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DI CHE PARLIAMO

La corruzione non è una novità

La proprietà immobiliare ha sempre condizionato, in misura maggiore o minore, le decisioni pubbliche della pianificazione urbanistica. Di più o di meno, a seconda di due variabili: l’incidenza della proprietà immobiliare nel sistema complessivo degli interessi, la maggiore o minore distanza della pubblica amministrazione dagli interessi immobiliari. In sintesi, dal peso della proprietà immobiliare nell’economia e nella politica.

Il ruolo della pianificazione urbanistica moderna (dal XIX al XX secolo) è sempre stato quello di “regolare” gli interessi immobiliari, perché in gran parte attraverso di essi che nelle economie liberali si costruisce e si trasforma materialmente la città. La pianificazione urbanistica è stata storicamente proprio il sistema di regole mediante il quale le operazioni di trasformazione immobiliare, ciascuna delle quali promossa da un singolo operatore, davano luogo a un progetto complessivo di città. Un progetto del quale facevano parte non solo gli elementi, per così dire, d’interesse immediato dei proprietari immobiliari, ma anche quelli che interessavano gli abitanti della città, i cittadini in quanto tali e i suoi fruitori e visitatori, nonché il complesso delle attività che nella città si svolgono. Un progetto che doveva raggiungere i tre requisiti della funzionalità, del benessere e della bellezza. Un progetto che non poteva traguardare solo al breve termine (quello percepito come rilevante dall’operatore economico), ma doveva riferirsi al lungo termine, peculiare alla dimensione temporale della città (che quindi era percepito come rilevante dal Buon governo).

Naturalmente, poiché il potere politico-amministrativo era determinante nell’assegnare peso economico alle proprietà immobiliari, la contrattazione delle decisioni sul territorio, e la stessa corruzione, non sono mai mancate tra gli ingredienti del sistema delle decisioni. La proprietà immobiliare ha insomma sempre esercitato una pressione più o meno forte sugli amministratori, ma sempre nell’ambito di un dispositivo complessivo nel quale era chiaro che il ruolo del progettista e decisore delle regole della città era il governo pubblico.

Ma l’urbanistica contrattata è un’altra cosa

A un certo punto della nostra storia recente questo è cambiato. La pianificazione espressiva d’una autorità pubblica, quindi rivolta a regolare a priori (secondo un piano, un disegno, un sistema di regole) l’attività degli operatori privati, è stata definita “urbanistica regolativa” e ad essa si è opposta la “urbanistica concertata”, o – più esplicitamente – “urbanistica contrattata”. Il nostro convegno si riferisce a Vent’anni di urbanistica contrattata. In realtà allungherei di un decennio il periodo, poichè è proprio all’inizio degli anni 80 del secolo scorso che collocherei quel tornante.

Prima di ragionare sugli eventi che hanno concorso a quella svolta, e sulle sue conseguenze, credo che sia utile di precisare che cosa intendo per “urbanistica contrattata".

In termini molto sintetici significa sostituire, a un sistema di regole valide erga omnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica e finalizzate alla realizzazione di un assetto della città e del territorio ordinato a un insieme di obiettivi d’interesse generale, la contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere, e in particolare di quelli che hanno un interesse economico diretto nelle utilizzazioni che saranno consentite alla sua proprietà.

Essa perciò si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma per la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, o addirittura sulla base delle proposte di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma chi ha iniziativa è la proprietà, e non il Comune.

UN PO’ DI STORIA

Il contesto della svolta

Il passaggio dall’urbanistica tradizionale all’urbanistica contrattata, avviene come dicevo, nel corso degli anni 80. Si è appena concluso un ventennio sul quale la riflessione degli storici ha gettato molta luce. A una fase nella quale si erano raggiunte grandi conquiste sul terreno dell’organizzazione della città e della società (rilancio della pianificazione urbanistica, politica della casa, standard urbanistici, e insieme istituzione del servizio sanitario nazionale, scuola per tutti, istituzioni per l’infanzia, diritti del lavoro, diritti della donna, …), aveva fatto seguito una fase in cui la pressione delle forze che alle riforme di opponevano avevano incrinato, smantellato, depotenziato i risultati raggiunti.

Nel mondo dominano ormai i tre slogan del neoliberismo: liberalizzazione, deregolazione, privatizzazione. Margaret Tatcher e Ronald Reagan sono i leader incontrastati degli orientamenti che prevalgono nel contesto della globalizzazione. Le politiche keynesiane sono sostituite dall’ideologia e dalla prassi del neoliberalismo.

In altri paesi il neoliberismo trova – almeno nel campo del governo del territorio - gli argini di una forte autorevolezza della pubblica amministrazione e di una consolidata prassi di buona pianificazione urbanistica; in Italia, nonostante le eccezioni, mancano entrambi questi requisiti. Nel Belpaese la spinta al cambiamento (lo chiamano “modernizzazione”) ha la sua forza trainante nel nuovo PSI di Bettino Craxi. Slogan quali “privato è bello”, “meno stato e più mercato”, “via i lacci e lacciuoli” risuonano al centro, a destra e a sinistra: diventano via via pensiero corrente. E alla fine degli anni 70 diviene ministro dei lavori pubblici Franco Nicolazzi, promotore dei primi provvedimenti di liberalizzazzione, deregolamentazione, condono dell’abusivismo.

Intanto i gruppi industriali del “capitalismo avanzato”, che negli anni precedenti avevano dichiarato di essere favorevoli a riforme urbanistiche che riducessero il peso della rendita fondiaria, avevano rapidamente cambiato di spalla al fucile: riducendo l’impegno e l’investimento nelle attività industriali, avevano accresciuto il peso delle attività immobiliari. Ciò era stato favorito dalle trasformazioni strutturali dell’economia italiana. L’accresciuto peso del terziario sulla produzione manifatturiera aveva provocato l’obsolescenza dei grandi complessi industriali, spesso collocati al centro delle città. Ai proprietari e ai gestori dei gruppi industriali che pochi anni prima si erano schierati con l’Espresso nella campagna contro il sacco di Roma e avevano plaudito a una riforma urbanistica che riducesse il peso della rendita fondiaria, parve molto più conveniente speculare sulla rendita immobiliare consentita da un’utilizzazione contrattata dei loro grandi complessi dismessi.

Il ruolo della cultura

Poiché ragioniamo nell’ambito di un’associazione culturale, credo che sia utile domandarsi quale ruolo abbia svolto la cultura in questa svolta. Benché i recinti delle discipline mi siano antipatici, parlerò del campo nel quale opero: l’urbanistica.

Nel cammino verso un’urbanistica contrattata, alle ragioni provocate dalle nuove convenienze per i “padroni del vapore” determinate dalle trasformazioni strutturali e al prevalere di una nuova ideologia a livello mondiale, ha fatto puntuale riscontro una mutazione nella cultura urbanistica. Invero molte novità avrebbero richiesto di aggiornare i metodi e gli strumenti della pianificazione: mi riferisco, oltre alle trasformazioni strutturali cui ho accennato, alla forte riduzione delle necessità d’espansione delle città e, per contro, alla necessità di intervenire nel recupero dell’esistente, all’insorgere e l’affermarsi della questione ambientale e al rafforzarsi della volontà di tutelare il paesaggio e la cultura del territorio.

E tuttavia, mentre alcuni lavoravano per affrontare le questioni nuove nell’ambito dei principi della pianificazione pubblica, altri vedevano nella forza economica delle trasformazioni immobiliari la molla da liberare al massimo grado dai lacci e lacciuoli della regolazione, o almeno da assecondare nei suoi moventi e nelle sue convenienze.

La critica all’efficacia della pianificazione

Il grimaldello attraverso il quale far passare un sistema di principi radicalmente opposto a quello della pianificazione tradizionale fu la critica all’efficacia della pianificazione tradizionale. Questa era giudicata inefficace per il lungo tempo dedicato alla formazione del piano, per le difficoltà della successiva attuazione, per la mancanza di controllo sulla forma della città. Mentre qualcuno proponeva di innovare il modo in cui modificare il sistema della pianificazione restando fedeli ai principi che la sorreggevano (primato del pubblico, carattere sistemico delle regole, coerenza della visione, trasparenza delle procedure), altri proponevano modifiche sostanziali.

Una polemica si aprì, in particolare, tra chi difendeva il piano e chi proponeva di sostituire ad esso il progetto: alla definizione di un sistema complessivo di regole, si voleva preferire interventi limitati a un’area di dimensioni discrete, nella quale il progettista poteva definire l’aspetto finale. Naturalmente, limitare l’intervento urbanistico all’architettura di una singola parte della città senza preoccuparsi della coerenza complessiva dell’organismo urbano rendeva più snelle le operazioni. Consentiva tra l’altro di avere a che fare con interlocutori noti (proprietari e imprenditori), con cui si potevano concordare gli interventi.

A mio parere il modo in cui le critiche alla pianificazione venivano formulate, le strade che si proponevano per superarle, la scarsa chiarezza sui principi, la disattenzione al contesto politico erano molto pericolosi. In un editoriale della rivista dell’INU sostenevo che le iniziative deregolatrici pesantemente avviate dal ministro Nicolazzi trovavano «complicità oggettive anche nel campo di quanti sono legati, professionalmente, culturalmente o politicamente, al tema della riforma urbanistica». Denunciavo l’esistenza di «assenze, silenzi, cedimenti immotivati, fuorvianti fughe in avanti, comportamenti di riflusso nel professional-privato, di ripiegamento sul quotidiano, di perdita di rigore, che da tempo hanno frantumato, e quasi dissolto, il fronte di quanti potevano e potrebbero battersi, ciascuno con i propri specifici strumenti, per un avanzamento del processo di riforma urbanistica». Osservavo che, all’interno stesso degli urbanisti, si consideravano quasi con compatimento e distacco e si sorrideva «degli sforzi di sistemazione tecnico-disciplinare dell'lnu anni 50, dei metodi "ingegneristici" di un Astengo o delle empiriche capacità di interpretazione e ridisegno di organismi urbani di un Piccinato, delle battaglie di un Detti per la salvaguardia delle colline fiorentine o di un Insolera per disvelare le malefatte dei reggitori della Roma di Cioccetti e Petrucci, delle aspre denunce di un Cederna e delle tenaci elaborazioni di un Ghio per dare verde alla città e servizi ai cittadini o di un Cervellati per restituire alla civiltà un centro storico».

Il cedimento del PCI

All’interno stesso della sinistra politica era avvenuta una mutazione dello stesso segno. L’ideologia craxiana aveva portato il PSI su posizioni molto distanti da quelle della sinistra lombardiana, e aveva trovato aveva trovato echi significativi nel PCI: da un lato, nelle posizioni di chi sosteneva che la pianificazione delle amministrazioni pubbliche era inefficace e che occorreva sostituirla con una gestione intelligente, flessibile e – naturalmente – concordata con le forze del mercato[1]; dall’altro lato, in quelle di chi difendeva l’abusivismo, soprattutto nelle regioni meridionali, addebitandolo alla rigidezza della pianificazione che conculcava il sano desiderio di possedere un’abitazione[2].

Lo scontro tra gli urbanisti rappresentati dall’INU raggiunse livelli acuti, sia dentro che fuori il Pci. Il responsabile del settore nel PCI, Lucio Libertini, scrive che “si è manifestata nell’opinione pubblica, anche di sinistra, una reazione di rigetto verso la pianificazione urbanistica, identificata in forme perverse di oppressione burocratica”[3]. In una lettera al segretario generale del Pci (Alessandro Natta), e ai capigruppo della Camera (Giorgio Napolitano) e del Senato (Gerardo Chiaromonte) quaranta urbanisti esprimono le loro critiche. Alla lettera non ricevemmo risposta da parte dei destinatari; ci rispose invece, su loro mandato, Libertini, dichiarando che il PCI voleva superare il “giacobinismo illuminista”, colpevole del distacco tra movimento riformatore e masse popolari.

La polemica divampò. Ricordo gli articoli fortemente critici di Antonio Cederna, Giovanni Russo, Cesare De Seta, Fabrizio Giovenale, Vezio De Lucia, Pierluigi Cervellati, Carlo Melograni. A quell’epoca la cultura reagiva tempestivamente alle cattive proposte sul governo del territorio, anche quando provenivano da molto vicino[4].

Il caso Fiat-Fondiaria

Il caso fiorentino dell’area FIAT-Fondiaria, fece balzare all’attenzione dell’opinione pubblica il tema dell’urbanistica contrattata nel 1988, a causa della telefonata di Achille Occhetto, allora segretario del PCI, che aveva impedito l’approvazione, da parte della federazione di quel partito, allora al governo di Firenze, di procedere nell’approvazione di una variante urbanistica relativa a quell’area. L’operazione era partita diversi anni prima, tra il 1980 e il 1983, con la proposta di un intelligente intellettuale italo-argentino, Thomas Maldonado, elaborata d’intesa con la società assicuratrice Fondiaria e i locali dirigenti del PCI. Riguardava l’urbanizzazione dell’area tra Firenze e Sesto Fiorentino, con la localizzazione di oltre 3 milioni di metricubi di costruzioni. Nel 1984 l'Agip, la FIAT e la Fondiaria, proprietarie di aree e impianti in quell’ambito, manifestano al comune l'intenzione di avviare operazioni immobiliari. Nel 1985 la giunta centrista avvia una variante del piano regolatore per il settore nord-ovest. Si prevede tra Novoli e Castello un sistema di aree terziario-direzionali. Quattro milioni di metri cubi 3.000 miliardi di investimenti.

Iniziano subito le proteste contro l’intervento. Un primo appello è firmato a Firenze da 90 intellettuali (tra cui Pietro Annigoni, Eugenio Garin e Alessandro Parronchi). L’elaborazione della variante procede, mentre parallelamente iniziano i lavori per il nuovo Prg. Ma le proteste aumentano. Italia Nostra è al centro della protesta, che coinvolge moltissime associazioni, comitati, gruppi. Le ragioni dell’opposizione sono ben sintetizzate da Antonio Cederna: «Saldatura a macchia d’olio della squallida periferia occidentale ed eliminazione dell’ultima area libera;disastrose conseguenza sul centro storico; premessa per la creazione di un ininterrotto agglomerato tra Firenze e Prato»[5].

Giovanni Losavio organizza la pubblicazione di un fascicolo speciale del bollettino di Italia Nostra (n. 255/1998), in cui s’impegna particolarmente Antonio Iannello. Manlio Marchetta, da Firenze, cura un numero speciale della rivista Edilizia popolare (n. 204/1988). Si riesce a coinvolgere la segreteria del PCI. Nella sede fiorentina del PCI è intanto in corso un animato dibattito, che la telefonata di Achille Occhetto interrompe. Il PCI ritira il suo appoggio alla variante.

A distanza di tanti anni l’intuizione appare felice. L’intervento dal centro era essenziale, poiché l’operazione FIAT-Fondiaria aveva un significato nazionale. Avallare quel contratto tra proprietà immobiliare e amministrazione avrebbe significato avallare una prassi che sarebbe stata seguita in tutto il paese. L’intervento da Roma era necessario, ma come oggi sappiamo non bastò.

Lacerazioni nell’INU

Il caso FIAT-Fondiaria fu il primo sul quale discutemmo a lungo nell’INU, ma non il solo. Nel 1990 ci apprestavamo a svolgere il XIX congresso dell’istituto. Avevamo deciso di organizzarlo “a tesi”, per agevolare l’emergere delle diverse posizioni che si erano manifestate tra gli urbanisti italiani. C’era molta esitazione a esprimere posizioni nette su alcuni avvenimenti secondo me cruciali: tra questi, proprio sulla questione del rapporto tra pubblico e privato nel governo del territorio. Operazioni di urbanistica contrattata erano progettate anche in altre città.

A Napoli, dove grandi interessi economici raggruppati sotto la sigla del "Regno del possibile" proponevano al Comune di delegare ad una società per azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione del recupero di quasi 70mila alloggi nel centro storico. A Roma, dove l'Italstat, sulla base del possesso di una parte consistente delle aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale, si proponeva come capofila di un pool di imprese che vorrebbe pianificare, progettare e realizzare un sistema strategico per la trasformazione della città. Infine a Milano, dove la subordinazione agli interessi dei proprietari di aree era divenuta, a partire dagli inizi degli anni 80, prassi corrente, attraverso un intenso processo di sostituzione funzionale. Con una rapidissima sequenza di varianti puntuali si erano infatti autorizzati, oltre 12 milioni di nuove strutture edilizie per il terziario.

La tesi che proponevamo partiva dall’affermazione che il principio della titolarità pubblica della pianificazione territoriale e urbana su cui tutti, in teoria, si dichiarano d'accordo «è pesantemente contraddetto nella prassi corrente, ad opera sia dei maggiori gruppi del potere economico, sia di parti e spezzoni dello stesso potere pubblico». Affermavamo che si contraddice quel principio «quando si delega, o si propone di delegare, ad aggregazioni di interessi economici privati la formulazione di scelte che incidono sull'organizzazione territoriale e urbana, riducendo il ruolo dell'ente pubblico elettivo alla mera copertura formale mediante atti di pianificazione redatti e adottati ex post di scelte compiute da altri poteri». E proseguivamo citando e illustrando i casi che ho appena enunciato

Il consiglio direttivo dell’INU respinse la nostra tesi. Sull’argomento occorreva studiare, approfondire, riflettere: non ci si poteva ancora esprimere. Altri, per fortuna, studiavano, approfondivano, riflettevano: la magistratura. Se la cultura esitava, la giustizia agiva. Esplose lo scandalo di Tangentopoli e si conobbero gli esiti dell’indagine Mani pulite.

Mani Pulite

Fu con l’indagine della Procura della Repubblica di Milano (dal pool composto dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, dal suo vice Gerardo D'Ambrosio e da Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gherardo Colombo, Ilda Boccassini) che si comprese ciò che la contrattazione delle decisioni sull’uso del territorio aveva provocato all’insieme dei rapporti sociali, economici e politici. Nel commentare i risultati delle indagini scrivevamo, con Piero Della Seta, che «lo smantellamento delle regole, degli strumenti e delle strutture del governo del territorio sono stati i passaggi obbligati che il sistema politico-affaristico ha dovuto superare per poter perseguire i suoi obiettivi di potenza e di ricchezza». Non a caso, «circa i tre quarti dei fatti svelati riguardano interventi compiuti (o minacciati) sul territorio e sull'ambiente»[6].

Grazie al lavoro compiuto negli anni dalla rivista Urbanistica informazioni potemmo raccontare i principali casi di urbanistica contrattata che si erano registrati, e che emergevano nella loro natura di incubatori del sistema di corruzione. Oltre al caso della Fiat-Fondiaria balzava in primo piano Milano, dove già il bravo sindaco Pietro Bucalossi, molti anni prima, aveva scoperto esterrefatto il rito ambrosiano. A Milano era successo di peggio oltre alle varianti che avevamo denunciato nell’INU. Commentano alla vigilia di Mani pulite Barbacetto e Veltri: «In mancanza di una legge nazionale sul regime dei suoli e una più larga autonomia finanziaria degli enti locali, gli amministratori scelgono la via della contrattazione. Io amministratore pubblico ti lascio costruire, concedendo varianti al piano regolatore; tu operatore privato mi offri in cambio delle contropartite (opere di urbanizzazione, strutture pubbliche, abitazioni popolari, aree a parco)» contropartite garantite da lettere private, tenute accuratamente segrete.

Difficile credere che, oltre a queste contropartite, l’opacità della contrattazione non ne celi altre[7]. E infatti il ritrovamento casuale di una di queste lettere da parte dell'assessore Carlo Radice Fossati fece esplodere uno scandalo, il cui rumore fu però oscurato da quello provocato dalle successive azioni della magistratura.

Profetica ci apparve dopo l’esplosione di Tangentopoli una frase di Piero Bassetti, presidente della Camera di commercio. Nel 1986, intervistato da La Repubblica durante la discussione allora in corso sul futuro urbanistico di Milano, aveva detto: «Ho l'impressione che tutto questo dibattito sulle aree testimoni una subalternità della politica al rituale problema della stecca» [8]. Così era, a Milano, e non solo a Milano.

Firenze, Milano, Napoli, Roma. Ma in tantissimi luoghi, a Duino Aurisina e a Trieste come a Palermo, al nord come al sud. In molte città grandi e piccole, la polpa degli affari e della contrattazione discreta sono le aree dismesse dalle industrie, dai militari, dalle ferrovie. Grandi occasioni per riorganizzare le città a vantaggio di tutti i cittadini, per restituire verse, spazi pubblici, attrezzature sociali, aria, verde, salute. Trattate una per una, in un rapporto esclusivo col possessore e con l’obiettivo della “valorizzazione economica” (di cui la collettività otterrà una briciola[9] e l’amministratore, o il suo partito, una tangente) si perde in quegli anni la grande opportunità di ridisegnare le città nell’interesse dei cittadini, anziché dei proprietari immobiliari. di

Mani Pulite riesce a determinare uno scossone nell’opinione pubblica, che conduce alla liquidazione dei gruppi politici più direttamente implicati nelle conseguenze aventi rilevanza penale dell’urbanistica contrattata: nella corruzione. Ma non scalfisce la concezione del rapporto tra pubblico e privato che è alla base di quel modo di gestire le trasformazioni del territorio.

ANCORA PEGGIO

Roma e i “diritti edificatori”

Due capitoli della storia dell’urbanistica italiana, che qualcuno dovrà scrivere, testimoniano una svolta preoccupante: l’uno a Roma, l’altro a Milano. Due capitoli già trattati stamattina, da Paolo Berdini e da Giuseppe Boatti, di cui vorrei riprendere alcuni elementi.

A Roma, mentre lo slogan dl “pianificar facendo” può essere benevolmente considerato un cedimento intellettuale al linguaggio e alle prassi neoliberiste, che ha aperto ulteriormente spianato la strada all’urbanistica cotrattata, l’invenzione dei “diritti edificatori” ha significato conferire alla proprietà immobiliare un potere contro le decisioni pubbliche che nessuno si era mai sognato di dar loro. Conoscete la tesi, propugnata da un urbanista che è stato maestro di molti di noi. É alla base delle scelte devastanti del PRG del 2003.

Secondo quella tesi, una volta che un piano urbanistico abbia assegnato l’edificabilità a un’area, questa diventa un titolo che al proprietario non può venir tolto senza indennizzarlo adeguatamente. Era stata inventata l’espressione “diritti edificatori”, mai adoperata prima nello jure italiano. Italia Nostra organizzò un convegno a Roma, per discutere il PRG. Preparai una relazione; colsi l’occasione per comprendere come la giurisprudenza aveva trattato la questione. Scoprii che le cose erano radicalmente diverse da quanto gli autori del Prg di Roma sostenessero. Era giurisprudenza costante che il comune potesse, con un piano successivo, modificare ampiamente le previsioni di un piano precedente. Non soltanto nel caso di un piano generale (come il Prg) ma anche di un piano di lottizzazione privata per il quale sia già stata stipulata con i proprietari una convenzione a norma di legge. In questo caso, ovviamente, è necessario indennizzare il proprietario per le spese che ha legittimamente sostenuto, e che è in grado di documentare, relative all’attivazione dl piano.

La presidenza di Italia nostra chiese un parere pro veritate al prof. Vincenzo Cerulli Irelli, illustre esperto di diritto amministrativo e forse massimo conoscitore italiano del diritto urbanistico. Le nostre convinzioni furono presentate al sindaco Veltroni, il quale andò avanti per la sua strada. Ma l’azione di Italia nostra e di chi, come eddyburg, aveva sollevato la questione e dimostrato le devastazioni che il Prg avrebbe provocato stimolarono il sorgere o il rafforzarsi di decine e decine di comitati, associazioni, gruppi di cittadini, che costituiscono una delle non molte speranze per una Roma migliore.

