da Logos Quotes, 22 settembre 2009
11 settembre - Due anniversari: il golpe in Cile (1973); le due torri (2001). Ci sarà un nesso?
La Repubblica, 25 maggio 2011
"la Repubblica", 28 agosto 2011. Anche qui in eddyburg.it
1. Il decreto 70 del 13 maggio propone, secondo le intenzioni di chi l’ha proposto e approvato, «misure diverse finalizzate allo sviluppo e al rilancio dell’economia». Secondo lei centra l’obiettivo?
Vi sono diverse “economie” possibili. Quella che domina nelle teorie e della prassi di chi governa oggi l’Italia è un’economia basata sulla privatizzazione dei beni comuni e sull’appropriazione da parte dei privati di tutte le rendite, a cominciare da quella immobiliare. É un’economia il cui obiettivo finale è arricchire i portafogli dei potenti, portando via alla collettività quello che può essere convertito in moneta nei tempi più brevi. A questo fine il decreto è veramente utile. Se invece l’obiettivo è un’economia che valorizzi il lavoro, che arricchisca le dotazioni sociali, che accresca il benessere degli abitanti (a partire dai più deboli) allora certamente gli effetti di questo decreto saranno devastanti.
2. Uno dei punti più discussi riguarda le coste, con tempi di concessione ai privati portati ai 20 dagli iniziali 90 anni, e i distretti turistico alberghieri: quali scenari si aprono?
La questione delle coste è l’esempio più limpido dell’economia perversa cui accennavo. Nella consapevolezza generale, e negli stessi istituti del diritto e delle istituzioni, le nostre coste sono un bene comune e un bene pubblico. Si è riconosciuta questa loro natura nelle stesse leggi e nello stesso assetto patrimoniale instaurato in Italia dalla borghesia capitalista e liberale. Le coste sono state inoltre riconosciute come una componente essenziale del paesaggio nazionale: una delle categorie di beni più rigorosamente tutelati, in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, e di tutta la legislazione di tutela del paesaggio nata con la legge Galasso del 1985 e delle successive stesure dei codici del paesaggio (dal testo unico della ministra Melandri al codice Urbani e Rutelli.
Tutelare le coste non significa solo rispettarne il paesaggio, ma anche garantirne la più aperta fruizione da parte di tutti. Aprirne l’uso alla cementificazione e alla privatizzazione significa quindi consentirne la distruzione per l’uno e l’altro aspetto. Un’aberrazione che avrebbe richiesto forma di protesta molto più accese di quelle che pure vi sono state, e che hanno prodotto il risultato, peraltro limitatissimo, di ridurre il periodo della loro privatizzazione. Considero del resto questo risultato del tutto irrisorio. La vicenda delle concessioni autostradali ci racconta con chiarezza una storia che certamente si ripeterà: vedremo puntualmente prorogare i termini alla scadenza dei vent’anni. Nel nostro disgraziato paese diventano definitive tutte le decisioni provvisorie, purchè siano devastanti per il pubblico e fruttuose per il privato.
Se davvero ridiventassimo un paese civile (è un’ipotesi che dopo i risultati delle recenti amministrative non mi sento di escludere) certamente impediremmo di governare alcunché a governanti che abbiano promosso, o accettato, un simile abominio: proclameremmo per loro l’interdizione perpetua a qualunque ruolo pubblico.
3. Il decreto continua a semplificare le procedure, sia autorizzative che burocratiche, in ambito edilizio per favorire l’intervento privato e lancia di fatto un nuovo Piano Casa. È deregulation o liberalizzazione?
Nel termine “liberalizzazione” è compresa una certa razionalità. Nell’ambito della produzione di merci (scarpe o panettoni, chiodi o caramelle, opere edilizie o tubi d’acciaio) è ragionevole sostenere che non è compito del settore pubblco produrli. La regolamentazione di ciò che si può fare sul territorio, e in che modi, quantità, funzioni, è certamente nelle competenze di una istituzione che rappresenti la totalità dei cittadini. Del resto la pianificazione urbanistica moderna è stata invenata dagli stati liberali e borghesi nell’età del capitalismo, proprio perché ci si è resi conto che il mercato, da solo, non sapeva né poteva risolvere alcune questioni che richiedevano una visione (e una decisione) collettiva, d’insieme, sistemica. Eppure in Italia siamo proprio nel campo della deregulation proprio in uno dei domini in cui essa è più negativa. Il carattere stupidamente reazionario di queste norme è veramente straordinario; molto più imbarazzante, per noi italiani, che il bunga bunga.
4. Il decreto modifica anche il Codice dei beni culturali, portando ad esempio a 70 anni il limite di 50 per potere apportare vincoli di tutela per i beni immobili. Quale è la sua valutazione come uomo di cultura?
Anche qui siamo in presenza di una follia. Non c’è bisogno di essere “uomo di cultura” per comprendere che cancellare storia e arte è un segno di incapacità a comprendere i principi base della civiltà. Esiste futuro solo per un popolo che conosce e rispetta il suo passato e apprende da esso. Il fatto è che gli anni di cui si vorrebbero cancellare le testimonianze architettoniche sono stati gli anni più fruttuosi della nostra storia recente. Gli anni della Resistenza, della Repubblica, della Costituzione, della speranza per dei domani che cantassero. Gli anni, per esempio, del monumento alle Fosse ardeatine, epitome di ciò che vogliono distruggere.
5. L’Italia attende ormai da molti anni una «legge di governo del territorio» che superi i provvedimenti frammentari e a volte contraddittori che, come conferma anche quest'ultimo, continuano a regolare gli interventi sul territorio. Non c'è anche una responsabilità delle troppe divisioni tra culture non solo urbanistiche?
Non basta una nuova legge urbanistica. Serve una buona legge urbanistica: che sia finalizzata a organizzare città e territori nell’interesse dei cittadini di oggi e di domani, e non nell’interesse della rebdita immpbiloiare, del suo accresciembto, della sua appropriazione da parte dei più potenti. Con questi chiari di luna…
Esiste un bene comune che viene raramente considerato tale: il territorio, inteso non come mera aggregazione di elementi diversi (gli elementi naturali, i beni culturali, le comunità che lo abitano ecc. ecc.), né secondo approcci monodisciplinari che lo contemplino dal punto di vista di una sola delle “discipline” nelle quali si è frantumato il sapere dell’uomo, ma come sistema nel quale intrinsecamente s’intrecciano natura e storia, patrimoni da conservare ed esigenze sociali da soddisfare; come sistema che può essere compreso, difeso, trasformato unicamente se è considerato nell’insieme dei suoi aspetti e degli elementi che lo compongono. Il territorio, insomma come habitat dell’uomo (Bevilacqua 2009).
É alla tutela e alla messa in valore di questo bene comune che sono volte le attenzioni dell’urbanistica: più precisamente, della sua migliore tradizione, oggi appannata dal prevalere di tendenze corrive al mainstream dell’immobiliarismo neoliberistico (Salzano 2010). É a quello stesso obiettivo (alla tutela del bene comune territorio) che è indirizzata l’azione di numerosissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva, in Italia e negli alti paesi europei: l’azione di quella miriade di aggregazioni - temporanee o stabili - di persone che si incontrano per la difesa di questo o quell’altro spazio pubblico e destinato agli usi collettivi, per impedire interventi minacciosi per la salute degli abitanti, per contrastare la trasformazione di paesaggi godibili in distese di case e capannoni, per protestare contro i costi e i disagi della mobilità, per pretendere le attrezzature necessarie per sostenere la vita delle famiglie, per rivendicare l’accesso di tutti alle dotazioni comuni, per ottenere la soddisfazione del diritto a un’abitazione a condizioni sopportabili.
Alcune delle esperienze nelle quali sono coinvolto testimoniano come l’incontro tra queste due realtà (che potremmo definire il pensiero esperto e il pensiero militante) possano condurre a individuare alcune caratteristiche essenziali del bene comune territorio, e alcune modalità dell’aggressione di cui sono vittime. Mi riferisco alla partecipazione all’European Social Forum del 2008 a Malmö (Salzano 2009) e ad altre esperienze di collaborazione con la Cgil, alla conoscenza diretta delle attività della Rete toscana per la difesa del territorio fondata e guidata da Alberto Asor Rosa, dall’esperienza di costruzione di AltroVe, la rete veneta dei comitati e delle associazioni in cui sono personalmente coinvolto, e alle conoscenze che mi derivano dalla gestione di quel nodo di comunicazioni che è costituito ail sito eddyburg.it e dalla sua Scuola estiva di pianificazione territoriale.
L’insieme di queste esperienze mi ha convinto di due cose. Da una parte, della durezza, ampiezza e potenza dell’azione tesa a distruggere il bene comune territorio, e la grande fragilità delle risposte che fino ad oggi è stato possibile mettere in campo. Dall’altra parte, della necessità – per poter resistere e passare al contrattacco – di riflettere su un momento storico che la cultura ufficiale tende a mistificare rimuovendo dalla memoria collettiva gli elementi positivi: mi riferisco ai decenni a cavallo del 1970.
Il saccheggio
Ho provato a riassumere fatti e valutazioni sull’azione distruttiva del territorio in una nota del sito eddyburg.it, di cui riprenderò alcune formulazioni. Ho definito quell’azione come il prodotto di una strategia chiaramente individuabile: quella del saccheggio del bene territorio.
L’obiettivo è chiaro: far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere o divenire oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.
Per raggiungere quest’obiettivo il primo passaggio riguarda l’ideologia: precisamente, il peso assegnato alle diverse dimensioni della vita dell’uomo e ai saperi che ne determinano le condizioni. L’unica scienza valida è l’Economia. Tutti gli altri saperi sono squalificati: sono ridotti, da Scienza, a mera Tecnologia. E per scienza economica s’intende quella che descrive e ipostatizza l’economia data, questa economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, l’unico capace di misurare il valore delle cose.
Il secondo passaggio logico è la negazione dell’esistenza di beni non riducibili a merci: solo se ogni cosa è “merce”, tutto è soggetto al calcolo economico e il mercato può diventare la dimensione esclusiva delle scelte (e il mercato, nel frattempo, è stato ridoto a lla sua forma di monopolio od oligopolio collusivo: un ossimoro). Il terzo passaggio (e qui si passa decisamente dall’ideologia alla prassi) consiste nell’abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie; l’unica regola ammessa è quella del mondo dei pesci, grazie alla quale il grosso mangia il piccolo.
I beni che si vogliono ridurre a merci, i “commons” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza quotidiana e dalle cronache che su eddyburg e con le sue attività registriamo. Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, né rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.
Si tenta di cancellare o di privatizzare non solo i beni materiali, ma anche quelli che costituiscono la risposta storica alle esigenze che hanno prodotto nel territorio – nell’habitat dell’uomo – trasformazioni di tipo urbano: a cominciare dalle piazze, luogo aperto all’incontro di tutti gli abitanti, trasformate in parcheggi o svuotate da “non luoghi” alternativi (dove contano solo i “clienti”), proseguendo con le scuole, gli ospedali e alle altre attrezzature degli “standard urbanistici”, via via più trasferite dalla fruizione pubblica al servizio a pagamento, e per finire con i servizi per la mobilità, dove via via si squalifica e si riduce il trasporto collettivo (soprattutto quello per le piccole e le medie distanze) e si incentiva la motorizzazione privata. Insomma, tutti gli elementi del “welfare urbano” (possiamo definire così le conseguenze territoriali delle politiche del welfare state) che furono conquistati in due secoli di faticose vertenze sociali e politiche.
Il saccheggio del territorio è un aspetto di un processo culturale e sociale molto più ampio, che degrada e cancella, oltre all’habitat dell’uomo e della società, altre dimensioni e valori essenziali della vita . Il lavoro, la salute, l’eguaglianza, la solidarietà, l’etica. Il meccanismo è lo stesso: ridurre ogni cosa a merce e cancellare tutto ciò che lo impedisce; plagiare le persone e trasformarle, da cittadini a clienti (e sudditi), da produttori a consumatori (o schiavi). É un saccheggio globale, anche nel senso che riguarda tutte le dimensioni della vita personale e sociale. Provoca disagi e sofferenze, quindi genera reazioni. Proteste nascono a partire da ciascuno dei moltissimi aspetti minacciati: dalle diverse componenti del mondo del lavoro (i lavoratori licenziati, i precari, gli inoccupati), delle molteplici sfaccettature dell’ambiente e del territorio (gli spazi pubblici erosi, gli interventi invasivi, il degrado dei paesaggi), dalla riduzione della qualità della vita (l’assenza di abitazioni a prezzi ragionevoli, il costo dei servizi, i disagi della mobilità).
Ma l’insieme di questi malesseri sociali non si unifica, non raggiunge un livello di sintesi capace di competere con l’unitarietà del processo che provoca i mille aspetti del disagio. A una strategia compatta non sa contrapporre una strategia alternativa, ma solo un pulviscolo di proteste e proposte. E quand’anche strategie alternative si manifestano, come accade nella frammentata sinistra italiana, esse sono molteplici, e sono in competizione tra loro prima che contrapposte a quella dominante.
Il diritto alla città
Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avvenne in Italia ciò che era già avvenuto pochi decenni prima in aree meglio governate: le trasformazioni del territorio e la sua attrezzatura furono finalizzate non solo alla maggiore efficienza del sistema produttivo, ma anche al soddisfacimento di bisogno che postulavano modi collettivi per il loro soddisfacimento: l’apprendimento, la salute, la cultura, la rigenerazione fisica, la ricreazione. La stessa esigenza dell’abitare (che è certamente tra quelle primordiali nella trasformazione del pianeta in habitat dell’uomo) diede luogo a trasformazioni territoriali finalizzate a soluzioni collettive. Ciò avvenne soprattutto grazie alla pressione per migliori condizioni di vita che le organizzazioni politiche ed economiche della classe operaia, divenuta consapevole della sua forza costituita dalla solidarietà di fabbrica, riuscirono a strappare. (Il capitalismo recuperò terreno altrove, accrescendo lo sfruttamento nelle regioni colonizzate e negli ambiti della natura: ma questo è un altro discorso).
La riflessione teorica accompagnò l’affermazione del “welfare urbano” proponendo un nuovo diritto: il diritto alla città. Il primo teorizzatore di questo termine, Henry Levebvre (Lefebvre 1968), lo espresse in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio, e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni. Naturalmente queste due possibilità possono divenir effettuali se esiste un’organizzazione urbana del territorio (ossia, se il territorio utilizzato come habitat dell’uomo non è una mera aggregazione di frammenti) e se ne esiste un governo unitario, e cioè un metodo che consenta di configurare un insieme sistematico delle trasformazioni desiderate. É esattamente ciò che si chiama pianificazione urbanistica e territoriale (ma più esatto sarebbe parlare di pianificazione della città e del territorio).
Negli anni immediatamente successivi altre esigenze si aggiunsero a quelle del welfare urbano. Si comprese che le risorse della natura sono limitate, mentre vengono utilizzate dalla macchina produttiva come se fossero inesauribili; si comprese che considerare il territorio come un giacimento da sfruttare e il recipiente d’ogni sozzura prodotta provocava rischi crescenti per la stessa vita degli uomini; si comprese che alcune caratteristiche proprie del territorio costituivano qualità meritevoli d’essere conservate e aperte alla fruizione di tutti. Nacquero, insomma, le esigenze e le proposte dell’ambientalismo. E anche la pianificazione territoriale e urbanistica arricchi i propri strumenti, fino alla deriva dei decenni a noi più vicini.
Credo che oggi si debbano riprendere i contenuti delle parole d’ordine di quegli anni lontani. I due obiettivi che costituiscono il “diritto alla città” devono diventare parte integrante della difesa della “città (e del territorio) come bene comune”. A tutti gli abitanti del pianeta – a quelli oggi presenti e a quelli di domani, al di là dei recinti antichi e di quelli nuovi – deve essere garantita la possibilità di fruire del territorio, nelle sue componenti naturali come in quelle storiche. E a tutti deve essere consentito di partecipare al processo delle decisioni.
Ciò significa che oggi bisogna prendere coscienza dell’insieme delle aggressioni cui il territorio viene sottoposto: non solo di quelle che ne colpiscono una parte e di un aspetto (la consistenza fisica, la possibilità di fruizione e d’accesso, l’appartenenza collettiva o pubblica), ma anche quella che distrugge quel tanto di democrazia nel processo delle decisioni che è stato garantito dal sistema della pianificazione urbanistica. Un sistema nel quale la decisione sugli strumenti che definiscono le trasformazioni previste spetta agli enti elettivi di primo grado, espressione diretta (almeno nella Costituzione della Repubblica) della volontà dei cittadini; nel quale chi partecipa alla decisione è l’insieme dell’organo consiliare, quindi anche le minoranze; nel quale infine al cittadino è garantita la conoscenza del quadro delle decisioni (il piano) prima della sua definitiva approvazione, e quindi il diritto di osservare e opporsi.
Come aggrediscono la sostanza dei beni comuni territoriali così i saccheggiatori distruggono le modalità mediante le quali essi possono diventare oggetti del “diritto alla città”. Sostituiscono all’urbanistica democratica quella contrattata con la proprietà immobiliare; trasferiscono al competenza delle decisioni dagli organi collegiali a quelli monocratici, e dalle istituzioni della Repubblica a commissari ad hoc o alle stesse aziende private; riducono tutti gli spazi (gli spiragli) nei quali può manifestarsi la volontà dei cittadini. Negano il principio stesso della pianificazione, come formazione d’un quadro coerente e sistemico delle trasformazioni progettate per il futuro.
Frammentare le scelte è un modo classico per eludere non solo la capacità d’incidere, ma perfino la conoscenza di ciò che si sta trasformando. E senza conoscenza l’azione di contrasto è cieca.
