Due aspetti del rapporto tra pubblico e privato
Il tema che mi è stato affidato è il nocciolo duro della questione urbanistica. Anzi, è la ragione che sta alla base della moderna pianificazione urbanistica. Questa infatti nasce, all’inizio del XIX secolo, all’apice del trionfo dell’economia capitalistica e nel cuore della società borghese, quando ci si rende conto che il mercato non riesce a risolvere i problemi che nascono nella città per effetto della sua crescita e dell’impetuoso sviluppo della produzione. Non solo la bellezza, ma la stessa efficienza dell’ambiente della vita e del lavoro degli uomini e delle aziende è minacciato dal caos inevitabilmente provocato dallo spontaneismo.
Mi sembra che il rapporto tra pubblico e privato sia oggi rilevante, nel nostro paese, per due aspetti: l’aspetto del potere e delle responsabilità, l’aspetto dell’economia e dell’impiego delle risorse.
I due temi sono stati sempre connessi, in modo più o meno esplicito, nelle vicende dell’urbanistica italiana. Rispetto agli altri paesi europei siamo arrivati tardi a disciplinare il modo di intervenire nel governo della città. Ma già la legge urbanistica del 1942 esprime in modo chiaro una scelta di campo decisiva su entrambi i punti:
(1) la responsabilità, e quindi il potere, di disegnare l’assetto della città spetta al governo pubblico e alle sue istituzioni; su questo principio è disegnato infatti l’intera impalcatura della pianificazione e delle sue procedure;
(2) in relazione a questo suo potere/responsabilità il governo pubblico ha la facoltà di sottrarre al mercato, tramite i collaudati meccanismi espropriativi messi a punto dalla borghesia nel corso del XIX secolo, le aree necessarie alle trasformazioni urbane.
Nel dopoguerra, superata la fase critica della Ricostruzione, si commise probabilmente un errore: invece di sviluppare le potenzialità della 1150/1942, si progettò un disegno che voleva essere interamente nuovo: la “riforma urbanistica”. confitto il tentativo di Il ministro democristiano Fiorentino Sullo propose una legge ispirata ai modelli di regioni europee non dominate dalla rendita fondiaria. Il suo tentativo fu sconfitto da quello che Valentino Parlato definì “il blocco edilizio”[i]. Infranto quel tentativo di modernizzazione si procedette comunque a un processo di completamento dell’edificio fondato sulla 1150/1942 attraverso alcuni passaggi decisivi.
Una stagione di riforme
Da testimone – sia pure molto marginale – di quegli anni posso dire che la sostanza della proposta Sullo era comunque quella che ispirò i diversi passaggi di quel faticoso processo di riforma, che si sviluppò, grosso modo, dal 1962 (la legge per favorire l’acquisizione delle aree per l’edilizia economica e popolare) al 1978 (equo canone e piano decennale per l’edilizia pubblica). Con qualche passo avanti rispetto alla stessa proposta Sullo.
Ribadita l’obbligatorietà della pianificazione urbanistica e territoriale, estesa quest’ultima al livello nazionale (i “lineamenti dell’assetto territoriale nazionale” del DPr 616/1977), arricchito l’armamentario della pianificazione attuativa (con i PEEP, i PIP e i Piani di recupero), introdotto (con gli standard urbanistici) il fondamentale principio del diritto dei cittadini a disporre di spazi adeguati per le strutture del “consumo comune”, si era intervenuti nella regolazione del rapporto pubblico/privato in tre aspetti di grande rilevo:
(1) si era stabilita la perequazione tra i proprietari privati negli ambiti di trasformazione lasciati all’iniziativa dei privati proprietari,
(2) si era superata l’impostazione ghettizzante dell’edilizia per i ceti meno abbienti, segregata in parti della città “specializzate” e sottodotate di elementi di qualità e di servizio, per dar luogo a quartieri caratterizzati dall’integrazione sociale, da adeguate dotazioni di servizi e dal regime pubblico dei suoli:
(3) si era introdotto il meccanismo del convenzionamento dell’edilizia, che – negli ambiti nei quali le aree erano preventivamente acquisite alla proprietà pubblica – avrebbe consentito di impedire il trasferirsi della rendita dall’area alla costruzione;
(4) si era messo a punto un meccanismo di amministrazione del prezzo delle locazioni che avrebbe potuto incidere significativamente sul valore della rendita immobiliare in tutto lo stock consolidato.