I piani anomali

La presunta impossibilità di cambiare le decisioni passate aveva fornito un ulteriore decisivo sostegno a favore di un modo nuovo di pianificare, basato esclusivamente, o principalmente, sulla contrattazione con la proprietà privata. Strumento di questo modo, ed effetto amministrativo della querelle del “progetto” contro il “piano”, fu l’invenzione di piani “anomali”, derogatori della classica pianificazione urbanistica, elaborati e messi a punto negli anni di Tangentopoli e approvati a getto continuo negli anni immediatamente successivi. Ciò che accomuna la quasi totalità di questi “piani anomali” è che “enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione “anomali” è quello di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare dalle regole comuni della pianificazione “ordinaria”. Di derogare cioè dalle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini).

Milano e la flessibilità per i potenti

L’episodio romano era stato preceduto da una iniziativa del comune di Milano, tesa a superare in modo ancora più esplicito i principi e il metodo della pianificazione pubblica mediante l’accordo preliminare con la proprietà immobiliare, teorizzandolo con chiarezza.

Un colto e intelligente urbanista, Luigi Mazza, consulente del comune di Milano, aveva proposto agli amministratori un modello alternativo alla pianificazione “tradizionale” consistente nel decidere le trasformazioni urbane accogliendo le proposte dei promotori immobiliari, inquadrate in un documento “strategico” a maglie larghissime, poco più di un ideogramma. Il comune aveva seguito il suggerimento e approvato un documento, "Costruire la grande Milano”, sul quale si aprì subito una vivace polemica. Svolsi una relazione in un convegno dell’associazione Polis, poi intervenni in un seminario alla facoltà di architettura di Roma Tre, in cui Mazza, nel giugno 2001, illustrò il documento. Lo criticai, sostenendo che il nuovo modello proposto “si propone di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato” e che ciò avrebbe provocato una giungla nella quale solo gli interessi forti sarebbero stati premiati a danno dell’interesse generale. Precisai il mio punto di vista in un ampio articolo sulla rivista “Urbanistica”, in contraddittorio con Mazza[10]. Pochi intervennero criticamente: l’innovazione milanese incontrava lo spirito dei tempi, cui l’accademia era sensibile.

Le parole chiare di Maurizio Lupi

Il coronamento della linea di privatizzazione e mercificazione delle scelte sulla città e il territorio è costituito dalla proposta di legge per il governo del territorio dell’on. Maurizio Lupi, di Forza Italia. Quella proposta chiariva definitivamente il senso dell’urbanistica contrattata. Proponeva il ribaltamento dei principi che da sempre avevano retto la pianificazione urbanistica con la seguente affermazione, semplice e chiara. Proponeva di stabilire che le funzioni amministrative delle istituzioni pubbliche, tra cui la pianificazione urbanistica, «sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l'adozione di atti paritetici in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti istituzionali e fra questi e i soggetti interessati, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti» (articolo 3, comma 3). Naturalmente i “soggetti interessati” sono i padroni della città, la proprietà immobiliare.

Il successivo dibattito parlamentare condusse a un testo unificato, su cui si era manifestato un consenso ampio (che comprendeva l’INU), e al quale si oppose un fronte che conobbe al convegno di Italia nostra (Roma 28 gennaio 2005) un suo momento rilevante. In quella sede fu presentato e approvatoun appello, sul quale si raccolsero successivamente moltissime adesioni. Nel documento si protestava perché la proposta di legge «sopprime il principio stesso del governo pubblico del territorio, che rappresenta una della principali conquiste del pensiero liberale e accomuna tutti i paesi sviluppati, e cancella i risultati di importanti conquiste per la civiltà e la vivibilità della condizione urbana e la tutela del territorio ottenute nell’ultimo mezzo secolo dalle forze sociali e politiche e dalla cultura italiana. Nella legge – prosegue l’appello - si sostituiscono gli “atti autoritativi”, e cioè la normale attività pubblica di pianificazione, con gli “atti negoziali con i soggetti interessati”. La relazione di accompagnamento della legge specifica che i soggetti interessati non si identificano – come sarebbe auspicabile - con la pluralità dei cittadini che hanno diritto ad avere una ambiente urbano vivibile e salubre, ma si identificano invece con la ristretta cerchia degli operatori economici. Un diritto collettivo viene dunque sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. I luoghi della vita comune, le città e il territorio vengono affidati alle convenienze del mercato».

Grazie all’intelligente azione di filibustering promosso da una minoranza attiva, di cui Italia nostra fece parte a pieno titolo, la legge non fu approvata (grande merito va in particolare a Sauro Turroni, allora senatore del gruppo dei Verdi). Ma l’obiettivo che denunciavamo è ancora dominante. Gli eventi successivi sono andati tutti nella direzione predicata dai più schietti difensori dell’urbanistica contrattata: un diritto collettivo viene sostituito con la sommatoria di interessi particolari: prevalenti, quelli immobiliari. E i luoghi della vita comune, le città e il territorio, vengono affidati alle convenienze del mercato.

PER CONCLUDERE

Il trionfo della rendita

Ho solo accennato alla questione della rendita. Parlarne di più avrebbe reso ancora più pletorica questo intervento. Non posso però, per chiudere il quadro, trascurare di riferirmi alle lucide osservazioni svolte da uno dei pochi che oggi dedicano attenzione a questo argomento, Walter Tocci, nel ssuo saggio ascesa della rendita urbana.

Per una lunga fase della nostra storia avevamo vissuto nella convinzione che, essendo la rendita la componente parassitaria del reddito, era possibile, nel corso di una modernizzazione sana dell’economia italiana, ridurne pesantemente il peso ricorrendo alla comune convenienze delle classi produttrici: i possessori del lavoro e quelli del capitale. Tocci ci rivela che le cose sono radicalmente mutate. Oggi la rendita immobiliare è diventata un elemento essenziale, e trainante, dell’intero sistema economico: un sistema economico ormai totalmente artificializzato, reso cartaceo e virtuale, legato al gioco della finanza e non a quello della produzione di beni e servizi.

E’ dagli anni 70 che si parla dei rapporti mutevoli tra profitti e rendita, e io stesso ne ho accennato proprio a proposito dell’atteggiamento della Fiat in quegli anni. Ma adesso non solo c’è un’integrazione piena, c’è addirittura – per esprimermi col massimo di sintesi – un dominio della rendita sul profitto (e di entrambe sul salario, ma questo è un altro discorso).

Sono convinto che questo non debba far mutare il nostro giudizio negativo sul peso della rendita nelle trasformazione della città e del territorio, ma deve anzi richiederci un di più di attenzione, di rigore, di capacità di analisi, di critica, di contrasto nei mille episodi in cui la forza della rendita minaccia i valori nei quali crediamo.

Le due città

Vorrei precisare che quanto parlo di città dell’habitat dell’uomo, il quale comprende sia la tradizionale “città” sia la tradizionale “campagna”, sia il territorio urbano che quello rurale. Credo che oggi si debba parlare di due città, o se volete due progetti di città antitetici, dei quali bisogna assumere consapevolezza per poter agire con efficacia. Le definirei la città della rendita e la città dei cittadini.

Conosciamo bene la città della rendita. É quella alla quale si applicano le pratiche dell’urbanistica contrattata, e che è stata ampiamente formata da essa. É quella che denunciamo e soffriamo ogni giorno, in tutti gli episodi di distruzione, di degrado, di bruttificazione e disfunzione. É quella che vediamo svilupparsi come un orribile blob: più o meno caotica, più o meno disordinata, più o meno inefficiente, ma sempre divoratrice di risorse, distruttrice di patrimoni, dissipatrice di energia e di terra, guastatrice di acqua e di aria. Una città che logora i legami sociali e accentua le diseguaglianze.

Per i promotori, produttori e facilitatori di questa città il territorio è considerato e utilizzato come lo strumento mediante il quale accrescere la ricchezza personale dei proprietari: di quella classe il cui ruolo sociale e il cui contributo allo sviluppo della civiltà sono costituiti esclusivamente dal privilegio proprietario; dal fatto di possedere un bene che può essere utile ad altri.

In esplicita antitesi della città della rendita si è affacciata sulla scena una città alternativa: quella che definirei “la città dei cittadini. É quella che emerge dalla miriade di vertenze che si aprono in ogni regione e città d’Italia, in moltissimi paesi e quartieri, per rivendicare qualcosa he si è perduto o minaccia di esserlo, o qualcosa di cui si sente la necessità per vivere in modo soddisfacente. Mi riferisco al fiorire di comitati, gruppi di cittadinanza attiva, associazioni e altre iniziative che caratterizzano la vita sociale in questi anni.

Quando protestano contro l’inquinamento e i rischi alla salute determinati da una cattiva politica dei rifiuti, contro la chiusura di un presidio sanitario o la privatizzazione di un altro, contro la trasformazione di uno spazio verde in un nuovo “sviluppo” a base di asfalto e cemento, contro l’abbattimento di un albero antico minacciato da una strada inutile, contro il prezzo e le condizioni del trasporto pubblico, contro la trasformazione delle campagne periurbane in ulteriori espansioni della “città infinita” … Quando protestano per gli effetti della dilatazione della “città della rendita”, al tempo stesso i mille comitati esprimono un’idea alternativa di città.

Non sono chiari i lineamenti della “città dei cittadini”, ma cominciano forse a precisarsi i principi che dovrebbero alimentarne la costruzione.

Un diverso rapporto tra città e campagna, tra urbanizzato e non urbanizzato, (bellezza, storia, identità, alimentazione sana e filiere corte, aria luce sole, ricreazione e distensione, …)

Una più ricca dotazione di utilities e commodities, agevolmente raggiungibili mediante modalità amichevoli, risparmiatrici d’energia, utilizzabili da tutti, … (welfare urbano ma non solo, socialità, condivisione…)

La possibilità di accedere all’uso di un’abitazione, collocata e servita nel modo giusto, a un prezzo commisurato al reddito.

Il diritto da parte di tutti i cittadini di partecipare alla costruzione/trasformazione della città, di conoscere in anticipo i progetti di trasformazione, di comprenderne le conseguenze, di concorrere alle scelte

La mia tesi (o se volete la mia speranza) è che dai movimenti generati dalla protesta per il trionfo della “città della rendita” stia nascendo una nuova domanda di pianificazione del territorio urbano e rurale, che ha certo numerosi ostacoli al suo pieno dispiegarsi, ma che è l’unico elemento positivo cui possono fare affidamento quanti non vogliono ridursi alla protesta e alla mera lamentazione per le condizioni ecc.

Il ruolo della cultura, oggi

La cultura e le sue istituzioni svolgono un ruolo rilevante nella formazione degli eventi. Ricordiamo tutti gli episodi degli anni 50 e 60, lo stimolo critico e la capacità propositiva delle istituzioni della cultura urbanistica e quelle neonate del protezionismo. Anche in quegli anni, molto più per l’iniziativa volontaria di persone dallo spirito indipendente che per quella dell’accademia.

Ho accennato al ruolo che questo stesso mondo ha svolto negli anni in cui si è conformato il modello d’intervento sul territorio che è riassunto dell’espressione urbanistica contrattata. Un ruolo non sempre positivo. O meglio, negativo per alcuni (l’Inu è arrivato a difendere la legge ispirata da Lupi), positivo per altri. In particolare, per Italia Nostra.

Mi riferisco, in particolare, alle esperienze nelle quali ho più direttamente collaborato con gli organi nazionali di Italia Nostra per svelare e contrastare lo stravolgimento delle regole della buona pianificazione e per proporre le regole giuste. Ho ricordato la partecipazione di Italia Nostra alla denuncia dello scandalo dell’area Castello di Firenze, giustamente interpretato come il prodromo di una pratica, la “urbanistica contrattata”, pericolosissima per la città e il territorio. Ho ricordato l’iniziativa che Italia Nostra ha assunto sul PRG di Roma – un PRG che aveva autori politici e professionali vicini all’associazione, e che perciò è stato ancora più meritorio criticare - individuato come deleterio non solo per le vaste distruzioni dell’Agro romano che consentiva, ma per l’aberrante principio (l’esistenza di i “diritti edificatori”) che introduceva. E ho ricordato il tenace contributo che Italia Nostra ha dato alle iniziative per contrastare la legge Lupi e i suo successivo travestimento nel formato Lupi-Mantini, largamente condiviso anche nell’ambito dell’ambientalismo. Voglio ricordare ancora il lavoro svolto da Italia Nostra per contrastare il consumo di suolo promuovendo la tutela dell’agricoltura e, più generalmente, del territorio rurale, che condusse alla proposta di legge che elaborammo insieme e alla quale Luigi Scano, proprio in ambito Italia Nostra, collaborò con la geniale proposta di introdurre il territorio rurale tra le categorie di beni tutelati ope legis ieri dalla legge Galasso, oggi dal Codice del paesaggio.

Non sempre le battaglie culturali di Italia nostra hanno avuto riscontro immediato nell’opinione pubblica, neppure in quella “colta” e in quella “ambientalmente orientata”. Ricordo il caso emblematico dell’auditorium di Ravello, nel quale Italia nostra difendeva, quasi sola, il paesaggio e la legalità urbanistica contro il potere di un satrapo e l’immagine di una Grande Firma. Ma per chi pensa che la cultura sia un lievito, e non un miscuglio di acqua e farina con cui formare una pizza, questo appare come un prezzo da pagare per la verità. Un prezzo che verrà rimborsato a usura dalla storia, se si avrà il coraggio di sottoporre in ogni momento a discussione i propri principi, ma di conservarsi fedeli a essi con rigore e con chiarezza finché principi diversi non saranno stati elaborati e condivisi. E la cultura ha il compito – quando ne ha gli strumenti – di diffondere questa sua conoscanza, i frutti della propria capacità critica.

Il nostro compito

Compito essenziale della cultura è quello di scrutare ciò che accade, cercar di intravedere ciò che gli eventi dell’oggi preparano, valutare criticamente la realtà di oggi e quella che si prepara, comprendere chi e che cosa, dalle trasformazioni che avvengono o avverranno, guadagna, e chi e cosa ci rimette, perde. Non c’è trasformazione in cui non ci sia qualcuno che guadagna e qualcuno che perde.

Se si accetta l’assunzione della legge del mercato come unica legge valida per decidere sulla trasformazioni del territorio – se si accetta l’urbanistica contrattata – è chiaro che è sconfitta la città dei cittadini. E allora non si possono avere esitazioni, incertezze, ambiguità nel giudicare. Con i portatori di tesi diverse si può discutere, anche perché questo conduce spesso ad affinare i propri argomenti e a rendere più convincenti le proprie idee, ma non si può derogare, o transigere, sui principi – finchè questi non sono sostituiti da altri, esplicitamente formulati e condivisi.

E a mio parere è sul rigore nell’affermazione dei principi che condivide che un’istituzione culturale (e un intellettuale) deve esprimersi con chiarezza.

Io credo che tra i principi, a proposito del territorio – dell’habitat dell’uomo e nel deposito della sua storia – il primo principio che debba essere stabilito è che l’uso del territorio, e le sue trasformazioni, devono essere ordinati al maggior benessere di tutti gli abitanti del pianeta, presenti e futuri: la città dei cittadini, e non la città della rendita.

Il secondo principio che a mio parere va ribadito riguarda il metodo e l’insieme di strumenti che, in una civiltà complessa quale la nostra: la pianificazione urbanistica come operazione d’interesse collettivo, quindi necessariamente affidata alla mano pubblica. Assumerei senza esitazioni la definizione che ne dava Antonio Cederna: «La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica». Certo, il termine “coercitivo” può sembrare un po’ forte. Ma oggi la coercizione è esercitata chi ha ridotto la città, e ogni sua componente, a merce, sottraendola ai suoi legittimi proprietari, i cittadini e degradandone le qualità naturali, storiche, sociali.

Postilla

Non ho detto nulla della vicenda che ha portato gli eredi di Antonio Cederna a ottenere il ritiro del libro pubblicato dalla sezione lombarda di Italia Nostra, né di quella che ha portato alle dimissioni di Vezio De Lucia. E nulla di più credo necessario aggiungere dopo le molte parole che pronunciato. Se non riprendere la speranza, che Vezio esprimeva, che l’intera vicenda, e questo stesso convegno, servano ad aprire una discussione autentica, dentro e fuori l’associazione. Perché se ci si chiude si è inevitabilmente condannati alla sterilità e alla sconfitta.

Grazie

[1]Ricordo la discussione che si aprì sulle pagine de l’Unità, nell’agosto 1983 tra Maurizio Mottini, assessore a Milano, fautore del mercato e Raffaele Radicioni, assessore a Torino, fautore della pianificazione.

[2]Principale interprete di questa linea fu Lucio Libertini, che divenne responsabile del settore che comprendeva lurbanistica nella direzione del PCI.

[3]L. Libertini, Nicolazzi non passerà, “Urbanistica informazioni”, n. 75, maggio-giugno 1984

[4]Questi episodi sono raccontati con maggiore ampiezza nel mio libro Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Corte del Fontego, venezia 2010

[5]Vezio De Lucia, Le mie città, Diabasis, Reggio Emilia 2010, p. 65.

[6]P. Della Seta, E. Salzano, l’Italia a sacco. Come negli incredibili anni 80 nacque e si diffuse Tangentopoli, Editori Riuniti, Roma 1993

[7]Gianni Barbacetto, Elio Veltri, Milano degli scandali, prefazione di Stefano Rodotà, Laterza, Bari, 1991, p.55.

[8]Ibidem, p.51.

[9]Vedi i lavori di Roberto Camagni e Cristina Gibelli.

[10]E. Salzano, Il modello flessibile a Milano in "Urbanistica", n. 118, (gennaio-giugno 2002).

Il convegno “Prato della Valle. Dal restauro del monumento alla rivalutazione dell’area”, , è stato organizzzato dale associazioni Amissi del Piovego, Comitato Memmo, Italia Nostra, Lega Ambiente di Padova, e si è svolto all’Accademia galileiana il 27 novembre 2010. Qui il link al dossier presentato da Sergio Lironi, Legambiente di Padova

Quattro passi per Pra’ della Valle

“Dal restauro del monumento alla rivalutazione dell’area”: questo è il tema del nostro incontro, e l’obiettivo al quale miriamo. Un obiettivo che ci sembra del tutto ragionevole. Esso può essere articolato in quattro proposizioni.

1. Vogliamo che la città riconosca il gioiello che ne caratterizza l’identità, il Prato della Valle, assumendolo come il suo bene più prezioso.

2. Vogliamo che la città – i suoi cittadini – prenda atto del degrado che caratterizza oggi questo bene.

3. Vogliamo che, sulla base di questo riconoscimento e di questa presa d’atto, la città, i cittadini, i loro attuali governanti assumano quale loro impegno prioritario il restauro di quel bene.

4. Vogliamo, infine, che questi tre primi passi – il riconoscimento, la presa d’atto, il restauro – siano considerati e costruiti come l’avvio di una rivalutazione dell’intera area centrale della città, e del territorio di cui essa è parte.

Gli interventi che seguiranno il mio argomenteranno, con rigore e con passione, le quattro proposizioni che ho formulato. Essi riveleranno anche quale sia l’ingombrante ostacolo che si frappone al raggiungimento del nostro obiettivo: la presenta di un devastante progetto di “valorizzazione” dell’area gravitante su Pra’ della Valle: un progetto che ha il suo nocciolo duro sulla realizzazione di un parcheggio interrato nell’area del Foro Boario, da realizzare con la formula del project financing. Una formula che – soprattutto nella sua declinazione italiana – mette nelle mani degli interessi privati le decisioni e i vantaggi del destino della città.

Due vizi dei governanti

Come si afferma nel dossier elaborato da Sergio Lironi e Lorenzo Cabrelle quel progetto rivela due gravi vizi che, nei trent’anni che sono alle nostre spalle, caratterizzano il modo in cui il decisore pubblico interviene sulla città. Chi ci governa (non solo a Padova, in quasi tutte le città italiane) è mosso da due preoccupazioni che annebbiano ogni altra esigenza, ragionamento, ricerca:

- dimostrare di essere iscritti a quel “partito del fare”, che ha oggi nel Presidente del consiglio dei ministri il suo più autorevole esponente;

- “lasciare il segno”, conferire visibilità al proprio operato mediante la realizzazione di opere “innovative” – chissà perchè sempre cementizie.

Per chi è delegato dagli elettori a governare, il fare è certamente importante. Ma ancora più importate è che, prima del fare, ci sia stato il pensare, il riflettere, il ragionare. Ancora più importante è che – quando il fare comporta trasformazioni irreversibili dell’assetto e l’oganizzazione della città, qundo il gfare qualcosa di nuovo comporta la cancellazione di qualcosa che c’era – si sappia dimostrare che ciò che si fa di nuovo è meglio di ciò che c’era prima.

Questa dimostrazione, questa testimonianza di aver pensato, non c’è: non è stata riconosciuta da quanti hanno studiato, con serietà e rigore, le proposte avanzate. La realizzazione del progetto a Piazza Isak Rabin è fortemente peggiorativo non solo dell’area di Pra’ della Valle, ma dell’intero assetto attuale e futuro della città.

Il segno che gli amministratori lasceranno – ad esaminare con attenzione gli atti della proposta – è costituito da molti elementi negativi:

- la rinuncia a ripristinare un corretto rapporto tra la terra e l’acqua nell’area centrale di Padova,

- l’aggravemento della situazione di degrado dell’Isola Memmia,

’ulteriore peggioramento della situazione del traffico (e quindi del’inquinamento e dello spreco energetico) con l’incentivo alla motorizzazione privata: il cancro che corrode la città,

- la subordinazione degli interventi, anche futuri, di organizzazione della mobilità agli interessi economici degli investitori privati.

Che cosa c’è dietro

Tornerò poi, seppur brevemente, sulle questioni relative all’area del Pra’ della Valle. Ma vorrei prima inquadrare la questione in un contesto più generale. Anche perchè non credo affatto che Padova abbia oggi amministratori particolarmente perversi o incapaci. Credo che gli atteggiamenti e i comportamenti, i progetti e le azioni siano sempre il portato di un modo di pensare la città, e quindi di agire su di essa. Sono convinto insomma che le azioni nascano sempre da un pensiero, da un modo di vedere e affrontare le questioni che è tale da indurre chi agisce a vedere certe cose e ignorarne altre, a considerare prioritarie certe esigenze e a sacrificarne altre.

Oggi prevale un modo nuovo – rispetto a qualche decina d’anni fa – di pensare la città, e quindi di agire su di essa.

Oggi la città non è pensata come la “casa della societa”: come un luogo nel quale una parte dell’umanità abita, lavora, incontra, ama, gioisce, si nutre e si riposa, si cura e si diverte. Ciascuno con le sue esigenze e I suoi mezzi, ciascuno titolare di diritti magari non da tutti ugualmente esercitabili, ma tutti ugualmente meritevoli di considerazione.

Oggi la città è pensata come uno strumento economico, finalizzato ad acrescere una ricchezza che non è di tutti, e che è costituita da uno solo degli elementi di cui è costituita la riccheza di una nazione – o di un popolo, o di una società: la ricchezza misurata in termini economici.

La città è considerate, dal pensiero comune, come uno strumento da impiegare per accrescere il Prodotto interno lordo: quell PIL – vero feticcio della religione corrente – che, come diceva Robert Kennedy,

«mette in conto l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze necessarie per ripulire le nostre strade dalle carneficine. Mette in conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che le infrangono. Mette in conto la distruzione dei boschi sempreverdi e la perdita delle nostre meraviglie naturali nel caotico sprawl. Mette in conto il napalm e le testate nucleari e i carri armati che la polizia usa per combattere le rivolte nelle nostre città. Mette in conto i fucili Whitman’s e i coltelli Speck’s, e i programmi della televisione che glorificano la violenza per vendere giocattoli ai nostri bambini».