Bibliografia
Bevilacqua P., Che cos’è il territorio, relazione al Città Territorio Festival di Ferrara, 2009 [http://eddyburg.it/article/articleview/11266/1/304]
Salzano E., Urbanisti ieri e oggi, "AAA Italia" (Associazione nazionale archivi di architettura contemporanea), Bollettino n. 9, 2010 [http://eddyburg.it/article/articleview/15437/0/321]
Salzano E., Mancini O., Chiloiro. S. (a cura di), Città e lavoro. La città come diritto e bene comune, Ediesse, Roma 2009
Lefebvre H., Le droit à la ville, Anthropos, Paris 1968 (trad. it: Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970)
Qui, in wikipedia, potete trovare la singolare storia di fraintendimenti grazie ai quali l'eroica morte a Pavia del signor La Palice (poi volgarizzato in Lapalisse)divenne l'origine dell'aggettivo "lapalissiano", cioè affermazione di una verità talmente ovvia da apparire stupida.
"Il Venerdì di Repubblica", 12 agosto 2011.
"E che cosa sono mai questi 'mercati', ai quali è stata trasferita quella 'sovranità', cioè il governo della vita di milioni di persone, che le Costituzioni di tutti gli Stati democratici assegnano al popolo? Sono la finanza internazionale, la forma più compiuta, astratta e 'delocalizzata' del capitale. Dietro il quale ci sono però grandi patrimoni privati - si chiamino hedge fund, private equity o fondi di investimento - che sono cresciuti grazie a un gigantesco trasferimento di ricchezze (mediamente, il 10 per cento del Pil di quasi tutti i paesi; il che, per un salario, può però voler dire il 30-40 o anche il 50 per cento del potere d'acquisto) dai redditi da lavoro a quelli da capitale. Poi ci sono le grandi banche, a cui la deregolamentazione degli ultimi venti anni ha permesso di investire, ma anche di speculare, con il denaro dei depositanti. Al terzo posto vengono le grandi multinazionali (petrolio, grande distribuzione, costruzioni, alimentare, farmaceutica, ecc.) che "'ntegrano' i profitti delle attività estrattive o manifatturiere operando in borsa con le proprie tesorerie". (Guido Viale, L'Italia al bowling d'Europa, il manifesto 5 agosto 2011)
Rinviamo all'articolo "Preistoria della ex Falk di Sesto San Giovanni", di S. Brenna e agli scritti "Città dei cittadini o città della rendita " e "20 anni di urbanistica contrattata", di E. Salzano, entrambi su eddyburg
Dal commento alla decisione della Lega di votare contro la protezione parlamentare per il deputato berlusconiano Papa, "il manifesto", 21 luglio 2011
Un progetto, a suo modo coerente, di sostituzione del privato al pubblico ha caratterizzato la politica urbanistica di Berlusconi. Ne sono esempi principali il cosiddetto piano-casa e gli interventi per il post terremoto all'Aquila. Linea comune è stata l'abbandono delle regole pubbliche, utili a costruire nel territorio un insieme sistemico, e il privilegio dato ad una visione individualistica dello spazio. Dimenticando che città e società sono due aspetti della stessa realtà: una non vive senza l'altra. Il consenso a questa politica l'ha trovato cambiando gli strumenti della formazione: non più scuola, parrocchia e casa del popolo, ma televisione commerciale.
Uomo di poche letture e pochi pensieri Berlusconi doveva affidarsi, anche per la sua politica urbanistica, alle pulsioni individuali e alle esperienze personali. Ecco allora i suoi due principi: ognuno è proprietario a casa sua, e fa della sua terra ciò che vuole; i problemi delle città si risolvono costruendo attorno a ciascuna di quelle esistenti una Citta Due, come ha fatto lui a Milano. Questi due principi non sono rimasti mere dichiarazioni. Si sono tradotti in coerenti politiche.
Il pilastro della visione urbanistica
Il pilastro dell’azione del Cavaliere è costituito dalla distruzione del primato dell’autorità pubblica nel governo del territorio.
É da alcuni secoli che le democrazie liberali hanno compreso che non tutti i problemi della società sono risolti dal mercato e che alcune dinamiche, come la crescita e le trasformazioni delle città e dei territorio, dovevano essere governate da un potere esterno al mercato: un potere pubblico. Il territorio è un insieme sistemico, in cui la modifica di un elemento comporta modifiche in tutti gli altri: non si possono sistemare le fabbriche se si trascura l’inquinamento che producono e le infrastrutture che devono alimentarle; non si possono localizzare le abitazioni e le scuole se non si organizzano in loro funzione ferrovie e strade; non si possono localizzare le urbanizzazioni senza sapere che risorse naturali ci sono sotto la superficie. Ecco che allora, già agli albori del XIX secolo, le democrazie borghesi inventarono la pianificazione urbanistica (poi estesa al territorio): un insieme di metodi e strumenti anch’esso, appunto, di carattere sistemico.
La pianificazione urbanistica, in un regime democratico, consente anche trasparenza (maggiore o minore) nella regolazione dei conflitti che nascono tra le diverse utilizzazioni possibili del suolo: conflitti inevitabili nel regime economico e patrimoniale attuale nel mondo capitalistico. Quali che siano comunque gli interessi che si vogliono privilegiare, le leggi delle borghesie liberali disponevano comunque che, in caso di contrasto tra interesse pubblico e interesse privato nell’uso del territorio, fosse il primo a prevalere. Ed è esattamente in questo spirito che le prime leggi urbanistiche del XIX secolo (e in Italia, dal 1865 fino alla legge urbanistica del 1942) determinavano l’esproprio per pubblica utilità, il pagamento di indennità che non remuneravano il maggior valore derivante dalle opere e le decisioni pubbliche, il prelievo fiscale di una quota dei plusvalori derivanti da queste. E adottavano, come quadro prescrittivo di tutte le trasformazioni della città (poi del territorio) la pianificazione.
La demolizione della pianificazione urbanistica è al fondo della visione urbanistica del Cavaliere proprio per le stesse ragioni che ne hanno storicamente motivato nascita e consolidamento. Lo è perché la pianificazione esprime un insieme di regole dettate dal potere pubblico, e lo è perché esprime una visione olistica della politica (quindi antagonista rispetto alla pratica discrezionale del caso per caso e del “quando voglio faccio”). L’odio per la pianificazione urbanistica si esprime in numerosi atti di governo, e in dichiarazioni pubbliche che hanno, nella società attuale, altrettanto valore di una norma.
La continua riproposizione dei condoni dell’abusivismo edilizio e urbanistico ha costituito un invito quasi esplicito a disprezzare piani e regole, “tanto prima o poi ogni abuso sarà condonato”. L’allentamento dei controlli edilizi (dalla concessione edilizia, via via, fino all’autocertificazione dell’intervento) ha significato passare gradualmente dal principio “il potere pubblico stabilisce che cosa si può fare e che cosa si può fare sul territorio e poi il privato agisce e viene penalizzato se contravviene”, al principio “fai quello che vuoi e se violi qualche legge poi, se ho tempo e voglia, provvederò eventualmente a penalizzarti”. Il trasferimento della potestà deliberativa su scelte rilevanti per l’organizzazione del territorio dagli organi elettivi collegiali agli organi di maggioranza e a quelli monocratici (dai consigli alle giunte e ai sindaci e presidenti), hanno vanificato la capacità di controllo da parte delle minoranze e di conoscenza da parte dei cittadini, sacrificando la democrazia al mito della governabilità. L’impoverimento degli strumenti della funzione pubblica, obbligati a ridurre la quantità e la qualità del personale e delle strutture, a cominciare da quelle addette alla pianificazione del territorio e alla vigilanza su di esso ha reso via via impossibile governare efficacemente anche quelle amministrazioni (e non sono molte) che hanno cercato di andare controcorrente. Si è addirittura giunti ad attribuire funzioni rilevantissime, geloso appannaggio dell'amministrazione pubblica, a soggetti ( commissari) scelti in ragione della loro fedeltà al gruppo di potere dominante, con pieno potere di sostituzione agli organi democratici e di deroga dalle procedure di legge. La privatizzazione e commercializzazione dei beni pubblici è stata la conseguenza patrimoniale di quelle azioni sui dispositivi [1].
“Piano-casa” e dopo-terremoto
I casi più rappresentativi della visione urbanistica berlusconiana sono rappresentati da due avvenimenti: il famoso “piano-casa”, la gestione del dopo terremoto in Abruzzo.
Chiamare “piano-casa” quel singolare provvedimento, più mediatico che strutturale, lanciato da Berlusconi nel marzo 2009 è stato già di per sé un bluff. Il provvedimento annunciato con quel titolo non è un programma finalizzato alla realizzazione di alloggi per quelle fasce di abitanti della Repubblica che non riescono a trovare soddisfazione rivolgendosi al mercato privato (come fu per tutti i provvedimenti che si sono susseguiti dalla Liberazione a Prodi), ma semplicemente l’incentivo a chi possedeva già un’abitazione, o comunque un volume edificato, di ampliare la sua proprietà immobiliare e trasformarla nelle sue utilizzazioni, derogando esplicitamente da tutti i regolamenti e i piani nonché (almeno in una prima fase) dalle stesse norme di prevenzione dai rischi o di tutela dei beni culturali e del paesaggio.
Era facile comprendere che aumentare le cubature e le superfici delle costruzioni esistenti in deroga a piani (per di più già spesso sovradimensionati) avrebbe significato compromettere tutte le condizioni della vivibilità: peggiorare le condizioni del traffico, il carico delle reti dell’acqua e delle fogne, ridurre l’efficienza delle scuole, del verde, dei servizi sociali, peggiorare le condizioni dell’aria e dell’acqua, ridurre gli spazi pubblici, rendere più difficile la convivenza. E avrebbe significato privilegiare, nell’economia, le componenti parassitarie rappresentate dalla speculazione immobiliare rispetto a quelle della ricerca, dell’innovazione dei sistemi produttivi, dell’utilizzazione delle risorse peculiari della nostra terra.
Tutti sono caduti nella trappola. Dimenticando la realtà (cioè l’esistenza di un vero “problema della casa”, che quel provvedimento non affrontava neppure marginalmente), trascurando l’impatto che quella linea d’azione avrebbe avuto sulle condizioni delle città, ignorando perfino la sua evidente incostituzionalità [2], tutti accettarono per moneta sonante il “piano-casa”; tranne pochissime eccezioni. Fu addirittura una “regione rossa”, la Toscana, ad adeguare per prima la sua normativa al dictat berlusconiano. Certo, limandone le punte più aspre, ma accettando comunque quel tema: arricchire l’edilizia privata, consolidare il “blocco edilizio”, premiando gli immobiliaristi piccoli e grandi invece di affrontare il problema di chi la casa non ce l’ha.
La “ricostruzione” dei luoghi colpiti dal terremoto in Abruzzo (l’altra scelta emblematica del regime berlusconiano) è una sintesi dell’immaginario urbanistico del Cavaliere. Già nei primi giorni del dopo-terremoto aveva colpito il modo in cui il premier aveva afferrato l’occasione del terremoto per farsi propaganda. Ha colpito gli osservatori più attenti il divario tra la sicumera delle promesse sui tempi e sull’ampiezza della ricostruzione e i tempi e le deficienze quantitative delle realizzazioni. Hanno preoccupato le voci delle infiltrazioni mafiose negli “affari” della ricostruzione, agevolati dalla logica discrezionale dell’emergenza straordinaria e del ricorso al commissariamento. Hanno colpito le condizioni di vita nelle tendopoli: una vita più simile a quella di un campo di concentramento che al riparo provvisorio d’una comunità di cittadini.
Ma la vera tragedia è stata nel modo adottato dal governo (e sostanzialmente accettato dall’opposizione) di procedere alla ricostruzione in riferimento soprattutto a due scelte, tra loro strettamente collegate: l’affidamento della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la ricostruzione “altrove” delle case distrutte.
Con la prima scelta si è colpita la democrazia, e quindi la dimensione stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e si è rafforzato nel tempo. Invece di allargare l’area della partecipazione popolare (una necessità che l’emergenza rendeva particolarmente stringente) la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano.
Con la seconda scelta si è deciso sostituire, alla ricostruzione della città danneggiata dal sisma, un paio di decine di lottizzazioni su aree scelte casualmente senza nessuna logica territoriale e sociale. Lottizzazioni per di più senza attrezzature sociali, senza luoghi di aggregazione: “con una cura maniacale dell’interno degli alloggi”, come scrivono gli autori del rapporto che per primo ha rotto il velo roseo che avvolgeva l’operazione [3], che rivela come per l’ideologia di Berlusconi (le esigenze dell’uomo si riducono a quello dell’individuo: la società cui appartiene non esiste e non interessa. Anzi, può essere minacciosa. Che ciascuno sia solo nel suo guscio, naturalmente alimentato da un televisore.
Le scelte del dopo-terremoto hanno colpito direttamente la società. Città e società sono due aspetti d’una medesima realtà: l’una non vive senza l’altra. Una città svuotata della società che l’ha costruita e trasformata nei secoli e negli anni, che l’abita e la vive, non è una città più di quanto lo siano le splendide rovine d’una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d’una Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro partecipazione) privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di individui dispersi.
Questa, del resto, è la direzione di marcia dell’attuale maggioranza, debolmente e inefficacemente contrastata dall’opposizione. L’impiego del ricorso al commissario per qualsiasi opera o azione che si vuol fare calpestando ogni possibile obiezione o dissenso: l’apoteosi della governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti. La costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare, rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia, che sono abitate da una società viva. Non aveva promesso Berlusconi una “new city” per ogni capoluogo di provincia?
Come per il “piano-casa” anche per la cosidetta “ricostruzione” in Abruzzo l’opposizione è caduta in pieno nella trappola mediatica. Per molti mesi, quando i progetti erano chiarissimi nella loro impostazione e nel loro svolgimento, perfino la stampa più ostile esprimeva lodi per il comportamento della coppia Berlusconi-Bertolaso. Il fatto è che entrambi i versanti dello schieramento politico e culturale condividono le stesse preferenze: privilegiare la governabilità sulla democrazia, scegliere la tempestività dell’intervento trascurando ricerca laboriosa della soluzione più idonea, cancellare la storia e dimenticare così gli ammaestramenti del passato.
L’urbanistica di Berlusconi esprime, in larghissima misura, una strategia che non può che definirsi bipartisan. Una strategia che assume una certa idea di “sviluppo” come l’obiettivo generale cui tendere e cui ispirare l’intera dinamica della società, che vede nel mercato lo strumento capace di misurare, meglio d’ogni altro, non solo il “valore di scambio” delle merci, ma ogni valore che abbia un senso, e che infine nega, o nasconde, o riduce al massimo, la dimensione pubblica privilegiando al massimo quella privata. Ma Berlusconi innesta una marcia in più: assume privatisticamente i poteri pubblici, utilizzando per gestirli i suoi commissari. Les jeux sont faits; il mito del mercato è stato utilizzato per sostituire a quest'ultimo il potere monopolistico di un monarca assoluto.
La strategia del saccheggio
Nella concezione berlusconiana dell’uso del territorio (e più in generale dei beni comuni) l’obiettivo si specifica con chiarezza, esprimendosi in quella che si può definire la strategia del saccheggio[4]. Bisogna far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa. Bisogna negare l’esistenza di beni non riducibili a merci, perchè se ogni cosa è “merce”, ogni cosa è soggetta al calcolo economico e il mercato diventa la dimensione esclusiva delle scelte. Bisogna abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie.
Ecco allora che il suolo deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, nè rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Devono essere privatizzati gli elementi del paesaggio la cui “valorizzazione” può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.
Naturalmente, come abbiamo visto, si devono distruggere le regole. Ma farlo non si può senza ottenere il consenso necessario, poiché (e finché) si opera in un contesto nel quale bisogna rispettare le forme della democrazia. Allora bisogna cambiare la testa della gente. Via lo spirito critico, via la conoscenza, via il sapere diffuso. Via la memoria, se il passato recente ricorda ai più anziani che cosa era stato conquistato e che cosa ci stanno togliendo. E via la storia, magistra vitae e testimonianza del fatto che non tutto è già scritto e che il futuro non è necessariamente appiattito sul presente (non è vero che “There Is No Alternatives”).
Per cambiare le teste basta cambiare gli strumenti della formazione: non più la scuola, la parrocchia, la casa del popolo, è la televisione commerciale che foggia le teste e le coscienze della gente da almeno trent’anni. E allora, disponendo di questo strumento si può far diventare pensiero corrente gli slogan utili alla strategia del saccheggio (“meno stato più mercato”, “privato è bello”, “padrone a casa mia”, “meno tasse per tutti”) e far credere alla “gente” che benessere significa modernizzazione, sviluppo significa crescita, democrazia significa votare una volta tanto, privato è meglio che pubblico, Io è meglio che Noi.
[1]A proposito delle iniziative di Berlusconi nel settore immobiliare (quindi nel campo del territorio e dell'urbanistica), Walter Tocci osserva che «l'insieme di questi provvedimenti configura una coerente politica nazionale, forse l'unica che può fregiarsi di questo titolo, poiché in nessun altro settore si è realizzata una tale concordia di obiettivi e di realizzazioni. Innanzitutto, sul piano politico con una relativa sintonia tra destra e sinistra». "L’insostenibile ascesa della rendita urbana", Democrazia e Diritto, n 1/2009, p. 27.
[2]Vincenzo Cerulli Irelli, Luca De Lucia, “Il secondo 'piano casa': una incostituzionale depianificazione del territorio”, Democrazia e Diritto, n 1/2009, p. 106-116.
[3]Comitatus Aquilanus, L’Aquila. Non si uccide così anche una città?, a cura di Georg Frisch, Clen, Napoli 2009
[4]Questi temi sono affrontati più ampiamente nel sito web eddyburg.it. Vedi in particolare l'”eddytoriale” n. 143.
Questione di classe. Il ministro Tremonti aveva detto: siamo tutti a bordo del Titalic, ricchi e poveri, quelli di prima classe e quelli di terza.
