialmente a ciascuno è dato di partecipare in modo equo all’uso del bene città e delle sue componenti, e a concorrere in condizioni d’eguaglianza al suo governo.
É probabile che questo obiettivo non sia mai stato raggiunto in modo compiuto. Sembrava che vi si fosse vicini nell’età del welfare, almeno in quella parte del mondo nella quale le virtù del sistema capitalistico borghese avevano condotto a un ragionevole equilibrio tra le forze antagoniste presenti al suo interno, esportando nel mondo dello sfruttamento coloniale le contraddizioni. Oggi sembra che il mondo se ne stia allontanando sempre più.
La tendenza generale sembra infatti quella di un’accentuazione di tutti gli squilibri tra ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori. Tra i due estremi dell’opulenza e della miseria aumenta la casistica delle differenze con una forte propensione al moltiplicarsi di enclaves e recinti, ciascuno dei quali racchiude gruppi sociali diversamente dotati di accesso ai beni ma ugualmente rinchiusi nella loro incapacità di comunicare con gli altri in termini di comprensione, condivisione, cooperazione.
Essi sono però uniti da un comune destino costituito da due elementi. Da un lato, dal fatto di appartenere tutti al medesimo pianeta, le cui risorse appaiono sempre più limitate, e sono contese tra utilizzazioni alternative, dove prevalgono quelle che privatizzano e commercializzano i beni comuni. Dall’altro lato, dal fatto di appartenere a un habitat (e a un’economia) nel quale la tradizionale dimensione del “locale” è sempre più integrata da una dimensione “globale”, che lega tra loro i diversi “locali” in un sistema sempre più governato da attori lontani e irraggiungibili: da un pugno di uomini dotati di poteri invincibili.
L’habitat dell’uomo appare insomma sempre più caratterizzato dalla integrazione di differenti luoghi, ciascuno con la propria storia, le proprie tradizioni, le proprie peculiarità, i propri conflitti, ma tutti legati tra loro dall’essere funzionali a un unico processo di sfruttamento economico e a un unico sistema territoriale. Un sistema territoriale che Saskia Sassen ha definito “città globale” , del quale due elementi essenziali garantiscono la sopravvivenza e la funzionalità. Da un lato, “l’infrastruttura globale”, cioè l’insieme delle reti tecnologiche, dei luoghi eccellenti, delle attrezzature di livello mondiale che garantiscono la vita e le attività dei gruppi sociali che detengono il potere. Dall’altro lato, i flussi dei popoli e dei gruppi sociali che la miseria ha “liberato” dalla possibilità di risiedere nei luoghi della loro origine, proseguendovi le attività tradizionali, e ha ridotto così a mera forza lavoro disponibile, e perciò sono idonei a essere utilizzati nei luoghi dove è più opportuno sfruttarne il basso costo.
Tra gli uni e gli altri, tra gli abitanti della “infrastruttura globale” e quelli del “pianeta degli slums ”, vive e consuma la massa del “terzo strato”: di quell’insieme di ceti e gruppi che appartengono alla cultura dei padroni, che sono indotti a condividerne l’ideologia e i valori, che aspirano a sedersi anche loro al desk dove si decide e, soprattutto, a condividere i livelli di remunerazioni e i benefici concessi agli abitanti del “primo strato”. Il loro destino oscilla tra il timore di essere gettati tra i poveri da una delle crisi ricorrenti, e la speranza di essere promossi ottenendo una promozione o vincendo qualche premio alla ruota della fortuna. Di fatto, essi costituiscono per i gruppi dominanti un tessuto sociale di protezione nei confronti della moltitudine dei più deboli e più sfruttati, dai quali è sempre possibile aspettare l’insorgenza.
Se questa rappresentazione della città di domani (che è già presente tra noi) è condivisibile, allora il concetto di “diritto alla città”, così com’è stato elaborato nel corso del secolo scorso, richiede oggi un impegno del tutto particolare, poiché sollecita ad affrontare la questione nel quadro della globalità che oggi la caratterizza. Oggi non è più sufficiente perseguire l’equità all’interno di una delle numerose “città”, o tipi di città, della tradizione, ma occorre cercarla nell’insieme dell’habitat dell’uomo, rompere le barriere tra i diversi strati che lo compongono la “città globale. E il tentativo di perseguire l’equità a questo livello non potrà condurre a risultati soddisfacenti se non si terrà conto, insieme a ciò che unisce, anche di ciò che divide: della grande diversità delle condizioni culturali e materiali tra le varie realtà locali che compongono il “globale”.
Non è insomma in un archetipo della vita urbana che si potranno trovare i riferimenti esclusivi di un nuovo paradigma, ma solo nell’attenta ricerca di ciò che – all’interno di tutte le storie, le culture, le tradizioni che hanno caratterizzato i popoli e i luoghi del mondo – costituisce un insegnamento da applicare per costruire, utilizzando le rovine delle vecchie, una nuova città pienamente umana.
Riconquistare la storia e lo spazio pubblico
La città della tradizione non è ancora scomparsa. Sul terreno non sono rimaste solo rovine. C’è anche vita, speranza, e quindi germi di un possibile futuro. Ne ho indicati i segni nelle tensioni sociali che nascono un po’ dappertutto per resistere alla dilapidazione del beni comuni, nelle vertenze aperte per difendere lo spazio e gli spazi pubblici che la globalizzazione neoliberista sta divorando, nei tentativi di ricostruire una nuova socialità – e una nuova politica – dal basso. É da qui bisogna partire.
Beni e valori comuni, spazi e spazio pubblico, funzioni collettive: questo è il punto di partenza segnalato da ciò che si muove nella società. Ed è questo, in definitiva, che la storia ci indica.