Da un lato, insomma, si era ribadito che il progetto della città doveva essere deciso dall’espressione rappresentativa della collettività, dagli istituti del potere pubblico democratico; dall’altro lato, si erano predisposti gli strumenti capaci di incidere sulla rendita immobiliare.
Si trattava di principi e di strumenti. Le leggi non potevano prescrivere che chi governava avesse la volontà politica di applicarle coerentemente. Quel “blocco edilizio” che aveva sconfitto il tentativo di Fiorentino Sullo non era stato dissolto.
Un momento in verità ci fu, in cui apparve possibile farlo. Fu quando nel paese si aprì uno scontro politico e sociale forte a partire dalla questione della casa e dei servizi. Ricordo lo sciopero generale nazionale per la casa, i servizi, i trasporti (novembre 1969), e ricordo le dichiarazioni dei padroni della FIAT, esponenti di quella borghesia capitalista moderna di cui oggi Corsero di Montezemolo si proclama il leader. Le dichiarazioni di Gianni Agnelli e di Umberto Agnelli vanno ricordate oggi, per sottolineare la distanza che ci separa da quel clima.
Nell'autunno del 1972 - con una intervista al settimanale Espresso e con un documento pubblico mandato al presidente del Consiglio - i due fratelli Agnelli, padroni della Fiat, entrarono direttamente nell'argomento. Affermava Gianni Agnelli:
“Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire (...) Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza”.
Ancora più reciso nelle sue formulazioni anche l'altro Agnelli, Umberto, l'amministratore delegato della Fiat:
“Per risolvere la crisi dell'edilizia e la carenza degli alloggi non bisogna fare marcia indietro sopprimendo la legge 865 per la politica della casa. La legge non ha dato buona prova, non perché fosse errata nei suoi presupposti, ma perché è risultata carente di strumenti operativi. Occorre quindi emendare con urgenza la legge, senza negarla peraltro nei suoi presupposti e nelle sue motivazioni, così da farne il punto di partenza per una organica politica della casa. In particolare occorre aumentare la responsabilità della Regione dandole un potere generale di surroga dei comuni inadempienti (...) Quanto alla polemica fra proprietà e affitto della casa, riemersa di recente, va chiarito che ammettere la proprietà della casa non è una concessione alla rendita e che questa, combattuta e eliminata nell'esproprio del terreno, non ha possibilità di risorgere a valle, quando la proprietà sia ottenuta nel quadro dell'edilizia convenzionale”
Interesse generale e rendita
La politica e la cultura di quegli anni erano basate su una concezione dell’interesse pubblico e su una concezione della rendita che è utile ricordare, per verificare quanto siano ancora vive nei soggetti che oggi animano la scena del governo e quella della governance.
Sul terreno della politica si riteneva che il compito di garantire la prevalenza dell’interesse spettasse alle istituzioni rappresentative nelle quali si esprimeva la prassi della democrazia. Si riteneva che la dialettica delle “parti” politiche, e degli interessi che ciascuna di esse rappresentava, fosse il modo per raggiungere la sintesi di una decisione la più vicina possibile a un “tutto” che fosse superiore alla somma aritmetica delle sue parti. E la politica veniva intesa come servizio alla collettività, non alle singole componenti della sua rappresentanza. Che l’interesse generale dovesse prevalere su quello di singoli gruppi e individui era un assioma indiscutibile: quella prevalenza era del resto la garanzia della tutela dell’interesse dei singoli, i quali dovevano avere essi stessi una prospettiva e una finalità “sociale”.