“You cannot solve a problem from the same consciousness that created it. You must learn to see the world anew.”
Caro Signor Presidente, mi permetto di rivolgermi a lei per la mia antica frequentazione del Cespe, il centro di politica economica del Pci. Con tutto il rispetto, lei è stato ingannato a proposito della Val di Susa. La popolazione della Valle sta subendo una violenza insopportabile, che arriva tra le sue case. Non poche saranno abbattute. Si è creata una situazione che più che a una servitù di passaggio, assomiglia a una servitù per la vita. La violenza è sempre deprecabile, ma in Val di Susa siamo di fronte a una violenza grande, del denaro.
I lavori continueranno per dieci e più anni. I bambini cresceranno in miniera, tra polvere e camion di residui di scavo; enormi macchinari disumani e orribili scoppi rumorosi. Le fonti sotterranee saranno compromesse o si perdranno come troppo spesso avviene per gli scavi nella montagna. Forse l'acqua sparirà del tutto - nessuno dei fautori del tunnel ha fatto studi in proposito - e la Valle dovrà essere rifornita dalla pianura, con appositi trasporti di acqua da bere. L'agricoltura perfetta della Valle, i legumi, il vino d'altura, spariranno senza rimedio. Tutto un prevedibile disastro ecologico in cambio di un treno inutile, esagerato simbolo di una concezione sconfitta; e per eseguire un ordine ingiusto.
Caro Presidente, lei ci ha insegnato che gli ordini ingiusti non si eseguono, agli ordini ingiusti si resiste. Lei, Presidente, ha affermato nel suo comunicato che «non si può tollerare che legittime manifestazioni di dissenso, cui partecipano pacificamente cittadini e famiglie si sovrappongano provenienti dal di fuori, squadre militarizzate per condurre inaudite azioni aggressive contro reparti di polizia chiamati a far rispettare la legge».
Ci son dunque due leggi e anche chi protesta è dentro la legge, non solo chi ha il compito di farla rispettare. Tutto questo deve offrire un'ampia materia di riflessione a ogni persona che non viva di preconcetti. Proviamo dunque a discutere nel merito delle cose. Il treno Tav dà lavoro oggi e ne darà per anni. Domani, il treno entrerà in un progetto di viaggiatori e scambi di merci altissimo e crescente.
Ma è proprio così? In verità, l'oggi è ben diverso da come spesso lo si racconta: traffici e passeggeri sono in netta diminuzione rispetto alle previsioni sulle quali l'opera era stata decisa. Per il futuro la vera preoccupazione è che la Valle e il mondo siano soffocati dall'inquinamento, dal troppo pieno; che l'acqua pulita venga a mancare e anche il nutrirsi possa presentare qualche problema maggiore. Per questo una Valle fertile e pulita è un obiettivo intelligente e di primaria importanza.
Noi sappiamo, presidente, che lei si occupa d'altro, ma resta il fatto che le cifre sui traffici alla base del tunnel sono tutte sbagliate. Dire «forse sono discutibili», come i più democratici dei commentatori dei giornali di lunedì lasciano intendere è troppo poco; sono sbagliate e basta. Per questo, moltissimi esperti del ramo oggi sono convinti che il tunnel sarebbe un errore, un po' come lo era una centrale nucleare nelle settimane precedenti il referendum; solo che prevale la morale lassista dell'«Intanto facciamolo. A qualcosa servirà». Oppure si vuol tramutare il treno Tav in un simulacro? Qualcosa di somigliante al cappello dell'imperatore al quale Guglielmo Tell non volle inchinarsi, non volle rendere omaggio, in una Valle poco lontana?
Presidente, venga nella Valle. Si renderà conto di tutto con i suoi occhi, con il suo alto senso di giustizia.
La lettera aperta di Parlato apre, sul giornale, un ampio servizio sulla vicenda della Val di Susa Il manifesto è l’unico giornale che abbia costantemente informato sulle ragioni (locali e generali) dell’opposizione alla TAV. Un’opposizione che non è solo nell’interesse della valle (e che comunque anche per questo aspetto avrebbe meritato attenzione da parte di chi governa e di chi informa), ma anche nell’interesse generale. Eppure, anche i documentati rapporti che hanno svelato le bugie dei promotori della TAV non hanno mai ricevuto puntuali repliche, e neppure hanno avuto risposta le domande che sono state ripetutamente avanzate: ultime, quelle di qualche giorno fa da Beni, Mattei e Pipino. Il silenzio della stampa e la sordità dei governanti dura da sette anni almeno. In realtà (come dimostrano anche i commenti di questi giorni) alla ragione si preferisce la retorica demagogica dello “sviluppo” e della “modernazzione”. Nessuno di quelli che contano (con il potere delle istituzioni e con quello dell’informazione) raccolgono le voci critiche (ragionevoli) a QUESTO “sviluppo” e a QUESTA “modernizzazione”.A proposito di quest’ultima parola, ci piacerebbe che certi giornalisti (per esempio, quello che in questi giorni gestisce Prima pagina di RadioTre) si chiedesse se per l’Italia sia più modernizzante costruire un segmento d’un’opera altamente improbabile nel raggiungimento dei risultati proposti, oppure impiegare le stesse risorse per rendere “mmoderna” la rete già esistente, far viaggiare meglio le persone e le merci, e magari lavorare più seriamente sulle “autostrade del mare”.
L’incapacità di chi governa e di chi informa è il vero segno dell’arcaicità del nostro paese e della necessità di modernizzarlo davvero (ma abbandonando la retorica delle Grandi opere). Se non fosse così, non accadrebbe che della vicende TAV in Val di Susa i grandi meida, dipendenti e indipendenti, si accorgano solo quando esplode qualche bottiglia molotov
«"Ora va risolto il nodo Fiat valuteremo una legge ad hoc". Sacconi: bisogna chiudere il tempo dei conflitti». Titolo e sottotitolo dell’articolo di Roberto Mania su la Repubblica, 30 maggio 2011
Da un'intervista pubblicata sul quotidiano online "Affaritaliani.it", 28 giugno 2011
Tra gli studiosi della città (un po' meno tra quelli della società) Fiorentino Sullo è noto per la sua proposta di legge urbanistica, elaborata nei primi anni 60, presentata nell'estate del 1962 e clamorosamente bocciata nella primavera del 1963. Sullo era allora democristiano e ministro per i lavori pubblici. Fu sconfessato dal suo stesso partito (segretario era Aldo Moro) in seguito a una campagna di stampa dai toni così feroci come solo negli anni recenti li abbiamo sentiti riecheggiare di nuovo. Non c'erano allora né “il Giornale” né “Libero”, ma c'era in compenso il “Tempo” di Roma che svolse un analogo ruolo. L'accusa che gli si rivolgeva era di voler togliere la casa agli italiani. Si affannò a dimostrare che le accuse erano fantasiose bugie ma non ci riuscì. Già allora l'informazione corretta era molto difficile.
La sua proposta era innovativa per la realtà italiana. Sviluppava gli elementi positivi già introdotti nella legislazione italiana dalla legge urbanistica del 1942, adeguandola alla nuova realtà del paese: l'accresciuta dinamica insediativa, le consistenti differenze nell'organizzazione del territorio, la dimensione di massa della riconquistata democrazia. L'adeguamento alla nuova realtà imponeva di fare i conti con quello che era stato il dominus dell'espansione urbana e la matrice della forma sciagurata che le sterminate periferie avevano assunto nei primi tre lustri del dopoguerra: bisognava fare i conti con la rendita fondiaria urbana.
Il ministro democristiano ci provò, con prudenza, ed elaborò la sua proposta. Si rifaceva all'insegnamento degli economisti liberali. Si riallacciava a principi che erano stati trasformati in leggi negli anni della destra storica, della sinistra storica e del giolittismo. Applicava strumenti che erano stati adoperati ampiamente negli anni del regime fascista. Ma questo non bastò a salvarlo. Come non gli bastò dimostrare che intendeva applicare in Italia la stessa politica fondiaria urbana che aveva reso civili le periferie delle città di più evoluti paesi europei.
Riflettendo su quell'esperienza mi viene da pensare che non molto è cambiato in Italia, da allora oggi, quanto meno per due profili: per la tendenza perniciosa a ignorare la storia del nostro paese, e per l'ugualmente pervasivo e letale provincialismo pratico. Due aspetti della medesima miopia, l'una nel tempo, l'altra nello spazio.
Le due ragioni di Fiorentino Sullo
per contrastare la rendita
É opportuno precisare quale fosse l'obiettivo che Sullo si poneva nel contrastare la rendita fondiaria urbana. La rendita fondiaria urbana: cioè quell’elevatissimo gradiente che gratifica il proprietario del suolo quando il prezzo, da quello del terreno agricolo, ascende a quello del terreno edificabile.
Dalla lettura delle pagine che scrisse all'indomani della sua sconfitta emergono due ragioni sostanziali:
1. l'enorme incremento del prezzo dei terreni, che si manifestava quando questi da agricoli divenivano idonei all'edificazione, incideva in modo insopportabile sul prezzo delle abitazioni, delle quali c'era un grande bisogno a causa sia dell'entità delle migrazioni interne sia dall'esigenza di migliorare le condizioni di abitabilità;
2. l'entità della rendita urbana e la sua appropriazione da parte dei proprietari facevano sì che forma e struttura della città fossero determinati dall'unica regola del massimo sfruttamento economico d'ogni porzione di suolo, realizzando periferie invivibili.
Sullo insiste molto sulla descrizione delle trasformazioni che avevano caratterizzato l’assetto territoriale e demografico del paese negli anni della ricostruzione postbellica e sulle ragioni che pretendevano dall’azione pubblica un governo del territorio e del mercato capace di abbattere in misura consistente il prezzo delle case. Su questo gli incrementi della rendita fondiaria urbana incidono in modo insostenibile, sia per i bilanci delle famiglie che per il potere pubblico, che deve provvedere sia ad assicurare il godimento dell’abitazione per quei ceti che non possono accedere al mercato sia ad arricchire la città delle dotazioni che le rendono cosa diversa, e più civile, che un mero ammasso di case e capannoni.
Ed egli insiste ugualmente sul denunciare il risultato funzionale ed estetico dell'appropriazione privatistica della rendita urbana. Per effetto di questa
«la pianificazione urbanistica diventa pressoché impossibile quando chi dovrebbe pianificare deve lottare con centinaia di piccoli o medi proprietari terrieri che desiderano lo sfruttamento dei terreni a mezzo delle maggiori altezze dei fabbricati e che si pongono in netto antagonismo con i cittadini non interessati alla speculazione, i quali chiedono spazio per i veicoli ed aria per le persone. E quindi riduzione al massimo della densità fabbricativa».
Cita, proposito delle conseguenze nefaste della rendita urbana, classici della cultura urbanistica. Cita Gustavo Giovannoni, e cita Camillo Sitte (1889):
«I prezzi elevati dei terreni - scrive Sitte - spingono i costruttori alla loro massima utilizzazione possibile; è questa la ragione per cui molti dei più attraenti motivi dell’ architettura cadono a poco a poco. in disuso ed ogni lotto fabbricabile dà luogo ad un blocco squadrato» (Camillo Sitte, L’arte di costruire la città, )
Cita con ampiezza Hans Bernoulli (1946), del quale riporta un lungo brano nel quale lo studioso elvetico racconta (dice Sullo) «l'assurdo di di un’urbanistica che si sviluppi consentendo l’anarchica utilizzazione del suolo da parte di ciascun proprietario privato».
Fa sue le conclusioni di Bernoulli: «La nuova città, i nuovi quartieri abbisognano . di territorio; debbono liberamente disporre del terreno su cui sorgeranno, liberi e disimpegnati per poter erigersi e svilupparsi secondo le migliori norme. Perché il suolo corrisponda ad un compito così nuovo e di così diversa qualità, è necessario rimuovere con sicurezza e con tranquillità le suddivisioni attuali per dar luogo a quella nuova» (Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano)
La proposta di Sullo
Dall’intreccio tra queste due ragioni nasce la sua proposta, volta a impedire che negli anni successivi la prosecuzione dei trend espansivi della città producesse effetti sociali analoghi a quelli che si erano registrati nel periodo precedente: pesante incidenza sui bilanci delle famiglie, assenza delle elementari condizioni d’igiene e di vivibilità, sovraffollamento, disagio abitativo e urbano.
L’attenzione era volta all’espansione delle città. Lo strumento era quello impiegato dagli stati dell’Europa nei quali il welfare urbano si era affermato più che in Italia: l’acquisizione preventiva da parte del comune delle aree d’espansione individuate dai piani urbanistici, con un indennizzo commisurato al valore agricolo; la progettazione dei nuovi insediamenti da parte della pubblica amministrazione; la realizzazione, da parte del comune, di tutte le urbanizzazioni primarie e secondarie, tecniche e sociali; la cessione agli utilizzatori, privati e pubblici non della proprietà del suolo, ma del diritto di utilizzarlo per un periodo determinato, a un prezzo corrispondente alla spesa sostenuta della pubblica amministrazione.
La scelta della cessione temporanea e non della proprietà (“diritto di superficie”) avrebbe consentito al comune di rientrare in possesso delle aree nel momento in cui l’edificato fosse divenuto obsoleto e si fosse voluto modificare l’assetto dell’area.
La violenta reazione del blocco sociale e politico formatosi attorno alla grande proprietà fondiaria ed edilizia indusse la DC ad abbandonare, come sappiamo, la proposta di Sullo.
Se il suo iter fosse proceduto, sarebbero venute alla luce (e avrebbero potuto essere risolte) alcune contraddizioni che la legge non superava. In particolare, la legge introduceva una disparità di trattamento tra i proprietari delle aree non ancora urbanizzate, soggetti all’espropriazione e quindi privati dalla possibilità di lucrare della rendita urbana, e i beneficiari del diritto di superficie, che avrebbero potuto godere degli incrementi della rendita edilizia (cioè del trasferimento della rendita dal fondo all’edificio). Una seconda disparità si sarebbe manifestata tra gli espropriati e i proprietari degli immobili (aree ed edifici) nella città consolidata. Insomma, ad alcuni sarebbe stato lasciato il privilegio di lucrare sull’incremento della rendita (la quale aumenta all’aumentare delle aree fabbricabili) e ad altri no.
La prima debolezza intrinseca della proposta sarebbe stata certamente riparata ricorrendo all’esempio della legge 167/1962 (una sorta di anticipazione parziale della legge urbanistica), e cioè mediante il controllo dei prezzi delle case costruite sui terreni divenuti pubblici. La seconda (cioè la disparità tra i nuovi insediamenti e la città esistente) avrebbe richiesto provvedimenti di carattere più generale in materia di diritto proprietario e di fiscalità pubblica: cioè il prelievo generalizzato di una parte almeno, ma consistente, del plusvalore determinato in relazione alla crescita e al miglioramento della città.
Le ragioni dell’etica e dell’economia
Se riflettiamo oggi sulla posizione di Fiorentino Sullo per aiutarci a ragionare sull’oggi e sul domani è necessario accennare a un’altra ragione della sua proposta: una ragione che parte dall’etica per prolungarsi nell’economia.
Nel difendere la sua proposta Sullo ripete che si deve incidere seriemente sugli alti costi dei suoli urbani, il che è possibile solo se si espropria, urbanizza e rivende le aree a chi ha bisogno del suolo per costruire. E prosegue: «Se milioni di cittadini ci guadagnano, c’è qualcuno che ci perde. E che strepita. Ma chi ci perde, perde arricchimenti iniqui. Non ciò che è suo, ma ciò che, per fortuite coincidenze, gli viene, con l’attuale sistema delle leggi, regalato dallà collettività».
Sullo è insomma pienamente consapevole di una realtà che era ben nota alla cultura liberale. Una realtà che voglio ricordare in questa sede.
Delle tre forme di reddito (salario, profitto, rendita) nelle quali si divide la torta della ricchezza nazionale, la terza, la rendita, è l’unica che non corrisponde ad alcuna logica d’interesse sociale e a nessun contributo del soggetto percettore all’attività economica. Se vogliamo rifarci alla logica dell’analisi liberale possiamo dire che il salario è il corrispettivo del lavoro, il profitto è il corrispettivo della capacità imprenditiva, e la rendita compensa unicamente il privilegio proprietario. Se vogliamo riferirci a una logica sostanziale, sappiamo che il salario paga la sussistenza e la riproduzione del lavoratore, essenziale per qualsivoglia processo produttivo; che il profitto costituisce, oltre alla remunerazione dell’attività imprenditoriale, il miglioramento – attraverso l’accumulazione - delle condizioni della produzione; che la rendita costituisce un mero prelievo della ricchezza prodotta, in nome di una posizione di potere.
Il riferimento di Sullo è costituito dalla dottrina liberale. Cita un testo pubblicato nel 1900 da Luigi Einaudi proprio ragionando sulla rendita determinata dall’edificabilità dei suoli:
«Il caso dei terreni edilizi [così Einaudi definisce i suoli edificabili, distinguendoli da quelli destinati agli usi agricoli] è invece molto diverso. Non esiste un vincolo indissolubile tra la proprietà del terreno ed il lavoro applicato alle costruzioni; anzi, il valore del terreno cresce per virtù propria, date le circostanze d’ambiente propizie, senza che su di esso si sia nulla edificato. Il proprietario del terreno nudo, sul quale mai non è stata fatta da lui alcuna spesa, può venderlo ad un prezzo incredibilmente alto all’imprenditore di case il quale ha intenzione di fabbricarvi sopra. La proprietà del suolo non è nient’affatto una condizione necessaria perché si eserciti l’industria edilizia» (Luigi Einaudi, in “La Riforma sociale”, anno VII, vol. X, p.779).
Il contesto
La vicenda della legge Sullo si aprì – come ho detto – all’inizio degli anni 60 e si concluse nel 1963. Pochi anni. Ma essa è nata, si è sviluppata ed è proseguita in un arco di tempo più ampio, che ne costituisce il contesto e al quale è bene richiamarsi, sia pure in modo necessariamente sintetico.