Se si vuole costruire un futuro diverso dal presente è dalla storia che bisogna partire. “Historia magistra vitae”, la storia è maestra della vita. Proprio per questo quei poteri che vogliono che le cose rimangano come sono hanno tentato di cancellare la storia (la consapevolezza del nostro passato, delle radici di ciò che siamo e quindi dei germi di ciò che saremo) dalla nostra memoria. Recuperare la memoria, recuperare la storia: questo è ciò che è innanzitutto necessario per contrastare chi vuole appiattire l’uomo sul suo presente, per inculcargli la convinzione che nulla è modificabile, perché tutto ciò che è stato è quello che sarà, ed è tutto già cristallizzato in un presente immodificabile.
La storia – e le lotte di oggi – ci danno un’indicazione precisa: partire dalla difesa e dalla riconquista dello spazio pubblico. In tutti i suoi aspetti. Poiché è spazio pubblico la piazza, sono spazio pubblico le aree destinate alle funzioni collettive, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane e la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa.
Il compito dell’urbanista
Per un urbanista l’obiettivo della difesa e riconquista dello spazio pubblico pone una molteplicità d’impegni. Il primo , nella situazione di oggi, è quello della difesa del metodo e dello strumento della pianificazione in quanto tale. Senza una visione olistica e di lungo periodo del territorio e delle sue trasformazioni non è possibile realizzare una città equa e umana: non è possibile garantire un futuro nel quale il diritto alla città sia realizzato.
Non basta però una qualsiasi pianificazione. É necessaria una pianificazione che abbia come suoi obiettivi non il privilegio degli interessi immobiliari, né la crescente “valorizzazione economica” del territorio, né lo “sviluppo dell’urbanizzazione” indipendentemente dalle sue finalità, ma il benessere delle popolazioni presenti e future in termini di salute, di accesso alle risorse e a tutti i beni comuni sia naturali che storici. Una pianificazione che assuma tra i suoi compiti principali (se vogliamo contrastare ciò di più negativo oggi accade) il contrasto al consumo di suolo e delle altre risorse naturali limitate, e il soddisfacimento, nell’organizzazione della città e del territorio, delle esigenze collettive dell’abitazione, dei servizi, della mobilità in condizioni di equità per tutti gli abitanti. Una pianificazione che abbia al suo centro la ricerca dell’equità nella dotazione dei servizi , nella libertà dell’uso e dell’accesso agli spazi della vita e delle funzioni collettive indipendentemente dalle condizioni sociali, culturali, economiche, della razionalità nella disposizione delle cose sul territorio, della bellezza nella definizione dei nuovi paesaggi e nella conservazione di quelli esistenti.
Si tratta allora per gli urbanisti – almeno in Italia - di cambiare molto rispetto alle attuali tendenze culturali. Più che tecnici al servizio degli interessi attuali e futuri della maggioranza della popolazione gli urbanisti sono oggi ridotti alla condizione di “facilitatori” degli interessi immobiliari, di “negoziatori” tra le aspettative dei proprietari e utilizzatori di aree da “sviluppare” con l’urbanizzazione indipendentemente dalle priorità sociali, di operatori abili a “perequare” gli interessi dei proprietari immobiliari e del tutto indifferenti alle ben più gravi sperequazioni tra persone, gruppi sociali e classi che abitano la città.
Ma pianificazione significa anche partecipazione dei cittadini al governo del territorio, alle decisioni che concorrono a realizzare le condizioni della vita futura. Perciò lavorare in questa direzione significa anche impegnarsi nel tentativo di espandere le democrazia (la capacità e possibilità di tutti di concorrere alla costruzione del bene comune) al di là dei limiti della democrazia rappresentativa e dell’istituto della delega permanente. Significa allora dare a tutti la possibilità concreta di essere liberi di partecipare alla vita pubblica, rendendo indipendente la libertà dalla proprietà . Significa perciò anche costruire una nuova economia, nella quale il lavoro non sia alienazione (nel senso di ordinamento ad altro da sé) e riduzione dell’attività dell’uomo a merce, ma sia “lo strumento, peculiarmente umano, attraverso cui l’uomo raggiunge i suoi fini” . Ma qui si apre un discorso che andrebbe ben al di là del tema di questo contributo, e di questo stesso fascicolo.
Non conoscevo Giorgio Todde quando Renato Soru mi chiese di far parte del comitato scientifico per il piano paesaggistico regionale. Mi colpì molto il clima che respirai già al primo incontro. Oltre ai miei amici urbanisti c’era un gruppo di persone che esprimeva altri saperi e altri punti di vista sulla Sardegna: l’antropologo Giulio Angioni, il botanico Ignazio Camarda, il naturalista Helmut Schenk, l’archeologo Raimondo Zucca e lo scrittore Giorgio Todde. Avevano un pensiero in comune, che fu espresso da Renato Soru con parole che ancora ricordo:
«Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. La “valorizzazione” non ci interessa affatto. Il primo principio è: non tocchiamo nulla di ciò che è venuto bene. Poi ripuliamo e correggiamo quello che non va bene. Rendiamoci conto degli effetti degli interventi sbagliati: abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che c’erano; abbiamo costruito villaggi fantasmi, e abbiamo resi fantasmi i villaggi vivi».
Parole che mi colpirono. Erano il frutto di una cultura fondata sulla consapevolezza dello spessore e del valore della propria storia e del proprio territorio. Di quella cultura Giorgio Todde è apparso ai miei occhi l’espressione più limpida, quando, stimolato dall’urbanista Filippo Ciccone, cominciai a leggere i suoi pezzi fulminanti su la Nuova Sardegna. Eccoli qui raccolti in un libro, aperto da una stimolante introduzione dell’autoree concluso dal racconto dell’Affaire Tuvixeddu: documenti impervi (tra i quali Todde aiuta a districarsi) d’un conflitto che è la metafora delle vicende dalle quali è tessuta la storia contemporanea dei “paesaggi rinnegati”.