Quel Prodotto Interno Lordo, prosegue l’invettiva di Robert Kennedy, che

« non mette in conto la salute dei nostri bambini, la qualità della loro educazione o la gioia dei loro giochi. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità delle nostre famiglie, l’intelligenza dei nostri dibattiti e l’integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né la nostra intelligenza né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né il nostro sapere, né la nostra compassione né la nostra dedizione al nostro paese. In sintesi, misura tutto, fuorché quello rende la vita degna d’essere vissuta».

La rendita: “componente parassitaria del reddito”

Ora si dà il caso che la ricchezza economica della città (cioè la somma del denaro che percepiscono i suoi operatori economici) oggi è in gran parte costituita dalle rendite, e in particolare dalla rendita immobiliare, cui si aggiungono dalla rendite costituite dalla gestione monopolistica dei servizi urbani (come i parcheggi, o come la gestione dei servizi ospedalieri realizzati con il project financing).

Non dimentichiamo che la rendita è quella che gli economisti liberali defnivano “la componente parassitaria del reddito”:non è il compenso di un’attività svolta, ma solo la remunerazione del privilegio proprietario.

Non dimentichiamo che la rendita è prodotta dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, ed è percepita dai proprietari immobiliari.

In Italia la rendite urbane crescono in misura incredibile. Ciò ha provocato il degrado delle città e la loro crescente invivibilità. Ha indotto i grandi gruppi industriali (la Fiat, la Pirelli, la Benetton, per non citare che le più grosse) a investire nel mattone e nei monopoli pubblici anziché nell’innovazione e nella ricerca, nel miglioramento della competitività dell’industria manifatturiera.

Trent’anni fa la rendita immobiliare era un avversario che non solo gli urbanisti, ma anche gli amministratori e i politici di un arco di forza vasto si sforzavano di combattere, di contenere. Oggi è consideratail motore dello sviluppo. Di quello sviluppo della ricchezza cartacea, della ricchezza volatile, che ha portato il mondo a una crisi dalla quale non si vede uscita.

Il saccheggio e la sua strategia

Ciò che accade alle città è sua volta parte di un contesto più ampio. Un contesto caratterizzato da un obiettivo sistematicamente perseguito da chi ha oggi il maggior potere: il sistema economico del capitalismo globalizzato.

L’obiettivo è far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.

Per raggiungere quest’obiettivo le componenti della strategia sono chiare.

Bisogna inculcare l’idea che unica scienza valida è l’Economia: quella economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, e nella crescita del PIL l’unico termometro capace di misurare il valore delle cose.

Bisogna negare l’esistenza di beni non riducibili a merci, perchè se ogni cosa è “merce”, ogni cosa è soggetta al calcolo economico, e il mercato diventa la dimensione esclusiva delle scelte.

Bisogna abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie.

I beni che si vogliono ridurre a merci, i “comuni” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza:

- Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, nè rischio): l’edilizia.

- Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose.

- I servizi pubblici, come l’università e la sanità, ridotte ad “aziende” i cui frequentatori diventano “clienti”, e non più studenti o pazienti

- Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia.

- I beni culturali: non a caso si sceglie un esperto della vendita delle polpette come massimo dirigente del ministero della cultura.

- Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.

Che fare?

E’ possible reagire a questa strategia, e alle trasformazioni che essa induce nel territorio e nella città, nei nostri pensieri e nelle nostre vite? Io credo di si, e questa stessa iniziativa ne dà testimonianza.

E’ lo stesso disagio provocato dal saccheggio che provoca resistenze e reazioni. In mille parti d’Italia si sviluppano iniziative e nascono comitati, movimenti, gruppi di volontariato e gruppi di cittadinanza attiva, o si rafforzano asociazioni che operano da tempo a livello nazionale o locale: come quelle che hanno promosso e organizato questa iniziativa. Dovunque essi cercano l’incontro tra cittadini ed esperti, perchè non vogliono limitarsi a contrastare, vogliono comprendere perchè quell’iniziativa, quel progetto sono nati, e vogliono contrastarli anche proponendo alternative giuste.

Si dice spesso che le iniziative che nascono dal basso si limitano a pronunciare dei NO, e con questo si tenta di screditarli dinnanzi all’opinione pubblica (che in genere viene tenuta all’oscuro delle ragioni delle proteste). Ora è chiaro che per chi non ha il potere di fare (chi non ha uffici, competenze formali , informazioni, finanziamenti) difficilmente riesce a proporre alternative convincenti. Chi è piccolo e fuori dale istituzioni riesce difficilnemente a contrapporre la sua proposta a quell ache nasce dall’istiituzione e dal potere economico. Eppure, a volte ci riesce, come testimonia questa bellissima iniziativa alla quale mi avete invitato a partecipare.

Qui avete la forza di una proposta. Una proposta progettuale – un’idea di città e una proposta per l’area e il suo disegno – e un’idea culturale e politica – quali interessi privilegiare, quail priorità stabilire.

E mi sembra particolarmente interessante che il cuore della proposta sia il recupero della memoria: il restauro del Pra’ della Valle, la riapertura dell’Alicorno, il ricongiungimento dell’Isola Memmia al Parco dei bastioni e delle acque. Credo che la ricognizione attenta dei lasciti della storia, il loro recupero, la loro messa in valore (che non significa “valorizzazione” nel senso in cui questo termine viene usato nella logica economicista, sviluppista e immobiliarista), in vista della loro fruizione aperta a tutti, è il primo passo di ogni virtuosa politica del territorio e della città.

Solo comprendendo il passato possiamo valutare criticamente il presente e costruire un futuro migliore.

The Atlantic, 22 novembre

Una città unica al mondo

Il conflitto a Venezia è come in molte altre città italiane: tra la difesa del bene comune e il dominio dei poteri forti. Questi ultimi, dove governa il centro destra sono smaccatamente nella sala di comando, mentre dal centro sinistra sono privilegiati nella ricerca del consenso. Nella Laguna veneziana questo conflitto ha una luce particolare, perché particolarissime sono le caratteristiche assunte dal bene comune.

Domandiamoci perché Venezia (come si dice) è una città unica al mondo. Perché è una città che ha conservato quasi intatta la sua forma: le grandi trasformazioni avvenute negli ultimi due secoli, se l’hanno indubbiamente guastata, non hanno cancellato il predominio dell’immagine progressivamente composta nel corso di un millennio. Perché è una città ancora viva: non solo un palcoscenico sul quale recitano compagnie forestiere, e neppure ridotta a parte (“centro storico”) imbalsamata o irrimediabilmente trasformata a frazione di un’area urbana più vasta, ma una città dove cittadini stabili abitano, lavorano, si incontrano, si sentono (ancora) cittadini normali di quel luogo millenario. Perché, infine, è una città che testimonia ancora, nella sua forma e nella sua vita, una capacità di governare il rapporto tra intervento dell’uomo e ambiente utilizzando la natura – la sua forma come le sue risorse, la trama del suo disegno come i suoi elementi – senza negarla, senza violentarla, senza distruggerla né degradarla.

Tensioni distruttive

Questa singolarità di Venezia l’ha resa soggetta a due grandi tensioni di trasformazione.

Da una parte, come ogni luogo eccezionalmente dotato di qualità particolari, è divenuta il bersaglio di correnti di visita e d’interesse sempre più vaste. Il turismo d’élite dei tempi di Thomas Mann si è rapidamente trasformato (soprattutto nell’ultimo mezzo secolo) in un turismo di massa sempre più devastante: sia per l’incompatibilità dei grandi numeri (oramai oltre dodici milioni di presenze all’anno) con le dimensioni limitate, spesso anguste, comunque commisurate all’uomo, della città e dei suoi spazi; sia per gli effetti che esso provoca – attraverso la mediazione dell’economia – sulla vita stessa della città. La fortissima riduzione delle case in affitto, la scomparsa dei negozi legati alla vita quotidiana, l’aumento dei prezzi al consumo, l’impoverimento della qualità dei servizi di cittadinanza, tutto ciò contribuisce a impoverire la vita sociale della città e a ridurla al rango di una qualsiasi San Marino: vuoto presepio mantenuto a vita artificiale per la rappresentazione turistica.

Dall’altra parte, la costante tendenza all’omologazione della città e del suo territorio ai modelli d’intervento caratteristici del resto del mondo. Mi riferisco soprattutto al particolarissimo rapporto che lega storicamente Venezia e il suo governo all’ambiente ambiente (alla Laguna), che è un possibile modello per uno sviluppo della società in armonia con la natura, e che negli ultimi secoli è stato sistematicamente violentato: negato nella sua autentica modernità in omaggio a una mercantile modernizzazione. Ma su questo punto conviene soffermarsi.

La Laguna

Venezia non è comprensibile e governabile senza la sua Laguna: ignorare questo sarebbe come ragionare su Roma riducendola al Colosseo. La Laguna è un sistema unico al mondo, in equilibrio instabile tra i suoi due possibili destini (un braccio di mare, o una distesa di terra), Un sistema la cui sopravvivenza è stata garantita per quasi un millennio da un governo assiduo delle acque e delle terre, orientato ad adoperare le forze della natura guidandole accortamente.

Le tre parole d’ordine, che costituivano precise direttive per i governanti della Serenissima, erano: sperimentalità, cioè studiare, verificare, monitorare, provare anche per decenni; gradualità, cioè progettare gli interventi in modo che la loro attuazione nel tempo avvenga per successione di elementi discreti; reversibilità, cioè possibilità, in ogni momento, di ripristinare la situazione preesistente. Parole d’ordine d’un ambientalismo ante litteram, rivelatrici di un’attenzione agli ecosistemi naturali e alle condizioni del loro uso da parte dell’uomo che appaiono oggi d’una modernità sconcertante: una sapienza da riscoprire.

Caduta la Serenissima, le logiche della “modernizzazione” otto-novecentesca hanno provocato un degrado costante: con opere pubbliche coerenti con la mentalità cementizia, con l’abbandono dell’attività diuturna e severa di manutenzione dell’ambiente, con l’interramento e la privatizzazione (la sottrazione alla natura e al governo pubblico) di vaste porzioni di Laguna. L’alluvione del 1966 ha svelato gli effetti del malgoverno ma ne ha prodotto altri, più devastanti: la decisione del governo nazionale (ministro Nicolazzi) di affidare a un consorzio di imprese, sostanzialmente edilizie, i compiti di studio, progettazione, sperimentazione e attuazione degli interventi sulla Laguna, sostanzialmente costituiti dai faraonici interventi alle “bocche di porto”: il cosiddetto progetto Mo.S.E. (acrostico di Modulo Sperimentale Elettromeccanico). Questo consorzio è diventato il vero padrone della città, indubbiamente il più forte dei poteri che in essa (e su di essa) agiscono. Rispetto ad esso e alle sue scelte le forze che hanno governato la città hanno dimostrato una debolezza sconcertante, a volte si sono rivelate apertamente complici.

Riprendere una vigorosa iniziativa politica contro il Mo.S.E., denunciare i suoi primi devastanti effetti, documentarli sollecitando una presa di coscienza dell’opinione pubblica nazionale e internazionale (assolutamente disinformata della reale consistenza dei problemi e della pericolosità delle soluzioni in atto), sostenere le iniziative delle associazioni ambientaliste che tentano di contrastare i malanni, lanciare iniziative che rendano esplicita la possibilità di vivere la ricchezza paesaggistica, ambientale, culturale della Laguna in modo compatibile con la sua sopravvivenza, sperimentare in questo la possibilità di ricostruire un rapporto equilibrato tra uomo e ambiente: questo dovrebbe essere l’impegno centrale di un governo intelligente di Venezia, che voglia sottrarre il bene comune della città e del suo ambiente al dominio dei poteri forti, per conservarlo intatto nell’interesse dell’umanità.

Il turismo e la casa

Turismo e residenza sono due aspetti, strettamente connessi, della vita sociale della città e, oggi, del suo degrado. Per combattere quest’ultimo è in primo luogo necessaria una politica del turismo che lo renda compatibile con la città (e quindi capace di contribuire alla ricchezza dei suoi cittadini ma non distruttivo della risorsa di cui si nutre). Ciò richiede la definizione e l’attuazione di una rigorosa politica di “razionamento programmato dell’offerta turistica”, quale fu proposta ai tempi della battaglia contro l’Expo. Si tratta di una linea che è indispensabile praticare per contenere un’invasione ormai insostenibile. Per farlo, bisognerebbe cominciare a rinunciare a tutti quegli eventi e quelle opere che accrescono il richiamo di Venezia sulle correnti turistiche: dai “grandi eventi” (la città seppe opporsi all’offerta di un Expo, e vincere la sfida), dall’apertura a ogni iniziativa commerciale che si proponga di utilizzare lo scenario offerto dalla città per celebrare i suoi prodotti, dall’ipotesi folle di una metropolitana sublagunare che accrescerebbe l’afflusso di massa dei visitatori.

La difesa della residenzialità “normale” aveva costituito a Venezia una linea costante delle forze politiche della sinistra e del centro, dagli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta. La chiave di volta era stata quella di privilegiare l’intervento pubblico, in particolare nel campo delle nuove costruzioni, di arricchire il patrimonio abitativo pubblico, di difendere la residenza contro ogni cambiamento delle destinazioni d’uso. In quegli anni, tutti i partiti hanno rigorosamente tenuto fede all’impegno ”neppure una nuova costruzione per abitazioni a Venezia che non sia pubblica e destinata ai veneziani”.

A partire dagli anni Novanta il governo cittadino ha operato un drastico mutamento di rotta. Non si è fatto nulla per la programmazione del turismo, cedendo invece a ogni iniziativa di commercializzazione, e anzi stimolandole: dalle esposizioni di automobili nel “luogo sacro” di piazza San Marco alla proposta di una metropolitana sublagunare. Si è condotta una politica della casa pienamente coerente con quella sintetizzato nello slogan “meno Stato e più mercato”, che si manifestava in quegli anni nella sinistra a livello nazionale. E si sono frettolosamente smantellati tutti gli strumenti che avrebbero consentito di controllare le destinazioni d’uso: dalla revoca della delibera comunale di recepimento della legge nazionale sui vincoli alle tipologie di attività commerciali e assimilabili nei centri storici, al piano regolatore della città storica, profondamente snaturato proprio sulla sua capacità di controllo delle utilizzazioni degli spazi edilizi.

Controllare l’uso degli spazi, per finalizzarne l’utilizzazione all’interesse comune: questo è ciò che la Repubblica Serenissima ha saputo fare per secoli, e che ha prodotto il miracolo espresso nel nome di Venezia. Riprendere nelle proprie mani il controllo, contrastando i reiterati tentativi di adoperare privatizzazioni e commercializzazioni come motori di uno sviluppo misurato sul metro esclusivo della rendita: questa è l’unica strada che può consentire al mondo di utilizzare il laboratorio che la città e la sua Laguna possono diventare, nel faticoso tentativo della civiltà di recuperare, dopo i secoli dell’illusione sulle “magnifiche sorti e progressive” d’uno sviluppo affidato alla sfida tecnologica alla natura, gli insegnamenti di una raffinata esperienza di collaborazione tra storia e natura, tra sviluppo e ambiente.

Qui il sommario del numero del mensile Carta etc. n. 1 luglio 2005

Qui un saggio su

“Spazi pubblici: declino, difesa, riconquista”. Questo è il titolo della quinta edizione della scuola estiva di pianificazione - Scuola di eddyburg, e di questo libro. Ogni volta siamo partiti dai quattro giorni di lezioni, incontri, dialoghi tra docenti e studenti attorno a un tema e poi, dalle cose che sono state dette, abbiamo cercato di ricavare un libro. Con molte connessioni tra l’uno e l’altro elemento, ma anche con una certa autonomia dell’uno e dell’altro. Così anche in questo libro. Fabrizio Bottini ne ha spiegato la logica e le ragioni, io cercherò di trarne le conclusioni dal punto di vista della scuola e del processo formativo di cui la V edizione è un tassello importante.

Quest’anno il tema era di particolarmente rilievo. Siamo infatti convinti che lo spazio pubblico, la città e la società siano cose strettamente intrecciate. Anzi, che lo spazio pubblico sia proprio la cerniera che tiene stretti la città e la società: i due momenti essenziali dell’attenzione di ogni urbanista e studioso della città – come di ogni cittadino. Una cerniera cui bisogna porre particolare attenzione in questo momento: in questi very hard times, tempi davvero difficili, per ricordare Charles Dickens.

1. LA CITTÀ NASCE CON LO SPAZIO PUBBLICO

Nel suo contributo Mauro Baioni, il direttore della Scuola, cita una frase dell’architetto danese Jan Gehl: “First life, then spaces, then buildings – the other way around never works”. Questa idea esprime bene il conflitto tra ciò che, nel nostro paese, dovrebbe essere e ciò che invece è. La città contemporanea, quella che vediamo crescere come un blob sotto i nostri occhi inglobando e divorando ogni preesistenza, esprime proprio “the other way around”. La città della storia, quella per cui è nato il mestiere dell’urbanista, quella che in altri più fortunati paesi si tenta ancora di regolare e trasformare, è espressa da quella sequenza: prima la vita, la società di cui la città è strumento; poi gli spazi dove la società può vivere, esprimersi, regolare i propri conflitti, poi le altre costruzioni.

La città (questa è stata la premessa della nostra scuola) nasce con gli spazi pubblici. Nasce quando l’uomo, nel suo sforzo di costruire la sua “nicchia ecologica”, ha bisogno di realizzare spazi e luoghi finalizzati alla soddisfazione di esigenze comuni. La specie umana ha generato la città precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, è nata l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che potessero servire l’insieme della società (Salzano 1969, 2004).

La piazza, archetipo dello spazio pubblico, è il luogo dell’incontro tra le persone (i ricchi e i poveri, i cittadini e i foresti, i proprietari e i proletari, gli adulti e i bambini). É il luogo e il simbolo della libertà, l’emblema dell’antico brocardo medioevale Stadtluft macht frei (ma “l’aria della città rende ancora liberi?” - Gibelli, infra). É l’espressione della mixitè, della mescolanza di ceti, età, mestieri, appartenenze diverse (qualcosa che oggi dobbiamo difendere contro le segregazioni e i recinti, che dobbiamo tutelare come nella natura tentiamo di proteggere la biodiversità).

É nella piazza che i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità aperta. É lì che si fa “pratica di cittadinanza (Mazzette, infra). Lì celebrano i riti religiosi, s’incontrano e scambiano informazioni e sentimenti, cercano e offrono lavoro, accorrono quando c’ è un evento importante per la città. E il ruolo che svolge la piazza è sempre correlato alle condizioni della società, al tempo e al contesto cui sono riferiti: un allarme o una festa, la celebrazione di una vittoria o di una festa religiosa, la pronuncia di un giudizio o una sanguinosa esecuzione.

La piazza non è solo un luogo aperto, fine a se stesso. Costituisce lo spazio sul quale affacciano gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Il suo ruolo sarebbe sterile se non fosse parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al “consumo comune” dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis.

Dall’area delimitata della piazza e del sistema degli spazi, aperti e costruiti, d’uso collettivo, il concetto di spazio pubblico si allarga. Anche qualcos’altro è pubblico, collettivo, comune: precisamente il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone, la bottega) vengono ordinati. Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano l’intervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese. Dallo spazio pubblico passiamo decisamente alla sfera pubblica, per adoperare un termine sul quale si è ragionato in questo libro (Boniburini, Mazzette, Sebastiani).

2. SPAZIO PUBBLICO E CITTÀ DEL WELFARE

I due effetti del capitalismo

Così la città nella storia. La dinamica del rapporto tra dimensione privata e dimensione pubblica, tra momento individuale e momento collettivo, e tra spazio privato e spazio pubblico, è mutata nel tempo. Con il trionfo del sistema capitalistico-borghese ha assunto una configurazione particolarmente rilevante per la città, in negativo e in positivo .

Il prevalere dell’individualismo, tipico di quel sistema, ha portato a conseguenze negative, tali da indebolire la sfera pubblica: sia sul versante dell’ideologia, dove ha condotto all’affievolirsi dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza, sia sul versante della struttura, dove ha condotto alla frammentazione e privatizzazione della proprietà del suolo urbano, minando la base della capacità regolativa della polis.

Ma dall’altro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica hanno provocato effetti di segno opposto. L’inclusione di tutti i portatori di forza lavoro - i servi sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi alla città, la cui aria li ha resi liberi - ha posto le premesse materiali all’allargamento della democrazia. Contemporaneamente il conflitto di classe proprio di quel sistema ha condotto al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro. Si può dire che si è indebolita la solidarietà cittadina, ma è certamente nata e irrobustita la solidarietà di fabbrica e da questa, progressivamente, ha germogliato una nuova domanda di spazio pubblico.

Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica è nata, nel XIX secolo, la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dall’affermarsi della democrazia. Attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze sono entrate nel campo dei decisori le grandi masse fino allora escluse. L’incontro tra la pressione organizzata del mondo del lavoro e il pensiero critico e costruttivo degli intellettuali è riuscito, nel secolo successivo, a incidere in modo consistente sull’allargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società. Si è visto nell’affermarsi del diritto socialmente garantito all’uso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli addetti alla produzione. E si è visto nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti nell’ambito familiare. Certo, ciò è avvenuto solo nell’ambito di quella parte del mondo chiusa nel recinto della civiltà atlantica, escludendo da ogni privilegio i paesi esterni a quel recinto, esportando in essi le proprie contraddizioni e saccheggiandone le risorse.

Gli “standard urbanistici”

In Italia le condizioni per la conquista degli elementi essenziali del welfare urbano si sono raggiunte negli anni Sessanta del secolo scorso, e si sono progressivamente affermate nel decennio successivo nel vivo di un conflitto molto aspro. Si è ottenuto in particolare il diritto di ogni abitante della città ad avere almeno una determinata quantità (“standard”) di spazi pubblici e d’uso pubblico, nell’ambito dei piani urbanistici. Un risultato “solo” quantitativo, hanno affermato alcuni dimenticando che “la contrapposizione tra quantità e qualità è artificiosa” (Baioni infra), e minimizzando invece la grande conquista raggiunta sul terreno del “diritto alla città”. Un risultato che ha avuto effetti positivi dove è stato applicato come strumento per migliorare le condizioni di vita in un regime di equità e di difesa delle categorie più deboli, come testimonia l’esperienza illustrata da alcuni urbanisti dell’Emilia Romagna (Malossi infra).

Le condizioni sociali e politiche che consentirono di raggiungere quella conquista, l’intreccio tra azione sociale, pensiero esperto e sintesi politica che fu necessario, e la preziosa sostanza del patrimonio di diritti sociali e di consolidamento della sfera pubblica che in Italia si raggiunsero in quei decenni sono emersi con chiarezza nel dialogo a più voci con Marisa Rodano, Oscar Mancini e Vezio De Lucia, raccolto e rielaborato in questo libro (Salzano infra). É un dialogo nel quale si raccontano esperienze, vicende, riflessioni che gettano una luce del tutto controcorrente su anni (la sesta e la settima decade del XX secolo) che trasformarono profondamente la società italiana e la dotarono di strumenti essenziali per un ulteriore progresso: strumenti che da allora si tentò in tutti i modi di cancellare, e che costituiscono ancora oggi le trincee della resistenza e i capisaldi di una possibile ripresa di un processo riformatore.

Non si tratta solo degli standard urbanistici, della politica della casa (con tutto l’arco dei provvedimenti che vanno dalla legge 167/1962 fino alla legge per l’equo canone), della generalizzazione della pianificazione urbanistica. Questi risultati si aggiungono e s’inquadrano a quelli, rilevantissimi, ottenuti su altri terreni: dallo statuto dei diritti dei lavoratori al servizio sanitario nazionale, dalla libertà di interrompere la gravidanza all’introduzione degli asili nido e delle scuole materne, dal voto ai diciottenni all’estensione dell’obbligo scolastico. Occorre riflettere oggi soprattutto sulle condizioni che, allora, resero possibili i risultati positivi.