Nasce quando maturano tre condizioni.
1. Il consolidarsi dell’industria manifatturiera, che diviene competitiva con quelle estere;
2. La diffusa consapevolezza delle conseguenze territoriali e sociali di uno sviluppo capitalistico, lasciato interamente libero all’azione dei suoi animal spirits;
3. L’affermarsi di una democrazia di massa, che pretendeva l’esercizio dei diritti promessi dalla Costituzione.
Sono gli anni nei quali la DC sposta l’asse del suo potere, la programmazione economica diventa un tema centrale, alcuni poteri monopolistici vengono messi in discussione. “Modernizzazione” significa a quei tempi eliminare i lacci e lacciuoli della rendita urbana, perchè in tal modo le città sarebbero diventate più efficienti, le abitazioni – e in generale la vita delle famiglie – meno costose, di conseguenza la spinta salariale non avrebbe avuto nuovo alimento.
Si erano comprese molte cose. Ne era stata trascurata una: la potenza di quel “complesso edilizio” che Valentino Parlato, con un’analisi di un’acutezza raramente raggiunta dopo, descrisse (1970). Scrive Parlato:
«In questo blocco si raccoglie un coacervo di forze che fa pensare ad alcune pagine del 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Ci sono tutti: residui di nobiltà fondiaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, oppure che ritengono di risparmiare in avvenire sul fitto pagando intanto elevati tassi di interesse, grandi imprese e capimastri, cottimisti ecc. Un mondo nel quale, all’infuori di poche sicure coordinate (quelle di sempre, della potenza economica e del potere politico) vasta é l’area magmatica delle improvvise fortune e della prigione, del triste esproprio (pensiamo solo alla sorte di molti piccoli proprietari di case a fitto bloccato). Un mondo, però, che si tiene saldamente insieme strumentalizzando - per rafforzare i più solidi legami di interesse economico - il fanatismo dell’ideologia della casa, la drammatica necessità di ottenere una casa anche a costo di sacrifici, la necessità di avere un lavoro: il contadino fattosi edile, di fronte alla minaccia di non lavorare, é naturalmente portato a considerare inutili e dannose sottigliezze tutti i perfezionamenti democratici dei regolamenti edilizi. Il fatto che questo sistema non sia in grado di dare la casa a tutti finisce con l’essere la condizione di forza del “complesso edilizio”» (Valentino Parlato, Il complesso edilizio, 1970).
Il “complesso edilizio” non fu sconfitto. Sembrò averlo incrinato la poderosa spallata data nel biennio 1968-69 da un blocco alternativo di forze sociali, che andava dagli studenti, alle donne, ai lavoratori delle fabbriche e degli uffici. Quella spallata che culminò nel grande sciopero generale nazionale per la casa, i trasporti, l’urbanistica e il Mezzogiorno del 19 novembre 1969. Un mese dopo, il 12 dicembre dello stesso anno, cominciarono ad esplodere le bombe del terrorismo.
Gli anni successivi (tutto il corso degli anni 70) videro ancora avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte dell’una e dell’altra delle grandi correnti che percorrevano la società. Le consapevolezze che erano state acquisite agli inizi degli anni 60 – e in particolare la necessità di contenere fortemente la rendita fondiaria urbana – sembrava ancora viva. Lo testimoniano le prese di posizione singolari (se le rileggiamo oggi) di uno dei massimi esponenti del capitalismo italiano, Gianni Agnelli, padrone della Fiat e, poco dopo, presidente della Confindustria.
In un’intervista rilasciata all’Espresso Gianni Agnelli affermava:
«Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire [...] Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza» (Intervista rilasciata all'Espresso, novembre 1972).
Erano anni sui quali gli storici hanno cominciato a riflettere, abbandonando gli slogan unilaterali degli “anni di piombo”. Anni che conobbero – non solo sul terreno dell’urbanistica – grandi conquiste e grandi sconfitte. Il clima generale stava cambiando. In peggio. Già cavalcavano nel mondo globalizzato i quattro cavalieri dell’Apocalisse ritratti da David Harvey sulla copertina del suo libro più fortunato, la Breve storia del neoliberismo: Tatcher, Reagan padre, Pinochet, Deng Tsiao Ping. Stava iniziando l’epoca di quello che Giorgio Ruffolo chiama turbo-capitalismo.
In Italia, la “modernizzazione” del craxismo espresse la sua versione al pomodoro della strategia neoliberista, e il passaggio dalla pianificazione urbanistica all’urbanistica contrattata fu la sua ricaduta sul terreno della città. “Privato è bello”, “meno stato e più mercato”, “via lacci e lacciuoli” furono gli slogan vincenti, agitati su tutti i lati dello schieramento politico.
Che cosa è successo della rendita urbana in questo mutato contesto?
La rendita oggi
Ci aiuta a comprenderlo un saggio di Walter Tocci, oggi direttore del Centro per la riforma dello stato ma buon conoscitore dell’urbanistica grazie anche alla sua esperienza di amministratore al comune di Roma, dove è stato assessore ai trasporti e vicesindaco. É un saggio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Democrazia e diritto, la cui parte monografica è dedicata al “Trionfo della rendita urbana”.
L’autore ragione a lungo sul legame tra rendita urbana e rendita finanziaria, sull’evoluzione del connubio tra queste due realtà, sul dominio che esse sono venute a svolgere nella fase neoliberistica e sulla attuale crisi. In relazione a quel connubio la rendita urbana ha svolto in passato funzioni ed ha assunto caratteristiche diverse. Nella fase dell’espansione urbana ha prevalso la rendita
«prodotta dal progressivo ampliamento dei tessuti edilizi: la decisione pubblica di spostare i confini dell’edificato valorizzava i terreni limitrofi sottraendoli all’uso agricolo. Il salto era enorme e corrispondeva a una mutazione di specie della valorizzazione che passava dagli irrisori redditi dominicali al florido mercato immobiliare. La finanza entrava nel processo nel modo semplice e tutto sommato subalterno del credito bancario, che consentiva al costruttore di sopportare i costi di costruzione per poi incamerare con la vendita degli immobili una rendita di gran lunga superiore ad un ordinario profitto industriale. Gli attori protagonisti del processo erano pochi e ben definiti: il politico e il costruttore prendevano le decisioni e il tecnico svolgeva una funzione servente, ma in alcuni casi anche di coscienza critica del processo».
Più tardi, negli anni Ottanta, cambiò il verso della trasformazione. Si tornò a operare all’interno della città, utilizzando gli immobili liberati dalla dismissione industriale e dalle funzioni pubbliche (caserme, ferrovie, poste, uffici amministrativi ecc.).
«La trasformazione divenne molto più complessa e meno decifrabile per quanto riguarda sia gli attori sia le modalità. Tipicamente la decisione pubblica consisteva nel modificare la destinazione d’uso di immobili già esistenti […] Il capitalismo industriale, che fino a quel momento aveva guardato con aristocratica diffidenza l’imprenditoria del mattone, dovette fare i conti con le regole della trasformazione per portare a termine il riuso dei grandi impianti produttivi, dal Lingotto alla Bicocca per citare due casi emblematici».
Ed ecco il punto:
«La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più».
All’inizio degli anni Novanta la bolla edilizia sembrò segnare il punto d’arresto del trend immobiliarista. Ma alla fine del decennio l’espansione riprese alla grande e si aprì la fase che Tocci definisce della “rendita pura”. Ricominciò un ciclo di “valorizzazione” immobiliare con i livelli di crescita mai raggiunti in precedenza. Si dispone di un nuovo strumento: il fondo immobiliare introdotto proprio in quel periodo in Italia, seppure in ritardo rispetto agli altri paesi. Tocci rileva che
«il fondo immobiliare consente di raggruppare in un portafoglio unico le proprietà di una vasta gamma di immobili e di coinvolgere anche i piccoli risparmiatori su operazioni altrimenti fuori dalla loro portata, godendo altresì di agevolazioni fiscali negate ai comuni cittadini. Con il fondo la valorizzazione [immobiliare] approda a una rendita immobiliare pura, distante dalle concrete condizioni fisiche della trasformazione edilizia e connessa alle tendenze macroeconomiche determinate dalla finanziarizzazione. Allo stesso tempo, però, il fondo immobiliare consente una maggiore opacità delle operazioni rispetto alla normale gestione finanziaria».
Il cambiamento è enorme, non solo in termini quantitativi. Cambia radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia.
A differenza di quanto accadeva prima, la rendita immobiliare non può più essere indicata (e combattuta) come un fattore di arretratezza.
«Anzi, oggi essa si trova a svolgere un ruolo di trascinamento dell'innovazione economica. D’altronde, come spesso accade, il nuovo contiene una rielaborazione dell'antico. Infatti, la novità della finanziarizzazione consiste nel ritrovare un collegamento con l’atto originario dell’appropriazione capitalistica, a lungo dissimulato dall’economia classica e consumato non a caso nel campo della proprietà immobiliare. L’accumulazione del capitalismo nasce infatti nel momento in cui si recintano i terreni liberi formando così la rendita assoluta […] Oggi, con il dominio della rendita finanziaria il capitalismo torna al primato del possesso sulla produzione. Le transazioni finanziarie sono molto più eteree e sofisticate dell’atto di recintare un terreno, ma l’atteggiamento di fondo è il medesimo […] Il capitalismo finanziario risveglia questi fenomeni primordiali e rilancia il momento dell’appropriazione come terreno comune tra l’economia e la politica. Il primato della rendita porta con sé un potere costituente. Per questo la forma capitalistica contemporanea è accompagnata da una formidabile verticalizzazione del potere in tutti i campi, nello Stato, nell’impresa, nella società».
“Il declino nascosto sotto il mattone”
Il predominio della rendita (la “rendita pura”) come segno della modernità. Ma è una modernità che va nella direzione del declino. Almeno per il nostro paese. Tocci sottolinea il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende (a partire dalle grandi e “moderne”: Fiat, Pirelli, Falk, Benetton) di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, l’imprenditività (se tale può ancora chiamarsi) dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. «É stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa crescita» che ha contrassegnato il sistema produttivo italiano.
Gravi sono le responsabilità dei tecnici. In particolare gli urbanisti, che hanno accompagnato e “facilitato” la legittimazione della rendita. Scrive Tocci: «Quando il progetto urbanistico smarrisce il senso critico si riduce a celebrare il già fatto o a pianificare il nulla». Gravi anche le responsabilità degli imprenditori, e soprattutto dei politici in questa scelta di privilegiare la rendita anzicchè combatterla: incoraggiata da alcuni, utilizzata da altri, ignorata da chi aveva il dovere culturale di denunciarla.
Ma ai più è sfuggito un fatto. In Italia, quella che è una tendenza generale della fase attuale del capitalismo, ha assunto una forza e un’incidenza straordinaria per effetto di una iniziativa politica (quella del governo Berlusconi-Tremonti) che, in questo settore, ha dispiegato una strategia volta con grande efficacia a consolidare la base immobiliarista dell’economia e della società.
«Il funzionamento capovolto del mercato della rendita» (il valore dei suoli edificabili aumenta all’aumentare dell’offerta, a differenza da ciò che accade per altre merci) e l’introduzione del fondo immobiliare sono stati utilizzati e accompagnati da una serie di misure, tutte orientate nella medesima direzione. Per citare le principali, il superamento dell’equo canone e la liberalizzazione dei canoni di locazione, lo scudo fiscale, la dismissione dei patrimoni immobiliari pubblici, il condono edilizio, il piano-casa» A cui vanno aggiunte le innumerevoli eliminazioni dei controlli sulle trasformazioni aventi rilevanza urbanistica.
«L'insieme di questi provvedimenti –prosegue Tocci - configura una coerente politica nazionale, forse l'unica che può fregiarsi di questo titolo, poiché in nessun altro settore si è realizzata una tale concordia di obiettivi e di realizzazioni. Innanzitutto, sul piano politico con una relativa sintonia tra destra e sinistra. Poi sul piano istituzionale, con un'inusuale consonanza tra l'intervento dello Stato e quello di Regioni, Province e Comuni, tranne poche e meritorie eccezioni. Neppure i media, prima della recente crisi, avevano mai raccontato i meccanismi più o meno occulti del fenomeno, lasciando quindi l'impressione di un ampio consenso dell'opinione pubblica».
Che fare?
La rendita immobiliare è ancora un avversario da battere. Non nel senso – ovviamente – di eliminarla, ma certo in quello di ridurne gli effetti negativi, operando nelle due direzioni storiche: trasferirne parte consistente (molto consistente, se il sogno di Henry George non è integralmente realizzabile) dal privato al pubblico; ridurne drasticamente la crescita con le politiche urbane mirate.
Ma è un avversario ancora più consistente che nel passato. Ciò rende evidente che la lotta contro la rendita non è questione tecnica, che possa essere affidata a questo o a quel pool di esperti. É innanzitutto una questione politica, culturale, morale. Occorre in primo luogo comprendere (occorre che tutti comprendano) che non invertire la tendenza comporta danni gravissimi per tutti e per tutto. Occorre denunciare, illustrare, dimostrare, argomentare. Questo è il primo compito dei tecnici, degli intellettuali.
Ma occorre al tempo stesso che la politica ri-assuma il proprio ruolo. Che non è quello di accompagnare l’economia data (illudendosi di cavalcarla), limitandosi a mitigarne gli effetti meno gradevoli. La politica deve tornare a dirigere l’economia: a definire per quali fini debbano essere impiegate le risorse scarse di cui il pianeta dispone.
i.
Quando rivedrò Milano
spero di trovarla sveglia
spero di trovarla forte
come un granchio nella sabbia
Quando tornerò a Milano
con i fiori tra i capelli
spero di trovar lo spazio
per piantarli tra i ponteggi
Quando tornerò a Milano dimmi
che non si parlerà dell'aria
continuando a dare i soldi a chi
ci trascina nella sua miseria
Spero di trovarla disperata
come chi davvero non ha scelta
come chi non si rassegna
e anche quando tutto il mondo sbaglia
preferisce una vita amara
ma degna
Quando tornerò a Milano
spero di trovarla salva
e sfiancata dalla noia
di una libertà perfetta.
Flessibilità a Milano
La “Capitale morale d’Italia” è stata spesso chiamata a svolgere il ruolo di sperimentatrice delle pratiche di pianificazione più corrive verso gli interessi privati e individuali e meno garantiste degli interessi pubblici e collettivi. È degli anni Cinquanta e successivi quel “rito ambrosiano” per il quale il rilascio delle licenze edilizie seguiva, quasi istituzionalmente, vie traverse e tolleranti. Gli anni Sessanta e i Settanta hanno visto aumentare di milioni di metri cubi le capacità edificatorie di un “piano regolatore” di cui un’infinità di compiacenti varianti e variantine aveva cancellato ogni capacità regolatrice [1].
Anche negli anni della “urbanistica contrattata” (uno degli strumenti principali di Tangentopoli) Milano fu all’avanguardia. Ricordo ancora le furenti polemiche a sinistra, nelle quali le ragioni del primato del privato erano sostenute e difese dall’assessore comunista all’urbanistica milanese [2]. Già allora una parte della cultura urbanistica forniva la cornice culturale (e le stesse parole d’ordine) alle pratiche del craxismo rampante [3].
L’intreccio tra posizioni “di destra” e posizioni “di sinistra”, tra impostazioni aperte agli interessi privatistici più spinti e posizioni giacobine, è una caratteristica della cultura milanese che andrebbe indagata a fondo. Qui vorrei segnalare che in questi anni di nuovo Milano si presenta con un evento dello stesso segno. Una evento importante, suscettibile di fare scuola più che nel passato: grazie all’autorevolezza culturale di chi la propone, all’intelligenza con la quale è argomentata, all’onestà personale dei soggetti che la propongono e promuovono – e infine, grazie al clima complessivo, particolarmente favorevole a operazioni ispirate al principio “meno stato più mercato”, quale che sia il terreno sul quale si esercitino.
Mi riferisco, in particolare, al documento recentemente approvato dal Consiglio comunale della capitale lombarda, che delinea la politica urbanistica che si adotterà per Milano, gli strumenti che si adopereranno, gli interessi ai quali ci si rivolgerà prioritariamente, i ruoli che si assegneranno ai principali soggetti. È un documento redatto da un gruppo di lavoro coordinato e diretto da Luigi Mazza, noto e apprezzato studioso di urbanistica e pianificazione, dotato d’un ricco curriculum di esperienze, ricerche e frequentazioni, in Italia e all’estero [4]. Il titolo del documento (nella stesura che è stata divulgata prima della sua approvazione da parte del Consiglio comunale) è “Ricostruire la Grande Milano - Strategie, Politiche, Regole”, il sottotitolo esplicativo è : “Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali”, la paternità è dell’Assessorato alle strategie territoriali, retto da un esponente di Comunione e liberazione nell’ambito di una giunta di destra.
Il documento parte da una critica intelligente e serrata, e del tutto condivisibile nelle argomentazioni, della pianificazione tradizionale: è sempre da una critica della pianificazione vigente che muovono i tentativi di sua demolizione. Esso accompagna a questa critica una valutazione positiva delle modifiche legislative introdotte nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Di queste modifiche legislative (e in particolare degli “strumenti urbanistici anomali”[5] che la caratterizzano) il documento interpreta correttamente – a mio parere - il significato; vale la pena di seguire l’autore in quella che per lui è un’apoteosi e per me, invece, coincide con una critica profonda.
I provvedimenti più recenti hanno segnato un significativo mutamento della legislazione urbanistica rivolto a facilitare i processi di variante del piano regolatore generale, ad introdurre un ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale, e a sviluppare forme consensuali di decisione (p.3).