Il conflitto nel quale vive la bellissima Isola (e la Penisola di cui è regione) potrebbe apparire a prima vista quello tra passato e futuro, tra conservazione e trasformazione, tra nostalgia e speranza. Todde rivela subito come stano le cose per lui. Il movente della sua scrittura è il dolore per una condizione molto concreta: noi siamo lo spazio che occupiamo, «e se lo spazio nel quale ci muoviamo si ammala, ci ammaliamo anche noi». Il dolore «non nasce da una nostalgia lacrimosa del “come eravamo” senza azioni e pensiero conseguenti […] ma dalla rabbia e dal dispetto per ciò che abbiamo perduto e dall’angoscia di perdere il bello che ci resta». Nasce dalla consapevolezza piena del valore delle qualità di bellezza, armonia, equilibrio che natura e storia hanno costruito nei millenni in quei paesaggi, e dall’acuta percezione del danno che il prevalere di logiche diverse hanno imposto con le loro trasformazioni.
«Non abbiamo nostalgia del pozzo nero o dell’asinello in cucina. No. É che per costruire in cesso in casa abbiamo distrutto la casa», dice Todde riprendendo le parole che pronunziava «nei primi anni sessanta il vecchio capomastro di un paesino mentre demoliva una bella e grande abitazione di paglia e fango per erigerne un’altra di “blocchetti”. E per non avere l’asino in cucina abbiamo abolito anche gli asini». Altri asini sono subentrati e altri cessi più grandi e diffusi hanno costruito, ma su questo torneremo.
Ci sono parole che ritornano nelle pagine del libro. Sassolini in un percorso nel bosco. La prima è bellezza. É la bellezza del creato, la natura intatta, il segno del divino nella forma del territorio (nei suoi colori, i suoi suoni e i suoi silenzi), il primo e primordiale dei beni che all’uomo sono concessi nell’Isola. Anzi, erano concessi, prima che gli alieni la colonizzassero. Prima che fosse travolta e cancellata quella «filosofia del costruire» che esisteva nell’isola, grazie alla quale «i paesi erano in equilibrio con la terra, erano costruiti con i materiali della terra su cui sorgevano e perciò assomigliavano alla terra, ne riproducevano i colori e perfino l’odore».
A quella filosofia un’altra si è sostituita: quella che Todde definisce sviluppismo (ecco un’altra parola chiave). Lo sviluppismo è «una forma malata dello sviluppo economico», «una forma degenerativa della modernizzazione», la «frangia guasta dello sviluppo». Utilizza speciali operatori, che a un certo punto della storia dell’Isola «sono apparsi in giacca e cravatta: gli sviluppisti». Per essi, «le due parole “intatto” e “arretrato” significano la stessa cosa. Ciò che è intatto è superato, vecchio. Per loro la civilizzazione consiste nel consumare il creato immacolato che è solo uno strumento della crescita, la loro».
La sviluppite è una malattia contagiosa: un’epidemia. E come molte malattie «è democratica e non fa distinzioni. Così colpisce maschi e femmine, ricchi e poveri, individui di destra e di sinistra senza dimenticare quelli di centro».
Todde ama in modo particolarmente intenso la sua isola. Questo lo induce a compiere qualche errore. Sostiene che «ogni società ha un suo sviluppismo endemico più o meno silente» e attribuisce solo alla Sardegna «uno sviluppismo maligno: una forma di autolesionismo grave che arriva alla svendita di sé e del proprio mondo». Non è così purtroppo. Lo sviluppismo maligno un male che sta soffocando l’Italia, che ha invaso ogni regione e ogni città e paese perché ha invaso – prima dei territori – le teste degli italiani. Se c’è anzi una particolarità della Sardegna è che qui la peste dello sviluppismo, e la constatazione dei danni che esso provoca, ha generato una reazione più forte che in altre parti d’Italia. Se è vero che dall’iniziativa di un gruppo di persone che sapevano alzare i propri occhi dall’orrendo pasto che gli alieni stavano compiendo sulle loro coste ha potuto iniziare, con Renato Soru, una riscossa, e produrre quella politica di salvaguardia delle coste (le più minacciate e corrose) che doveva, e dovrà, estendersi all’intero territorio isolano.
La parola sviluppismo si collega ad altre due sulle quali è utile richiamare l’attenzione: valorizzazione e metro cubismo.
La valorizzazione, sostiene Todde, ha un effetto distruttivo, perché consiste «nel togliere il sangue al territorio sino a renderlo esausto e privo di ogni valore». Come tante altre parole, anche “valorizzazione” è stata deformata e piegata, dal suo significato originario e utilizzata a un unico fine: quello economico. Poiché valore, in sé, è una parola ricchissima di significati: esprime l’insieme delle qualità positive di un soggetto o un oggetto. Hanno valore l’amicizia e l’amore, ha valore la nostra storia e il nostro futuro di esseri umani, ha valore il sacrificarsi per qualcosa in cui si crede e per qualcuno che si ama, hanno valore la poesia e la pittura come espressione della propria anima e comunicazione dei propri sentimenti.
Valorizzare significa dunque mettere in luce l’uno o l’altro di questi “valori”. Oggi significa invece unicamente “attribuire valore economico a qualcosa”, cioè trasformare in merce (ossia qualcosa di fungibile, scambiabile, monetizzabile, distruggibile per farne un’altra merce) un bene (ossia qualcosa che ha un valore di per sé, per l’uso che ne può fare l’uomo). Il fatto è che dalla testa degli economisti, e dal funzionamento del sistema economico-sociale, è scomparso il valor d’uso, che vorrebbe esprimere l’utilità di un bene per il soggetto che lo adopera, e tutto si è ridotto al valore di scambio.