Illuminante per il nostro futuro è ricordare il ruolo allora svolto dalle componenti più attive della società civile: il movimento per l’emancipazione della donna, negli anni dal 1962 al 1968, le lotte studentesche e quelle operaie dopo il 1968. É significativa la testimonianza del modo in cui nuove esigenze sociali (la liberazione dal lavoro casalingo, la conquista del diritto ad abitare la città) abbiano trovato negli esperti le parole mediante le quali esprimersi, nella politica e nelle istituzioni gli strumenti per tradurre le parole in norme e politiche.

3. IL DECLINO DELLO SPAZIO PUBBLICO

Oggi la situazione della città e l’orientamento delle politiche urbane sono radicalmente diversi da quelle che la storia della città e della società ci suggeriscono. Tutte le riflessioni e le testimonianze lo confermano: il carattere pubblico della città è profondamente in crisi, è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, o attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), oppure attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.

Gli standard urbanistici sono in decadenza, e se ne propone addirittura l’abolizione o la “regionalizzazione”: come se il diritto di disporre di scuole, parchi, piazze, mercati, attrezzature sanitarie, biblioteche, palestre fosse diverso per gli abitanti della Puglia e quelli del Veneto. Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario originariamente destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche, gli “oneri di urbanizzazione”, viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.

Si sono svuotate le piazze reali, caratterizzate dall’essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana. E si è fatto invece ogni sforzo per attirare le persone nei “non luoghi” tramutati in “superluoghi”: le grandi strutture esplicitamente finalizzate al consumo (i centri commerciali, i mall, gli outlet), oppure quelle nate per altri ruoli (aeroporti, stazioni ferroviarie, ospedali, stadi) e “arricchite” da funzioni commerciali. Strutture in tutti i casi caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’obbligo implicito di ridurre l’ interesse del frequentatore all’ acquisto di merci (per di più sempre più superflue).

Ha certamente aiutato in questa operazione, contribuendo alla generale decadenza della città e della società, il diffondersi di quelle “variegate forme di dispersione urbana” (Mazzette infra) che sempre più caratterizzano l’habitat dell’uomo. Uno sprawl in gran parte causato dall’abbandono della pianificazione, dalle distorsioni di un mercato immobiliare deformato dalla rendita urbana, dalla costruzione di nuovi immaginari collettivi creati dalla propaganda (Somma infra). É un tema che, come Scuola di eddyburg, avevamo esplorato nella nostra prima sessione, sottolineando un problema grave fino allora ignorato dalla cultura urbanistica ufficiale, e naturalmente dalla politica dei partiti (Gibelli-Salzano 2006).

In questa operazione di mutazione delle basilari regole di vita della città il decisore effettivo – chi aveva il potere di utilizzare la città come strumento per accrescere la sua ricchezza - ha saputo cogliere strumentalmente quanto del passato permane nell’immaginario collettivo, scimmiottandone le forme. Si è finito così “per produrre e perfezionare spazi che forse assomigliano vagamente a un modello urbano, ma certamente nulla hanno a che spartire coi comuni processi di conflitto, sedimentazione e consenso collettivo che caratterizzano l’evoluzione della città” (Bottini2 infra). Si è ridotto il cittadino a cliente, il portatore di diritti a portatore di carta di credito.

Ci siamo ovviamente domandati perché tutto questo sia successo. La ragione di fondo sta nel mutato rapporto tra uomo e società. L’aspetto centrale è la rottura dell’equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. É quell’equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’abitazione.

In effetti, negli ultimi decenni è giunto a un punto di svolta un processo avviato molti secoli fa. Mentre da un lato, infrangendo i tabù dell’autoritarismo e del controllo sociale, si sono liberate le energie derivanti dalla piena esplicazione dei diritti individuali, dall’altro lato si è smarrita la consapevolezza dell’essenzialità, per lo stesso equilibrio della persona, della dimensione sociale.

Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.

Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.

Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’ è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite. La tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune che possa dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’ assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti. La progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale, soprattutto a partire da due momenti: quando l’obiettivo della “governabilità” è diventato dominante rispetto a quello della “partecipazione”, e si sono impoveriti alcuni decisivi momenti della democrazia nell’ ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni; quando il crollo delle Twin Towers e il riemergere, in Italia, della xenofobia e del razzismo hanno fornito la giustificazione – o l’ alibi – alla pratica della priorità assoluta della sicurezza su qualunque altro bisogno, esigenza, necessità sociale.

Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce l’uno e l’altro versante: la loro consistenza fisica e la loro consistenza sociale. Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la partecipazione, la critica o la condivisione della politica.

4. TENSIONI POSITIVE VERSO LA RICONQUISTA

L’analisi della realtà rivela anche, nell’odierna città del neoliberismo, tensioni e pulsioni che reagiscono al maistream e attivano pratiche nuove non solo di difesa dello spazio pubblico, ma di conquista di nuovi spazi. É il caso di numerose storie di formazione di “spazi pubblici non intenzionali” (Boniburini infra), nelle quali si esprimono sollecitazioni diverse, non sempre complementari: l’insopprimibile tendenza, soprattutto da parte dei gruppi sociali che la città neoliberista tende a emarginare, di trovare i luoghi nei quali con-vivere, riconoscersi, difendersi, passare dall’Io a un primo livello del Noi; la ricerca di alternative al fatto che la maggior parte degli spazi è stata chiusa perché adibita a specifiche ed esclusive funzioni settoriali (Sebastiani infra); l’aspirazione di uno spazio loose “uno spazio sciolto, non imbrigliato, libero, indefinito e in quanto tale passibile di una pressoché indefinita varietà di significato e usi” (Forni infra). Ed è il caso delle esperienze, che sono emerse soprattutto nel convegno conclusivo della Scuola e alimentano la terza parte di questo libro, dove sono raccontate le attività di gruppi di cittadini attiva: comitati sorti spontaneamente, o strutture consolidate che esprimono un rinnovato impegno nelle pratiche territoriali. Ne vogliamo ricordare due, particolarmente emblematiche: la conquista, a Caserta, di un ampio spazio patrimonialmente pubblico destinato ad attività militari, rivendicato e conquistato per riempire, almeno in parte, il pauroso deficit di standard urbanistici (Caiola infra); la difesa, a Giulianova (TE), di una piazza che l’amministrazione comunale voleva, per fare cassa, vendere a privati (Arboretti infra). Da entrambe le esperienze è nata la formazione di liste civiche, che hanno conquistato un seggio nel consiglio comunale e hanno così guadagnato nuove armi per la battaglia di difesa e riconquista dello spazio pubblico.

Esiste insomma nella società - a saperla guardare con intelligenze attente, libere dalle angustie dei recinti disciplinari, aperte alle voci che si esprimono con linguaggi inconsueti - una tensione verso la riconquista di spazi pubblici nei quali esercitare pratiche di cambiamento. Spazi pubblici da difendere, o riconquistare, o conquistare ex novo per avviare un percorso di ricostruzione della città – e della società.

5. CHE FARE PER RICONQUISTARE?

Non meravigli il linguaggio militare che in questa narrazione è spesso adoperato. Una “guerra per lo spazio pubblico” questo è l’evento in corso, ed è per questo che bisogna attrezzarsi. Dobbiamo imparare: chi ha scatenato l’offensiva per impadronirsi dello spazio pubblico adopera la propaganda come uno degli strumenti principali, perciò che chi vince la battaglia dell’informazione vince la guerra” (Somma infra). L’informazione è il primo passo della formazione. Non è infatti dall’informazione mediatica che è partita quella trasformazione dei cervelli che ha ridotto l’Essere all’Apparire magistralmente illustrata dal film di Eric Gandini, Videocracy?

Di fronte all’ideologia corrente, che domina nello spazio pubblico usurpato dalla comunicazione mediatica, la costruzione di immaginari e pratiche contro-egemonici sta forse già iniziando nelle diverse azioni che hanno per oggetto lo spazio pubblico (Boniburini infra). I primi materiali che abbiamo raccolto in questo libro sono l’inizio di un lavoro di documentazione che è necessario proseguire, e in cui eddyburg.it vuole impegnarsi. Ma accanto a questo è necessario utilizzare anche un altro percorso: occorre partire anche dalla riconquista della storia.

Un grave danno è stato provocato alla coscienza civile dell’Italia da quella rimozione della memoria che è stata compiuta negli ultimi decenni. Marcuse affermava che “il ricordare è un atto sovversivo, perché evidenzia il distacco tra il reale e il possibile (Valentini, infra). Cancellare il passato, la nostra storia, è particolarmente grave se ci si propone di costruire un futuro diverso dal presente, come oggi è indispensabile. Quindi per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, delle nostre radici, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.

Come tener conto oggi dei suggerimenti della storia, senza appiattirsi sulla stanca ripetizione del passato o sull’ingannevole nebbia della nostalgia? Occorre in primo luogo individuare i nuovi bisogni che nascono dalla società di oggi, e che esprimono la necessità di una società nuova. Con quali gambe, però, camminare nella direzione giusta?

Ricostruire la politica

É alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime, per il tramite di quelle strutture organizzative che sono i partiti – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo, un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Oggi non si può fare affidamento alla politica dei partiti. Nessuno dei partiti esistenti ha le carte in regola. Oggi occorre ricostruire la politica. Per farlo bisogna lavorare su due fronti, guardare a due tipi di interlocutori.

In primo luogo – già ne abbiamo accennato - i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

Il lavoro molecolare dei gruppi di cittadinanza attiva costituisce un modo di ricostituire la politica che è già in atto. É già “politica”, nel senso proprio di volontà e, non raramente, di capacità di partecipare al governo della cosa pubblica. É già politica, se questa è “la pretesa e la capacità di definire collettivamente i beni comuni e di agire d’intesa per produrli” (Sebastiani infra). Confessava del resto, agli albori del Sessantotto, un allievo della Scuola di Barbiana: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica” (Milani1967:14) .

Il lavoro

Il quadro temporale nell’ambito del quale ci muoviamo sollecita anch’esso in questa direzione. La crisi che investe l’intero mondo non è solo una crisi finanziaria: è una crisi di sistema, nella quale disastro dell’economia data, disastro del pianeta Terra e disastro della democrazia sinistramente si congiungono, e devono essere affrontati insieme (Mancini infra). Il disagio che nasce dal degrado dell’ambiente naturale e di quello antropizzato (di cui la città è componente essenziale) si lega strettamente a quello che nasce dalla condizione sempre più umiliata che viene fatta al lavoro, “lo strumento, peculiarmente umano, attraverso cui l’uomo raggiunge i suoi fini” (Napoleoni 1980:4) e mediante il quale può conoscere il mondo e trasformarlo. Si può dire che il lavoro è anch’esso un bene comune, oggi pesantemente minacciato. Hanno minato gli strumenti che nel corso di qualche secolo erano stati costruiti per difenderlo: addirittura il diritto di sciopero – l’unica arma di cui i possessori della forza lavoro dispongono per contrattare, con i possessori del capitale “morto”, le condizioni del loro sfruttamento. Ma prima ancora la difesa del lavoro era stata indebolita dalla sua precarizzazione, dalla dispersione sul territorio, dalla tendenziale liquidazione di quella condizione originaria per difesa di classe che è la solidarietà di fabbrica. Il valore della “contrattazione territoriale”, rilanciata nel 2004 dalle Camere del lavoro e oggi rientrata al centro dell’attenzione della Cgil costituisce un’importante ragione della collaborazione tra sindacato dei lavoratori e persone che si aggregano attorno a eddyburg e alla Scuola, come testimonia questo libro, e le altre attività condotte congiuntamente da Cgil ed eddyburg

Le istituzioni

L’altro interlocutore essenziale di un’azione volta a difendere e riconquistare lo spazio pubblico è costituito dalle istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città, alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.

Nel confronto con le istituzioni locali, e nel tentativo di spingerle a un’azione virtuosa, l’ostacolo maggiore che si incontrerà sarà costituita dal profondo dissesto delle finanze locali, provocato dalla strozzatura operata dai poteri centrali, nella logica – ahimè bipartisan - del “privato è bello” e del “meno stato e più mercato”. A questo si aggiungono i perversi effetti della teoria secondo la quale tra le città deve esercitarsi la “competizione”, anzichè la pratica, storicamente rivelatasi vincente, della collaborazione e cooperazione, e del funzionamento “a rete”. Anche con gli amministratori, lo sforzo deve essere diretto a convincerli delle ragioni più profonde delle scelte, che è nel rifiuto dei modelli di comportamento della “società opulenta”.

Gli intellettuali

Un compito grande spetta agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’azione. Gli intellettuali sono depositari d’un sapere che devono amministrare al servizio della società. Devono saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta.

Devono innanzitutto demistificare: rivelare in che modo le scelte sul territorio ordinate a fini diversi da quello del benessere dei suoi abitanti siano perniciose. In questo senso l’azione svolta da esperti che militano nei movimenti sociali è particolarmente utile. In questo libro se ne registrano buoni esempi (Lironi infra). E devono proporre. A questo proposito è utile ricordare che oggi più che mai se le dinamiche di mescolanza, inclusione, coesione sociale devono riacquistare rilevanza, e contribuire alla ripresa della democrazia e della civiltà, è essenziale che continuino “a esserci spazi pubblici accessibili e liberi da impedimenti” (Mazzette infra).

Aiuta in questa direzione il confronto con le esperienze di altri paesi europei. Quelle che conosciamo testimoniano come le istituzioni, là dove la politica assume la questione dello spazio pubblico come tema centrale, possono fare molto, sia a livello statale che a livello locale.

Vi sono due insiemi di aree che vanno tutelate e aperte all’uso pubblico: quelle necessarie per lo svolgimento di determinate funzioni urbane, e quelle che meritano la tutela e l’accessibilità pubblica per le loro caratteristiche intrinseche. Due insiemi, che possono anche coincidere in talune parti, in uno dei quali prevale l’esigenza della funzionalità del servizio reso, nell’altro la tutela e la fruizione responsabile delle qualità intrinseche.

In numerosi dei testi qui raccolti emergono indicazioni di lavoro utili ad avviare un cammino nuovo rinnovando e generalizzando itinerari già esplorati: “suggerimenti di buone pratiche” che possono essere applicate a differenti contesti (Gibelli infra), non dimenticando che il territorio è un sistema e che il governo delle sue trasformazioni spetta alla mano pubblica, e che perciò è essenziale riportare gli spazi pubblici all’interno della pianificazione: anzi, porli al suo centro (Baioni infra).

Parlare di pianificazione della città e del territorio oggi può apparire – ed è – singolarmente controcorrente. Come lo è del resto parlare di difesa e riconquista dello spazio pubblico, di riscatto del (e non “dal”) lavoro, di rivendicazione di un Noi divorato dall’individualismo. Ma la corrente oggi egemonica, se non viene arrestata, conduce alla morte dell’umanità: di quella che è in ciascuno di noi, come di quella che popola il pianeta Terra.

La vignetta di Altan (la Repubblica, 9 novembre 2011) è il commento più efficace. Il testo integrale è scaricabarile dal sito di Luciano Mulhauser , che ringraziamo

Ministri: Lupi, Bassanini, Ichino, Amato...

«Ego terras omnis tamquam meas videbo, meas tamquam omnium»

Rete Italiana per la Giustizia Ambientale e Sociale, 20 dicembre 2010

Eravamo pochi,

oggi siamo molti

Eravamo pochi, nel 2005, quando cominciammo a documentare e denunciare l’irrazionalità devastante del consumo di suolo in Italia. Di quei pochi, una parte si limitava a studiare il fenomeno nelle sue caratteristiche qualitative e ad analizzarlo dal punto di vista della possibile riqualificazione, riordinamento, riorganizzazione delle vaste estensioni di campagna invase dalla “diffusione urbana”. Nessuno, in Italia, si preoccupava di quantificare (di conoscere esattamente nelle sue dimensioni articolazioni, cause) il fenomeno, né tanto meno di combatterlo . Quando con alcuni amici organizzammo la prima edizione della Scuola di eddyburg questi due elementi ci preoccuparono molto. La nostra osservazione del fenomeno da una pluralità di postazioni locali e disciplinari, e le prime analisi sui loro costi, ci inducevano a dare una valutazione molto preoccupata delle conseguenze territoriali, sociali, economiche, culturali della sua espansione.

Riuscimmo a creare una certa agitazione sul problema, con l’aiuto soprattutto di due elementi: il successo che ebbe, da parte di alcuni gruppi politici, un testo legislativo idoneo a combattere il fenomeno che elaborammo ; la contemporanea reazione al fenomeno da parte di alcune associazioni protezionistiche (soprattutto Italia Nostra), di un certo numero di piccole amministrazioni locali, e di numerosi gruppi di cittadinanza attiva, soprattutto in Piemonte e in Lombardia. Questa ultime due componenti diedero vita a un movimento (Stop al consumo di territorio) che ebbe un inaspettato successo di adesioni.

Evidentemente, nonostante il lungo letargo della cultura urbanistica ufficiale (l’ultima ricerca significativa era stata quella coordinata da Giovanni Astengo , ItUrb80, svolta nella metà degli anni Ottanta), una certa sensibilità alla questione era maturata un po’ dovunque. Prova ne sia che, fin da allora, il “contenimento del consumo di suolo” è diventato un elemento della litania con la quale il politichese (la lingua dei politicanti) rende omaggio alla idee suscettibili di colpire l’opinione pubblica e, all’atto stesso, se ne impadronisce e le deforma utilizzandole ai propri fini. Molti, che oggi invocano quel contenimento, mentre non praticano né attuano politiche davvero capaci di ottenerlo, lo utilizzano come alibi per proporre “densificazioni” delle città esistenti senza nessuna preoccupazione per le reali necessità degli incrementi volumetrici.

La città della rendita

Caratteristica strutturale determinante del periodo che sta dietro le nostre spalle è il peso straordinario che ha avuto – nel sistema economico e nelle politiche territoriali – l’acquisizione privata delle rendite: sia quelle finanziarie che quelle immobiliari (ricordo che gli “immobili” comprendono sia le “aree” che gli “edifici”, talché la rendita immobiliare comprende la fondiaria e l’edilizia). Se volessimo utilizzare una definizione coerente con quella che Luciano Gallino dà all’attuale fase del sistema economico, “finanzcapitalismo” , dovremmo parlare di “urbanistica della rendita”. Questa è stata splendidamente descritta da Walter Tocci nel suo saggio su “Il trionfo della rendita” . A me sembra che tutte le tensioni che attualmente agitano la società civile e hanno generato i movimenti antagonisti nei territori italiani siano riconducibili al conflitto tra due usi alternativi del territorio: quelli che ho definito “città della rendita” e “città dei cittadini” .

La crisi finanziaria esplosa nel 2008 ha modificato in modo consistente il quadro, almeno per quanto riguarda i suoi aspetti di medio periodo. C’è da chiedersi se il disastro che è avvenuto negli scorsi decenni potrà proseguire negli stessi modi. Sembra ragionevole ipotizzare che i prossimi anni saranno invece caratterizzati da bassa domanda privata di alloggi e attività produttive, da scarse risorse pubbliche, e da un’offerta di spazi sovrabbondante e priva (per caratteristiche e localizzazione) di adeguati requisiti per qualsiasi utilizzazione. Insomma, il motore che sospingeva il consumo di suolo derivante dalla crescita della città (delle aree urbanizzate e urbanizzabili), non è forse entrato in stallo? Se così fosse, allora si porrebbe come primario il problema di come recuperare (socialmente, morfologicamente e paesaggisticamente, economicamente, funzionalmente) i territori devastati dallo sprawl.

Guardiamo il consumo di suolo

dalla campagna

Parallelamente si sta sviluppando però un altro fenomeno: le trasformazioni, patrimoniali e d’uso, dei terreni rurali. Consumo di suolo e riduzione del suolo agricolo sono certamente due fenomeni differenti per quantità, qualità, cause ed effetti. La riduzione del terreno agricolo dipende anche dall’aumento dei terreni rinaturalizzati e degli incolti nonché (nei dati delle analisi quantitative spesso utilizzate) dalla scomparsa di aziende agricole censite come tali . Se guardiamo alle trasformazioni dell’uso del suolo dalla città, allora la questione centrale è il devastante “sguaiato sdraiarsi della città sulla campagna”. Se le guardiamo invece a partire dal territorio rurale allora nascono preoccupazioni diverse, ma non meno rilevanti.

Nel territorio lo sviluppo capitalistico provoca infatti, in modo sempre più esteso: il land grabbing, l’accaparramento di suolo di una determinata comunità per costituire riserve alimentari per la nazione acquirente ; la pratica, tipica del colonialismo otto-novecentesco, della sostituzione delle colture tradizionali, legate a fabbisogni alimentari di prossimità; la più recente espansione dei suoli utilizzati la produzione di fonti energie alternative a quelle esauribili; infine, la specializzazione mercantile delle produzioni agricole: si produce là dove i costi di produzione (a partire dal lavoro) sono minori.

Le conseguenze di questi fenomeni sono di diverso ordine. Aumenta l dipendenza del consumo di beni alimentari dai luoghi della produzione internazionale, il che comporta a sua volta un consistente aumento del consumo energetico dovuto al confezionamento e al trasporto. L’omogeneizzazione dei gusti dei prodotti industriali comporta la scomparsa delle caratteristiche organolettiche dei beni; con la conseguenza ulteriore che gradi risorse vengono impiegate per la ricerca di “sapori” finti da aggiungere a merci rese omogenee dalla produzione industriale per “aggiustarne” il sapore e l’odore. Vengono distrutte le economie locali legate alle produzioni legate al territorio, e con esse le culture culinarie, profondamente radicate nella storia e nel paesaggio. Le fonti dell’alimentazione (le condizioni della produzione degli alimenti) vengono sottratte alla conoscenza diretta dei consumatori e affidate alle alchimie (e alle bugie) delle etichette e della propaganda.

Infine, last but not least, i prezzi dell’alimentazione sono sempre meno controllati dal rapporto tra produttore e consumatore. Rispetto ai rapporti produzione/consumo delle economie a filiera corta il prezzo è in costante aumento, grazie anche alle sempre più ingenti spese (in aggiunta al costo della terra e a quello del lavoro) impiegate per adulterare, confezionare, trasportare il prodotto e condizionare il consumatore. Con l’ulteriore conseguenza di contribuire all’aumento della povertà e, là dove la povertà giunge a determinati livelli, alla minaccia alla stessa sussistenza fisica. Perché dell’ultimo modello di telefonino la persona può fare a meno, del cibo no.

Che fare?

Per comprendere che cosa fare oggi credo che si debba partire da un principio. La terra, così come la natura e la storia l’hanno consegnata a noi, è un patrimonio che va amministrato con la massima saggezza sapendo che è un valore, che è limitata, che non è riproducibile, e che senza di essa la vita dell’uomo sarebbe impossibile.

Questo principio deve condizionare ogni azione di trasformazione. La sottrazione di un solo metro quadrato di suolo ai ritmi della natura è un prezzo, che può essere pagato solo se è strettamente necessario alla società umana nel suo insieme e se non ci sono modi alternativi di soddisfare l’esigenza che chiede il pagamento di quel prezzo. Nessuna casa nuova, nessuna strada nuova, nessun nuovo piazzale se prima non si è completamente utilizzato ciò che di artificiale già c’è. E di inutilizzato in Italia, malauguratamente, c’è tanto, se si guarda al nostro paese con lo sguardo fuori dalle bende della mitologia proprietaria e di quella economica.

Per quanto si possa guardar lontano, è difficile vedere un futuro nel quale la maggioranza dei decisori (locali, nazionali, globali) decida di applicare quel principio con piena coerenza. Allora la prima necessità, oggi, è di far diventare quel principio una consapevolezza di massa. É di rendere cosciente il maggior numero di persone di verità che condizionano la vita di ciascuno di noi: e ciascuno di noi, prima di essere casalinga o banchiere, operaio o poeta, professore o studente, spazzino od orefice, sfruttatore o sfruttato – è uomo e donna, è abitante del pianeta Terra, e la sopravvivenza è la prima esigenza di tutti noi e di ciascuno di noi.