Sulla base di una puntuale analisi dei nuovi strumenti normativi introdotti a partire dal “decreto Nicolazzi” del 1982, gli autori affermano, con una valutazione complessiva incontestabile, che (i corsivi sono miei)
i nuovi istituti introdotti dal legislatore negli anni ‘90 costituiscono veri e propri strumenti di pianificazione finalizzati ad agevolare la trasformazione e la riconversione di ampie zone del territorio prescindendo dalle regole stabilite per tali zone dal piano regolatore generale. E questo nuovo assetto urbanistico non scaturisce da un atto autoritativo, ma da un accordo con i privati che confluisce nell’accordo di programma e costituisce lo strumento fondamentale per la realizzazione dell’intervento di trasformazione urbana (p.23).
La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli. E con quest’ultimo termine non si indica una periodo di particolare estensione e diffusione delle pratiche di corruzione (quelle pratiche, come molti giustificazionisti ricordano spesso, che “sempre ci sono state e sempre ci saranno”), ma una fase particolare della nostra storia: una fase nella quale la corruzione è divenuta chiave di volta di un sistema di potere e bussola accreditata delle decisioni politiche – in particolare di quelle relative al governo del territorio[6].
Per gli autori del documento per la Grande Milano le tendenze derogatorie e delegificatorie che si sono manifestate in quegli anni hanno la loro legittimazione nella scarsa rispondenza del piano regolatore generale rispetto alle esigenze degli operatori immobiliari. Il documento riprende e sviluppa con intelligenza le critiche alla vigente pianificazione urbanistica che sono state sviluppate negli ultimi decenni dalla cultura urbanistica italiana. Sviluppa in particolare un aspetto, che mi sembra esprimere con compiutezza il punto di vista dell’operatore immobiliare: un soggetto cui viene riconosciuta, nel documento milanese, nuova e trasparente centralità.
Mi riferisco alla questione delle “certezze e incertezze” del piano regolatore. Il documento osserva a questo proposito che il piano regolatore generale, se “produce due tipi di certezza: la certezza dei diritti esistenti, che il piano conferma, e la certezza dei diritti legati alle trasformazioni prescritte dal piano”, produce anche “due forme di incertezza, dovute alla possibile inadeguatezza delle norme nei confronti delle variabili aspettative del mercato e al possibile mutamento delle norme nel tempo. Inoltre, il processo di pianificazione aggiunge due altre forme di incertezza che riguardano il contenuto e il tempo delle decisioni” (p.29).
Su questo punto conviene soffermarsi perché nella formazione della proposta degli autori gioca un ruolo essenziale. Secondo le categorie adoperate,
”il riconoscimento degli usi esistenti costituisce la certezza dei diritti d’uso in atto e dei valori corrispondenti. La disposizione delle trasformazioni degli usi esistenti e la definizione di nuovi diritti d’uso è anch’essa una certezza — è una certezza giuridica perché il piano è una legge —, ma la prospezione dei nuovi valori legati ai nuovi diritti costituisce […] solo una certezza ipotetica. L’espressione suona come un bisticcio, ma cerca di esprimere il fatto che la prescrizione da parte del piano delle trasformazioni degli usi esistenti è in realtà una disposizione ipotetica o condizionale, in quanto la prescrizione di un nuovo uso del suolo equivale ad un’affermazione del tipo ‘se … allora’. Solo se la prescrizione del piano viene rispettata , allora i nuovi usi verranno posti in atto e si produrranno i nuovi valori” (p. 29).
Di fronte a questo sistema di certezze e incertezze del piano regolatore generale da parte degli operatori viene “una richiesta contraddittoria: da un lato si esprime la domanda di certezze che garantiscano gli investimenti, dall’altro la domanda di flessibilità per permettere di adeguare norme e programmi di investimento alle dinamiche del mercato”.
In definitiva, secondo gli autori del documento, certezze e incertezze “presentano vantaggi e svantaggi, ma le certezze legate alle trasformazioni prescritte dal piano — indicate come certezze ipotetiche — si rivelano un inutile elemento di rigidità del sistema e, per introdurre elementi di flessibilità nel sistema, la loro scomparsa risulta necessaria”.
Il ragionamento di fondo del documento è sorretto da una valutazione più generale, che costituisce in qualche modo il punto d’avvio dell’intera argomentazione (e della proposta di cui essa costituisce l’abito). Esso ha la sua premessa in una valutazione, a mio parere corretta e condivisibile, delle differenze nelle pratiche e nelle culture della pianificazione presenti in Europa. Nel documento si osserva infatti che:
“la rigidità di sistema non è una caratteristica specifica dell’urbanistica italiana ma di tutta l’urbanistica europea, ad eccezione di quella britannica. La coppia certezza/flessibilità assume caratteri molto diversi nella tradizione urbanistica continentale e in quella britannica. Il confronto tra piano regolatore e piano di struttura britannico permette di capire come il prezzo della flessibilità sia la discrezionalità amministrativa, e come la flessibilità incida sul rapporto tra piano e progetti, e quindi tra amministrazione e operatori, pubblici e privati”.
In che modo differisce questo rapporto nel modello continentale e in quello britannico?
Nel modello continentale il rapporto tra piano e progetti è regolato dal controllo di conformità, mentre nel modello britannico prevale il controllo di prestazione. Nel modello continentale le norme preesistono al progetto e formalmente sono un vincolo-risorsa per l’investitore, nel modello britannico le norme sono, almeno in parte, il frutto di un rapporto negoziale tra l’amministrazione e l’investitore.
Nello svolgere il loro ragionamento agli autori non sfugge la ragione della differenza tra l’impostazione continentale e quella britannica. La “profonda diversità” tra i due sistemi è “dovuta soprattutto al fatto che nella tradizione britannica i diritti di trasformazione urbana sono dello Stato” (p.5).
E la maggiore discrezionalità del modello britannico poggia proprio sulla circostanza “che i diritti di trasformazione degli usi del suolo sono di proprietà dello stato e ciò garantisce al modello la sua flessibilità; al contrario, la mancanza di discrezionalità che caratterizza il modello italiano e continentale è dovuta alla necessità di rispettare i diritti soggettivi di trasformazione degli usi del suolo e ciò determina le certezze formali offerte dal modello”.
Non è certo una differenza da poco. La necessità di un forte e penetrante potere pubblico nel campo delle decisioni sull’uso del territorio, di una pervasiva capacità regolatrice dello Stato sull’esercizio dei diritti immobiliari, sta nel fatto che questi erano stati venduti ai proprietari privati: erano stati individualizzati. Basta rileggere le pagine di Hans Bernoulli[7] per averne un’illustrazione convincente.
È evidente che, là dove lo Stato dispone dei “diritti di trasformazione urbana” (dove cioè il controllo delle trasformazioni è strutturale e patrimoniale) gli interessi collettivi non hanno bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi per essere soddisfatti. Ma è vero anche il contrario: dove i “diritti di trasformazione urbana” appartengono ai privati la tutela degli interessi collettivi ha bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi. Non è anche in questo senso, forse, che può esser letta tutta la discussione sull’urbanistica che si è sviluppata in Italia particolarmente dagli anni 60? Si può dire che il tentativo perseguito prima attraverso l’esproprio generalizzato delle aree di trasformazione urbanistica[8], poi attraverso l’attribuzione allo stato dello jus aedificandi[9], esprimeva proprio l’intenzione di superare il controllo regolativi (sistema dell’Europa continentale) con il controllo strutturale (sistema britannico).
Gli autori del documento dimenticano la profonda differenza strutturale che è alla base dei due modelli. Essi, anzi, si compiacciono del fatto che “malgrado la profonda diversità dei due modelli […] si manifesta sempre più nelle pratiche una loro convergenza”.
Questa, con ogni evidenza, non si esplica nello svilupparsi, nelle società del Continente, della tendenza ad attribuire allo Stato maggiori “diritti di trasformazione urbana”, ma in quella di diminuire, a favore degli interessi immobiliari privati, la capacità regolativa dello Stato anche là dove questo non dispone dei diritti di trasformazione urbana, o ne dispone in misura limitata.
È proprio alla convergenza “verso il basso” del modello continentale con quello insulare che “fanno riferimento le nuove procedure proposte per Milano”. Si propone la sintesi tra i due modelli e la costruzione di un terzo modello:
È possibile comporre parte delle qualità dei due modelli in un terzo modello caratterizzato da un relativo indebolimento dei caratteri di entrambi, ad esempio, un modello di tipo italiano che acquista flessibilità rinunciando alle certezze ipotetiche. Il modello proposto può essere definito ‘certo e flessibile’, poiché è rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo (p.4).
In altri termini, il “modello milanese” si propone di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato.
Ma vediamo più da vicino come si articola la proposta del “modello milanese”. Esso si basa sul presupposto (sulla scelta) che “in sistemi urbani densi e ad alta infrastrutturazione non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore — ad esclusione di particolari salvaguardie —, ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi”.
Quest’affermazione può sembrare abbastanza generica. Ma essa viene subito precisata e chiarita:
“In questa prospettiva programmi e progetti costituiscono uno strumento per la verifica e non solo per la messa in opera delle strategie. In altre parole, la realizzabilità di una strategia è provata nel momento in cui viene tradotta in progetti operativi. La redazione dei progetti serve per verificare se una strategia è concretamente realizzabile o, se non lo è, per individuare gli ostacoli a realizzarla, cioè se siano tali gli stessi criteri fissati dall’Amministrazione e/o vincoli determinati dal contesto. In accordo con questa prospettiva, progetti e programmi di intervento proposti da soggetti pubblici e privati sono un contributo indispensabile alla verifica delle strategie dell’Amministrazione, e possono suggerire utili modificazioni o integrazioni delle politiche pubbliche in attuazione delle strategie nonché delle strategie stesse. Infine, anche progetti e programmi proposti indipendentemente dalle strategie sono utili, purché la proposta sia motivata da argomentazioni sufficienti a far modificare le strategie già adottate” (p.47)
In sostanza, la pianificazione comunale si limiti a definire la disciplina delle parti della città già conformate, delle quali si intende conservare la stabilità dell’assetto raggiunto, e dei connessi valori immobiliari. Lì il piano sia certo e inequivocabile.
Dove viceversa si prevedono trasformazioni negli assetti (e nei valori immobiliari), lì la pianificazione sia generale, generica, “strategica”: indichi scenari, obiettivi, indirizzi. Si esprima non in un “piano” (in un documento impegnativo, specificamente riferito al territorio e opposable aux tiers), ma in un “documento”: un documento che peraltro non sia in alcun modo cogente, ma sia continuamente modificabile dai progetti e programmi presentati dagli operatori, purché adeguatamente motivati e argomentati.
In altri termini, la pianificazione dovrebbe essere “certa e flessibile” in modo profondamente asimmetrico. Nelle aree dove i valori immobiliare sono già consolidati, dovrebbe garantire (ai titolari dei valori immobiliari) la certezza della loro stabilità nel tempo. Nelle zone dove invece si possono prevedere trasformazioni, il pubblico sostituisca la certezza delle sue determinazioni con una flessibilità funzionale (verrebbe da dire asservita) agli interessi (alle “convenienze”) degli operatori privati. Quando questi ultimi si manifestassero e divenissero maturi, l’amministrazione dovrebbe tradurli in certezze.
Non sembra che ci sia molto da aggiungere. Del resto, il documento lo afferma già nelle prime pagine: il piano deve essere “rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo”.
Gli autori del documento si rendono conto di alcune delle più immediate conseguenze della loro proposta: Essi scrivono infatti:
“È evidente che l’aumento di flessibilità e di discrezionalità comporta maggiori opportunità per gli interessi individuali di accesso al piano e al mercato urbano, ma il rischio che interessi individuali prevalgano sull’interesse generale non dipende dal tipo di strumenti tecnico-giuridici disponibili quanto dalla volontà e dalla capacità politica di resistere a pressioni che sono in contrasto con l’interesse generale”.
È un’osservazione giusta, ma le conseguenze possono essere molto preoccupanti. Gli strumenti tecnico-giuridici sono un sistema di garanzie la cui ratio sta nell’assicurare che gli interessi collettivi, e quelli strutturalmente meno protetti, siano adeguatamente posti al riparo dagli errori e dalle debolezze degli uomini, e dalla partigianeria degli interessi specifici. Rinunciare a quelle garanzie, senza sostituirle con altre, significa trasformare la società in una giungla in cui solo i più forti sopravvivono[10].
A me sembra molto più ragionevole, e più sicuro, cambiare le regole anziché dire che regole non ce ne devono essere più. Da questo punto di vista, mi sembra molto più convincente un’altra “terza via” che si sta tentando di percorrere.
Nulla sarebbe più miope che reagire alle trasformazioni sbagliate del vigente sistema di pianificazione (o per meglio dire, del sistema di pianificazione “classico”, poiché quello vigente è già stato abbondantemente deformato) limitandosi a difendere il passato, e la lettera della tradizione. Che i metodi, gli strumenti, le tecniche della pianificazione vadano profondamente trasformati, è evidente a tutti. Strade di innovazione radicalmente differenti da quella proposte da Luigi Mazza – nel rispetto e nella continuità con i principi di fondo della tradizione – sono state percorse, sia pure in modo ancora insufficiente e parziale.
Mi riferisco, per esempio, a quel tentativo, che, con altri, ho cominciato a sperimentare a Venezia negli anni Ottanta, che è stato illustrato in alcuni convegni all’inizio degli anni Novanta[11], che è stato rilanciato dall’INU a partire dal 1994, che ha dato luogo (in forme più o meno chiare) alle leggi regionali recenti[12], e che è sostanzialmente ripreso nel testo unificato della Commissione Ambiente e Territorio della Camera di deputati[13].
È un tentativo che si basa anch’esso sulle critiche all’inefficacia della vigente strumentazione urbanistica, che tende anch’esso a introdurre elementi di flessibilità nella pianificazione e nel governo pubblico delle trasformazioni, che tende anch’esso a introdurre anche nella pianificazione italiana elementi di operatività, ma che – a differenza del “modello milanese” –conserva il primato del potere pubblico nel campo della trasformazioni urbane e territoriali.
Si tratta di quel modello basato sulla distinzione tra due tipi di “regole”:
1. quelle relative alle scelte strategiche e alle “condizioni alle trasformazioni” poste dalle esigenze di tutela delle qualità ambientali e storiche e di prevenzione dei rischi territoriali, da definire in relazione ai tempi lunghi e con prescrizioni “forti”, certe e non negoziabili;
2. e quelle relative alle concrete trasformazioni fisiche e funzionali, da decidere in relazione alle esigenze, alle opportunità, alle disponibilità di risorse e di attori, valutate nel breve-medio periodo e da definire con procedure caratterizzate da flessibilità e negoziabilità: nell’ambito, certamente (e questo è il punto fondamentale) di prestazioni preliminarmente definite.
La distinzione tra il primo tipo di regole (quelle strategiche e strutturali, valide a tempo indeterminato, formate in relazione ad esigenze permanenti o a scelte di lungo periodo) e il secondo (quelle programmatiche, legate alle esigenze, convenienze e previsioni di breve periodo, coincidenti con la durata del mandato amministrativo) consente di risolvere almeno i più rilevanti limiti di efficacia della pianificazione classica. Consente di ridurre consistentemente i tempi della formazione del piano (poiché la base informativa è costruita una volta per tutte, e sistematicamente aggiornata); consente di effettuare altrettanto sistematicamente il monitoraggio delle scelte e la valutazione dei loro effetti; e consente di distinguere molto più chiaramente di quanto oggi non sia l’ambito delle scelte tecniche e quello delle scelte politiche. Ma argomentare tutto questo richiederebbe uno spazio maggiore di quello di questo articolo.
Intendiamoci, il modello che si esprime nelle proposte dell’INU, nelle leggi urbanistiche che ho citato, nel testo unificato della Camera dei Deputati non è certo – nelle sue differenti formulazioni – limpido e privo di errori. Io stesso ne ho in più occasioni criticato questa o quell’altra applicazione. Nella sua stessa logica di fondo, non è certamente l’unico modello proponibile, e non è neppure detto che sia il migliore.
In tutte le sue formulazioni esso peraltro resta fedele ad alcune prerogative, ad alcuni principi, che a me sembrano essenziali e che del resto appartengono alla tradizione e alla prassi europea. Proverò a enunciarli:
1. il primato del pubblico nella definizione e nel controllo delle scelte di trasformazione del territorio,
2. la definizione preliminare di regole non negoziabili relative alle tutele,
3. la capacità di misurare la coerenza dell’insieme delle trasformazioni,
4. la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte,
5. la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.
Mi sembra che è a questi principi che bisognerebbe riferirsi nell’esame di qualunque modello di nuova pianificazione, e che è sulla coerenza con essi che si dovrebbe misurarlo.
Così come si dovrebbe ragionare sugli effetti che rischia di avere, sul sistema economico nazionale, un approccio alle trasformazioni urbane che privilegi – come quello milanese - gli interessi degli operatori immobiliari, e che anzi assuma il loro punto di vista come centrale. Resto convinto che una delle radici dei mali del sistema economico italiano (e una delle anomalie italiane rispetto ad altri paesi europei) sia nell’incompiutezza della rivoluzione borghese, nel compromesso tra borghesia capitalistica e ancien régime che fu stipulato per costruire lo stato nazionale, sull’effetto deprimente che la facile percezione di rendite (spostando gli investimenti dalle attività imprenditoriali a quelle rent oriented) ha sempre avuto sul processo d’accumulazione e sulla conseguente tensione all’innovazione.
[1] Lo ha denunciato sistematicamente Giuseppe Campos Venuti, a partire dagli anni ’80. Si veda ad esempio: G. Campos Venuti, Deregulation urbanistica a Milano, introduzione al dossier Milano senza piano – Urbanistica milanese degli anni 80, a cura di V. Erba, “Urbanistica informazioni”, n. 107, anno XVIII, set.-ott.1990. Si veda anche G. Barbacetto, E. Veltri, Milano degli scandali, Laterza, Bari 1991 e, per gli anni più recenti, F. Pagano, In assenza di una nuova legge regionale, o in alternativa..., “Urbanistica informazioni”, n. 171, anno XXVIII, mag-giu 2000.