Il territorio può essere ridotto a “merce” (da quel “bene” che è) mediante l’operazione implicita nell’altra delle due parole tra loro connesse: metrocubismo. Il metrocubo di cemento e mattoni, il volume edilizio è infatti l’unico valore che l’ideologia corrente riconosce al territorio. Altro che paesaggio, che intreccio di storia e natura, altro che identità e bellezza, ciò che conta è attribuirgli una capacità edificatoria. Si arriva al punto di parlare di “vocazione edificatoria” del suolo, come che la crosta del nostro pianeta avesse come destino intrinsecamente legato alla sua essenza quello di essere maneggiato dai cementifica tori, dagli “operatori immobiliari”.
Già, ecco apparire i colpevoli della valorizzazione metro cubica. Gli “operatori immobiliari”, quelli che stanno seppellendo sotto la “repellente crosta di cemento e asfalto”, direbbe Antonio Cederna, gran parte delle coste intatte della Sardegna prima della “legge salva coste” di Soru e, ancora oggi, i luoghi più belli e sacri, patrimoni storici tramandati nei secoli: come il colle di Tuvixeddu-Tuvumannu, amorosamente difeso e rigorosamente documentato nelle tappe della sua vicenda negli scritti raccolti alla fine del libro.
Alle parole del disastro non può mancare la parola turismo. Riecheggia spesso nelle pagine del libro. Il turista, generalmente visibile in branchi, è un agente della distruzione ma ne è anche la l’alibi e la vittima. É il veicolo della nuova identità finta che si sostituisce a quella vera: è fatta di plastica, non di pietre e di sangue. Il suo habitat è rappresentato dall’hotel Cala di Volpe; un monumento che ancora pochi riescono a individuare come il più ributtante degli ecomostri. «Il ponticello irreale, il canale veneziano, le acque ferme, lo stile falso “rustico”, la patina di “anticatura”, il prato e molte altre caratteristiche costruttive, grandi e minuscole», ecco alcuni degli elementi che fanno di Cala di Volpe una testimonianza utile. «Cala di Volpe è un “falso naturale”, una simulazione. E la sua artificialità ne fa un luogo simbolico della finzione. Rappresenta bene la vicenda melanconica di una nuova Disneyland». Cala di Volpe rappresenta splendidamente la mostruosa idea di bellezza “ispirata” al passato che domina nel mondo degli “uomini impagliati” e li induce a cancellare la natura sotto una coltre di camere d’albergo e di annessi.
Come hanno fatto i cementificatori dell’immobiliarismo a sbarcare sulle coste dell’Isola, ad arrampicarsi sui suoi costoni, a far scempio degli antichi paesaggi trasformando la ricchezza della natura e della storia in soldi da esportare nelle loro banche? I traditori stavano dentro le mura. Chi ha aperto le porte ai barbari sono stati quelli che avrebbero dovuto, per loro missione, capeggiare i difensori assediati. Gli accenti più feroci (e al tempo stesso più addolorati) Todde li rivolge ai sindaci.
«Nei nostri comuni con vista sul mare si moltiplicano piccoli sindaci manager. Se il sindaco di un paese concupito dai costruttori è, oppure è stato lui stesso costruttore, allora quel sindaco è in una condizione di conflitto. Diventa un sindaco ossimoro, un ossimoro che governa e contiene in sé due princìpi opposti. Deve, questo sindaco d’impresa, decidere cosa è meglio per il proprio paese. Però sentirà il richiamo della propria visione metrocubica del mondo. Se le cose stanno così, c’è poco da fare. E difatti «molti angoli della nostra isola non riescono più a proteggersi anche perché alcuni suoi borgomastri sviluppisti considerano l’attività politica molto simile a quella immobiliare, e le confondono. Tutt’e due attività lecite, s’intende. Lecite ma in conflitto».
Esemplare di ciò che è accaduto è un paese che rappresenta tutta la Sardegna dei paesaggi rinnegati: San Teodoro, sulla costa orientale, poco più a nord dell’ancora intatta Orosei. «San Teodoro, dati del 2001, era composto da 1260 famiglie e in un territorio piccolo possedeva 9587 case. Otto case circa per famiglia. Un mostro venuto su negli anni ’90. E in dieci anni abbiamo perso San Teodoro che non era solo dei santeodorini i quali hanno scelto di affogare se stessi, ma anche noi, nel cemento».
Insieme ai sindaci, i tecnici. Spesso coincidono. A San Teodoro, ad esempio, «il sindaco è geometra. Su quattro assessori che compongono la Giunta due sono geometri. Il candidato sindaco sconfitto alle elezioni di cinque anni fa era anche lui un geometra. Nel Consiglio comunale di San Teodoro, composto da quindici consiglieri, sedevano tre geometri. Nessuno che abbia alleggerito il carico di metri cubi sul sistema delle acque, anzi». Con i geometri, gli architetti, che troppo spesso «hanno prodotto segni che hanno contaminato la costa e lo hanno fatto con violenza e presunzione. Hanno ripetuto tardivamente errori già fatti nel costruire in natura. Hanno alterato il paesaggio nei suoi aspetti più fragili e sacri, hanno svillaneggiato il genio del luogo. Con l’aggravante che deriva dall’essere dotati di intelletto e sensibilità sufficienti per capire che l’unica soluzione per quei luoghi era il non fare».
Sviluppismo, valorizzazione, metricubi, turismo, sindaci: il disastro è fatto.