Combattere il consumo di territorio non significa solo, oggi, ostacolare l’irrazionale espansione della città, lo sprawl urbano. Certo, questa è un componente essenziale, soprattutto nel nostro paese, in cui il trionfo della rendita immobiliare ha dominato, soprattutto negli ultimi decenni, in ogni aspetto delle politiche territoriali. E a questa necessità di difesa si aggiunge quella di sanare quello che il trionfo della rendita ha prodotto.

Difendere il territorio non significa solo tutelare la natura e il paesaggio, la capacità di rigenerazione fisica ed estetica che il esso fornisce, ma anche la sua prima funzione: alimentare l’umanità in ciascuno dei suoi componenti. Significa perciò anche difendere l’agricoltura: non necessariamente tutte le agricolture, ma certamente quelle che servono agli uomini che vivono il territorio, e li servono là dove essi lo vivono. Significa combattere la sostituzione delle colture locali con le colture industriali, le colture funzionali a primarie esigenze umane a quelle che sussistono solo perché premiate dal mercato globalizzato. Significa coinvolgere il più ampiamente possibile nella stessa grande vertenza le numerose associazioni che si impegnano per promuovere la difesa dell’agricoltura, l’approvvigionamento equo e salubre, la filiera corta, la difesa delle diversità colturali. E significa, al tempo stesso, legare le nostre battaglia - italiane, europee, nordatlantiche - a quelle dei paesi del terzo mondo, soggetti a quella rapina delle terre che ha già devastato le loro economie e la stessa sopravvivenza di interi popoli.

Sommario del numero di novembre 2011

della rivista Verdiana network



1 -Editoriale: “ In memoria di Mario Ghio “ di Enrico Falqui

2 - “Consumo di suolo e futuro del territorio” di Edoardo Salzano

3 - “Paesaggi Critici: il paesaggio liquido della città” di Francesco Ghio

4 -“Sguardi sulla Città: il patrimonio e l’abitare “ di Carmen Andriani

5 - “Utopie Urbane: Consumo zero di suolo” intervista al Sindaco di Cassinetta di Lugagnano (Mi), Domenico Finiguerra di Simona Beolchi

6 - “Tra monasteri benedettini e cave di tufo: progetto di recupero paesaggistico di spazi pubblici tra Gallipoli e Alezio (Puglia) di Annalisa Cataldi

7 - “Radiografia della crescita urbana nel nuovo Piano strutturale di Firenze” di Annalisa Biondi

8 - “ Workshop ACMA a Milano, la progettazione dei sistemi ambientali “ di Silvia Minichino

9 - LA RECENSIONE : “Le mie città, di Vezio De Lucia" di Paola Pavoni

Per chi ha un po’ di frequentazione dei luoghi nei quali si è rifugiata la politica (o dai quali essa riemerge) i caratteri del conflitto del quale il territorio è oggetto sono molto chiari. Sono riassunti nell’antitesi espressa dal titolo di questo scritto: città dei cittadini o città della rendita?

Alcune precisazioni lessicali. Quando parlo di città parlo dell’habitat dell’uomo, il quale comprende sia la tradizionale “città” che la tradizionale “campagna”, sia il territorio urbano che quello rurale. E quando parlo di cittadini parlo di quelli attuali e di quelli potenziali, con particolare attenzione a due categorie di soggetti che oggi non sono dotati dei diritti di cittadinanza: i forestieri e i futuri, i migranti e i posteri.

1. LA CITTÀ DELLA RENDITA

La città come macchina

per arricchire i ricchi

Conosciamo bene la città della rendita. É quella che denunciamo e soffriamo ogni giorno. É quella che vediamo svilupparsi come un orribile blob: più o meno caotica, più o meno disordinata, più o meno inefficiente, ma sempre divoratrice di risorse, distruttrice di patrimoni, dissipatrice di energia e di terra, guastatrice di acqua e di aria. Una città che logora i legami sociali e accentua le diseguaglianze.

Per i costruttori di questa città il territorio è considerato e utilizzato come lo strumento mediante il quale accrescere la ricchezza personale dei proprietari: di quella classe il cui ruolo sociale e il cui contributo allo sviluppo della civiltà sono costituiti esclusivamente dal privilegio proprietario; dal fatto di possedere un bene che può essere utile ad altri.

Non a caso l’economia liberale ha considerato la rendita come la componente parassitaria del reddito. Non a caso ha tentato di ridurne gli effetti, con le pratiche dell’espropriazione a prezzi che non riconoscevano i vantaggi derivanti dalle decisioni pubbliche e i tentativi di tosarla con lo strumento fiscale. Tentativi che, nel nostro paese, sono stati proseguiti fin agli anni 70 del secolo scorso .

Dalla “rendita parassitaria”

alla “rendita motore dello sviluppo

Ma gli animal spirits del capitalismo reale hanno spinto i proprietari e i gestori del capitale a impadronirsi anch’essi di quote rilevanti della rendita. Il passaggio dall’atteggiamento critico nei confronti della rendita urbana alla piena partecipazione al banchetto consentito dal suo progressivo incremento è avvenuto platealmente agli inizi degli anni 70: quando i padroni della Fiat e capi della Confindustria passarono, da affermazioni di piena condivisione per una riforma urbanistica che combattesse la rendita urbana e i suoi incrementi, a pratiche di spostamento di risorse (finanziarie, organizzative, culturali) dagli investimenti industriali a quelli immobiliari.

«Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire. Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza» aveva dichiarato Gianni Agnelli, padrone della Fiat e presidente della Confindustria [Agnelli G. 1972]. Ma pochi anni dopo Fiat, e con essa Pirelli, Falck, Zanussi, Benetton abbandonarono il mondo del profitto e dell’industria per scorrazzare nei lauti pascoli della rendita finanziaria e di quella immobiliare, impegnandosi attivamente nel campo della speculazione sul mattone, irrigato e fertilizzato da un ceto politico sempre più succube dell’economia data.

Ha scritto Walter Tocci, in un saggio che rivela come il peso della rendita immobiliare sia diventato decisivo nell’attuale fase del capitalismo: «La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più» [Tocci W. 2009].

Il dominio dell’ideologia e della prassi del neoliberismo

É a partire dagli anni 80 che in Italia le cose cambiarono sostanzialmente. Il dominio dell’ideologia neoliberista e il primato delle parole d’ordine lanciate dal craxismo ne sono una componente essenziale. E rimane aperto il problema di chiarire perché in Italia gli intellettuali, dentro e fuori dai partiti, non lo abbiano compreso.

Sul terreno solido dell’economia la finanziarizzazione aiutò la rendita urbana ad accrescere il suo peso nell’insieme del sistema economico e della percezione del territorio. Rifacendoci alle categorie classiche della teoria economica, l’appropriazione privata di rendite (finanziarie e immobiliari) divenne la componente preponderante dei guadagni ottenuti dai gestori del capitale intrecciandosi strettamente al profitto. Del resto, il peso del salario poteva essere via via ridotto dall’innovazione tecnologica.

É il caso di aggiungere, a questo sommario quadro, che l’appiattimento della politica sull’economia ha consentito ai gestori del capitale di ottenere dagli amministratori il consistente aiuto derivante dalla loro possibilità di promuovere o consentire, con l’insieme delle politiche urbane, la sistematica espansione delle parti del territorio il cui valore di scambio passava dalle utilizzazioni legate alle caratteristiche proprie dei suoli a quella urbana ed edilizia. Attraverso le politiche urbane gli amministratori infedeli hanno insomma servito i poteri forti dell’economia spalmando su aree sempre più vaste la rendita immobiliare. Decisivo, a questo fine, è stato l’aiuto fornito alla speculazione fondiaria dalle politiche nazionali, che hanno ridotto via via le risorse trasferite ai comuni lasciando loro la possibilità di stornare i cespiti degli oneri di concessione dalla realizzazione delle attrezzature pubbliche alle spese correnti.

Per servire la crescita e l’appropriazione privata della rendita fondiaria gli amministratori hanno dovuto introdurre qualche cambiamento nelle loro politiche. Aiutate e anzi sospinte dalla legislazione nazionale, hanno dovuto procedere allo smantellamento della pianificazione urbanistica e territoriale quale era stata definita nei decenni precedenti . Ora, gli strumenti foggiati per tentare di porre ordine e razionalità nelle trasformazioni urbane e territoriali erano considerati solo un impaccio al libero esplicarsi della legge del massimo sfruttamento delle potenzialità economiche (in termine di valore di scambio) del territorio.

I prezzi del trionfo della rendita

Alto è il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno stesso dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. «É stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa crescita» che ha contrassegnato il sistema produttivo italiano, afferma Tocci [Tocci W. 2009].

Ma ancora più pesante è il prezzo che hanno pagato le città e i territori, le condizioni di vita degli abitanti, la ricchezza dei beni culturali e del paesaggio. Le conseguenze del trionfo della rendita sono sotto i nostri occhi. Si è manifestata una grande euforia immobiliare, che ha stimolato la produzione edilizia e alimentato la domanda, determinando così un balzo in avanti della valorizzazione della rendita. Il cambiamento è stato enorme, non solo in termini quantitativi. È cambiato radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia. La città è diventata sempre di più una macchina - costruita nei secoli e pagata ancora oggi dalla collettività - usata per accrescere le ricchezze private. Il territorio viene devastato da un consumo di suolo impressionante, le condizioni di vita nelle aree urbane peggiorano sempre di più, la sottrazione di risorse ai cicli vitali della biosfera cresce continuamente.

2. LA CITTÀ DEI CITTADINI

Mille vertenze

In esplicita antitesi con la città della rendita si è affacciata sulla scena una città alternativa: quella che definisco “la città dei cittadini”, con la precisazione che ho fatto all’inizio sul termine di “cittadino”. É quella che emerge dalla miriade di vertenze che si aprono in ogni regione e città d’Italia, in moltissimi paesi e quartieri, per rivendicare qualcosa che si è perduto o minaccia di esserlo, o qualcosa di cui si sente la necessità per vivere in modo soddisfacente. Mi riferisco al fiorire di comitati, gruppi di cittadinanza attiva, associazioni e altre iniziative locali o settoriali (spesso l’uno e l’altro insieme) che caratterizzano la vita sociale in questi anni.

Quando protestano contro l’inquinamento e i rischi alla salute determinati da una cattiva politica dei rifiuti, contro la chiusura di un presidio sanitario o la privatizzazione di un altro, contro la trasformazione di uno spazio verde in un nuovo “sviluppo” a base di asfalto e cemento, contro l’abbattimento di un albero antico minacciato da una strada inutile, contro il prezzo e le condizioni del trasporto pubblico, contro la trasformazione delle campagne periurbane in ulteriori espansioni della “città infinita”. Quando protestano per gli effetti della dilatazione della “città della rendita”, al tempo stesso i mille comitati esprimono un’idea alternativa di città.

Non sono chiari i lineamenti della “città dei cittadini”, ma cominciano forse a precisarsi i principi che dovrebbero alimentarne la costruzione. Proviamo a definirli, riassumendoli in quattro questioni: il rapporto città-campagna, gli spazi per la collettività, l’abitazione, la partecipazione.

A. Città e campagna

La città è, al tempo stesso, il luogo che l’uomo ha inventato e costruito quando ha avuto bisogno di organizzare la sua vita attorno a spazi, servizi e funzioni comuni e, al tempo stesso, il modo che l’uomo ha utilizzato per costruire il proprio habitat nell’ambito dello spazio naturale. Per una lunghissima fase della storia dell’umanità l’urbano (caratterizzato dall’artificialità fisica, dalla ricchezza dei rapporti interpersonali e della vita sociale) è restato racchiuso nella cerchia delle mura urbane e delle sue immediate adiacenze, utilizzando il resto del territorio pressoché unicamente come supporto delle vie di comunicazione – esili dapprima, poi via via più massicce e intense. Nei secoli a noi più vicini l’organizzazione urbana (l’habitat dell’uomo) si è esteso via via all’intero territorio: non solo artificializzandone parti sempre più estese, ma soprattutto inserendo la massima parte delle sue componenti ai ritmi, ai modi di fruizione e di trasformazione, ai valori propri delle funzioni urbane.

Oggi il territorio rurale non è considerato, valutato e trattato in relazione alle sue qualità proprie, ma alla sua capacità di entrare nel ciclo delle utilizzazioni (e dei valori economici) urbani. É un “suolo in attesa di urbanizzazione”. Se è un terreno agricolo il suo proprietario aspetta il momento nel quale la vanga che lo aprirà non sarà più finalizzata alla messa a dimora di una vigna o di un platano, ma alla realizzazione delle fondazioni di un edificio. Un bosco non avrà nel suo destino quello di essere governato per il patrimonio di beni naturali che costituisce ma, nel migliore dei casi, come estensione del parco urbano, nella peggiore come luogo da distruggere per riempire il sito di ville e villette. Una spiaggia svolgerà il suo ruolo come sede di una serie di stabilimenti balneare, e magari di piscine, alberghi, casette di vacanza.

Connesso a questa trasformazione (culturale, economica, fisica) vi è un altro fenomeno, che incide direttamente sulla vita dell’uomo. L’alimentazione non è più il consumo di merci prodotte a distanza ravvicinata, da un suolo nutrito dalla stessa storia che ha prodotto quella citta e dalla stessa cultura che ne ha foggiato gli abitanti, dallo stesso sole e dalla stessa aria, dal ciclo delle stesse stagioni, ma è sempre più prodotta altrove, lontano, là dove le regole dell’economia capitalistica trovano maggiore convenienza.

Le rivendicazioni che nascono dalla società civile costituiscono una critica al modo in cui si è trasformato il rapporto tra città e campagna, tra territorio urbano e territorio rurale, e una pressante richiesta di ricostituire un equilibrio (meglio, di costituire un nuovo equilibrio) tra i due termini. Il modello di città la cui domanda nasce da quella critica deve consentire la vicinanza, alle varie scale (di paese e quartiere, di città, di area vasta, di regione…), tra l’urbanizzato (=prevalentemente artificializzato) e il rurale (=prevalentemente naturale). Deve consentire un’alimentazione sana e una filiera corta tra la produzione e il consumo, aria pulita, luce e sole, libera fruizione di spazi di ricreazione e distensione, di bellezza, di storia, d’identità.

Ma è la stessa localizzazione delle eventuali nuove aree da urbanizzare, là dove ciò si dimostri essenziale ed irrinunciabile, che deve tener conto di un corretto rapporto con la natura. La terra libera, integrata nel ciclo biologico del pianeta, è di per sé un valore. É una perdita per la qualità complessiva della vita dell’umanità sacrificarne una porzione; quindi ciò va evitato per quanto possibile (ove non lo sia in vista di altri e superiori valori), e va compensato con equivalenti restituzioni di naturalità.

B. Gli spazi e i servizi per la collettività

Gli spazi, i servizi e le funzioni comuni attorno ai quali è nata e si è organizzata la città nella storia hanno ricevuto, nei decenni dell’affermazione del welfare state, un consistente accrescimento qualitativo e quantitativo. Ai luoghi classici della città greco-romana, medioevale e rinascimentale si sono aggiunti quelli destinati alle esigenze della salute, dello sport e della ricreazione, della cultura, realizzati per una cittadinanza sempre più vasta e sempre più cosciente dei propri diritti: diritti che avevano la loro condizione decisiva nel ruolo delle classi lavoratrici nel processo di produzione e di consumo. É cresciuta insomma la consapevolezza della necessità di una vasta e articolata “città pubblica”, costituita da quell’insieme di spazi, servizi, attrezzature, reti divenuti standard, indispensabili integrazioni della vita che si svolge nell’ambito dell’alloggio (e della fabbrica).

Per la città della rendita tutto ciò è un peso: riduce lo spazio della speculazione edilizia e, con il sistema fiscale (inevitabile cespite del costo della “città pubblica”) rischia di pesare sulle rendite. Ecco allora che si pratica la riduzione degli spazi pubblici, la loro privatizzazione, al soddisfacimento con servizi privati (a pagamento) di esigenze che nella città del welfare erano soddisfatte con servizi pubblici: dalla salute alla scuola, dallo sport all’assistenza – fino alla sostituzione della piazza, archetipo della città, con il centro commerciale.

É probabilmente da questa consapevolezza, dal disagio provocato dalla perdita di una dotazione urbana sentita come un bene essenziale, che nasce la domanda di una più ricca presenza di attrezzature e servizi, spazi e reti, agevolmente raggiungibili mediante modalità amichevoli. E alle esigenze del passato nuove esigenze si aggiungono, completandole e integrandole: che le dotazioni comuni e pubbliche non solo siano funzionali alle esigenze che devono soddisfare, ma posseggano almeno tre ulteriori requisiti: che siano risparmiatrici d’energia e di altre risorse naturali e non peggiorino la qualità di quelle impiegate; che siano dotate di una riconoscibile bellezza, ottenuta come risultato dell’insieme e non dal singolo oggetto; che siano utilizzabili da tutti, senza discriminazioni tra ricchi e poveri, giovani e anziani e bambini, uomini e donne, cittadini e forestieri. Che siano, insomma, ecologiche, belle, eque.

C. L’abitazione

Nell’ambito della “citta pubblica” – nella tradizione più antica delle città europee come nella città del welfare – un ruolo particolare ha svolto l’abitazione. Questa è intrinsecamente il luogo del privato, quindi dovrebbe essere “l’altra parte della città” rispetto a quella pubblica. Eppure per almeno due circostanze essa è entrata nell’orbita della prima. Innanzitutto perché la forma, e lo stesso funzionamento, degli spazi pubblici sono definiti dal modo in cui gli edifici destinati alla residenza (le case, i “mattoni” con i quali è realizzata la forma fisica della città) sono organizzati sul territorio. Basta osservare la planimetria d’una città medioevale per rendersene conto. In secondo luogo perché, da quando la polis ha applicato una dose di giustizia sociale nell’amministrazione urbana, il “pubblico” si è fatto carico di fornire un alloggio a chi non aveva i mezzi per ricorrere al mercato .

Nei tempi più vicini, soprattutto in Italia, l’abnorme lievitazione della rendita urbana ha reso i prezzi delle abitazioni incompatibili con i redditi di un numero crescente di famiglie. Ecco allora che è rinata in questi anni una vertenza che aveva divampato negli anni 60: quella della “casa come servizio sociale”. Con questo slogan non si chiedeva allora, e non si chiede oggi, che l’uso degli alloggi sia garantito a tutti come lo è un servizio pubblico, come ad esempio il servizio sanitario o quello scolastico, ma che il prezzo per l’uso delle abitazioni sia regolato da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

Oggi la questione della residenza si pone sotto un quadruplice aspetto: quelli del costo, della localizzazione, della tipologia d’uso, dell’espulsione.

Il costo per l’utente: si tratta in primo luogo di abbattere l’incidenza della rendita urbana sul costo compessivo dell’alloggio. Si tratta di riprendere gli strumenti della politica della casa degli anni 70 e di aggiornarli e integrarli in funzione delle modifiche della domanda. Ma si tratta in primo luogo di applicare il principio secondo il quale la funzione della casa non è quella di arricchire chi la produce ma quella di dare abitazione a una famiglia – così come la funzione di un farmaco è di curare un malato.

La localizzazione: si è costruito dappertutto, dove ciò era più conveniente per l’investitore (e dove era reso possibile dai sindaci) in qualunque parte del territorio; ma la residenza deve essere collocata a distanza ragionevole dal luogo dove i suoi abitanti svolgono gli altri momenti della loro vita: il lavoro, la scuola e così via. La città della rendita ha accentuato il pendolarismo . L’assenza della pianificazione urbanistica e una politica dei trasporti finalizzata all’espansione della motorizzazione individuale hanno aumentato, e reso più costosi, i prezzi degli spostamenti. Nella città dei cittadini non si devono costruire residenze dappertutto, ma solo dove esiste una domanda reale e dove un efficiente sistema di servizi pubblici può collegare la residenza alle altre funzioni della vita quotidiana.

La tipologia d’uso: tutti gli strumenti dell’ideologia e dell’economia sono stati impiegati per spingere gli italiani a risolvere il problema della propria abitazione (e di quella dei loro figli) con il godimento in proprietà. Con ciò si è posta una grave ipoteca sulla mobilità della popolazione sul territorio. Mentre in altri paesi la larga presenza dei patrimonio abitativo in affitto consente a chiunque di cambiare luogo di lavoro senza eccessivi problemi, in Italia ciò è diventato particolarmente difficile e oneroso. Sarebbe necessario condizionare fortemente l’ulteriore espansione della proprietà dell’abitazione e offrire, invece, un ampio stock di alloggi in affitto. Iniziando dal porre termine all’alienazione dei patrimoni immobiliari pubblici o parapubblici.

L’espulsione: un peso crescente sta assumendo in Italia un processo in atto in tutto il mondo atlantico: l’espulsione di abitanti da parti della città per effetto di interventi di “riqualificazione”, spesso promossi dagli stessi amministratori pubblici, che comportano modifiche nelle condizioni economiche d’accesso, oppure provocano trasferimenti provvisori che poi diventano definitivi. Sono gli effetti della gentrification, che aumentano parallelamente alla maggior diffusione di politiche urbane volte al recupero anziché all’ulteriore espansione.

D. La partecipazione, ossia la politica

Le nuove vertenze riprendono in gran parte i temi di quello che, sul finire degli anni 60, fu rivendicato come “diritto alla città”. Henry Lefebvre [Lefebvre H. 1968] espresse questo principio in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio (e si tratta, sostanzialmente, degli argomenti che abbiamo toccato nei precedenti paragrafi), e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni.

In effetti oggi dalle vertenze sul territorio emerge la volontà di partecipare, da parte di tutti i cittadini, alla costruzione/trasformazione della città. Una partecipazione che non si riduca alla comunicazione unilaterale, top-down, delle scelte che chi governa ha già fatto, o sta per compiere. Ma una partecipazione che consenta di intervenire sulle scelte, di proporre soluzioni alternative – in una parola, di concorrere al governo. Si tratta quindi, per la città, di conoscere in anticipo i progetti di trasformazione e anche di poterne proporre,, di essere aiutati a comprenderne le premesse e le conseguenze, in definitiva di essere messi nelle condizioni di superare le forme della democrazia rappresentativa e delegata, praticando forme di democrazia diretta.

Grandi sono le difficoltà che si manifestano per ottenere (o strappare) successi in questa rivendicazione. E tuttavia, l’attuale degrado della democrazia delegata, il vuoto che si è aperto tra le istituzioni rappresentative e la società civile, la stessa crisi delle istituzioni, rendono la questione del tutto aperta. Si tratta di comprendere che cosa sia la politica: se sia solo quella che esprime la sua capacità di governo della società attraverso le istituzioni che conosciamo, oppure se essa sia qualcosa che è immanente al rapporto di ciascuna persona con la collettività. Quandi rifletto su questo tema mi viene spesso alla mente una frase del libro che don Lorenzo Milani raccoglie da uno degli allievi della sua Scuola di Barbiana: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» [Milani L. 1967]. Secondo molti, ciò che emerge dalle mille vertenze sul territorio, riannodabili attorno al tema della “città dei cittadini” è proprio il germe di una politica nuova. Ricca di limiti e difficoltà (su cui torneremo), ma anche di speranze.

3 LA NUOVA DOMANDA DI PIANIFICAZIONE

La mia tesi è che dai movimenti generati dalla protesta per il trionfo della “città della rendita” stia nascendo una nuova domanda di pianificazione del territorio urbano e rurale, che ha certo numerosi ostacoli al suo pieno dispiegarsi, ma che è l’unico elemento positivo cui possono fare affidamento quanti non vogliono ridursi alla protesta e alla mera lamentazione per le condizioni cui l’habitat dell’uomo, e la vita della società, sono sempre più immersi.