[2] La polemica tra due assessori, entrambi del PCI, Raffele Radicioni a Torino e Maurizio Mottini a Milano, fu resa esplicita in articoli molto chiari sulla stampa quotidiana di quegli anni. Mottini può essere considerato un anticipatore della linea che affida agli interessi degli operatori e dei proprietari privati l’egemonia nella gestione dell’urbanistica. Si veda, su “L’Unità”, la posizione di Mottini il 18 agosto 1982 e la replica di Radicioni il 2 settembre 1982.
[3] Suscitò reazioni contrastanti un editoriale di “Urbanistica informazioni” (n. 60, anno X, nov.-dic. 1981) in cui criticavo le “complicità oggettive” degli atteggiamenti accademici e neutrali di parte della cultura urbanistica dell’epoca nei confronti di una linea politica emergente, che tendeva a incrinare il principio della funzione pubblica dell’urbanistica.
[4] Il pensiero e la proposta espressi nel documento della giunta milanese erano stati elaborati ed esposti da Luigi Mazza in molti dei suoi scritti: si veda, tra gli altri, Piani ordinativi e piani strategici, “CRU – Critica alla razionalità urbanistica” n. 3, 1995; Difficoltà della pianificazione strategica, “Territorio” n. 2, 1996; Il tempo del piano, “Urbanistica” n. 109, 1996; Certezza e flessibilità, “Urbanistica” n.111, 1999.
[5]Adopero l’espressione impiegata, e sviluppata, nella ricerca Murst 40%, coordinata da F. Indovina, dal titolo Meccanismi economici, procedure e regole finalizzate a indebolire il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali. Un'alternativa, e in particolare nella parte curata da I. Apreda ( Analisi degli strumenti anomali, rispetto alla strumentazione tradizionale, che sono stati introdotti nel recente passato, sia attraverso la legislazione che per iniziativa amministrativa). La ricerca è in corso di pubblicazione presso l’editore Franco Angeli.
[6] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla. Esaurito in libreria, il libro è disponibile nel sito http://salzano.iuav.edu
[7] Hans Bernoulli è un autore oggi poco noto. Nacque a Basilea il 12 febbraio 1876, svolse attività professionale e di studio a Berlino e a Basilea. Docente di pianificazione urbana, fu titolare di cattedra alla Scuola politecnica federale di Zurigo fino al 1939, quando perse l’incarico per la sua attività politica. È morto nel 1959. Autore di numerosi scritti (di urbanistica, architettura, poesia. letteratura), il suo interesse principale è per la città. L’unico suo libro tradotto (in italiano e in francese) è Die Stadt und ihr Boden ( La città e il suolo urbano) la cui prima edizione è a Zurigo, 1945. In Italia, è stato pubblicata da Antonio Vallardi Editore nel 1951. È esaurito da tempo; ampi stralci ne sono stati pubblicati su “Urbanistica informazioni”, n.79, gennaio-febbraio 1985. Inspiegabilmente poco citato nella letteratura urbanistica italiana, un’ampia bio/bibliografia di Bernoulli è in Kunstler Lexikon der Schweiz XX Jahrhundert, ed.Huber & Co. Aktiengesellschaft, Frauenfeld 1958/1961.
[8] La proposta dell’esproprio generalizzato fu avanzata dal ministro democristiano ai Lavori pubblici Fiorentino Sullo nel 1962. Essa consisteva nel prevedere che, nell’attuazione dei piani regolatori comunali, i comuni acquisissero le aree destinate all’espansione, le urbanizzassero e le cedessero agli utilizzatori. Si tratta di un modello largamente adoperato nelle socialdemocrazie dell’Europa centro-settentrionale. Sulla proposta di Sullo, oltre alla stampa dell’epoca, vedi: F. Sullo, Lo scandalo urbanistico, Vallecchi, Firenze 1965; V De Lucia, Se questa è una città, Editori Riuniti, Roma 19922; A. Becchi, La legge Sullo sui suoli, in: “Meridiana - La decisione politica in Italia” n. 29, 1998.
[9] Nel 1968 la Corte costituzionale (sentenza n. 55 , del 9 maggio 1968, depositata in Cancelleria il 29 maggio) dichiarò l’incostituzionalità degli articoli della legge urbanistica del 1942 che sottoponeva gli immobili destinati a spazi pubblici a vincolo a tempo indeterminato e non indennizzato (l’acquisizione pubblica, e quindi l’indennità, erano incerti e non definiti nel tempo). Tra le proposte che emersero nel dibattito giuridico per superare l’impasse acquistò particolare rilievo quella avanzata dal presidente della Corte costituzionale, il moderato Sandulli. Questi (e con lui numerosi giuristi) sosteneva la legittimità costituzionale di una legge che avesse stabilito, in linea generale ed applicata erga omnes, che l’edificabilità è un requisito che non appartiene al proprietario, ma alla collettività. La proposta apparve la prima volta in: E. Capocelatro, Intervista con il presidente della Corte costituzionale, in “L’astrolabio”, n. 27, luglio 1968, ora in “Urbanistica”, n. 53, p. 101-102. Si veda anche: V. De Lucia, E. Salzano, F. Strobbe, Riforma urbanistica 1973; E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Giuseppe Laterza editori, Roma-Bari, 1999.
[10] Quando ho mosso questa osservazione Luigi Mazza mi ha risposto, in pubblico, che la sua risposta si reggeva sul fatto che il gruppo di Comunione e Liberazione milanese (lui li definiva: i “Comunisti Leninisti”) cui faceva riferimento, e in funzione dei quali era stata calibrata la proposta, erano così convinti sostenitori del primato dell’interesse pubblico che si poteva stare tranquilli. Torniamo al cesarismo!
[11] Si veda, in particolare: L. Scano, Le ragioni e i contenuti di una proposta di legge, in: Cinquant’anni dopo la legge urbanistica italiana - 1942-1992, a cura di E. Salzano, Editori Riuniti, Roma 1993, pp.137-153.
[12] Le leggi urbanistiche che, in modo più o meno convincente, si rifanno ai nuovi principi sono quelle della Toscana, legge 5 del1995; Umbria, legge 28 del 1995 e legge 31 del 1997; Liguria, legge 36 del 1997; Basilicata, legge 23 del 1999; Lazio, legge 38 del 1999; Emilia Romagna, legge 217 del 2000. Una prima analisi dei loro contenuti innovativi è reperibile nel già citato sito internet.
[13] Si veda: Camera dei deputati - XIII legislatura, Resoconto della VIII Commissione permanente, (Ambiente, territorio e lavori pubblici), giovedì 11 gennaio 2001, Allegato 2, Norme in materia urbanistica. Sito internet: http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/bollet/frsmcdin.asp?percboll=/_dati/leg13/lavori/bollet/ 200101/0111/html/08/&pagpro=70n1&all=on&commis=08
TESI ALTERNATIVE ALLE TESI DA 7 A 12 E ALLA TESI 16
Premessa
Le tesi alternative qui allegate sostituiscono le tesi relative alla efficacia della pianificazione (dalla n. 7 alla n. 12) e le tesi relative al rapporto pubblico-privato.
Per quanto riguarda le prime (sostituite dalle tesi alternative dalla n. 6bis alla n. 12) esse erano stato già da me piu' volte annunciate nel corso finale dei lavori e costituiscono in parte una integrazione delle tesi licenziate dal Consiglio Direttivo Nazionale e in parte una impostazione nettamente diversa, sia per quanto riguarda la sistematica che per quanto riguarda i contenuti.
Lo sforzo di raggiungere chiarezza e sinteticità ha provocato forse qualche schematismo, ma credo che questo non ostacoli una fruttuosa discussione.
Per quanto riguarda l'ultimo gruppo di tesi (dalla n. 13 alla n. 20) esse in parte (tesi n. 16) costituiscono un ritorno e un rafforzamento della stesura che avevo inizialmente proposto, e che era stata modificata nel corso del lavoro di mediazione svolto nelle riunioni finali. Le modifiche alle altre tesi di questo gruppo costituiscono solo degli snellimenti e l'eliminazione di passaggi che risultano ripetitivi rispetto alle argomentazioni delle tesi alternative precedenti.
Tesi alternativa alla n. 6
Per individuare le caratteristiche che la pianificazione territoriale e urbana deve acquisire è necessario definire preliminarmente quali sono oggi, in Italia e in Europa gli obiettivi verso i quali la pianificazione, nell'ambito delle finalità generali del governo del territorio, deve tendere. Tali obiettivi consistono nel massimo risparmio delle risorse naturali e storiche sedimentate ed espresse nel territorio, e nel massimo miglioramento della qualità dell'ambiente nel quale si svolge la vita dell' uomo e della società.
------------------------------------------------------------------------------------------------------
La dissipazione di risorse naturali è divenuta, a livello planetario, ragione di preoccupazione grave per la stessa sopravvivenza del genere umano. La degradazione, disgregazione, mercificazione del patrimonio culturale sedimentato sul territorio è divenuta, particolarmente in Italia, una delle forme più intollerabili di spreco di ricchezza comune della civiltà. L'ambiente urbano nel quale vive la grande maggioranza della popolazione italiana presenta crescenti caratteri di insopportabilità umana e sociale. Dalla consapevolezza di queste condizioni occorre partire anche per definire quali debbano essere, in una parte limitata del globo terracqueo, gli obiettivi dominanti che la pianificazione deve assumere e che devono condizionarne indirizzi, metodi, tempi.Il primo obiettivo è costituito dal massimo risparmio di tutte le risorse territoriali disponibili, e in primo luogo di quelle non riproducibili, o riproducibili con tempi e co sti elevati. Essenziali e vitali tra tali risorse sono ovviamente quellecostituite dai residui elementi di "naturalità": ossia da quelle parti del territorio dove il ciclo biologico non è ancora stato soppresso e negato, oppure compromesso e degra dato, e nelle quali dunque le regole e i ritmi della natura, seppure corretti e guidati dalla cultura e dal lavoro dell'uomo, permangono nella loro essenza e nella loro leggi bilità. Indirizzo essenziale della pianificazione, a tutti i livelli, deve essere quindi quello di non sottrarre alcuna ulteriore parte del territorio alla "naturalità" come so pra definita (a meno che non sia dimostrato in modo inoppugnabile, secondo criteri di valutazione univocamente stabiliti, che tale sottrazione è resa indispensabile dalla necessità di soddisfare esigenze generali altrettanto prioritarie altrimenti non soddisfacibili), e di indirizzare le trasformazioni territoriali alla ricostruzione di aree a maggior tasso di "naturalità".Di uguale rilievo si devono considerare le risorse territoriali costituite da quelle parti ed elementi nei quali l'in treccio tra storia e natura ha più profondamente operato, e dove quindi il territorio appare particolarmente intriso di qualità culturali. Il patrimonio costituito nel territorio dai segni lasciati dalla storia (siano essi più o meno compiuti, più o meno "nobili", più o meno guastati dall'oltrag gio della speculazione o della stupidità, più o meno leggibili nella loro configurazione residua) rappresenta parte sostanziale della civiltà cui apparteniamo. Indirizzo essenziale della pianificazione, a tutti i livelli, deve es sere quindi quello di tutelare ogni elemento di tale patrimonio, con l'impiego di tutti gli strumenti capaci di garan tire il restauro o il ripristino delle strutture fisiche e la definizione rigorosa degli usi compatibili con le carat-teristiche proprie delle diverse unità di quel patrimonio.Raggiungere l'obettivo suddetto in entrambe le sue componenti significa, in definitiva, tutelare due valori essenziali della civiltà e della sua sopravvivenza: l' integrità fisica e l'identità culturale del territorio. Esso allora già di per sè fornisce un contributo al raggiungimento dell'obbiettivo di un sostanziale miglioramento della qualità del l'ambiente della vita umana e sociale. Questo secondo obiettivo richiede però azioni specifiche, dirette a trasformare integralmente il volto delle gigantesche periferie realizzate nel corso dell'ultimo mezzo secolo nelle maggiori aree urbane, come nelle informi conurbazioni formatesi lungo le principali direttrici insediative e nei siti originariamente dotati di qualità naturale e paesaggistica devastati dalla speculazione e dall'abusivismo e resi anch'essi invivibili. Indirizzo della pianificazione e delle politiche territoriali e urbane, a ogni livello, deve essere quello di tendere alla umanizzazione e socializ zazione delle aree urbane, periurbane, suburbane e semiurba ne, mediante interventi di riqualificazione funzionale e di recupero urbano, edilizio, ambientale, estetico, culturale, sociale.
(La prima parte di ogni tesi, in grassetto, è l’enunciato; la seconda parte l’argomentazione)
Tesi alternativa alla n. 7
La pianificazione territoriale e urbana è un'attività complessa, non solo perchè deve applicarsi a una realtà che è essa stessa complessa, ma anche perchè si esplica necessariamente con il concorso dei diversi enti territoriali coinvolti nella formazione delle scelte. Ma la pianificazione dev'esser vista e gestita come un'attività unitaria: deve investire cioè in un'unica logica e in unico processo tutti i livelli territoriali e di governo ritenuti necessari.
La pianificazione territoriale e urbana è un'attività complessa per più d'una ragione. In primo luogo perchè essa deve applicarsi, come strumento per la soluzione di determina ti problemi e per il raggiungimento di determinate finalità, a un territorio e a una società di cui la complessità è caratteristica sempre più marcata: illusorio sarebbe presumere di governare realtà siffatte con strumenti semplici e schematici, con risposte solo puntuali ed estemporanee, o con progetti e programmi limitati ad alcuni aspetti o setto ri o luoghi.Ma la pianificazione territoriale e urbana è un'attività complessa anche perchè essa, nell'assetto istituzionale ita liano, si esplica necessariamente come concorso dei diversi enti coinvolti nella formazione delle scelte: enti che devono potersi esprimere secondo modi e procedimenti tali da garantire la partecipazione degli interessi, di cui ciascuno di essi è portatore istituzionale, al processo di for mazione delle decisioni. L'adozione del metodo della pianificazione come criterio fondamentale di guida di tutte le azioni della pubblica amministrazione suscettibili di incidere sull'assetto del territorio ha anche il significato di garantire una partecipazione siffatta.La complessità tuttavia rischia di degenerare in complicazione, di provocare confusione e inefficienze, di vanificare infine la stessa attività di pianificazione, di rendere irraggiungibili i suoi obiettivi. Segni preoccupanti di que sta tendenza è il proliferare delle figure pianificatorie, il sovrapporsi di piani a tutti i livelli senza chiarezza sulle reciproche connessioni e gerarchie, la separatezza e, spesso, la contraddizione con le quale le esperienze di pia nificazione sono vissute. In questa situazione sarebbe sbagliato proporsi di riordina re i livelli di pianificazione (come pure è necessario) li-mitandosi a semplificare la congerie di piani esistenti. Ciò che è invece necessario è ritrovare una unitarietà di metodi, criteri e indirizzi per tutto il processo di pianificazione. Occorre cioè comprendere come deve svolgersi un' attività di pianificazione coerente e continua su tutto il territorio nazionale, che investa in una unica logica, e in un unico processo, tutti i livelli territoriali e di governo: nazionale, regionale, provinciale e metropolitano, comu nale.
Tesi alternativa alla n. 8
Affinchè un'attività complessa e unitaria, quale la pianificazione deve essere, possa essere condotta con efficacia, è in primo luogo necessario chiarire in modo univoco e rigoroso quali sono gli elementi e gli aspetti territoriali di competenza di ciascun livello di governo (e di piano). Da questo chiarimento dipende la possibilità di definire in modo convincente, da un lato, il contenuto degli atti di pianificazione a ciascun livello e, dall'altro lato, il potere che ciascun livello esercita.
L'efficacia del processo di pianificazione richiede che si chiarisca in modo univoco e rigoroso quali sono le competenze dei diversi livelli di governo. Il criterio oggi di fatto prevalente è quello di assicurare a ciascun livello di governo un ambito di "autonomia sorvegliata" all'interno di un determinato ritaglio territoriale, risolvendo i conflitti, inevitabili finchè la materia è"confusamente ordinata", con defatiganti procedure o con opachi scambi politici. Occorre invece, più produttivamente, partire dalla definizione di quali siano gli elementi e gli aspetti territoriali di competenza di ciascun livello di governo. Su questa base diviene anche possibile definire in modo convincente, da un lato, il contenuto dei piani ai differenti livelli e, dall'altro lato, il potere che ciascun livello di governo esercita, e quindi le conseguenti procedure.Per definire le competenze dei diversi livelli di governo (nel caso della Repubblica italiana, lo stato, le regioni, le provincie e le città metropolitane, i comuni), occorre assumere il criterio per cui devono spettare all'ente esponenziale dell'aggregazione comunitaria più vasta tutte, e soltanto, le determinazioni relative agli elementi e agli aspetti territoriali che incidono su interessi la cui titolarità non sia interamente riconducibile alle aggregazioni comunitarie meno vaste. E' evidente che le determinazioni relative alla tutela dell'integrità fisica e dell'identità culturale del territorio rispondono a interessi la cui titolarità è, oggi, dello Stato, ma che oggettivamente appartengono all'intera umanità presente e futura, tant'è che si va opportunamente assisten do a forme di intervento sovrastatuale o interstatuale. Le scelte relativa alle trasformazioni territoriali volte ad altre finalità, invece, possono riguardare interessi di aggregazioni comunitarie più o meno vaste, in relazione agli ambiti direttamente segnati da tali trasformazioni, oppure modificati dai loro effetti, singoli o cumulativi, nei loro assetti fisici o relazionali. Nella pratica della pianificazione, l'esercizio delle competenze proprie di ciascun livello di governo (e di piano) do vrà esprimersi in forme differenziate in ragione sia della natura e delle caratteristiche degli elementi e aspetti ter ritoriali considerati, sia della congruità delle "forme espressive" (localizzazioni precise, ambiti di localizzazione, soglie, ecc) con le specifiche competenze pertinenti a quel livello. Così, gli strumenti di pianificazione dei livelli di governo sovraordinati e di tipo "generale" dovranno definire pre cise localizzazioni o esatti tracciati per alcuni elementi (per es., un porto o una grande infrastruttura lineare), am biti, o direttrici, di localizzazione, da osservare nell' attività pianificatoria di livello sottordinato o di tipo attuativo per altri elementi (per es., la localizzazione di un aereoporto a livello nazionale, di una sede universitaria a livello regionale, di un istituto scolastico superiore a livello provinciale), quantità o soglie quantitative per altri elementi ancora, e in particolare per quelli influenti sull'assetto dei livelli superiori solo nella somma toria degli effetti che ne risultano.