Sul terreno dell’economia si distinguevano nettamente le tre forme del reddito: salario, profitto e rendita. Al salario e al profitto veniva riconosciuto un ruolo pienamente sociale, utile all’avanzamento della società e al benessere dei suoi componenti. Al profitto si chiedeva – da parte delle forze politiche, non solo di sinistra, che si rifacevano ai movimenti dei lavoratori e ai principi del liberalismo – che producesse accumulazione, cioè reinvestimento nel processo produttivo per allargarlo; la dialettica era tra la quota della ricchezza da attribuire all’uno o all’altro, al salario e al profitto.
Per quanto riguarda la rendita essa era considerata, di per sé, una componente parassitaria della ricchezza della nazione. Veniva percepita e goduta dai soggetti che se ne appropriavano non in relazione a una funzione sociale, a un “lavoro” o a una “intrapresa” o a un “rischio”, ma unicamente alla circostanza di possedere un bene economico, cioè utile e scarso.
Della rendita immobiliare poi (fondiaria ed edilizia), e in particolare della sua componente differenziale, si sottolineava il fatto che essa non era comunque il risultato del lavoro del proprietario, ma del lavoro, delle decisioni e degli investimenti – attuali e storici – della collettività.
Che i padroni della più grande fabbrica italiana e massimi dirigenti della Confindustria si esprimessero nei termini che ho ricordato – pur senza essere sotto la minaccia della tortura – mi sembra significativo della condivisione ampia che queste convinzioni avevano raggiunto. E della distanza che separa il nostro oggi dal nostro ieri.
Dal Welfare State al Neoliberismo
La storia successiva, che inizia negli anni Ottanta, è infatti quella dello smantellamento della strategia costruita nei due decenni precedenti. È una vicenda che si inserisce in una storia più grande, che porta gran parte del mondo dall’assetto e dai principi che possiamo riassumere nelle figure di Franklin D. Roosevelt e di John M. Keynes a quelle che l’analisi di David Harvey effigia con le figure di Volckers, presidente della Federal Riserve, e di Margaret Tatcher, Ronald Reagan, Teng Shiao-ping: dal Welfare State, insomma, al neoliberismo.
In Italia, sul terreno che qui ci interessa, mi sembra che la fase più emblematica dell’inversione di marcia è compresa tra due momenti: quel fenomeno che fu definito Tangentopoli, e che esplose con l’inchiesta Mani Pulite, e quella vicenda culturale e legislativa che vide formarsi un largo consenso attorno alla legge che prese il nome dall’onorevole Maurizio Lupi.
Tangentopoli fu il rovesciamento secco della stagione di tensione riformatrice del modo di governare il territorio che aveva contrassegnato gli anni Sessanta e Settanta. Mani pulite non riuscì a innescare un processo di rinascita: provocò oggettivamente la crisi del sistema di potere in atto ma non provocò (una vicenda giudiziaria non poteva provocare) un processo alternativo virtuoso. La rivincita del privatismo sul comune proseguì il suo cammino. Si aprì una fase che ha visto i condoni dell’abusivismo urbanistico, lo svuotamento dei poteri locali e delle amministrazioni pubbliche, l’assunzione del mercato come misura di tutte le cose, la privatizzazione di fondamentali strumenti di una politica di welfare.
Un fenomeno particolarmente significativo di questa fase è stato costituito, all’inizio del Millennio, dall’arrogante espressione del mondo della rendita: i cosiddetti “immobiliaristi”. L’incremento della rendita immobiliare, promosso dalle pratiche di deregulation e di urbanistica contrattata, a cavallo del 2000 è stato così consistente da permettere a personaggi privi di spessore imprenditoriale di tentare la scalata a nodi rilevanti del sistema del potere economico e mediatico. Abbiamo potuto constatare allora come nel personale politico sia scomparsa del tutto quella distinzione, e quella valutazione differenziata, tra le tre forme di reddito costituite dalla rendita, dal salario, e dal profitto.
Dietro a questo fenomeno c’è però una realtà più profonda. C’è il fatto che la borghesia capitalistica italiana ha deciso di approfittare delle grandi occasioni di arricchimento consentite dall’appropriazione di rendite, finanziarie e immobiliari. Ingenti risorse e capacità affaristiche (non le chiamerei “imprenditive”) sono state spostate dall’attività industriale a quella finanziaria e immobiliare. All’assenza di una politica industriale (e della ricerca, che ne dovrebbe essere l’anima) ha corrisposto una grande attenzione dei politici alle vicende finanziarie e immobiliari. Possiamo dire che l’attenzione dei politici si è spostata dal salario e dal profitto alla rendita? Temo di si.