É una nuova domanda che in parte può essere già soddisfatta mediante strumenti di pianificazione già utilizzati, spesso adoperati al di sotto delle loro potenzialità oppure distorcendoli, in parte trova interessanti anticipazioni e sperimentazioni in nuove forme di azione: limitate, parziali, imperfette, ma non è così che si sperimenta il nuovo in ogni campo?

S’incorrerebbe nell’errore tipico delle discipline separate dagli altri saperi e rinchiuse nella proprie technicalities se si trascurasse il fatto che la nuova domanda di pianificazione dell’habitat dell’uomo non nasce sola. Essa è componente di una più ricca domanda di cambiamento, che concerne tutti gli aspetti della vita sociale: dalla politica all’etica, dall’economia all’antropologia.

In effetti, affrontare in modo risolutivo quei quattro temi che abbiamo sopra indicato presuppone o postula la costruzione di una società interamente diversa da quella attuale, a partire dalla sua dimensione strutturale, dalla sua economia. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) che riesce a sopravvivere, da una crisi all’altra, solo erodendo ancora di più gli scarsi margini delle risorse naturali del pianeta, accrescendo le diseguaglianze, cancellando via via le conquiste raggiunte nell’evoluzione di una civiltà. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) nella quale il lavoro – lo strumento che l’uomo ha per conoscere e governare il mondo – sia ridotto a componente marginale della vita economica e sociale. Non possono essere risolte nell’ambito di una società nella quale la formazione sia diretta all’apprendimento delle tecniche necessarie per far andare avanti un sistema economico obsoleto, divenuto disumano, anziché nell’esplorare le vie dell’ancora sconosciuto e del possibile.

Ecco allora perché le questioni relative al territorio si legano strettamente alle grandi vertenze aperte nel nostro paese: l’ambiente, la scuola, il lavoro.

Ostacoli e limiti

nell’azione della “società critica”

Più che soffermarsi ancora sui contenuti della “città dei cittadini”, e sull’immaginario urbano che nasce dalle mille vertenze aperte sul territorio, è bene riflettere sugli ostacoli che ne intralciano l’affermazione. Poiché ho detto che i portatori essenziali di quell’ idea di città sono i “comitati” (riassumo in questo termine l’intero tessuto di gruppi, più o meno formalizzati, stabili, strutturati che caratterizza la “società critica” del nostro paese), è in primo luogo ai limiti di questi che occorre riferirsi

Mi sembra che si manifestino soprattutto tre limiti, riassumibili: (1) nella difficoltà di superare una visione settoriale e localistica dei problemi e dei disagi, per assumere invece una prospettiva olistica (dalla vertenza per la difesa dell’albero alla vertenza contro un cattivo piano urbanistico); (2) nel limitarsi ad azioni di contrasto e protesta, pur necessarie, invece di approdare alla formulazione di proposte; (3) nel rinchiudersi nell’impegno a difendere/costruire/affermare un’identità circoscritta (e quindi una città delimitata, una “città villaggio”), per assumere invece l’impegno a collaborare alla costruzione di un “mondo di città”: un habitat del quale tutti possano sentirsi ed essere cittadini uguali nel rispetto delle differenze.

Quei tre limiti sono in qualche modo inevitabili in conseguenza del modo in cui storicamente il mondo dei “comitati” è nato: vertenze locali, riferite a uno specifico oggetto o problema; reazioni di difesa e di resistenza, di fronte ad azioni che altri promuovevano nel loro quadro di riferimenti, di interessi, di poteri e di strumenti; individuazione di propri “compagni di lotta” nei vicini più immediati, ugualmente minacciati e componenti dalla “comunità” la cui identità si rivelava essenziale per ottenerne la solidarietà. Questa origine storica di molte vertenze locali fa sì che esse siano spesso caratterizzate da una logica Nimby, cioè ripiegate nella separatezza del proprio cortile, di ciò che immediatamente utilizzano; e quindi ostili a chi è “fuori”, “diverso”, “straniero”.

Remo Bodei ha svolto recentemente una interessante riflessione, proprio a partire dal termine “identità”. Dopo aver esposto e criticato i modelli correnti di identità Bodei propone la sua concezione: il tipo di identità « che preferisco e propongo, è rappresentato da un´identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l´identità individuale e collettiva si esalta. (…) Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l´idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l´esaltazione delle differenze stesse. Il grande paradosso odierno è, appunto, che quanto più il mondo tende ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più sembra che a queste aperture si reagisca con chiusure dettate dalla paura e dall´egoismo, con la rinascita di piccole patrie» [Bodei R. 2011].

Localismo, protesta, chiusura:

come andare oltre

Localismo, protesta, chiusura: come superare questi limiti? Si è lavorato e si lavora in più di una direzione. Sebbene manchi ancora un quadro di conoscenza sistematica della ricca realtà associativa, sono da segnalare innanzitutto alcuni tentativi tendenti a superare il localismo coordinando (“mettendo in rete”) gruppi sorti in relazione a tematiche analoghe, aventi quindi analoghe o identiche controparti, e appartenenti a una medesima area; è il caso della rete toscana, pienamente affermata da qualche anno, e degli analoghi tentativi nel Veneto e in Lombardia. Più numerosi sono i cordinamenti e le reti a carattere intercoumane e subregionale (come l’efficacissimo Cat – Coordinamento Ambiente e Territorio, dell’area tra Venezia a Padova) o metropolitano, soprattutto in Piemonte, Veneto, Lombardia, Toscana, Lazio. Il ragionare insieme su un contesto territoriale e tematico più ampio di quello locale aumenta la consapevolezza dello spessore del problema, e rende più facile l’apporto dei “saperi esperti”; facilita perciò alle “reti” e ai “coordinamenti” di superare quei limiti storici.

Altre direzioni di lavoro di grande interesse sono costituite dalle vertenze tematiche nazionali, generate dall’aggressione – da parte dei poteri forti – ad alcune risorse sentite come beni comuni. Per citare solo le principali, l’Onda sorta impetuosa per reagire ai tentativi di mortificare la scuola pubblica e di provocare la privatizzazione dei processi formativi e il loro asservimento alle esigenze del mercato, e la grande esperienza della vertenza dell’”Acqua bene comune”, significativa per più di un elemento: per la grande capacità di mobilitazione determinata da un lavoro volontario di base tenace, ramificato, fornito da comitati e gruppi già esistenti e da numerosi “nuovi militanti”; per la capacità di gestire l’organizzazione in forme originali (come il “forum permanente”); per la collaborazione espressa a ogni livello da gruppi di intellettuali e cittadini; infine, per il grande successo conseguito nonostante gli ostacoli frapposti da un fronte ampio di poteri istituzionali (il governo e le sue emanazioni paragovernative, i partiti nella quasi totalità, i mass media).

Cittadini di più patrie

Superare quei limiti richiede comunque un più ampio sforzo di approfondimento, nel quale è essenziale ricostruire un legame tra due realtà sociali: gli “intellettuali” e il “popolo”. Gli “intellettuali” sono quelle persone che, a causa della loro stessa formazione, sono in possesso delle chiavi che aprono alcuni essenziali passaggi: la comprensione dei meccanismi, delle procedure, degli attori mediante i quali le proposte, le idee gli slogan diventano fatti concreti; la possibilità di delineare proposte alternative che siano concretamente realizzabili; le connessioni tra le specifiche situazioni alle quali ci si oppone (e delle controproposte) e il mondo più ampio dal quale quelle situazioni sono condizionate determinate e sul quale le stesse decisioni “locali” influiscono. E il “popolo” non è solo quello che dà le gambe alle azioni proposte, ma è anche l’interprete diretto della realtà che i disegni degli intellettuali interpretano, delle sue esigenze e speranze, dei suoi interessi e timori, e possessore di quei saperi che no derivano tanto dagli studi, quanto dai processi formativi spontanei basati sulla conoscenza del territorio e dalle tradizioni locali.

Mi sembra che su alcuni temi l’apporto degli intellettuali sia in questa fase essenziale. Quello che probabilmente ne riassume molti è il seguente: come utilizzare ancora lo slogan “pensare globalmente, agire localmente”? Come trovare un equilibrio tra il paese e l’universo? Le lotte dei comitati hanno insegnato che non basta “agire localmente”: le decisioni sul tunnel della TAV non si prende in Val di Susa, ma a Torino, Roma, Bruxelles. Occorre poter intervenire ai vari livelli in cui il processo delle decisioni si pone. La questione si pone allo stesso modo per quanto riguarda il rapporto tra “identità” e umanità: come superare l’elemento di chiusura, di esclusione dell’altro, che è sotteso al concetto di “vicino perché simile a me”?

La soluzione sta forse nel concetto di multiscalarità . Per governare il mondo e le sue trasformazioni, per “restituire lo scettro al popolo” nell’attuale configurazione della vita sociale, occorre che ciascun abitate del pianeta si senta cittadino di più patrie: del suo paese o quartiere, della città, la provincia, la regione, la nazione… e cosi via fino all’intera umanità. E occorre che si sia in grado non solo di conoscere come agisce sulle trasformazioni ciascun livello di governo, ma essere in grado di parteciparvi.

Superare quello slogan dell’ambientalismo primigenio, affrontare i problemi (per comprenderli e, soprattutto, per agire su di essi) richiede di affrontare un’altra questione complessa: il rapporto tra movimento e istituzioni. Le azioni, soprattutto quelle che riguardano il territorio, hanno una lunga gittata. Richiedono costanza dei principi e degli obiettivi, coerenza e continuità nelle azioni; e richiedono équipe di operatori dotati delle competenze necessarie e capaci di lavorare nel lungo periodo. Le istituzioni, comunque denominate, sono indispensabili per un movimento che voglia raggiugere gli obiettivi per i quali è nato. Si possono utilizzare le istituzioni esistenti, rinnovandole dall’intimo (credo che sia molto opportuno l’obiettivo che molti comitati si sono dati, di “conquistare i comuni”), oppure si possono formare istituzioni nuove. Ma il problema non può essere eluso.

Esso ci rinvia a una questione ulteriore: la politica, come ricostruirla, partendo dai germi di nuova politica che oggi si manifestano ma dando all’azione del “sovrano” (il popolo) continuità, coerenza, durata, capacità di egemonia e di efficacia? Su questo tema sarebbe necessario aprire una riflessione che porterebbe – chi ne abbia la capacità - molto al di là dell’argomento di questo lavoro.

Bibliografia

Agnelli G. 1972, Intervista rilasciata all'«Espresso», novembre 1972. Cit. in P. Della Seta, E. Salzano, L‘Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma, 1992, p. 11

Tocci W. 2009, L’insostenibile ascesa della rendita urbana, «Democrazia e Diritto», trimestrale dell’associazione CRS - Centro studi e iniziative per la riforma dello stato, fascicolo 1/2009.

Lefebvre H. 1968, Le droit à la ville, Anthropos, Paris 1968 (trad. it: Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970)

Gibelli M.C., Salzano E. 2006, NO SPRAWL. Perché è necessario controllare la dispersione urbana e il consumo di suolo, Alinea, Firenze 2006

Milani L. 1967, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967

Bodei, R. 2011, Manifesto per vivere in una società aperta, «La Repubblica», 22 giugno 2011

Informazioni

"Quaderni del territorio" è la rivista online del Dipartimento di discipline storiche, antropologiche e geografiche dell’Università di Bologna. Il n. 2, curato da Paola Bonora e Luigi Cervellati, sarà accessibile all’infirizzo http://www.storicamente.org/, col titolo “Visioni e politiche del territorio. Per una nuova alleanza tra urbano e rurale”. conterrà i seguenti contributi:

Paola Bonora, Tra il dire e il fare: le politiche del territorio in Italia

Sergio Conti, Prammatica per una filosofia di progettazione territoriale

Roberto Camagni, Rendita, efficienza e qualità della città

Matilde Gallari Galli, Partecipazione, spazi pubblici e processi identitari . La città contemporanea come luogo dello scontro tra poteri globali e identità tenacemente locali

Giuseppe Dematteis, La metromontagna: una città al futuro

Maria Cristina Gibelli, Governare l'esodo urbano: buone pratiche internazionali

Alberto Magnaghi, Politiche e progetti di territorio per il ripopolamento rurale

Edoardo Salzano, Dualismo urbano: la città dei cittadini e la città della rendita

Pier Luigi Cervellati, La cultura della terra per la città del XXI secolo

Mario Ghio è scomparso; gli amici lo salutano il 2 novembre, alle ore 11, alla chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.

"il manifesto", 28 ottobre 2011

"il manifesto", 25 ottobre 2011. Anche su eddyburg

Un’importante sentenza del Consiglio di Stato (IV sezione, sentenza n.2418/2009 del 10 gennaio 2009) ribadisce un principio da tempo affermato nella giurisprudenza, e tranquillamente calpestato di quanti affermano che, se un piano urbanistico comunale prevede una volta che un determinato terreno sia edificabile, nasce nel proprietario un “diritto edificatorio” che non può essere revocato da unb piano successivo. Una conferma, con qualche interessante integrazione a favore dell’interesse pubblico.

Il fatto

Il terreno di un certo soggetto, nel comune di Perugia, era stato inserito nel Prg tra le aree edificabili. Successivamente era iniziato l’iter di un piano di lottizzazione, attuativo di quella previsione; iter che si era protratto per molti anni senza peraltro concludersi con gli atti formali richiesti dalla legge.

Nel 2002 il comune aveva approvato un nuovo Prg, nel quale quell’area, insieme ad altre, era stata classificata cone zona agricola. La società proprietaria aveva ricorso al Tar, e questo aveva dato ragione al Comune. Nuovo ricorso, questa volta al livello superiore della giustizia amministrativa.

Il Consiglio di Stato ha confermato il parere del Tar con alcune argomentazioni che vogliamo riassumere per il loro generale interesse.

La sentenza in tre punti

Il Consiglio di Stato ribadisce, in primo luogo, che un Prg (o una sua variante) ha un potere superiore a quello di un piano di lottizzazione il cui iter non si sia concluso, e quindi può tranquillamente modificarne o annullarne le previsioni. Così si esprime la sentenza:

“Ed invero, muovendo proprio dalla giurisprudenza in materia di aspettative derivanti da lottizzazioni edilizie e modifiche preclusive dello strumento urbanistico, deve premettersi e ribadirsi che nessuna posizione giuridicamente può essere riconosciuta a progetti di lottizzazione che, al momento della variazione del PRG, risultino ancora in itinere o in istruttoria ancorché da lungo tempo. É evidente che ciò non è assentibile, in ragione del fatto che, mentre la variante di PRG assume immediata efficacia, per contro non sussiste alcuna approvazione di atto giuridico che sia perciò assurto al rango di uno strumento urbanistico efficace (nella specie attuativo, ad iniziativa di parte privata, quale il piano di lottizzazione) e del quale debba in qualche modo tenersi conto”.

La proprietà aveva poi sostenuto che comunque, avendo il terreno la destinazione d’uso edificatoria, era stata versata al comune una quota dei contributi previsti per le opere di urbanizzazione. La sentenza afferma: ciò significa che il Comune dovrà probabilmente restituire la somma percepita, ma non costituisce un mootivo per annullare la variante al Prg e ripristinare i “diritti edificatori”. Ecco le parole della sentenza:

“[…] anche il pagamento di oneri di urbanizzazione, lungi dal costituire aspettative edificatorie tutelate, si muove in realtà nel solo ambito obbligatorio-patrimoniale, generando al più il dovere restitutorio di somme non dovute, ma non può certamente comportare il sorgere di un dovere dell’amministrazione di fornire particolare motivazione delle proprie scelte urbanistiche incisive delle aspettative di mero fatto”.

Un ulteriore argomento di contestazione da parte della società proprietaria era nella circostanza che, comunque, il Comune aveva cambiato la destinazione d’uso del terreno da edificatorio ad agricolo. La sentenza afferma che ciò è nella piena potestà del comune, e che la situazione documentata dal piano rivelava che, se c’era una “vocazione”, questa era quella agricola e che quindi era pienamente legittimo adeguare a questa realtà le prescrizioni della pianificazione. Afferma la sentenza che non vale mettere in contrasto la previsione del precedente piano e quella del nuovo, poichè

“tale correlazione non può fondare alcun vizio di illegittimità, rappresentando il contenuto stesso del legittimo esercizio dello “jus variandi” in sede pianificatoria e comporta proprio il potere di mutare il regime giuridico-urbanistico dell’area, che vede quindi cambiare la sua “vocazione” in senso giuridico (nella specie da edificatoria ad agricola). Altra nozione è invece rappresentata dalla “vocazione” intesa come la situazione dell’area nelle caratteristiche geomorfologiche del contesto in cui essa si trova al momento dell’esercizio del potere pianificatorio e quindi indipendentemente dalla destinazione giuridica sino a quel momento impressa ma che può avere o meno avuto esplicazione mediante un effettiva trasformazione del territorio. Ed è tale situazione che viene in rilievo rispetto alla nuova destinazione giuridico-urbanistica che all’area si intende conferire e che, come correttamente confermato dal TAR, il Comune risulta aver nella specie preso in considerazione ove ha evidenziato (nello studio preliminare e carta d’uso del suolo) che l’area ha oggettivamente caratteristiche agricole essendo di natura “seminativo-irrigua”. Rispetto a tale valutazione tecnica, quindi, la scelta del nuovo PRG di imprimere destinazione agricola è del tutto coerente […]”.

Riassumendo: il piano urbanistico generale può senza ombra di dubbio modificare una destinazione d’uso precedente, anche se è stata avviata e lungamente elaborata lsa procedura di formazione di un piano di lottizzazione. Oltre alla corretta motivazione, l’unica spesa che il comune deve sostenere è quella eventuale di spese legittimamente sostenute dal proprietario. É del tutto legittimo imprimere una destinazione d’uso agricola a un terreno precedentemente dichiarato edificabile quel terreno è idoneo per l’agricoltura.

Chiunque può pubblicare questo articolo alla condizione di citare l’autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it



1. IERI.

NASCE IL DIRITTO ALLA CITTÀNELL’ITALIA POST-FASCISTA



Il dopoguerra

Il fascismo, che aveva dominato l’Italia dal 1922 al 1943, e la Seconda guerra mondiale, avevano lasciato all’Italia una pesante eredità: le distruzioni di un conflitto che aveva attraversato l’intero paese, soggiornandovi a lungo; un’economia chiusa, “autarchica” e tendenzialmente autosufficiente, largamente basata su un’agricoltura spesso praticata in forme arcaiche e improduttive. Dopo la Liberazione i principi di libertà, giustizia sociale e democrazia, propri della Resistenza, erano stati assunti a base del nuovo stato. Una nuova democrazia (“democrazia di massa”) aveva sostituito quella prefascista, condizionata dal prevalere dei ceti più ricchi.

Dal 1946 il suffragio universale era stato realizzato nella sua pienezza, estendendo il voto alle donne. Il quadro politico della nuova Repubblica (l’abolizione della monarchia fu determinata da un referendum nel 1946) era fortemente condizionato da partiti che avevano una consistente base popolare. I partiti più ricchi di consenso sociale erano il democristiano (DC), il comunista (PCI) e il socialista (PSI). La DC, a causa del suo substrato cattolico e della sua stessa storia, era l’interprete, oltre che dei ceti borghesi, anche di porzioni consistenti del mondo contadino e dell’artigianato . Il PCI e il PSI esprimevano soprattutto la classe operaia e larghi strati del bracciantato e, nelle regioni centrali, della mezzadria.

Passata la breve fase dell’unità dei partiti antifascisti, dal 1947 anche in Italia aveva prevalso la spaccatura in due schieramenti contrapposti. La maggioranza parlamentare di centro destra era aggregata attorno alla DC; ad essa si opponeva un blocco di forze di sinistra, con una prevalenza del PCI, ampiamente egemonico negli strati intellettuali. Proprietà privata e liberismo economico, fortemente sostenuto dall’assistenza statale, erano i pilastri della politica governativa. Ciò incise pesantemente sul modo in cui avvenne la ricostruzione. L’urbanizzazione era stata pesantemente distrutta dalla guerra.

«Più di tre milioni di vani distrutti o gravemente danneggiati; distrutti un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono concentrati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Particolarmente acuto il problema abitativo che già prima della guerra era assai grave (nel 1931 erano stati rilevati 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze). Mentre in molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale, in Italia, viceversa, è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva: con l’alibi – appunto – di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso dispositivi agili e di emergenza»[1].

La ricostruzione è avvenuta nell’ambito di una politica economica che ha privilegiato soprattutto due settori: l’attività edilizia privata, considerata anche come una utile tappa intermedia per il passaggio della mano d’opera dall’agricoltura, fino ad allora dominante, all’ industria; l’industria manifatturiera, che già aveva solide basi nel capitale industriale del Nord e a cui era affidata la competizione sul mercato internazionale. In questo settore, le cui attività erano concentrate nell’area NordOvest, si puntava soprattutto sulla produzione di beni di consumo durevoli (l’automobile, ma anche gli elettrodomestici). L’agricoltura era stata lasciata, soprattutto nel Mezzogiorno, agli inefficienti rapporti di produzione del passato.

La migrazione dal Sud al Nord, dalle campagne e dai centri minori alle città maggiori, dalle colline e dalle zone interne verso i fondovalle e le coste aveva rimescolato la distribuzione della popolazione sul territorio. La sfrenata attività edilizia aveva trasformato caoticamente la fisionomia delle maggiori città e delle aree costiere. La scelta di politica economica aveva insomma consentito l’ingresso dell’Italia nel mercato mondiale e (grazie al condizionamento esercitato da una forte pressione sindacale e dal carattere popolare dei maggiori partiti) un consistente aumento del benessere e della capacità di spesa delle famiglie; tuttavia aveva provocato anche una estesa devastazione del territorio e gravi fenomeni di congestione, sovraffollamento e disagio nelle città. Questi fenomeni, insieme a un logoramento della formula politica di centro-destra, erano venuti al pettine nella seconda metà degli anni Cinquanta e avevano provocato, sia una presa di coscienza dei guasti provocati e il maturare della necessità di correre ai ripari, sia il formarsi di una nuova alleanza politica.

L’Italia alle soglie degli anni 60

Alla fine degli anni Cinquanta l’Italia era profondamente cambiata. Aveva completato la sua trasformazione: dalla prevalenza dell’agricoltura si era passati decisamente a quella dell’industria. Il reddito medio era aumentato e aumentava la disponibilità ad acquistare i beni di consumo durevoli che l’industria sfornava in grande quantità a prezzi sempre più convenienti.

L’industria era cresciuta, i profitti e l’accumulazione avevano rafforzato i luoghi dove si era concentrato lo sviluppo produttivo: ma il territorio e le città ne avevano pagato duramente il prezzo. La fuga della forza lavoro dal Mezzogiorno, dalle aree interne e collinari dell’Italia centro-meridionale e l’indirizzarsi degli investimenti nelle aree già sviluppate aveva penalizzato le altre. La scelta di privilegiare l’automobile rispetto ai trasporti collettivi aveva reso più grave la congestione delle città. Gli squilibri territoriali cominciavano a essere vissuti come un peso allo sviluppo degli stessi settori avanzati dell’economia.

Erano cambiate decisamente le condizioni della vita delle famiglie. Dai modi, dai ritmi e dai valori del mondo delle campagne si era passati a quelli della città. L’aumento dei redditi e l’incentivo fornito ai consumi individuali durevoli aveva inciso sulla conformazione dei bisogni e dei modi di vita. L’ingresso delle donne in un mondo del lavoro diverso da quello legato all’attività agricola e alla famiglia patriarcale aveva pesantemente mutato il modo in cui si svolgeva la loro vita: le donne, che la propaganda conservatrice avrebbe voluto restassero legate al loro ruolo di “angeli del focolare”, erano ormai condizionate da una nuova vita: Ma in questa si sommavano due lavori: quello nella fabbrica o nell’ufficio, e quello delle mansioni casalinghe, ormai svolte fuori del sistema di benefici fornito dalla famiglia patriarcale.