Tesi aggiuntiva n. 8 bis
Le procedure che regolano i rapporti tra i diversi livelli di governo responsabili della pianificazione territoriale e urbana devono essere radicalmente riconsiderate, sulla base di pochi principi chiari e ragionevoli. Ogni livello di governo deve potersi esprimere sugli atti di pianificazione di competenza di ciascun altro livello, ma la decisione ultima spetta al livello di governo che ha competenza per quel determinato elemento o aspetto della struttura territoriale. Conseguentemente, ad ogni livello di governo deve essere riconosciuto un mero potere di controllo della conformità delle scelte di copetenza dei livelli sottordinati alle decisioni proprie e degli altri livelli sovraordinati.
Complicazione e burocratismi spesso inutili, incertezza degli esiti e dei tempi, deresponsabilizzazione dei soggetti: queste sono le regole che attualmente determinano, di fattoe nella maggioranza dei casi, le procedure attraverso le quali si concretizza il concorso dei diversi enti territoriali nella formazione degli atti di pianificazione. L'atteggiamento dei livelli di governo sopraordinati oscilla (spetto toccandoli entrambi) tra i due estremi, entrambi negativi, della rinuncia ad esercitare le proprie responsabilità istituzionali, e della più penetrante e ossessiva incidenza nelle decisioni proprie del livello sottordinato.Le procedure, che regolano il rapporto tra i differenti livelli di governo nella formazione degli atti della pianifi-cazione, devono essere radicalmente riconsiderate e riformulate, sulla base di principi chiari e ragionevoli che sosti tuiscano l'intera legislazione nazionale vigente in materia e inducano a rinnovare (semplificando, finalizzando e razio nalizzando) una legislazione regionale che è stata finora molto più ossequiosa della lettera della vecchia legislazio ne nazionale che attenta a enuclearne i principi e a innovarne i contenuti.Ogni livello di governo dovrebbe innanzitutto avere l'obbligo di esprimere le proprie scelte territoriali mediante un atto di pianificazione, ossia una serie di elaborati, rife riti a una definita base cartografica, che rappresentino il quadro di coerenza dell'insieme delle scelte formulate a quel livello. (E' il caso di affermare, a questo proposito, che una Regione che non abbia formato il proprio atto di pianificazione non ha alcuna autorità morale, alcun diritto sostanziale e comunque alcun criterio oggettivo sulla cui base valutare un piano comunale).Gli enti territoriali elettivi di livello sottordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianificazione di livello sovraordinato esprimendo osservazioni, cui dovrebbe essere sempre obbligatorio controdedurre motivatamente. Parimenti, gli enti di livello sovraordinato dovrebbero contribuire alla formazione degli atti di pianificazione di livello sottordinato mediante pareri e osservazioni, ai quali dovrebbe essere ugualmente obbligatorio controdedurre motivatamente, ma che dovrebbero essere vincolanti solamente ove concernenti la tutela di interessi la cui competenza sia riconosciuta ai predetti enti di livello sovraordinato.E ove gli enti di livello sovraordinato abbiano provveduto ad esprimere tali interessi mediante gli strumenti di pianificazione di propria competenza, la vigenza degli strumenti di pianificazione di livello sottordinato dovrebbe essere soggetta soltato al controllo della loro conformità alle de terminazioni dei primi. Non dovrebbe infine essere previsto alcun controllo di merito, da parte degli enti di livello sovraordinato, sugli atti di pianificazione di tipo "attuativo", che vengano dichiarati, e siano, meramente esecutivi delle prescrizioni di strumenti di tipo "generale" già vigenti.
Tesi alternativa alla n. 9
Complessa per la realtà che esprime e per i soggetti che coinvolge, unitaria nello spazio nella capacità di configurare l'intero territorio come un sistema coerente, la piani ficazione territoriale e urbana deve essere concepita e praticata come un'attività continua nel tempo. Dalla generalizzazione della prassi distorcente delle varianti e delle deroghe è necessario passare a quella, adeguatamente formalizzata, dell'aggiornamento sistematico degli atti di pianificazione, per avvicinare i tempi delle decisioni sul ter ritorio ai tempi delle necessità sociali.
Si afferma spesso, e a ragione, che occorre passare dalla formazione di piani a un'attività continua, costante e sistematica di pianificazione. Questa affermazione non può in dicare solamente lo spostamento dell'accento da un atto (il piano) a un processo (la pianificazione), concependo e praticando però quest'ultimo come la mera successione di una serie di piani. L'efficacia del governo del territorio, e la possibilità di rispondere in tempi ragionevoli alle domande della società richiedono più profonde modificazioni nei modi di pianificare. Lo dimostra, del resto, la frequenza con la quale si impiega l'istituto della Variante. In molte città la sommatoria delle varianti (cui poi si aggiungono le concessioni in deroga autorizzate da leggi statali e regionali) ha pesantemente distorto le originarie scelte del PRG, ha reso incomprensibile la disciplina urbanistica ai cittadini, ha cancellato ogni possibilità di ottenere coerenza nell'assetto del territorio. Dietro l'impiego perverso della Variante, oltre agli evidenti interessi privatistici o di torbido scambio politico, si nasconde però anche un'esigenza reale: quella appunto di avvicinare i tempi delle decisioni ai tempi delle necessità sociali. Alcune esperienze compiute consentono di confermare che è possibile superare, senza negarlo, l'istituto del Programma pluriennale d'attuazione (travolto dalla deregulation negli anni in cui avrebbe dovuto invece consolidarsi). Che è possibile concepire e praticare la pianificazione come un insieme di scelte, tra loro coerenti, alcune formulate in relazione al lungo periodo (invarianti) e altre di carattere programmatico e di medio periodo (3-5 anni). Che è perciò possibile rivedere, periodicamente e sistematicamente, le scelte di piano, verificando ed eventualmente correggendo la parte di lungo periodo e proiettando di un altro periodo pluriennale la parte programmatica.Da un piano formato una volta per tutte, e variato "a macchie di leopardo" e alla fine (dopo 15 o 20 anni) rifatto ricominciando da capo, è insomma possibile e necessario pas sare a un'attività di pianificazione la quale preveda l'ag giornamento sistematico (p.es., ogni quinquennio) delle scelte sul territorio.
Tesi alternativa alla n . 10
E' necessario perseguire il massimo coordinamento tra le analisi che i diversi livelli di governo eseguono o promuovono come indispensabile base del processo di pianifica zione. Le analisi effettuate dalle regioni, dalle province e dalle città metropolitane, dai comuni devono essere condotte secondo criteri, parametri, indirizzi coerenti, comparabili, integrabili. Quelle relative alle scale minori de vono poter essere sistematicamente verificate e integrate da quelle relative alle scale maggiori; le une e le altre devono costituire le maglie più larghe e più fitte d'una medesima rete di conoscenze costruita su di un'adeguata base cartografica, unitariamente concepita, sistematicamente aggiornata, multilateralmente utilizzata.
La necessaria unitarietà del processo di pianificazione (un unico processo, che si sviluppa articolandosi e integrandosi ai diversi livelli territoriali e di governo) rende indi spensabile ottenere il massimo coordinamento tra le analisi che i diversi livelli di governo svolgono o promuovono come base per la redazione dei relativi atti di pianificazione.Le analisi che vengono condotte dalle regioni, dalle provin cie, dalle città metropolitane, dai comuni, sia sulla struttura fisica che su quella economico-sociale, non possono più esser condotte secondo criteri, parametri, indirizzi differenti, non comparabili nè integrabili.
Le analisi impostate ed eseguite alle scale minori devono poter essere si stematicamente verificate e integrate da quelle impostate ed eseguite alle scale maggiori. Le une e le altre devono costituire le maglie più larghe e più strette d'una medesi ma rete di conoscenza.
E' una rete di conoscenze che ha il suo primo elemento e la sua base di riferimento al territorio nel sistema cartogra fico, elemento primordiale d'ogni processo di pianificazione.
E' un danno grave per la capacità di governare con efficacia il territorio, e per lo stesso pubblico erario, che tutti gli enti (salve pochissime eccezioni) costruiscano la propria cartografia di base separatamente l'uno dall'altro. Certamente benemerita è l'attività del Centro interregionale di coordinamento e documentazione per le informazioni territoriali, ma la sua è un'attività monca se e finchè le regioni si disinteressano della cartografia alle scale mag giori, se e finchè gli enti locali non sono coinvolti nella formazione di un unico e coerente sistema cartografico nazionale.
La rete della conoscenza del territorio, in tutte le sue componenti tecniche e di livello (nella sua componente a ma glie più larghe e in quelle a maglie via via più fitte) deve essere aggiornata con periodicità e sistematicita. Un obiettivo da porre è quello di rendere sincroniche le cadenze dell'aggiornamento per i diversi enti territoriali, che il complessivo sistema informativo (dalla cartografia ai censimenti, dalle analisi dirette a quelle campionarie) sia unitario, o quanto meno coordinato, non solo nella concezione ma anche nella dinamica della sua trasformazione e nei modi della sua gestione.
Tesi aggiuntiva n. 10 bis
Non solo nelle analisi, ma anche nella definizione degli indirizzi della pianificazione i diversi enti territoriali elettivi devono coordinare le loro azioni, finalizzandole al raggiungimento dei grandi obiettivi strategici che devo no caratterizzare i prossimi decenni, e la cui assunzione deve condizionare le scelte della pianificazione a tutti i livelli. I già enunciati obiettivi del massimo risparmio delle risorse territoriali in funzione delle esigenze dell'umanità di oggi e di domani, e il massimo possibile miglioramento della qualita della vita, non possono essere rinviati al 3° millennio, ma devono ispirare subito gli atti di politica territoriale e di pianificazione territoriale e urbana degli organi centrali dello Stato, delle regioni, delle province e delle città metropolitane, dei comuni.
La complessità e la drammatica urgenza degli obiettivi che devono essere assunti per la pianificazione territoriale e urbana, soprattutto se considerate nel contesto dei proces si di trasformazione del territorio che caratterizzano l'attuale fase storica, rendono essenziale il coordinamento degli impegni nei quali dovrebbe esprimersi l'azione di piani ficazione e, più in generale, le politiche territoriali di tutti gli enti territoriali elettivi, ciascuno secondo le proprie competenze e responsabilità. Come si è già argomentato, gli obiettivi della pianificazione consistono essenzialmente, e sinteticamente, nel massimo risparmio delle risorse (fisiche e culturali, naturali e storiche, organizzative ed estetiche) sedimentate nel territorio, e nel massimo miglioramento della qualità dell'ambiente di vita in termini igienici, funzionali, sociali edestetici. Mentre il secondo obiettivo assume priorità assoluta per le condizioni di vita della popolazione di oggi (la quale in grande maggioranza vive, lavora e si muove in ambienti urbani e territoriali caratterizzati dall'inquinamento, dall'assenza di ogni riconoscibile forma, dalla dequalifica zione funzionale e sociale), il primo obiettivo va persegui to ricordando che la società di oggi è responsabile del ter ritorio, e della risorsa che esso costituisce, nei confronti non solo di singoli gruppi sociali oggi presenti, ma del l'intera umanità di oggi e di domani. Ciascuno degli enti territoriali elettivi corresponsabili del governo del territorio ha una serie specifica e non dif feribile di compiti da svolgere e di responsabilità da assu mere, per raggiungere quegli obiettivi sui quali tutti sembrano concordare, ma che appaiono ben lungi dall'essere anche solo esser presi in seria considerazione.
Lo Stato, dopo anni e anni di colpevole e irresponsabile inerzia, provocata dalle forze che si sono succedute al governo e tollerate dalle stesse opposizioni, deve finalmente assumere le sue competenze istituzionali di indirizzo e coordinamento in materia di assetto territoriale e adottare per primo il rispetto degli obiettivi sopra richiamati nel-le politiche di settore più direttamente incidenti sul territorio, invertendo a tal fine, drasticamente, le tendenze in atto (basta pensare alla scandalosa politica nazionale dei trasporti).
Le Regioni, dopo aver per un ventennio deluso le aspettative di chi (a cominciare dai Costituenti) attribuiva loro competenze e responsabilità decisive nelle politiche territoriali, devono finalmente decidersi a completare la politi ca di ricognizione, di vincolo e di determinazione delle in varianti dettate dall'esigenza di tutelare l'integrità fisi ca e l'identità culturale del territorio, timidamente avvia ta con l'attuazione della legge 431/1985 e quasi ovunque vergognosamente interrotta, a pianificare il proprio terri-torio e a fornire agli enti locali indirizzi e, dove occorre, sostegni tecnici e finanziari. Esse non possono poi dimenticare o trascurare la responsabilità dell'esercizio del la funzione sostitutiva in caso di inadempienze.
Le province, le città metropolitane, i comuni ai quali ultimi fino a oggi è stata lasciata pressochè interamente, nel bene e nel male, la responsabilità della pianificazione devono finalizzare la formazione dei nuovi atti di pianificazione al risparmio di suolo, alla riorganizzazione funzionale dei sistemi insediativi, alla valorizzazione e riqualificazione dell'armatura urbana esistente, alla umanizzazione e socializzazione (con interventi di recupero urbano, edilizio, ambientale, estetico, culturale, sociale) dei quartieri realizzati, soprattutto nelle maggiori aree urbane (ma anche nelle bidonville del turismo di rapina e nelle aree devastate dall'abusivismo) nel corso dell'ultimo mezzo secolo.
Tesi alternativa alla n. 11
Ogni atto di pianificazione deve avere il proprio preliminare fondamento scientifico in un'analisi finalizzata della struttura fisica del territorio: più precisamente, in una lettura attenta delle risorse territoriali, in tutte le loro componenti. E per ciascuna delle componenti del terri torio (specifiche porzioni o classi di unità di spazio) la lettura deve consentire di individuare i gradi e i modi del la trasformabilità e della utilizzabilità.
Gli esiti della pianificazione sono in larga misura prede-terminati dalle analisi che vengono svolte e dal modo in cui lo sono. La scelta degli elementi della realtà che devo no esser letti e interpretati, e il modo di farlo, non sono mai neutrali rispetto agli esiti; a maggior ragione, a tali esiti devono essere strettamente finalizzati.Il primo fondamento scientifico di ogni atto di pianificazione (e del processo di pianificazione nel suo complesso) deve essere costituito da una lettura attenta delle risorse territoriali, individuate e classificate in tutte le loro componenti: sia quelle che costituiscono elementi della qua lità del territorio (prevalentemente costituite, nel nostro paese, dal prodotto del sapiente intreccio tra lavoro e cul tura da un lato, e le caratteristiche, i ritmi, le regole della natura dall'altro lato), sia quelle nelle quali si ma nifestano le varie forme di degrado che caratterizzano le periferie urbane e molte e crescenti porzioni del territorio extraurbano. Le risorse territoriali, le qualità e i disvalori dell'ambiente, devono essere visti e interpretati nel loro insieme e nei loro caratteri specifici, con i livelli di approfondi mento pertinenti ai diversi livelli di pianificazione. Dalla foresta all'orto urbano, dal terreno franoso alla villa settecentesca, dal centro storico al lotto intercluso, dal complesso monumentale alla costruzione degradante, dal corso d'acqua alla discarica abusiva, ogni elemento del territorio deve essere individuato e classificato in ragione del la qualità che storia e natura hanno in esso impresso, o delle devastazioni e degradazioni che hanno cancellato, totalmente o parzialmente, le qualità preesistenti. La lettura delle caratteristiche fisiche del territorio deve consentire di individuare, per ciascuna delle componenti o delle classi di componenti, quali sono i gradi, i modi, e insomma le regole della trasformabilità, sia fisica (cioè quali operazioni tecniche, secondo quali criteri, con quali specifiche finalità relative all'"oggetto" si possano o deb bano fare), sia funzionale (cioè quali siano le utilizzazio ni compatibili con le caratteristiche proprie di quell'"oggetto", porzione del territorio o classe di unità di spazio che sia). Deve poi consentire di definire quali priorità debbano essere seguite nelle trasformazioni (per impedire, ad esempio, che terreni agricoli vengano urbanizzati prima di quelli già sottratti al ciclo naturale), quali sono i costi necessari, quali i benefici ottenibili dalla trasformazione e i danni derivanti dall'inerzia o dall'incuria.Alcune esperienze e indicazioni utili per una lettura del territorio in tal modo finalizzata sono venute negli anni recenti, sviluppando antiche intuizioni della cultura urbanistica italiana. In particolare la legge 431/1985, la cosiddetta"legge Galasso",se da una parte è valsa a stimola re un'azione di salvaguardia attiva delle qualità del terri torio (malauguratamente condotta dalle Regioni e dagli orga ni centrali dello Stato, come l'INU ha più volte puntualmen te documentato e denunciato, in modo assolutamente inadegua to rispetto alle aspettative, alle esigenze e alle stesse potenzialità della legge), dall'altra parte è valsa a dimostrare, nelle più convincenti applicazioni, la concreta pos sibilità di operare nel modo suddetto. L'obiettivo che deve essere assunto oggi è quello di porre la lettura delle qualità del territorio e la definizione delle regole della trasformabilità alla base dei processi di pianificazione non solo in tutta la pianificazione regionale ma anche nella pianificazione territoriale e urbanistica ai livelli provinciale o metropolitano e comunale
Tesi aggiuntiva n. 11 bis
Ogni atto di pianificazione deve essere basato su una lettura altrettanto attenta, e sistematicamente aggiornata, della struttura economico-sociale del territorio, con particolare riferimento alla domanda sociale, cioè alle esigenze, ai fabbisogni, alle necessità che richiedono di operare trasformazioni territoriali, e alle risorse economiche disponibili e impiegabili.