Sul terreno legislativo il documento più espressivo della fase che definirei del “neoliberismo urbanistico”è stata probabilmente la cosidetta “Legge Lupi”: in essa si proclamava, e lucidamente si perseguiva, l’obiettivo di privatizzare l’urbanistica, trasformandola da un’attività “autoritativa” (il termine viene adoperato con un chiaro intento dispregiativo), cioè di competenza del potere pubblico, a un’attività negoziale, cioè contrattata con la proprietà immobiliare[ii].
Una proposta positiva
In Parlamento giacciono oggi quattro proposte di legge. L’ultima presentata è quella di deputati dei gruppo DS e DL, sulla quale vorrei brevemente soffermarmi per tre ragioni: perché è quella più recente, quindi diene conto delle proposte avanzate precedentemente; perché è quella che copre lo spettro più ampio di argomenti, e probabilmente costituirà la base di un testo unificato; infine perché è presentata dal gruppo politico maggioritario. E’ il testo che ha come primo firmatario l’on. Raffaella Mariani, eletta in questa regione, e ha visto nella sua redazione un contributo consistente dei DS della Toscana.
La proposta Mariani recupera più d’un elemento della tradizione dell’urbanistica italiana, cancellata ope legis o lasciata cadere in desuetudine dalle pratiche recenti di “governo del territorio”. Rende esplicito il “principio di pianificazione”, con una formulazione efficace. Ribadisce la non indennizzabilità dei “vincoli ricognitivi”, cioè delle tutele poste per ragioni oggettive su parti del territorio dotate di qualità o soggette a rischi. Recupera gli standard urbanistici, sia pure con formulazioni non sempre convincenti. Ripristina alcuni strumenti caduti in desuetudine, come i “lineamenti fondamentali dell’assetto del territorio nazionale”. Riprende gran parte delle formulazioni sul contrasto al consumo di suolo della proposta di legge degli “Amici di eddyburg”.
Voglio sottolineare due punti della proposta Mariani che modificano rispetto a posizioni che precedentemente avevano ottenuto legittimazione culturale e politica da ambienti della sinistra: la perequazione urbanistica e i diritti edificatori.
Nella proposta:
(1) si riconduce la perequazione urbanistica a strumento attuativo della pianificazione urbanistica, e quindi se ne ripristina il ruolo di compensazione degli interessi immobiliari all’interno degli ambiti attuativi (il collaudato meccanismo dei piani di lottizzazione convenzionata);
(2) si sostituisce il termine impegnativo di “diritto edificatorio”, che compariva nelle precedenti stesure della legge, con il dal termine “previsioni urbanistiche”.
Parlare di “diritti edificatori” avrebbe significato rendere impossibile la cancellazione di previsioni urbanistiche ritenute eccessive, oppure aprire la strada alla necessità di trasferimenti di cubatura, compensazioni, e altre manovre profondamente discorsive per la definizione di un adeguato progetto di città. Ritenere che la facoltà di edificare prevista da uno strumento urbanistico dia luogo a un “diritto” del proprietario, anziché un “legittimo interesse”, sarebbe stato del resto in contrasto con tutta la legislazione e la giusrisprudenza elaborata dagli anni 60 in poi, come ho avuto modo in altra sede di dimostrare per tabulas.
“Concorrenzialità” per i proprietari immobiliari?
Tra i punti della proposta Mariani che sollevano perplessità e preoccupazione vorrei riprendere la questione già sollevata su eddyburg da Marco Massa. Si tratta del tema del ruolo del privato nell’attuazione della pianificazione operativa, affrontato dall’articolo 20, il cui titolo è “Concorrenzialità”. L’articolo ribadisce la “titolarità pubblica della pianificazione del territorio”, ma consente alle regioni di istituire “forme di confronto concorrenziale”, che possono essere rese addirittura “obbligatorie” per “promuovere e selezionare capacità e risorse imprenditoriali e progettuali private e pubbliche, garantendo pubblicità e trasparenza del processo, nonché un equo trattamento della proprietà e assicurando la coerenza con il piano strutturale”.