«Se il sindaco sviluppista di Olbia, quello di Teulada che conta nel suo astrolabio le stelle dei futuri alberghi, il sindaco edile di San Teodoro, quello di Arbus e della sua costa rosticceria, quello di Palau che, travolto dai metri cubi, murerà perfino se stesso, se il sindaco di Villasimius perso in un labirinto di mattoni, o se i nostri sindaci d’impresa utilizzano la parola “valore” allora la terra trema, la costa e le rive tremano e si sentono perdute. Addio pace e innocenza».
Tuttavia il male è più profondo, viene dalla società: «i sindaci sono scelti democraticamente e rappresentano, come un calco in gesso, le società che li esprimono e che, si vede, volevano proprio un governo dell’edilizia». Il punto è proprio questo. Viviamo in una società malata. Una società nella quale, secondo un percorso in atto da qualche secolo, l’io ha prevalso sul noi e lo ha schiacciato, il presente ha cancellato il futuro e il passato. Ciò che ha senso se vissuto come patrimonio di tutti (qualcosa di cui godere ma da tramandare ai posteri, così come lo si è ricevuto dagli avi) viene sistematicamente ridotto a merce: appropriato, recintato, iscritto al catasto come mio, soggetto alla mia jus utendi et abutendi.
É inevitabile che il territorio rappresenti questa sconfitta. É allora necessario che diventi anche il luogo nel quale si tenta la rivincita. Questa è possibile unicamente se qualcuno si rifiuta di entrare nel cerchio degli uomini impagliati, descritti da Thomas E. Eliot:
Siamo gli uomini vuoti
Siamo gli uomini impagliati
Che appoggiano l'un l'altro
La testa piena di paglia. Ahimè!
Le nostre voci secche, quando noi
Insieme mormoriamo
Sono quiete e senza senso
Come vento nell'erba rinsecchita
O come zampe di topo sopra vetri infranti
Nella nostra arida cantina.
Il libro di Giorgio Todde è rivolto a questi uomini, agli uomini (maschi e femmine) che abbiano resistito agli impagliatori di teste e vogliono restare lucidi per poter conservare la bellezza. Questi uomini stanno combattendo ancora. Un terreno di lotta è quella di cui parla l’ultima parte del libro, la vicenda del colle di Tuvixeddu-Tuvomannu. La grande necropoli dei fenici, dei punici e dei romani, inglobata nello sviluppo edilizio di Cagliari, è la metafora del conflitto tra chi vuole difendere ciò che vale e chi vuole impossessarsi dei patrimoni comuni per trasformarli in moneta. Un conflitto che è in corso in tutta l’Isola (e in tutt’Italia), ma qui emana un particolare sgradevole odore.
É una vicenda nella quale emergono, con forza scandalosa, l’incapacità della cultura accademica a comprendere e a contrastare i delitti contro il bene di tutti, la complicità del potere politico nei confronti degli interessi economici legati al mattone, la trepida acquiescenza di quegli stessi servitori pubblici cui la collettività ha assegnato il compito di difendere l’interesse generale.
Componenti rilevanti della cultura, della politica locale e dell’amministrazione statale hanno infatti dimostrato (le carte raccolte da Todde lo testimoniano) di voler favorire a ogni costo, anche a costo della menzogna, chi voleva distruggere storia e bellezza per costruire la propria ricchezza. Quando hanno voluto sembrare neutrali hanno scelto di patteggiare con chi voleva guastare irrimediabilmente quel monumento in un grande condominio edilizio anche quando era possibile vincere. Quando hanno rinunciato all’ipocrisia hanno brindato con l’autore della distruzione.
Fortunatamente è anche da quei medesimi corpi (la cultura, la politica, l’amministrazione pubblica) che sono nate le reazioni allo scempio: la sua denuncia, l’azione di vincolo, la resistenza nei fori del diritto e in quelli dell’opinione pubblica. É grazie a questa resistenza che possiamo parlare, ancora oggi, di un conflitto e non una guerra perduta. É ancora possibile salvare quel colle e farlo rinascere.
La vicenda di Tuvixeddu-Tuvumanno mi ricorda quella dell’Appia antica a Roma. Lì un vasto comprensorio, ricco di tombe, stadi e mausolei, ville e terme veniva dissipato giorno per giorno per effetto d’una strisciante privatizzazione, seguendo le classiche tappe della recinzione e dell’edificazione. La denuncia appassionata d’un archeologo divenuto urbanista, Antonio Cederna, raccolta da un’opinione pubblica vigile (anche lì, come a Tuvixeddu, c’era Italia Nostra), provocò la correzione di un piano regolatore ambiguo e permissivo da parte di un ministro avveduto, Giacomo Mancini. Fu apposto un vincolo, fu allertato l’interesse degli organismi della tutela, fu avviata la costituzione di un parco, furono cancellate le proposte d’infrastrutture che avrebbero snaturato il paesaggio.
La cultura urbanistica proseguì il ragionamento su quel patrimonio. Ne mise in evidenza la continuità con aree preziose che legavano quel comprensorio al centro della città, all’area dei Fori. Seppe proporre soluzioni intelligenti e ardite. Un sindaco intelligente e coraggioso, Luigi Petroselli, le raccolse. Ne nacque un grande progetto, che avrebbe condotto a ricostruire – più ancora che la forma – il funzionamento della città attorno a quei preziosi patrimoni dell’umanità. Il percorso era idealmente compiuto: dalla denuncia si arrivò al vincolo, dal vincolo si giunse al progetto di città. Poi i tempi cambiarono. Il progetto è rimasto fermo (con esso, fortunatamente, il vincolo), ma l’insegnamento è vivo, come la speranza.
Il percorso completo dovrebbe portare dalla denuncia di una manomissione alla realizzazione di un progetto che ponga in primo piano la riscoperta e il godimento rispettoso di un paesaggio che si vorrebbe distruggere. I passaggi necessari sono quelli del vincolo sul bene e del progetto urbanistico, dove per urbanistico non si intende solo il disegno della conformazione fisica, ma anche l’insieme delle scelte che determinano il ruolo del bene protetto nei confronti della città e del territorio, e della società che li abita della sua fruizione.