Le stesse condizioni abitative nelle città erano nuove rispetto a quelle della vita contadina. Nella ricerca di un alloggio si dovevano fare i conti con gli alti valori determinati dalla forte incidenza della rendita fondiaria urbana. La spontaneità lasciata alle forze imprenditoriali mostrava insomma suoi limiti e rendeva evidenti i suoi prezzi. Il sistema economico cominciava a registrare le sue “diseconomie di congestione”, e agli italiani degli anni 60, mentre venivano offerti i benefici dello sviluppo (l’aumento del reddito, la maggiore libertà personale, le più ampie occasioni dì incontro, l’accesso a servizi di livello urbano) venivano imposti i pesi di un modello di vita particolarmente disagiato. Le condizioni di vita nelle periferie urbane e negli slum che accerchiavano le maggiori città cominciavano ad essere l’argomento di film di successo (come quelli di Luchino Visconti e di Pier Paolo Pasolini).

Nel frattempo, mutamenti rilevanti si erano manifestati nel quadro politico. Dopo la sconfitta, nel 1953, di una legge elettorale (denominata “legge truffa”) con la quale l’alleanza imperniata sulla Dc avrebbe avuto la garanzia di assicurarsi la maggioranza assoluta nel Parlamento anche se avesse conseguito la sola maggioranza relativa, erano iniziati processi di mutamento degli orientamenti interni dei gruppi che componevano il partito di maggioranza. Dopo varie oscillazioni, e un pesante tentativo di svolta a destra nel 1960, cominciava ad affacciarsi la proposta politica di una “apertura a sinistra”, che condusse all’inizio degli anni 60 prima alla formazione di maggioranze comunali di centro-sinistra (basate sull’alleanza della Dc con il Psi), e poi al primo governo nazionale di centro-sinistra nel 1962.

Un peso rilevante sul mutamento degli orientamenti della Dc, partito di esplicito orientamento cattolico, ebbe l’avvento al papato, nel 1958, di Giovanni XXIII. Scrive lo storico Paul Ginsborg: “l’integralismo di Pio XII fu sostituito da una diversa concezione della Chiesa, piuttosto legata al suo ruolo pastorale e spirituale che non alla sua vocazione politica anticomunista. Si apri così lo spazio per un dialogo fra cattolici e marxisti, e in campo politico democristiani e socialisti poterono finalmente trovarsi faccia a faccia per trattare”[2]. Degli argomenti della trattativa fecero parte la programmazione economica, l’istituzione delle Regioni, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma della scuola media e la riforma urbanistica. Quest’ultima fu tra quelle che non andarono in porto.

Al nuovo quadro politico si accompagnò la proposta di un nuovo indirizzo economico. Ugo La Malfa[3]è ministro del Bilancio. Nella discussione del bilancio dello stato propone una nuova politica economica4[4], basata su due cardini: programmazione economica, come insieme di strumenti capaci di svolgere un trasparente ed esplicito ruolo di indirizzo delle imprese pubbliche e private coerente con gli obiettivi d’interesse generale, e politica dei redditi, come coinvolgimento dei sindacati dei lavoratori nelle scelte di redistribuzione della ricchezza prodotta. Nel documento si «metteva al centro il contrasto fra l’”impetuoso sviluppo” di quel periodo e il permanere di “situazioni settoriali, regionali e sociali di arretratezza e ritardo economico”. Squilibri territoriali tradizionali (in primo luogo quello fra Nord e Sud) sono in parte modificati, annotava La Malfa, ma per certi versi aggravati, con la “congestione di alcuni centri urbani”, lo “spopolamento di altre aree” e così via. E se “molte situazioni di sottosviluppo sono state alquanto alleviate in termini assoluti, sono però diventate per la nostra società meno sopportabili”»[5].

Questi, in sintesi, i punti rilevanti della proposta: una critica, ampiamente documentata e argomentata, al modo in cui i precedenti governi avevano gestito la fase della ricostruzione e dell’inserimento nel mercato internazionale; l’individuazione delle condizioni delle città e dei territori come punti rilevanti della valutazione critica; una gestione ferma dell’economia da parte di una politica coerente e trasparente, appoggiata da un atteggiamento confidente- sebbene dialettico – delle organizzazioni dei lavoratori.

Lotte sociali e disastri territoriali

Negli stessi anni un ministro democristiano, Fiorentino Sullo, propose una riforma del modello di crescita delle città. La legge che presentò (ispirata dagli intellettuali che facevano capo all’Istituto nazionale di urbanistica) prevedeva l’esproprio preventivo delle aree destinate dai piani all’espansione delle città, e la loro utilizzazione da parte dei promotori immobiliari. La proposta scatenò una reazione furibonda delle destre, che la descrissero come una legge che avrebbe espropriato tutti i proprietari di case. La DC non difese il suo ministro (e la verità dei fatti) e la riforma fu bocciata[6]. Ma nel frattempo si erano manifestati nella società e nel territorio iniziative ed eventi, di segno positivo e negativo, che riaprirono la questione.

Tra gli episodi positivi, dimenticati dalla storia ufficiale di quegli anni, devono essere citati il buon governo urbanistico di molti comuni, soprattutto quelli guidati da maggioranze di sinistra, e l’azione del movimento organizzato delle donne, anch’esso nell’ambito dello schieramento progressista. Numerosi comuni dell’Emilia-Romagna, della Toscana – e anche di altre regioni del Nord e del centro – avevano abbandonato il laissez faire urbanistico promosso dal governo, e applicavano metodi di pianificazione moderni. Essi tentavano di contrastare le pressioni della speculazione fondiaria per contenere l’espansione disordinata delle città, e prevedevano consistenti spazi pubblici7[7]. Il movimento femminile (e in particolare l’Unione donne italiane) aveva organizzato una grande campagna di massa per ottenere l’inserimento nei piani urbanistici di adeguate dotazioni di spazi per gli usi collettivi, e interventi normativi e finanziari per la prima infanzia e la scuola a tempo pieno.

Accanto alle rivendicazioni sociali e alle buone pratiche, si manifestavano eventi drammatici. Nel 1966 alcuni episodi colpirono molto l’opinione pubblica: il crollo improvviso di un intero quartiere ad Agrigento e drammatiche alluvioni che minacciarono di travolgere Firenze e Venezia. Quegli eventi rivelavano che il territorio, - devastato dall’invasione delle costruzioni nei luoghi più sensibili, minacciato dai sovraccarichi edilizi su suoli fragili, abbandonato dalle attività agricole e forestali - si ribellava minacciando le città, gli averi e le vite degli gli stessi cittadini. Il Parlamento corse ai ripari con una legge che introduceva elementi di razionalità nell’uso del territorio, generalizzando una pianificazione urbanistica adeguata alle esigenze della vita contemporanea. Non era una legge di riforma, come quella che aveva proposto il democristiano Sullo, ma una misurata razionalizzazione delle pratiche urbanistiche: una “legge ponte” verso una successiva più ampia riforma, per la quale le condizioni non sembravano mature.

Anche la “legge ponte” ebbe una vita stentata; le sue innovazioni furono contrastate sia da contrasti interni alla stessa maggioranza parlamentare che da successivi interventi della Corte costituzionale; questi ponevano in evidenza le contraddizioni tra l’esigenza di destinare spazi adeguati agli usi pubblici a un prezzo contenuto, e il carattere privatistico che caratterizzava in Italia il diritto di proprietà immobiliare8[8]. Ma più robuste pressioni sociali si preparavano.

Un biennio decisivo: 1968-1969

In Italia il Sessantotto ebbe caratteristiche singolari. «Solo in Italia – solo in Italia, in tutto il mondo – movimento studentesco e movimento operaio crebbero solidalmente, tendendosi la mano»[9]. Il movimento degli studenti, che come negli altri paesi iniziò nelle aule universitarie per estendersi poi a masse più ampie di giovani, incontrò, e contribuì a preparare e a sostenere, l’altro grande evento di quegli anni: la vertenza sindacale che si aprì tra la primavera del 1968 e l’autunno del 1969[10]. Per la prima volta le rivendicazioni dei lavoratori e della loro organizzazione non riguardavano solo le questioni dei salari e dei contratti nelle fabbriche o le condizioni di lavoro nella campagne, ma affrontava i temi della città: il problema dei trasporti, della casa, dei servizi sociali furono al centro di un vertenza che si concluse con un grande sciopero generale nazionale.

La storia era cominciata a Torino, nella primavera del 1969. Nel marzo 1969 la Fiat aveva pubblicato un bando per assumere negli stabilimenti di Torino 15 mila nuovi addetti, reclutandoli nel Mezzogiorno: trasferendosi ovviamente con le loro famiglie, avrebbe significato almeno 60 mila nuovi immigrati a Torino e l’aumento della popolazione che avrebbe fatto saltare le già precarie strutture residenziali, e quel po’ di attrezzature sociali funzionanti nei comuni della cintura. D’altra parte i programmi di espansione degli impianti e dell’occupazione della Fiat avrebbero ulteriormente aggravato l’emarginazione delle regioni meridionali. I fatti di Torino, gli altri scioperi generali in numerose province nei mesi successivi, le proteste degli abitanti delle baracche e negli altri insediamenti impropri, il ripetersi delle occupazioni di alloggi (e dall’altra parte, l’esistenza di numerosi alloggi i cui canoni d’affitto erano bloccati ai valori di prima della guerre) ponevano in primo piano la necessità di una nuova politica della casa.

L’autunno del 1969 fu il momento più alto del conflitto: si trattava di affermare il diritto alla città come componente essenziale di una società riformata. Quei temi non erano agitati solo da èlite intellettuali e dalle componenti più radicali della sinistra, era l’insieme dei sindacati dei lavoratori che scendeva in campo, con l’appoggio del maggiore partito della sinistra, il Pci, che si avviava ad essere quello col più ampio consenso elettorale. Temi come “diritto alla città” e “la casa come servizio sociale” diventano insomma slogan popolari, che alimentano vertenze diffuse sul territorio. Con il primo termine si chiedono democrazia e partecipazione nelle decisioni urbanistiche, e si rivendicano quartieri dotati di tutto ciò che serve a una vita nella quale il privato si prolunghi nel pubblico e il pubblico serva al privato: servizi, verde, luoghi d’incontro, facilità di vivere e d’incontrarsi. Con lo slogan “casa come servizio sociale” si chiede che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

Da quel momento iniziò un percorso di innovazioni legislative con le quali si definì un quadro di obiettivi, procedure e strumenti di grande positività[11]. Si raggiunsero traguardi notevoli in particolare a proposito della questione delle abitazioni e in quella degli spazi pubblici nelle aree d’espansione: due temi nei quali, nell’Italia di quegli anni, si riassumeva il tema del “diritto alla città”[12].

Quale idea di città

Le conquiste raggiunte generarono reazioni violentissime: al movimento riformatore si oppose la “strategia della tensione”, che trovò complicità inaspettate ai piani alti del Palazzo. L’utilizzazione del territorio urbano ed extraurbano era una delle poste in gioco: “città come casa della società”[13], oppure città come macchina per produrre ricchezza alla proprietà immobiliare? Ma domandiamoci qual’era l’idea di città – di habitat dell’uomo - che costituiva l’immagine che animava le lotte di quegli anni anni.

Il nesso tra cultura, politica e società era molto stretto. La Resistenza, che costituiva il complesso dei valori cui non solo le forze di sinistra si ispiravano, aveva contribuito se non a rompere, a rendere permeabili le frontiere che separavano l’accademia, i partiti e i movimenti sociali. In particolare la cultura urbanistica (che si era formata in Italia nel periodo fascista guardando alle esperienze dell’Europa democratica) si poneva esplicitamente al servizio della società[14].

Più ancora che dalle università, la cultura urbanistica italiana era alimentata allora dalla pattuglia di urbanisti e amministratori associati nell’Istituto nazionale di urbanistica (INU), e soprattutto dalla sua prestigiosa rivista, Urbanistica, diretta dall’urbanista Giovanni Astengo e finanziata dall’industriale Adriano Olivetti. Molto efficace dal punto di vista della documentazione e della descrizione delle nuove pratiche, la rivista contribuì fortemente a far conoscere ai giovani architetti e ingegneri italiani (la professione di urbanista non era ancora formalizzata) le esperienze dei paesi più evoluti. Olivetti non era impegnato nell’urbanistica solo come sponsor di iniziative culturali, ma aveva fondato e sistematicamente alimentato anche culturalmente un movimento (“Movimento di Comunità”) che aveva nella corretta urbanistica e nella creazione di condizioni di vita pienamente umane nelle città uno dei punti di forza della sua ideologia. L’attenzione era rivolta soprattutto alla costituzione di unità di vicinato capaci di promuovere e sostenere uno spirito comunitario, e alla rimozione degli squilibri territoriali e sociali.

Molti giovani architetti avevano trovato un campo di sperimentazione di nuovi principi dell’housing e del planning nella progettazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica, promossi con il programma INA-Casa negli anni dal 1949 al 1963. Esperienze in larga misura insoddisfacenti, per una serie di ragioni che solo successivamente furono superate, ma che comunque – grazie anche al supporto dell’Ufficio studi, regista culturale del programma – applicavano modelli di riferimento desunti dalle esperienze dei paesi più avanzati.

Gli esempi che soprattutto colpivano i giovani professionisti – propagandisti tra le forze sociali dell’idea di una città a misura d’uomo - erano quelli delle città della socialdemocrazia europea (dal Karl Marx Hof della “Vienna rossa” alle realizzazioni di Bruno Taut negli anni precedenti al nazismo ai quartieri e alle città dell’Olanda e della Scandinavia. Oltre alla riconoscibile forma dei nuovi insediamenti, ai loro efficaci collegamenti mediante trasporti collettivi alle diverse parti della città, alle ampie dotazione di verde, alla contemporaneità nella costruzione degli alloggi e degli spazi pubblici attrezzati, colpiva l’attenzione con la quale erano organizzate e gestite tutte le funzioni che potevano ridurre l’impegno materiale nella gestione domestica (dalle scuole agli asili nido, dalle palestre agli ambulatori, fino ai servizi comuni di caseggiato, come le lavanderie e gli spazi per picnic e incontri di gruppi di amici) e ai percorsi pedonali e ciclabili che connettevano gli spazi socialmente rilevanti.

Negli esempi di buone pratiche europee allora proposti come modelli di riferimento, la stessa organizzazione fisica degli spazi appariva guidata molto più dai ritmi e dai percorsi dei bambini (dall’età della carrozzella a quella della bicicletta), dei loro genitori, degli anziani e dei cittadini qualunque che dagli interessi immobiliari[15]. Di quei paesi colpiva anche molto la politica fondiaria che gli stati e i comuni avevano saputo gestire, mediante la costituzione di grandi patrimoni di aree pubbliche sulle quali dirigere l’espansione della città, rendendo così indipendenti le scelte di organizzazione urbanistica dal peso della rendita fondiaria. Si vedeva nella politica fondiaria una delle condizioni di base che consentivano di costruire città vivibili per tutti i suoi abitanti[16].



2. OGGI.

FORME E SOSTANZA DELLA CITTÀ DEL NEOLIBERALISMO

Il contesto, nel mondo e in Italia

Le parole d’ordine e le conquiste degli anni 60 e 70 cui mi sono finora riferito vanno collocate in un quadro più ampio di progressi sul terreno sociale ed economico: il riconoscimento del diritto al divorzio e all’aborto, lo statuto dei diritti dei lavoratori, l’istituzione del servizio sanitario nazionale e l’abolizione delle strutture manicomiali, l’introduzione del tempo pieno nella scuola elementare, l’istituzione della scuola materna statale, l’estensione del voto ai diciotto anni. Esse emersero da un forte intreccio tra ruolo propositivo degli intellettuali (e la forza rappresentativa della narrazione delle esperienze dell’Europa socialdemocratica), la condivisione da parte delle forze sociali significative , che vedevano in quella narrazione orizzonti raggiungibili e coerenti con le loro aspirazioni, e capacità di mediazione tra obiettivi (la città desiderata) e strumenti per raggiungerli (azione legislativa e amministrativa).

Ma esse provocarono anche fortissimi contrasti: una reazione che si scatenò subito, agli albori degli anni 70, con la “strategia della tensione” e con gli attentati terroristici, che proseguirono fino all’assassinio di Aldo Moro[17], ne impedirono il raggiungimento e ne prepararono il capovolgimento. Gli anni 80 del XIX secolo sono quelli che gli storici indicano come gli anni della svolta, del regresso, dell’inizio del declino che ancora oggi caratterizza il nostro paese. Ma il germe del degrado c’era già nei decenni precedenti, nei quali probabilmente si intrecciarono le pulsioni verso il rinnovamento civile e quelle verso una utilizzazione meramente egoistica e individualistica dei successi economico ottenuti dal boom degli anni 50. Si discute sul perché la svolta sia avvenuta, ma il consenso è abbastanza ampio sul quando. Almeno per quanto riguarda l’Italia si colloca nella metà degli anni 80 il suo momento principale, perfettamente correlata alla più ampia trasformazione a livello internazionale.

Nel 1983 era nato il governo a guida socialista, premier Bettino Craxi. Negli stessi anni i poteri di Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei rispettivi paesi. Nel 1984 in Italia un decreto del governo Craxi aveva aperto l’attacco alla scala mobile (al meccanismo, conquistato per tutti i lavoratori nel 1975, che legava le variazioni del salario a quelle del potere d’acquisto) e nell’anno successivo era fallito il referendum indetto dal PCI per difenderlo. Siamo negli anni del trionfo di una nuova visione della società: nuovi valori sono divenuti vincenti nel pensiero comune. Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista della "modernità", di celebrazione del "Made in Italy", di enfatizzazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi della scala mondiale.

Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure, come osserva lo storico Paul Ginsborg, «crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la stessa cosa, e con l’avvicinarsi della fine del secolo la prima giunse a costituire sempre più una minaccia per il secondo. Gli italiani tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva la maggior parte dell’inquinamento e dei rifiuti»[18]

La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei privilegi. I principi morali si affievoliscono, il successo individuale è l’obiettivo primario al quale tutto il resto può essere sacrificato. Raggiunge il massimo della sua esplicazione quel “declino dell’uomo pubblico” del quale Richard Sennett individua le antiche matrici e le attuali configurazioni[19]. Tutto ciò non poteva mancar di trovare la sua espressione nel destino della città e del suo governo.

La città del neoliberalismo

Molti episodi – sul terreno della cultura, della politica, della legislazione, dell’azione amministrativa – hanno punteggiato il passaggio da una concezione della città e dell’urbanistica all’altra: da quella che ha ispirato i principi del “diritto alla casa e alla città” e ha prodotto quella che, per la sua vicinanza temporale e sostanziale alle politiche sociali di quei medesimi anni, possiamo definire “città del welfare”, e quella che possiamo definire “città neoliberista”. I primi cambiamenti di orientamento intellettuale e morale della cultura urbanistica si vedono già negli anni 70; in molti ambienti universitari si critica la pianificazione urbanistica non per superarne i limiti, rendendola più adeguata alle nuove esigenze, ma opponendole il “progetto urbanistico”. Questo viene presentato come strumento più flessibile per trasformare la città, ma via via si configura come un sistema di decisione definito in base a input forniti dalla proprietà immobiliare: l’iniziativa, insomma, spetta a quest’ultima. Alle proposte intellettuali seguono leggi e decisioni di sindaci, coerenti con questa impostazione, che consentono deroghe via via più ampie alle regole della pianificazione, e sostituiscono a queste la contrattazione, sempre più esplicita, con gli interessi immobiliari.

Tre eventi riassumono il nuovo contesto, tutti in qualche modo connessi a Milano, la grande laboriosa capitale della borghesia industriale italiana, definita “capitale morale” d’Italia in contrapposizione alla flaccida e burocratica Roma, capitale ufficiale. Nel 2000 viene proposto e adottato, in stretta simbiosi tra esponenti della cultura accademica e protagonisti della politica di destra, un nuovo modo di intervenire sulla città: non più un piano urbanistico che definisca regole, vincoli e opportunità stabiliti a priori sulla base di criteri oggettivi, ma un documento d’inquadramento di carattere molto generale e generico, unica cornice nell’ambito della quale l’Amministrazione sceglierà caso per caso, quindi discrezionalmente, le proposte d’intervento presentate dalla proprietà immobiliare20[20]. Nel 2003 un autorevole parlamentare della destra, ex assessore a Milano, presenta un disegno di legge urbanistica nazionale nel quale si sostituisce formalmente la contrattazione con i proprietari immobiliari alla pianificazione urbanistica decisa dalle autorità pubbliche democraticamente elette[21]. Nel 2007 un docente universitario del Politecnico di Milano esprime in modo molto chiaro l’ideologia neoliberista applicata all’urbanistica: la “città del liberalismo attivo” (come l’autore la definisce) ha i suoi cardini nella supremazia assoluta del mercato rispetto a qualunque regola definita da un’autorità a esso esterna, nella identificazione dei proprietari come gli unici soggetti meritevoli di considerazione, nella definizione di una “soglia di decenza” al di sotto della quale l’abitante ha diritto a un aiuto dello stato per potergli consentire di raggiungere i prezzi per l’uso della città pretesi dal mercato[22].

A livello nazionale, se la proposta di legge del centrodestra non riesce a passare, si approvano peraltro numerosi provvedimenti – praticamente senza discontinuità dall’età di Craxi a quella di Berlusconi e dai governi di destra a quelli di centrosinistra - mediante i quali: la pianificazione urbanistica, con le sue procedure e le sue regole, viene sostituita dalla possibilità, via via più generalizzata, si derogare ad essa; le decisioni in materia di organizzazione e uso del territorio urbano ed extraurbano vengono via via trasferite dagli organismi collegiali, dove è presente una pluralità di posizioni, ai “capi” (il sindaco, il presidente della provincia e della regione, il primo ministro); nelle concrete decisioni sul territorio la finalità è sempre più esclusivamente quella di accogliere e accompagnare le iniziative tendenti a ricavare consistenti aumenti di valore delle aree interessate, indipendentemente dalla reale necessità delle trasformazioni previste; alla stessa logica (accrescere i patrimoni privati accollandone le spese alla collettività) si ispirano le decisioni in merito alle grandi infrastrutture, e alle altre opere pubbliche promosse e finanziate col debito pubblico.

L’elemento che caratterizza la condizione urbana nei territori del neoliberismo all’italiana è la progressiva affermazione di un modello di habitat fondato sulla prevalenza di soluzioni individualistiche, precarie e costose - quindi fortemente differenziate a seconda delle diverse capacità di spesa - ai bisogni che nella fase del welfare urbano erano stati affrontati secondo una logica tendenzialmente egualitaria, solidaristica, collettiva, risparmiatrice di risorse.

Il diritto alla casa si è tradotto nella sollecitazione generalizzata alla ricerca di abitazioni a basso costo, in aree lontane dal centro, possibilmente non “valorizzate” da piani urbanistici (quindi spesso in insediamenti abusivi o illegittimi), non servite da una rete di trasporti collettivi né da servizi pubblici, dotate di un brandello di verde privato in sostituzione dei parchi urbani: la miriade di abitazioni unifamiliari o plurifamiliari che alimentano lo sprawl e formano il sempre più esteso insediamento disperso. A questo modello, propagandato dalle immagini pubblicitarie della “casetta nel verde”, possono accedere quelli che hanno un reddito adeguato. Per gli altri (le giovani coppie, gli anziani soli, e le crescenti legioni di lavoratori precari indigeni o immigrati) l’unica alternativa è un alloggio molto distante dal luogo di lavoro, o una sistemazione di fortuna in un edificio abbandonato.