So che la pratica della gara per la scelta di soluzioni urbanistiche è stata introdotta anche in Toscana. Essa a mio parere si basa su un presupposto erroneo, e presenta rischi gravi per il quadro pianificatorio nel quale si inserisce.
Il presupposto erroneo è quello di non comprendere, o di voler trascurare, che la proprietà immobiliare non è l'impresa, e che è sbagliato voler introdurre regole proprie del mercato concorrenziale in un ambiente economico che del mercato concorrenziale ha poco o nulla. Nel governo del territorio la concorrenza ha senso se è tra le imprese: come poteva essere quando le aree su cui si costruiva erano di proprietà pubblica, com’era per l’edilizia residenziale pubblica o i servizi sociali. Dimenticare questo significa a mio parere restituire alla proprietà un ruolo di direzione nella definizione sia del progetto di città sia di programmazione della successione temporale degli interventi di trasformazione. È un passo indietro rispetto alla prassi – introdotta dalla legge 10/1977 e rapidamente cancellata dalle legislazioni regionali – della programmazione degli interventi di traformazione nel tempo.
Un vero pasticcio. L’unica certezza è che il bandolo della matassa, la facoltà di proporre e di guidare il gioco è della proprietà immobiliare.
Se almeno le pratiche concorsuali fossero inquadrate in una pianificazione strutturale sufficientemente precisa, accuratamente sorvegliata nella sua logica e nei suoi meccanismi interni, se la successione degli interventi di attuazione del piano fosse garantita in sede di strumento formato d’intesa tra comune, provincia e regione, se si ammettesse (come precisa la proposta Mariani) che le decisioni della pianificazione strutturali concernenti le tutele e le strategie sono “conformative della proprietà”, allora si potrebe ragionare. Ma non mi sembra che le cose stiano così.
Osserva Marco Massa che le prime sporadiche applicazioni sono discutibili, che in Toscana ci sono Regolamenti urbanistici che hanno aperto una complicata fase di trattative e altri che hanno introdotto norme ambigue come le “aree a previsione urbanistica differita”, per le quali l’approfondimento delle indicazioni del Piano strutturale (localizzazione delle edificazioni, degli spazi pubblici e delle infrastrutture, ripartizione delle funzioni, modalità di realizzazione) è rinviata al bando di avviso pubblico”.
Io credo che le trasformazioni della città, per il significato che hanno, per gli interessi sociali coinvolti, per le prospettive che devono aprire, debbano essere attribuiti, e fortemente gestiti, dal potere pubblico. E sono fortemente preoccupato di constatare che il principale soggetto di attenzione nella pianificazione e progettazione della città non è il cittadino e la sua partecipazione, ma la proprietà immobiliare.
Ancora sulla rendita e sulla questione della casa
La questione della casa sembra tornata all’attenzione della politica. Non è però affatto chiaro in che modo sarà sfrontata. Speriamo che non ci si limiti a costruire qualche nuovo quartiere “pubblico su pubblico”, destinato ai poveri. Abbiamo già sperimentato i ghetti e, con la legge 167/1962 abbiamo provato a superarli. Speriamo che con le risorse pubbliche non si agevoli l’affitto di patrimonio privato, ricorrendo al mercato immobiliare e alimentandolo ulteriormente. Abbiamo sperimentato anche questo e abbiamo visto che affidare l’affitto al mercato significa aggravare il problema. E speriamo che non si prosegua con la promozione dell’urbanizzazione di nuove aree in cambio di qualche agevolazione su una percentuale del nuovo costruito: sarebbe un errore grave dilapidare lo scarso territorio ancora non incrostato di cemento per un temporaneo sollievo a qualche fortunato.