Io credo che è in questa direzione che il lavoro iniziato da Giorgio Todde con questo suo libro dovrebbe continuare. Se volessi proseguire la lettura de Il Noce ragionando sulle parole che indicano cose positive, oltre a “intatto” e “bellezza” ne troverei altre due: “conservazione” e “vincolo”.
Sono due parole decisive per chi soffre a causa di ciò vede quotidianamente: la distruzione di tutto ciò che vale in nome d’un solo “valore”, gli affari, la ricchezza individuale espressa in termini di moneta (l’unica “merce” che non è un “bene”: che non ha valore di per sé, ma solo per il potere che può procurare).
Ma la difesa di quello che c’è in nome del divieto di ogni trasformazione è un argine che non tiene a lungo. La trasformazione fa parte della vita. E per millenni si è trasformato il mondo migliorandolo (non sempre, ma spesso). E il paesaggio quale oggi lo ammiriamo e ne godiamo è il prodotto dell’applicazione del lavoro e della cultura dell’uomo alla natura: è il prodotto della collaborazione tra natura e storia (Emilio Sereni e Piero Bevilacqua sono due degli autori che a molti hanno insegnato parecchio a questo proposito.
Allora il problema non è quello di affermare “qui si conserva tutto quello che c’è”, “qui nessuna trasformazione è consentita”. E non è neppure quello di individuare alcune aree nelle quale quelle due parole, conservazione e vincolo, devono essere le uniche che valgono, recintarle e abbandonare tutto il testo alla trasformazione scriteriata. ma di seguire un percorso più difficile ma più efficace. La soluzione ragionevole, al tempo stesso tutelatrice ed efficace, è quella che la cultura italiana aveva individuato al tempo della “legge Galasso”.
Tutto il territorio è intriso di qualità: naturali, storiche, culturali. Queste qualità sono il prodotto della collaborazione tra natura e storia. In ogni brandello del territorio ci sono elementi da conservare ed elementi suscettibili (o bisognosi) d’essere trasformati. Anche un bosco richiede l’abbattimento di certi suoi alberi e il diradamento di certe sue essenze, e anche la necropoli richiede la manutenzione dei suoi elementi (quindi la trasformazione di ciò che gli eventi del tempo, se lasciati soli, provocherebbero). Anche l’edilizia storica, per rimanere viva, richiede trasformazioni, che siano però coerenti con le regole che hanno guidato nei secoli la sua formazione e le sue trasformazioni organiche.
Una cosa è importante stabilire senza equivoci. Le esigenze della tutela delle qualità (naturali, storiche, culturali) di ogni porzione di territorio hanno la priorità – in termini di valori, in termini di utilizzazioni, in termini di tempo – rispetto a ogni trasformazione. E finché regole saggiamente elaborate e rigorosamente amministrate non rendono possibile raggiungere questo status, difendiamo la conservazione anche generale (e generica), difendiamo il vincolo.
Su questa linea, del resto, è stato elaborato il piano paesaggistico della Sardegna. E su questa linea, sulla base di questi principi dovrebbe lavorare una pianificazione della città e del territorio che sappia cogliere l’insegnamento delle migliori esperienze del passato. Dato il mestiere che faccio, vorrei dire anzi che questo è il terreno proprio dell’urbanistica. Se questo mestiere è diventato oggi, troppo spesso, lo strumento di chi vuole trasformare per cancellare quello che c’è e ridurlo a moneta sonante nelle sue tasche, è perché altrettanto spesso i suoi operatori hanno rinunciato allo spirito critico – che è la premessa di ogni lavoro intellettuale – e hanno subito le volontà di una committenza (i sindaci, quando non addirittura gli operatori immobiliari) orientata alla difesa di interessi privati in contrasto con l‘interesse comune. L’interesse della “comunità larga”, costituita da quanti sono oggi presenti nel pianeta Terra, e da quanti lo saranno in futuro.
TITOLO SU LA Repubblica online, 4 dicembre 2010
cit. da Salvatore Settis, la Repubblica, 11 novembre 2010
Dall'intervista raccolta da Carla Ravaioli, il manifesto, 31 ottobre 2010
Bobo, l'Unità, 31 ottobre 2010
la vignetta è tratta da http://ilpunto-borsainvestimenti.blogspot.com/2010/02/italia-si-italia-no-crisis-what-crisis.html
La Repubblica, 25 maggio 2010
Esiste un bene comune che viene raramente considerato tale: il territorio, inteso non come mera aggregazione di elementi diversi (gli elementi naturali, i beni culturali, le comunità che lo abitano ecc. ecc.), né secondo approcci monodisciplinari che lo contemplino dal punto di vista di una sola delle “discipline” nelle quali si è frantumato il sapere dell’uomo, ma come sistema nel quale intrinsecamente s’intrecciano natura e storia, patrimoni da conservare ed esigenze sociali da soddisfare; come sistema che può essere compreso, difeso, trasformato unicamente se è considerato nell’insieme dei suoi aspetti e degli elementi che lo compongono. Il territorio, insomma come habitat dell’uomo (Bevilacqua 2009).
É alla tutela e alla messa in valore di questo bene comune che sono volte le attenzioni dell’urbanistica: più precisamente, della sua migliore tradizione, oggi appannata dal prevalere di tendenze corrive al mainstream dell’immobiliarismo neoliberistico (Salzano 2010). É a quello stesso obiettivo (alla tutela del bene comune territorio) che è indirizzata l’azione di numerosissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva, in Italia e negli alti paesi europei: l’azione di quella miriade di aggregazioni - temporanee o stabili - di persone che si incontrano per la difesa di questo o quell’altro spazio pubblico e destinato agli usi collettivi, per impedire interventi minacciosi per la salute degli abitanti, per contrastare la trasformazione di paesaggi godibili in distese di case e capannoni, per protestare contro i costi e i disagi della mobilità, per pretendere le attrezzature necessarie per sostenere la vita delle famiglie, per rivendicare l’accesso di tutti alle dotazioni comuni, per ottenere la soddisfazione del diritto a un’abitazione a condizioni sopportabili.