Il diritto ai servizi collettivi è sempre più contraddetto e negato. La politica finanziaria sposta continuamente risorse dagli impieghi sociali al sostegno alle attività economiche, agli interventi suscettibili di favorire investimenti immobiliari e finanziari privati, agli investimento in opere di prestigio ma di scarsa utilità sociale. Ai comuni è sottratta parte delle risorse direttamente trasferite dallo stato; in cambio, l’imposta sulle nuove costruzioni, che era stata istituita nel 1977 per finanziare l’acquisizione e l’utilizzazione di spazi pubblici, è stata “liberata” da questo vincolo e utilizzata per le crescenti esigenze dei comuni. Molte opere pubbliche rilevanti (come gli ospedali) vengono realizzati con un sistema di project financing all’italiana, che accolla allo stato i rischi d’impresa e consente ai finanziatori privati di lucrare aumentando il costo dei servizi accessori. La privatizzazione di servizi pubblici rilevanti per la vita dei cittadini sul territorio (come i trasporti ferroviari) conduce a privilegiare i servizi ad alto prezzo e a ridurre sistematicamente i servizi a breve e medio raggio e a prezzo più contenuto.

Le stesse piazze, i luoghi che simbolicamente rappresentano più d’ogni altro luogo il carattere sociale della città come bene comune, e che sono all’origine dell’invenzione della città nella civiltà europea, hanno subito un progressivo degrado. Sul ruolo dello spazio pubblico è opportuno soffermarsi, per l’incidenza che ha nella protesta che genera il suo degrado, e quindi sulla formazione di una possibile ideologia alternativa.

Le piazze e gli spazi pubblici

Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla romana fino alla città del medioevo e del rinascimento, decisivo è stato il ruolo delle piazze, come il luogo dell’incontro tra le persone e come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Erano i fuochi dell’ordinamento spaziale e simbolico della città. I luoghi dove i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità, dove celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città. Una città senza le sue piazze e i suoi palazzi destinati ai consumi e ai servizi comuni era inconcepibile, come un corpo umano senza scheletro.

Nell’idea e nella realtà che la storia ha consegnato ai contemporanei gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti: tutti gli abitanti possono fruirne, indipendentemente dal reddito, dall’età, dell’occupazione. E sono il luogo dell’incontro con lo “straniero”.

Nel XIX e XX secolo il movimento di emancipazione del lavoro, che nasce dalla solidarietà di fabbrica, si è esteso a tutta la città. Il governo della città non è stato più solo dei padroni dei mezzi di produzione: è cresciuta la dialettica tra lavoro e capitale, è nato il welfare state. I luoghi delle funzioni comuni si sono arricchiti di nuove componenti: le scuole, gli ambulatori e gli ospedali, gli asili nido, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere sono stati il frutto di lotte nelle quali le organizzazioni della classe operaia hanno gettato il loro peso. L’emancipazione femminile ha accresciuto ulteriormente il ruolo degli spazi pubblici destinati ad alleggerire il lavoro casalingo delle donne.

Oggi tutto questo è cambiato. In Italia gli standard urbanistici, lo strumento di base per ottenere una quantità ragionevole di aree da dedicare agli spazi, alle attrezzature, ai servizi d’interesse comune, sono in decadenza: se ne propone addirittura l’abolizione. Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.

Alle piazze reali, caratterizzate dall’essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana, si sono sostituite le grandi cattedrali del commercio, caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’obbligo implicito di ridurre l’interesse del frequentatore all’acquisto di merci (per di più sempre più superflue). La piazza, luogo dell’integrazione, della varietà, della libertà d’accesso, è sostituita dal grande centro commerciale, dall’outlet, dall’aeroporto o dalla stazione ferroviaria (da quelli che sono stati definiti “non luoghi”). Parallelamente il cittadino si riduce a cliente, il portatore di diritti si riduce a portatore di carta di credito.

Il legame di continuità tra spazio privato e spazio pubblico egualitario (aperto al ricco e al povero, al cittadino e al foresto, al giovane e al vecchio), già messo in crisi dalla zonizzazione sociale del razionalismo, è definitivamente spezzato dalla segregazione delle gated communities e dell’emarginazione dei diversi. Le regole sono scavalcate dalle deregulation progressivamente estesa a ogni dimensione della pianificazione. La fabbrica è devastata dal ricorso sempre più massiccio ed esclusivo al lavoro precario. L’abitazione non è più un diritto che deve essere assicurato a tutti, indipendentemente dal reddito o dalla condizione sociale. Ognuno è solo al cospetto del mercato, e di un mercato caratterizzato dall’incidenza crescente della rendita.

Lo spazio pubblico e la democrazia

Spazi pubblici e spazio pubblico: due concetti collegati, ma distinti. Quello che definisco spazio pubblico della città non consiste solo nei luoghi fisici dedicati alle funzioni collettive. Non si tratta solo delle piazze e delle scuole, dei municipi e dei mercati, delle chiese e delle biblioteche, de parchi pubblici e delle palestre. Si tratta anche dell’uso che di questi luoghi viene promosso e garantito, e si tratta della possibilità di ciascuno (quindi di tutti) di concorrere alle decisioni. Si tratta, in altri termini, non solo di urbanistica ma anche di equità e di democrazia.

La possibilità e la capacità di incidere sul processo delle decisioni sulla città è un requisito che sempre più fortemente è stato richiesto nel corso della storia. E ho accennato al fatto che negli anni Sessanta la “democrazia di massa”, che aveva caratterizzato la vita politica italiana fin dal dopoguerra, non era più considerata sufficiente: come si fosse aperta – soprattutto dopo il Sessantotto studentesco e operaio - la domanda di una più intensa partecipazione dei soggetti al processo delle decisioni: una domanda che si era tradotta nelle prime esperienze dei “consigli”, formatisi direttamente nei luoghi del lavoro (la fabbrica), dell’apprendimento (la scuola), della vita urbana (il quartiere).

Queste esperienze rimasero isolate e s’insterilirono. Ma se osserviamo quanto è accaduto nei decenni più recenti scopriamo che la democrazia, invece di fare passi avanti, ha fatto – almeno in Italia – poderosi passi indietro, rispetto agli stessi principi della democrazia liberale. Il destino della città non è più pensato come qualcosa che è ancora – sia pure imperfettamente – nelle mani dei cittadini e dei loro eletti. Sempre di più la governabilità (nuova parola chiave) prevale sulla democrazia. Agli organi collegiali (il consiglio comunale o provinciale o regionale) si è sostituito il potere del “capo” (sindaco o presidente della provincia o della regione o del governo). Dalle istanze nelle quali è presente, con facoltà di conoscenza e di controllo, anche la minoranza, il potere è stato trasferito in quelle dove solo la maggioranza ha tutti i diritti. E si è trasferita la responsabilità di decidere sempre più a organismi esterni alle istituzioni democratiche: a “commissari” investiti di pieni poteri, anche di deroga alla legislazione esistente, e alle aziende private.

3. DOMANI

UNA NUOVA IDEOLOGIA: LA CITTÀ COME BENE COMUNE

La speranza dei movimenti

Come riprendere oggi un cammino che consenta di restituire al popolo qualcosa che abbia la dignità di essere definito “diritto alla città”? E quale idea di città, esprimibile in una frase semplice e semplicemente comprensibile, può riassumere oggi i contenuti di quel “diritto”? Questa è l’ultima parte – la più difficile – del mio intervento.

Partiamo dalle cose. Se si conviene che l’idea di città proposta e praticata dal neoliberismo sia insoddisfacente, che l’ideologia che la sorregge debba essere contrastata e sostituita, che per l’habitat dell’uomo (perché a questo ci riferiamo quando parliamo di “città” al di là degli esempi consegnatici dalla storia) debba essere individuato un diverso futuro, allora dobbiamo riferirci a ciò che resiste alle attuali tendenze e cerca di opporsi e di proporre delle alternative. Guardando alla società possiamo dire che il punto di partenza può essere costituito dalla miriade di episodi che nascono spontaneamente, che esprimono sofferenze individuali che però appartengono a moltissime persone, che si traducono spesso in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta). “Dentro queste nuove esperienze – ha scritto un uomo che viene dalla letteratura e dalla politica e che si è immerso nel movimento ambientalista - circola una gran quantità di energie nuove, diverse, provviste di un pensiero forte. Lo stesso potrebbe dirsi delle associazioni nel campo dei diritti civili”[23].

Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti. Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità. La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche. Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti; difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro. La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale. La privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.

Questi temi toccano direttamente l’esperienza di vita dei cittadini. Meno direttamente la toccano altri temi, che pure hanno sollecitato un movimento molto vasto, che costituisce il tessuto connettivo tra moltissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva. Mi riferisco al movimento che tenta di contrastare il consumo di suolo: la trasformazione sempre più estesa di terreni naturali, spesso caratterizzati da una buona agricoltura o da piacevoli paesaggi rurali, in aree urbanizzate dalla speculazione immobiliare o dall’abusivismo.

Il consumo di suolo è molto esteso in Italia. Esso è considerato particolarmente grave perchè in Italia, a differenza che in altri paesi europei, le aree pianeggianti e di fondo valle (che sono quelle più interessate dalla trasformazione in cemento e asfalto) sono una porzione molto limitata del territorio nazionale, perché il territorio è ricchissimo di testimonianze storiche disperse per ogni doive, e perché sono del tutto assenti politiche governative e regionali tendenti a contrastarlo. Fino a pochi anni fa la stessa cultura accademica ignorava il fenomeno e la sua entità. Oggi, a parole, il consumo di suolo è criticato da tutti, ma solo un ampio movimento popolare ha intrapreso una lotta conseguente[24].

E insieme a questi temi, direttamente legati al territorio e ai beni comuni materiali, quelli dei diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.

Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione di quel ragazzo della Scuola di Barbiana, nelle colline tra Firenze e Bologna, quando disse che aveva compreso una cosa decisiva: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica»[25]. É la stessa molla che spinse i proletari in fabbrica a diventare forti utilizzando l’unico strumento che potevano opporre alla proprietà del capitale: la solidarietà dei possessori della forza lavoro. Allora il luogo nel quale il conflitto si svolgeva era di per se stesso tale da spingere alla solidarietà: era la fabbrica. Oggi l’habitat dell’uomo è un luogo nel quale è pervasiva la tendenza alla dispersione, alla frammentazione, alla segregazione.

C’è un concetto allora, al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato, sul quale si può (e si deve) far leva: occorre che la città (e per estensione l’intero habitat dell’uomo) sia considerato un bene comune. Ma su questa parole converrà soffermarsi.

Città come bene comune

Per comprendere il significato dell’espressione “città bene comune” è utile riflettere su ciascuna delle tre parole che la compongono.

Città

Nell’esperienza europea (ma probabilmente nell’esperienza storica di tutte le civiltà del mondo) la città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città non è un aggregato di case, è la casa di una comunità. Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.

Bene

Dire che la città è un bene significa affermare che essa non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per comprendere la moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi, e anzi per certi versi opposti, di vedere e vivere gli stessi oggetti.

Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.

Un bene, invece, è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.

Comune

Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.

Il termine “comune” presenta peraltro una possibile declinazione negativa, più esplicito nel termine derivato “comunità”. Una comunità è una figura sociale che include (i membri di quell’organismo comune) ma contemporaneamente esclude (gli altri). Né questa declinazione può essere risolta sostituendo a “comune” il termine “collettivo”. É opportuno allora precisare il termine comune” (e “comunità”) con una ulteriore precisazione. Nell’esperienza della vita contemporanea ogni persona appartiene, di fatto, a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera quotidianamente. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande.

Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo, cittadino del mondo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.

Quali soggetti nella “città globale”

Nella città l’eguaglianza è sempre stata l’obiettivo di una dialettica mai placata. Sempre vi sono state differenze, più o meno profonde, tra i soggetti che l’abitavano. Differenze tra le diverse categorie di soggetti in relazione alla produzione della città (basta pensare a quelle tra i proprietari di fondi e di edifici e i non proprietari), e differenze in relazione all’uso della città (nell’accesso alle sue diverse parti e componenti, nella scelta tra usi alternativi delle risorse destinate al suo governo). Perciò la città è stata sempre anche il luogo dei conflitti, nei quali le categorie più svantaggiate hanno tentato di raggiungere un livello accettabile di soddisfacimento delle loro esigenze.

Possiamo dire che una città giusta è quella nella quale vi è un ragionevole equilibrio delle condizioni offerte ai diversi gruppi sociali, e nelle quali tendenzialmente a ciascuno è dato di partecipare in modo equo all’uso del bene città e delle sue componenti, e a concorrere in condizioni d’eguaglianza al suo governo.

É probabile che questo obiettivo non sia mai stato raggiunto in modo compiuto. Sembrava che vi si fosse vicini nell’età del welfare, almeno in quella parte del mondo nella quale le virtù del sistema capitalistico borghese avevano condotto a un ragionevole equilibrio tra le forze antagoniste presenti al suo interno, esportando nel mondo dello sfruttamento coloniale le contraddizioni. Oggi sembra che il mondo se ne stia allontanando sempre più.

La tendenza generale sembra infatti quella di un’accentuazione di tutti gli squilibri tra ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori. Tra i due estremi dell’opulenza e della miseria aumenta la casistica delle differenze con una forte propensione al moltiplicarsi di enclaves e recinti, ciascuno dei quali racchiude gruppi sociali diversamente dotati di accesso ai beni ma ugualmente rinchiusi nella loro incapacità di comunicare con gli altri in termini di comprensione, condivisione, cooperazione.

Essi sono però uniti da un comune destino costituito da due elementi. Da un lato, dal fatto di appartenere tutti al medesimo pianeta, le cui risorse appaiono sempre più limitate, e sono contese tra utilizzazioni alternative, dove prevalgono quelle che privatizzano e commercializzano i beni comuni. Dall’altro lato, dal fatto di appartenere a un habitat (e a un’economia) nel quale la tradizionale dimensione del “locale” è sempre più integrata da una dimensione “globale”, che lega tra loro i diversi “locali” in un sistema sempre più governato da attori lontani e irraggiungibili: da un pugno di uomini dotati di poteri invincibili.

L’habitat dell’uomo appare insomma sempre più caratterizzato dalla integrazione di differenti luoghi, ciascuno con la propria storia, le proprie tradizioni, le proprie peculiarità, i propri conflitti, ma tutti legati tra loro dall’essere funzionali a un unico processo di sfruttamento economico e a un unico sistema territoriale. Un sistema territoriale che Saskia Sassen ha definito “città globale”[26], del quale due elementi essenziali garantiscono la sopravvivenza e la funzionalità. Da un lato, “l’infrastruttura globale”, cioè l’insieme delle reti tecnologiche, dei luoghi eccellenti, delle attrezzature di livello mondiale che garantiscono la vita e le attività dei gruppi sociali che detengono il potere. Dall’altro lato, i flussi dei popoli e dei gruppi sociali che la miseria ha “liberato” dalla possibilità di risiedere nei luoghi della loro origine, proseguendovi le attività tradizionali, e ha ridotto così a mera forza lavoro disponibile, e perciò sono idonei a essere utilizzati nei luoghi dove è più opportuno sfruttarne il basso costo.

Tra gli uni e gli altri, tra gli abitanti della “infrastruttura globale” e quelli del “pianeta degli slums[27]”, vive e consuma la massa del “terzo strato”: di quell’insieme di ceti e gruppi che appartengono alla cultura dei padroni, che sono indotti a condividerne l’ideologia e i valori, che aspirano a sedersi anche loro al desk dove si decide e, soprattutto, a condividere i livelli di remunerazioni e i benefici concessi agli abitanti del “primo strato”. Il loro destino oscilla tra il timore di essere gettati tra i poveri da una delle crisi ricorrenti, e la speranza di essere promossi ottenendo una promozione o vincendo qualche premio alla ruota della fortuna. Di fatto, essi costituiscono per i gruppi dominanti un tessuto sociale di protezione nei confronti della moltitudine dei più deboli e più sfruttati, dai quali è sempre possibile aspettare l’insorgenza.

Se questa rappresentazione della città di domani (che è già presente tra noi) è condivisibile, allora il concetto di “diritto alla città”, così com’è stato elaborato nel corso del secolo scorso, richiede oggi un impegno del tutto particolare, poiché sollecita ad affrontare la questione nel quadro della globalità che oggi la caratterizza. Oggi non è più sufficiente perseguire l’equità all’interno di una delle numerose “città”, o tipi di città, della tradizione, ma occorre cercarla nell’insieme dell’habitat dell’uomo, rompere le barriere tra i diversi strati che lo compongono la “città globale. E il tentativo di perseguire l’equità a questo livello non potrà condurre a risultati soddisfacenti se non si terrà conto, insieme a ciò che unisce, anche di ciò che divide: della grande diversità delle condizioni culturali e materiali tra le varie realtà locali che compongono il “globale”.

Non è insomma in un archetipo della vita urbana che si potranno trovare i riferimenti esclusivi di un nuovo paradigma, ma solo nell’attenta ricerca di ciò che – all’interno di tutte le storie, le culture, le tradizioni che hanno caratterizzato i popoli e i luoghi del mondo – costituisce un insegnamento da applicare per costruire, utilizzando le rovine delle vecchie, una nuova città pienamente umana.

Riconquistare la storia e lo spazio pubblico

La città della tradizione non è ancora scomparsa. Sul terreno non sono rimaste solo rovine. C’è anche vita, speranza, e quindi germi di un possibile futuro. Ne ho indicati i segni nelle tensioni sociali che nascono un po’ dappertutto per resistere alla dilapidazione del beni comuni, nelle vertenze aperte per difendere lo spazio e gli spazi pubblici che la globalizzazione neoliberista sta divorando, nei tentativi di ricostruire una nuova socialità – e una nuova politica – dal basso. É da qui bisogna partire.

Beni e valori comuni, spazi e spazio pubblico, funzioni collettive: questo è il punto di partenza segnalato da ciò che si muove nella società. Ed è questo, in definitiva, che la storia ci indica.

Se si vuole costruire un futuro diverso dal presente è dalla storia che bisogna partire. “Historia magistra vitae”, la storia è maestra della vita. Proprio per questo quei poteri che vogliono che le cose rimangano come sono hanno tentato di cancellare la storia (la consapevolezza del nostro passato, delle radici di ciò che siamo e quindi dei germi di ciò che saremo) dalla nostra memoria. Recuperare la memoria, recuperare la storia: questo è ciò che è innanzitutto necessario per contrastare chi vuole appiattire l’uomo sul suo presente, per inculcargli la convinzione che nulla è modificabile, perché tutto ciò che è stato è quello che sarà, ed è tutto già cristallizzato in un presente immodificabile.

La storia – e le lotte di oggi – ci danno un’indicazione precisa: partire dalla difesa e dalla riconquista dello spazio pubblico. In tutti i suoi aspetti. Poiché è spazio pubblico la piazza, sono spazio pubblico le aree destinate alle funzioni collettive, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane e la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa.

Il compito dell’urbanista

Per un urbanista l’obiettivo della difesa e riconquista dello spazio pubblico pone una molteplicità d’impegni. Il primo , nella situazione di oggi, è quello della difesa del metodo e dello strumento della pianificazione in quanto tale. Senza una visione olistica e di lungo periodo del territorio e delle sue trasformazioni non è possibile realizzare una città equa e umana: non è possibile garantire un futuro nel quale il diritto alla città sia realizzato.

Non basta però una qualsiasi pianificazione. É necessaria una pianificazione che abbia come suoi obiettivi non il privilegio degli interessi immobiliari, né la crescente “valorizzazione economica” del territorio, né lo “sviluppo dell’urbanizzazione” indipendentemente dalle sue finalità, ma il benessere delle popolazioni presenti e future in termini di salute, di accesso alle risorse e a tutti i beni comuni sia naturali che storici. Una pianificazione che assuma tra i suoi compiti principali (se vogliamo contrastare ciò di più negativo oggi accade) il contrasto al consumo di suolo e delle altre risorse naturali limitate, e il soddisfacimento, nell’organizzazione della città e del territorio, delle esigenze collettive dell’abitazione, dei servizi, della mobilità in condizioni di equità per tutti gli abitanti. Una pianificazione che abbia al suo centro la ricerca dell’equità nella dotazione dei servizi , nella libertà dell’uso e dell’accesso agli spazi della vita e delle funzioni collettive indipendentemente dalle condizioni sociali, culturali, economiche, della razionalità nella disposizione delle cose sul territorio, della bellezza nella definizione dei nuovi paesaggi e nella conservazione di quelli esistenti.

Si tratta allora per gli urbanisti – almeno in Italia - di cambiare molto rispetto alle attuali tendenze culturali. Più che tecnici al servizio degli interessi attuali e futuri della maggioranza della popolazione gli urbanisti sono oggi ridotti alla condizione di “facilitatori” degli interessi immobiliari, di “negoziatori” tra le aspettative dei proprietari e utilizzatori di aree da “sviluppare” con l’urbanizzazione indipendentemente dalle priorità sociali, di operatori abili a “perequare” gli interessi dei proprietari immobiliari e del tutto indifferenti alle ben più gravi sperequazioni tra persone, gruppi sociali e classi che abitano la città.

Ma pianificazione significa anche partecipazione dei cittadini al governo del territorio, alle decisioni che concorrono a realizzare le condizioni della vita futura. Perciò lavorare in questa direzione significa anche impegnarsi nel tentativo di espandere le democrazia (la capacità e possibilità di tutti di concorrere alla costruzione del bene comune) al di là dei limiti della democrazia rappresentativa e dell’istituto della delega permanente. Significa allora dare a tutti la possibilità concreta di essere liberi di partecipare alla vita pubblica, rendendo indipendente la libertà dalla proprietà[28].

Significa perciò anche costruire una nuova economia, nella quale il lavoro non sia alienazione (nel senso di ordinamento ad altro da sé) e riduzione dell’attività dell’uomo a merce, ma sia “lo strumento, peculiarmente umano, attraverso cui l’uomo raggiunge i suoi fini”[29]. Ma qui si apre un discorso che andrebbe ben al di là del tema di questo contributo, e di questo stesso fascicolo.

[1]Vezio De Lucia, Se questa è una città. La condizione urbana nell’Italia contemporanea, Roma, Donzelli, 2006, p. 5

Ideologia è un termine screditato: uno dei tanti di questi anni carichi di “revisioni” tese a cancellare la memoria del passato per rendere il presente funzionale agli interessi dominanti.

Certo, «se si intende per “ideologia” un credo cieco e catechistico» sarebbe stato bene lasciar estinguere quella parola e, soprattutto, la prassi che esprime, e attribuire al termine “ideologico” un significato negativo. Ma ideologia significa un’altra cosa. Essa infatti, per adoperare termini semplici e chiari, è «quell’insieme di credenze condivise da un gruppo e dai i suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali» (T. A. Van Dijk, Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Carocci, Firenze 2004).

Screditare quel termine è stata, in Italia, un’operazione culturale che ha voluto cancellare un preciso fatto storico: che l’ideologia è stata, nei decenni che hanno preceduto il neoliberalismo, «quel sistema di ideali e di valori grazie ai quali la politica si è mossa in vista di interessi generali e di obiettivi di largo respiro» (A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2009).

Sostenere che l’ideologia è morta, rendere il termine sinonimo di “dogmatismo” e “preconcetto”, ha aiutato a inculcare l’idea (e la prassi) che la politica è pura amministrazione. E quando la politica si riduce a pura amministrazione, la gestione della macchina prevale sugli obiettivi la macchina dovrebbero guidare. La politica diventa gestione del potere fine a sé stessa: gli unici iteressi da servire sono quelli di chi della politica è il gestore.

E significa, soprattutto, lasciare libero campo all'ideologia dominante, cancellando il diritto di altre ideologie a presentarsi, essere discusse affermarsi.

Un commento all'articolo di Barbara Spinelli su "la Repubblica", da "il manifesto" del 18 ottobre 2011

"L'Unità", 16 ottobre 2011. Anche qui in eddyburg.

Altan "la Repubblica", 13 ottobre 2011

Dalle cronache sulla manifestazione di Libertà e giustizia a Milano

In eddyburg

"La Repubblica", 25 maggio 2010

Intervista, Corriere della sera, 21 settembre 2011

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