Ogni atto di pianificazione deve essere basato su una lettura attenta e rigorosa delle componenti della domanda socia le che richiedono di operare trasformazioni territoriali. Su un'analisi, cioè, delle esigenze, dei fabbisogni, delle necessità, espresse o esprimibili da parte delle diverse componenti della realtà sociale ed economica, che richiedono di modificare assetti fisici preesistenti per migliorarne la vivibilità o per ospitare funzioni nuove, oppure che richiedono trasferimento di funzioni non insediate corretta mente, oppure per rendere i siti nei quali sono insediate funzioni con essi compatibili più idonei alle funzioni ospi tate.Una lettura della domanda sociale (e, più in generale, dei diversi aspetti della struttura economico-sociale di cui la domanda sociale è l'espressione) non ha senso, in un pianificazione quale quella cui si fa riferimento, se non è fin dall'inizio predisposta per essere aggiornata con continui tà e sistematicità. Mentre infatti la struttura fisica del territorio ha una consistente inerzia e le sue trasformazioni operano su archi temporali lunghi, quella economico-sociale si modifica con grande velocità e le sue trasformazioni devono essere registrate e valutate in tempo reale. La progettazione di sistemi informativi, rigorosamente legati a una base territoriale restituita in modo omogeneo con i criteri di analisi della struttura fisica del territorio,e la sua messa in opera contestualmente alle prime fasi del processo di pianificazione, non sono dunque un lusso ma una necessità insopprimibile per la correttezza e l'efficacia del governo del territorio, e un modo per evitare gli attua li sprechi (d'energie, di tempo, di soldi) derivanti dalla ripetitività delle analisi, dalla loro non finalizzazione,dalla loro sostanziale casualità e dispersività. Nell'ambito di queste analisi, attenzione particolare deve esser posta alla individuazione, analitica o stimata, delle risorse economiche, pubbliche e private, attivabili per la realizzazione delle previsioni della pianificazione, con particolare riferimento a quelle adoperabili per realizzare o promuovere gli interventi programmabili nel medio periodoe quelli aventi priorità strategica.
Tesi aggiuntiva n. 11 ter
La pianificazione deve distinguere le scelte che, concernen do qualità e valori propri della struttura fisica del territorio, devono costituire le invarianti delle trasformazionida quelle che, esprimendo esigenze, realtà, priorità più di rettamente legate alla situazione economica, sociale e politica, sono suscettibili di mutamenti in tempi relativamente brevi. In tal modo la pianificazione, sistematicamente veri ficata nelle scelte invarianti e di lungo periodo e aggiornata nelle scelte programmatiche e di medio periodo, può costituire un quadro di coerenza dinamico, capace di adattarsi alle modificazioni conservando costantemente una coerenza complessiva.
Una lettura della struttura fisica del territorio, e in particolare delle sue qualità, quale quella i cui criteri si sono sopra esposti, consente di definire quali sono le gamme di trasformazioni (fisiche e funzionali) compatibili con una utilizzazione del territorio rispettosa dei suoi valori: ossia quali sono le invarianti che l'esigenza di tutelare l'integrità fisica e l'identita culturale del territorio pone alle trasformazioni territoriali e urbane.
Una lettura adeguata della struttura economico-sociale, e le opzioni politico-sociali espresse nelle sedi istituzionali, consentono di definire quali sono, all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione del territorio, lo operazioni che è concretamente possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla.
La pianificazione, allora, deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (perchè le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo), ma deve anche indicare, tassativamente e precisamente, quali sono le trasformazioni operabili e/o prescritte nel breve periodo: nel periodo, cioè, per il quale le previ sioni sono certamente attendibili, la volontà politica è certamente costante, le risorse economiche sono certamente disponibili.
La pianificazione quindi, sistematicamente aggiornata e resa scorrevole, può finalmente costituire il quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale delle condizioni alle trasformazioni poste dalla risorsa territorio) che per il breve periodo: per il periodo cioè nel quale in modo più diretto e pro grammatico esplica la propria efficacia.
Tesi alternativa alla n. 12
La progettazione urbanistica e la progettazione edilizia sono entrambe ovviamente con ruoli diversi e diversa importanza momenti tecnici rilevanti del processo di pianificazione, con le cui scelte interagiscono.
Intendiamo per progettazione quall'insieme di tecniche capaci di prefigurare, e con ciò stesso di rendere facilmente comprensibile, un assetto fisico e funzionale totalmente o parzialmente diverso da quello attuale, esprimendo tale pos sibile assetto mediante la forma, o la simulazione, di un progetto. In tal senso, momento tecnico essenziale della pianificazio ne è il progetto urbanistico, il quale prefigura (in tuttala sua complessità e articolazione, in tutta la sua ricchezza di elementi e d'interazioni), l'assetto d'un organico spazio territoriale o urbano (d'un sistema ambientale, o d' un sistema insediativo o della realtà che entrambi li comprende) soggetto al processo di pianificazione. Il progetto urbanistico può anche costituire il momentodella simulazione dei possibili esiti di diverse scelte territoriali, anche alternative; costituisce un rilevante strumento di verifica o di avvicinamento alla formulazione o de finizione delle scelte della pianificazione generale. Ma anche il progetto edilizio, il quale prefigura l'assetto fisico e funzionale di una porzione limitata di spazio compresa all'interno di un più complesso ambito soggetto a pia nificazione, può costituire un utile momento di verifica a priori delle soluzioni di pianificazione generale configura bili o già configurate, e di approfondimento delle ipotesi normative formulate. Esso è poi lo strumento essenziale per la pianificazione attuativa, dove l'approfondimento e la traduzione in termini precisamente morfologici e funzionali è finalizzata a una rapida realizzazione dell'intervento. Sembra infatti inopportuno prefigurare (in termini prescrit tivi o con ridotte possibilità di scostamento dal "disegno planovolumetrico" o altro) configurazioni formali per parti della città e del territorio che saranno realizzate in un tempo non certo, e comunque non vicino.Sia il progetto urbanistico che il progetto edilizio sono quindi differenziatamente funzionali a gli atti di pianificazione. La loro elaborazione interagisce con le più complessive scelte della pianificazione e ne costituisce parte integrante.
Tesi alternativa alla n. 13
Sul principio della titolarità pubblica della pianificazione territoriale e urbana tutti, in teoria, si dichiarano d'accordo. Esso però è pesantemente contraddetto nella prassi corrente, ad opera sia dei maggiori gruppi del potere economico, sia di parti e spezzoni dello stesso potere pubblico.
Si contraddice il principio della titolarità pubblica della pianificazione quando si delega, o si propone di delegare, ad aggregazioni di interessi economici privati la formulazione di scelte che incidono sull'organizzazione territoriale e urbana, riducendo il ruolo dell'ente pubblico elettivo alla mera copertura formale mediante atti di pianifi cazione redatti e adottati ex post di scelte compiute da altri poteri.
E' quel che è avvenuto o che si propone in numerosi casi re centi. Come a Firenze, dove il piano per l'urbanizzazione della piana a nord-ovest della città è stato redatto in fun zione degli interessi delle società già proprietarie (Fiat) o divenute proprietarie (Fondiaria) delle aree coinvolte.
Come a Napoli, dove grandi interessi economici raggruppati sotto la sigla del "Regno del possibile" propongono al Comune di delegare ad una società per azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione del recupe ro di quasi 70mila alloggi nel centro storico, inclusi gli oltre 5mila di proprietà dello stesso Comune da conferire in proprietà alla s.p.a.
Come a Roma, dove l'Italstat, sulla base del possesso di una parte consistente delle aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale, si è proposta come capofila di un pool di imprese che vorrebbe pianificare, progettare e realizzare un sistema strategico per la trasforma zione della città.
Come infine a Milano, dove la subordinazione agli interessi dei proprietari di aree è divenuta, a partire dagli inizi degli anni 80, prassi corrente, attraverso un intenso processo di sostituzione funzionale di cui si rinuncia program maticamente a verificare gli effetti sul contesto urbano e metropolitano. Con una rapidissima sequenza di varianti pun tuali si sono infatti autorizzati, e si stanno in molti casi realizzando, oltre 12 milioni di nuove strutture edilizie per il terziario (di cui solo 2 già previsti dal Prg vi gente): come se le nuove funzioni avessero lo stesso carico urbanistico delle precedenti, come se fosse del tutto indif ferente la loro collocazione nella città, e come infine se non fosse del tutto evidente che il territorio comunale è saldato ed inserito in una agglomerazione a sua volta caotica e destrutturata.
E come in numerose altre città italiane, dove la prassi della cosiddetta "urbanistica contrattata" nasconde la sostanziale abdicazione del potere pubblico elettivo di fronte a nuovi intrecci di interessi economici, dove sono presenti, insieme, il capitale privato, pubblico e cooperativo, interessi industriali, finanziari, assicurativi e fondiari, com plessi multinazionali e aziende locali.
E si contraddice ugualmente il principio della titolarità pubblica della pianificazione quando le decisioni sull'assetto del territorio, anzichè essere adottate dagli istituti rappresentativi della volontà popolare, sono prese da organismi che, pur essendo parte del sistema dei pubblici poteri, esprimono legittimamente solo interessi parziali (singoli ministeri e assessorati, aziende statali o parastatali e così via).
Una forma peculiare di contraddizione della titolarità pubblica della pianificazione è quella che va affermandosi nel Sud in riferimento alle modalità nuove dell'intervento stra ordinario nel Mezzogiorno (legge 64). Data l'impossibilità dagli enti locali, generalmente privi di adeguate strutture tecnico-operative, di predisporre in modo autonomo i proget ti esecutivi, sui quali chiedere i finanziamenti, sono le tecnostrutture aziendali o gli studi professionali ad esse collegati a produrre in proprio tali progetti decidendone essi contenuti e caratteri e ad offrirli agli enti locali dietro l'impegno di questi a ripagare i "promotori" con l' affidamento delle opere
Tesi alternativa alla n. 14
Affermare la titolarità pubblica della pianificazione non significa escludere la possibilità di rilevanti ruoli dei soggetti privati, e neppure attribuire un valore positivo a qualunque forma dell'intervento pubblico. Oggi, anzi, è necessario denunciare con chiarezza una forma particolare, edestremamente grave, di svuotamento della pianificazione compiuto dalla mano pubblica con l'alibi della "straordinarietà".
Negli ultimi anni la straordinarietà di eventi spesso imprevedibili (come i terremoti), altre volte prevedibili o addi rittura programmati (come i Mondiali di calcio), è stata utilizzata come occasione per introdurre, e via via generalizzare, procedure, indirizzi, poteri assolutamente alterna tivi rispetto a quelli della pianificazione.
Ogni problema, locale o generale, divenuto insostenibile per la lunga inerzia dei poteri istituzionalmente competenti, viene artificiosamente presentato come emergenza cui far fronte oggi con interventi speciali, il cui primo connotato sia la facoltà di non rispettare i piani urbanistici. E si può fondatamente individuare in tale prassi la matrice di una pericolosa legittimazione di poteri pubblici speciali non a caso intestati a singoli fondamentalmente intesi come potestà di deroga. Mentre la deroga, invocata e ottenuta oggi per questa o quell'altra situazione particolare ed emergente,viene poi estesa e tendenzialmente generalizza ta fino a diventare deregulation e cioè (nell'accezione i taliana del termine)deroga da qualsiasi regola, sregolatezza.
Riaffermare la pianificazione come metodo di governo del territorio implica anche la ricerca di un rinnovamento delle forme e dei procedimenti che consenta di raggiungere migliori livelli di efficacia, operatività e verificabilità degli interventi. In questa logica, va perseguita l'individuazione accurata e scientificamente fondata della aree a rischio, nelle quali rendere sistematica la prevenzione delle calamità come con tenuto specifico della pianificazione tanto in termini di riduzione del pericolo quanto ai fini degli indirizzi strutturali di riorganizzazione e riqualificazione insediativa.
Tesi alternativa alla n. 15
La titolarità pubblica della pianificazione, per poter essere esercitata coerentemente con le finalità generali precedentemente richiamate, ha bisogno di alcune condizioni indispensabili. Molte di queste riguardano la definizione di un rapporto corretto tra le diverse articolazioni del potere pubblico e soprattutto tra poteri pubblici e soggetti privati, attraverso un nuovo sistema di regole e di comportamenti relativi agli aspetti economici, istituzionali, etici e professionali.
Dichiarare la titolarità pubblica della pianificazione resta una mera posizione di principio, o un’affermazione accademica, se non è in grado di indicare e determinare (a seconda degli specifici ruoli) quali sono le condizioni indispensabili per il suo esercizio.
Tali condizioni riguardano diversi e fondamentali aspetti della vita e dell'organizzazione della società: quello economico (e in primo luogo la questione del regime degli immobili), quello istituzionale Dove il riordino del sistema amministrativo è una componente rilevante ma non esclusiva di un più ampio complesso di question) quello etico (in cui è necessaria una riflessione critica soprattutto sul rapporto tra momento politico-decisionale e momento tecnico-culturale), e infine su quello professionale (dove si ritiene indispensabile ridefinire il ruolo delle professionalità coinvolte nel processo di pianificazione).
Su questi argomenti l'Inu avverte in modo particolare la necessità di ampliare e qualificare il confronto con altre dimensioni, competenze e saperi presenti nella cultura e nella società italiane, nell consapevolezza che si tratta di nodi che hanno una portata ben più ampia di quella che può essere dominata da uno specifico istituto culturale.
Tesi alternativa alla n. 16
La distribuzione differenziata ai soggetti proprietari dei vantaggi economici della valorizzazione immobiliare conseguente ai piani non può nè deve essere obiettivo di una pianificazione che sia nell'interesse generale. La pianificazione deve farsi carico della concreta realizzabilità delle scelte previste, tenendo conto dell'ambiente economico complessivo e non delle convenienze di questo o di quell'altro specifico soggetto privato. I capitali d'investimento e le capacità imprenditive delle aziende a capitale priva to, pubblico e cooperativo devono trovare nell'attuazione delle scelte della pianificazione, e nella certezza e chiarezza da esse determinate, il campo del loro intervento.
E' noto, oltre che evidente, che il ruolo degli interessi e conomici è determinante nelle trasformazioni territoriali. Il modo in cui vengono definite le regole del rapporto tra scelte sul territorio e concreti interessi economici è perciò essenziale ai fini della qualità (formale, funzionale, sociale) dell'assetto territoriale e urbano. Oggi, gli interessi economici della proprietà, immobiliare e finanziaria, e dell'impresa, sono sempre più spesso i promotori di scelte di localizzazione, urbanizzazione, realizzazione e gestione di interventi complessi i quali (come è attestato dagli esempi già citati) prescindono pressochè totalmente sia dal corretto ruolo dei poteri pubblici elettivi, cui viene chiesto di fornire una mera copertura formale, sia dei metodi e delle procedure della pianificazione, e quindi della valutazione degli effetti che le scelte producono su ambiti territoriali vasti e della trasparenza delprocesso di formazione delle decisioni.
Questo modo distorto di praticare il rapporto tra poteri istituzionali e poteri economici tende a generalizzarsi sianella prassi della cosiddetta "urbanistica contrattata" sia in un uso improprio dell'istituto della concessione, sempre più impiegato come delega piena, indiscriminata e incontrol lata di poteri pubblici a soggetti privati. Esso deriva, e comunque così viene giustificato, come un effetto dell'inca pacità di molte istituzioni pubbliche ad esercitare con efficacia le loro competenze di pianificazione e programmazione. Per combatterlo, e instaurare un rapporto corretto con gli interessi economici, occorre ricondurre questi ultimi al loro giusto ruolo di strumenti di un interesse generale definito dagli enti territoriali elettivi mediante la pianificazione del territorio.
A questo fine è necessario riprendere la classica distinzio ne (tuttora valida nonostante il più complesso carattere dei rapporti tra le diverse categorie d'interessi) tra le figure economiche legate alla produzione, alle attività im-prenditoriali e alla formazione di profitto, e le figure economiche legate alle attività immobiliari e alla formazio ne di rendita. Queste due figure economiche avevano comin ciato a distinguersi anche nei concreti comportamenti negli anni, e nelle situazioni territoriali, in cui la mano pubblica aveva esercitato una moderna politica delle aree. La massimizzazione delle aree acquisite dai comuni con i pur imperfetti strumenti disponibili (in particolare le leggi 167/1962 e 865/1971) e la cessione alle imprese costruttrici delle aree urbanizzate avevano consentito di incrinare il blocco tra proprietà e impresa, tra rendita e profitto. Uno dei risultati più gravi della fase del cosiddetto riflusso urbanistico, e del deperimento o dell'abbandono degli strumenti legislativi disponibili, è stato proprio la ricostituzione di quel blocco e la ripresa di processi di trasformazione immobiliare guidati da interessi speculativi.
Finchè non sarà varata una riforma del regime degli immobili capace di risolvere radicalmente il problema, è necessario che almeno gli interventi strategici nelle aree urbane avvengano secondo il modello dell'acquisizione preliminare degli immobili da parte dei comuni, della loro cessione a-gli utilizzatori, e del convenzionamento degli esiti economici per evitare che le rendite si ricostituiscano sugli immobili trasformati.
inviato da Francesco Remonato, Madrid, 7 aprile 2011