Alcune delle esperienze nelle quali sono coinvolto testimoniano come l’incontro tra queste due realtà (che potremmo definire il pensiero esperto e il pensiero militante) possano condurre a individuare alcune caratteristiche essenziali del bene comune territorio, e alcune modalità dell’aggressione di cui sono vittime. Mi riferisco alla partecipazione all’European Social Forum del 2008 a Malmö (Salzano 2009) e ad altre esperienze di collaborazione con la Cgil, alla conoscenza diretta delle attività della Rete toscana per la difesa del territorio fondata e guidata da Alberto Asor Rosa, dall’esperienza di costruzione di AltroVe, la rete veneta dei comitati e delle associazioni in cui sono personalmente coinvolto, e alle conoscenze che mi derivano dalla gestione di quel nodo di comunicazioni che è costituito ail sito eddyburg.it e dalla sua Scuola estiva di pianificazione territoriale.
L’insieme di queste esperienze mi ha convinto di due cose. Da una parte, della durezza, ampiezza e potenza dell’azione tesa a distruggere il bene comune territorio, e la grande fragilità delle risposte che fino ad oggi è stato possibile mettere in campo. Dall’altra parte, della necessità – per poter resistere e passare al contrattacco – di riflettere su un momento storico che la cultura ufficiale tende a mistificare rimuovendo dalla memoria collettiva gli elementi positivi: mi riferisco ai decenni a cavallo del 1970.
Il saccheggio
Ho provato a riassumere fatti e valutazioni sull’azione distruttiva del territorio in una nota del sito eddyburg.it, di cui riprenderò alcune formulazioni. Ho definito quell’azione come il prodotto di una strategia chiaramente individuabile: quella del saccheggio del bene territorio.
L’obiettivo è chiaro: far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere o divenire oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.
Per raggiungere quest’obiettivo il primo passaggio riguarda l’ideologia: precisamente, il peso assegnato alle diverse dimensioni della vita dell’uomo e ai saperi che ne determinano le condizioni. L’unica scienza valida è l’Economia. Tutti gli altri saperi sono squalificati: sono ridotti, da Scienza, a mera Tecnologia. E per scienza economica s’intende quella che descrive e ipostatizza l’economia data, questa economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, l’unico capace di misurare il valore delle cose.
Il secondo passaggio logico è la negazione dell’esistenza di beni non riducibili a merci: solo se ogni cosa è “merce”, tutto è soggetto al calcolo economico e il mercato può diventare la dimensione esclusiva delle scelte (e il mercato, nel frattempo, è stato ridoto a lla sua forma di monopolio od oligopolio collusivo: un ossimoro). Il terzo passaggio (e qui si passa decisamente dall’ideologia alla prassi) consiste nell’abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie; l’unica regola ammessa è quella del mondo dei pesci, grazie alla quale il grosso mangia il piccolo.
I beni che si vogliono ridurre a merci, i “commons” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza quotidiana e dalle cronache che su eddyburg e con le sue attività registriamo. Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, né rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’ acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.
Si tenta di cancellare o di privatizzare non solo i beni materiali, ma anche quelli che costituiscono la risposta storica alle esigenze che hanno prodotto nel territorio – nell’habitat dell’uomo – trasformazioni di tipo urbano: a cominciare dalle piazze, luogo aperto all’incontro di tutti gli abitanti, trasformate in parcheggi o svuotate da “non luoghi” alternativi (dove contano solo i “clienti”), proseguendo con le scuole, gli ospedali e alle altre attrezzature degli “standard urbanistici”, via via più trasferite dalla fruizione pubblica al servizio a pagamento, e per finire con i servizi per la mobilità, dove via via si squalifica e si riduce il trasporto collettivo (soprattutto quello per le piccole e le medie distanze) e si incentiva la motorizzazione privata. Insomma, tutti gli elementi del “welfare urbano” (possiamo definire così le conseguenze territoriali delle politiche del welfare state) che furono conquistati in due secoli di faticose vertenze sociali e politiche.
Il saccheggio del territorio è un aspetto di un processo culturale e sociale molto più ampio, che degrada e cancella, oltre all’habitat dell’uomo e della società, altre dimensioni e valori essenziali della vita . Il lavoro, la salute, l’eguaglianza, la solidarietà, l’etica. Il meccanismo è lo stesso: ridurre ogni cosa a merce e cancellare tutto ciò che lo impedisce; plagiare le persone e trasformarle, da cittadini a clienti (e sudditi), da produttori a consumatori (o schiavi). É un saccheggio globale, anche nel senso che riguarda tutte le dimensioni della vita personale e sociale. Provoca disagi e sofferenze, quindi genera reazioni. Proteste nascono a partire da ciascuno dei moltissimi aspetti minacciati: dalle diverse componenti del mondo del lavoro (i lavoratori licenziati, i precari, gli inoccupati), delle molteplici sfaccettature dell’ambiente e del territorio (gli spazi pubblici erosi, gli interventi invasivi, il degrado dei paesaggi), dalla riduzione della qualità della vita (l’assenza di abitazioni a prezzi ragionevoli, il costo dei servizi, i disagi della mobilità).
Ma l’insieme di questi malesseri sociali non si unifica, non raggiunge un livello di sintesi capace di competere con l’unitarietà del processo che provoca i mille aspetti del disagio. A una strategia compatta non sa contrapporre una strategia alternativa, ma solo un pulviscolo di proteste e proposte. E quand’anche strategie alternative si manifestano, come accade nella frammentata sinistra italiana, esse sono molteplici, e sono in competizione tra loro prima che contrapposte a quella dominante.
Il diritto alla città
Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avvenne in Italia ciò che era già avvenuto pochi decenni prima in aree meglio governate: le trasformazioni del territorio e la sua attrezzatura furono finalizzate non solo alla maggiore efficienza del sistema produttivo, ma anche al soddisfacimento di bisogno che postulavano modi collettivi per il loro soddisfacimento: l’apprendimento, la salute, la cultura, la rigenerazione fisica, la ricreazione. La stessa esigenza dell’abitare (che è certamente tra quelle primordiali nella trasformazione del pianeta in habitat dell’uomo) diede luogo a trasformazioni territoriali finalizzate a soluzioni collettive. Ciò avvenne soprattutto grazie alla pressione per migliori condizioni di vita che le organizzazioni politiche ed economiche della classe operaia, divenuta consapevole della sua forza costituita dalla solidarietà di fabbrica, riuscirono a strappare. (Il capitalismo recuperò terreno altrove, accrescendo lo sfruttamento nelle regioni colonizzate e negli ambiti della natura: ma questo è un altro discorso).
La riflessione teorica accompagnò l’affermazione del “welfare urbano” proponendo un nuovo diritto: il diritto alla città. Il primo teorizzatore di questo termine, Henry Levebvre (Lefebvre 1968), lo espresse in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio, e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni. Naturalmente queste due possibilità possono divenir effettuali se esiste un’ organizzazione urbana del territorio (ossia, se il territorio utilizzato come habitat dell’uomo non è una mera aggregazione di frammenti) e se ne esiste un governo unitario, e cioè un metodo che consenta di configurare un insieme sistematico delle trasformazioni desiderate. É esattamente ciò che si chiama pianificazione urbanistica e territoriale (ma più esatto sarebbe parlare di pianificazione della città e del territorio).
Negli anni immediatamente successivi altre esigenze si aggiunsero a quelle del welfare urbano. Si comprese che le risorse della natura sono limitate, mentre vengono utilizzate dalla macchina produttiva come se fossero inesauribili; si comprese che considerare il territorio come un giacimento da sfruttare e il recipiente d’ogni sozzura prodotta provocava rischi crescenti per la stessa vita degli uomini; si comprese che alcune caratteristiche proprie del territorio costituivano qualità meritevoli d’essere conservate e aperte alla fruizione di tutti. Nacquero, insomma, le esigenze e le proposte dell’ambientalismo. E anche la pianificazione territoriale e urbanistica arricchi i propri strumenti, fino alla deriva dei decenni a noi più vicini.
Credo che oggi si debbano riprendere i contenuti delle parole d’ordine di quegli anni lontani. I due obiettivi che costituiscono il “diritto alla città” devono diventare parte integrante della difesa della “città (e del territorio) come bene comune”. A tutti gli abitanti del pianeta – a quelli oggi presenti e a quelli di domani, al di là dei recinti antichi e di quelli nuovi – deve essere garantita la possibilità di fruire del territorio, nelle sue componenti naturali come in quelle storiche. E a tutti deve essere consentito di partecipare al processo delle decisioni.
Ciò significa che oggi bisogna prendere coscienza dell’insieme delle aggressioni cui il territorio viene sottoposto: non solo di quelle che ne colpiscono una parte e di un aspetto (la consistenza fisica, la possibilità di fruizione e d’accesso, l’appartenenza collettiva o pubblica), ma anche quella che distrugge quel tanto di democrazia nel processo delle decisioni che è stato garantito dal sistema della pianificazione urbanistica. Un sistema nel quale la decisione sugli strumenti che definiscono le trasformazioni previste spetta agli enti elettivi di primo grado, espressione diretta (almeno nella Costituzione della Repubblica) della volontà dei cittadini; nel quale chi partecipa alla decisione è l’insieme dell’organo consiliare, quindi anche le minoranze; nel quale infine al cittadino è garantita la conoscenza del quadro delle decisioni (il piano) prima della sua definitiva approvazione, e quindi il diritto di osservare e opporsi.
Come aggrediscono la sostanza dei beni comuni territoriali così i saccheggiatori distruggono le modalità mediante le quali essi possono diventare oggetti del “diritto alla città”. Sostituiscono all’urbanistica democratica quella contrattata con la proprietà immobiliare; trasferiscono al competenza delle decisioni dagli organi collegiali a quelli monocratici, e dalle istituzioni della Repubblica a commissari ad hoc o alle stesse aziende private; riducono tutti gli spazi (gli spiragli) nei quali può manifestarsi la volontà dei cittadini. Negano il principio stesso della pianificazione, come formazione d’un quadro coerente e sistemico delle trasformazioni progettate per il futuro.
Frammentare le scelte è un modo classico per eludere non solo la capacità d’incidere, ma perfino la conoscenza di ciò che si sta trasformando. E senza conoscenza l’azione di contrasto è cieca.
Note bibliografiche
Bevilacqua P., Che cos’è il territorio, relazione al Città Territorio Festival di Ferrara, 2009 [ qui in eddyburg ]
Salzano E., Urbanisti ieri e oggi, "AAA Italia" (Associazione nazionale archivi di architettura contemporanea), Bollettino n. 9, 2010 [ qui in eddyburg]
Salzano E., Mancini O., Chiloiro. S. (a cura di), Città e lavoro. La città come diritto e bene comune, Ediesse, Roma 2009
Lefebvre H., Le droit à la ville, Anthropos, Paris 1968 (trad. it: Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970)