Ho ricordato come tra il 1962 e il 1978 erano stati predisposti gli strumenti per una strategia complessa, che toccava tutti gli aspetti della questione: quartieri integrati, dotati di abbondanti servizi, risorse per l’edilizia a canone sociale, recupero edilizio finanziato e agevolato, programmazione statale e regionale sulla base dei fabbisogni comunali, governo dei canoni di locazione del patrimonio privato.
Quella strategia non va bene? Sostituiamola con un’altra, ma che sia alla medesima altezza. E che mantenga fede a tre principi non rinunciabili: 1. la casa, a un prezzo rapportato alle capacità di spesa, è un diritto per tutti; 2. l’intervento deve essere organico e deve promuovere integrazione sociale e qualità urbana; 3. la mano pubblica deve ricompensare il salario e il profitto, non la rendita.
Siamo tutti convinti che la rendita urbana non deriva (per adoperare le parole di Roberto Camagni) “da una prestazione produttiva specifica, ma da elementi del tutto esterni: dai processi generali di urbanizzazione della popolazione e delle attività, dalla prossimità delle infrastrutture di trasporto, di un ‘centro’ urbano, di altre attività collegate”. Quindi dovremmo impiegare le politiche urbane, a partire dalla pianificazione urbanistica, per ridurre la rendita immobiliare non per aumentarla.
E poiché la rendita è comprimibile ma non è eliminabile, bisognerebbe ricominciare a fare ciò che fece la buona borghesia, anche in Italia, tra la fine dell’800 e l’inizio del 900. Bisognerebbe lavorare sulla leva fiscale, e sulle altre leve del potere pubblico (statale, regionale e comunale) per far tornare alla collettività una parte consistente della rendita, che è prodotta dalla collettività, e non da altri.
Lo ricordava Eugenio Scalfari domenica scorsa: fu la Destra storica che “pagò attraverso l’imposta fondiaria il 52 per cento di tutte le entrate tributarie dello Stato nel periodo in cui governò, tra il 1861 e il 1876. Il 52 per cento”. E, aggiungon io, fu il governo Giolitti, non il Soviet, che prescrisse nel 1907 il sacrosanto principio per cui, in caso di espropriazione, si pagava al proprietario il valore immobiliare che aveva dichiarato a fini fiscali.
Non credo che sia un paradosso affermare che la rendita urbana, nella misura in cui non è eliminabile, è un bene comune. È da qui che bisognerebbe ricominciare a ragionare e decidere sul rapporto tra pubblico e privato.
[i] Valentino Parlato, Il blocco edilizio, in “il manifesto”, nn.3-4, 1970. Ora in: “Lo spreco edilizio”, a cura di F. Indovina, Marsilio, Padova 1972.
[ii] Rnvio all’ampia rassegna delle critiche sollevate alla legge, approvata nella XIV legislatura da uno solo dei due rami del Parlamento, contenuta negli scritti raccolti in Controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio», Firenze, Alinea editrice, 2005.
Premessa
Il mio obiettivo è di contribuire alla preparazione, con il dibattito di stamattina, della presentazione e discussione del libro No Sprawl, curato da Maria Cristina Gibelli e da me, edito da Alinea, che avverrà nel pomeriggio.
Vi racconterò alcune cose di carattere generale sullo sprawl e sulle ragioni per le quali secondo me bisogna innanzitutto contrastarlo. E vi parlerò di ciò che si propone in Italia per farlo.
Parleremo perciò di leggi, poiché in una materia quale la nostra le leggi sono lo strumento indispensabile per governare i rapporti tra interesse generale e poteri dei privati, dato che la proprietà immobiliare (la proprietà delle componenti elementari dello spazio, i suoli e gli edifici) è prevalentemente privata.
Esaminando le leggi che ci riguardano scopriamo che il termine “urbanistica” è stato sostituito dall’espressione “governo del territorio”. Mi interrogherò sulla ragione di questo spostamento e cercherò di spiegarlo.
Questo mi aiuterà anche a rispondere alla domanda finale: perché un gruppo di urbanisti si è dato da fare per elaborare, discutere e far presentare a qualche parlamentare un progetto di legge urbanistica, che ha al suo centro la lotta allo sprawl?
Spero che su questi argomenti quello che vi dirò solleciterà qualche discussione.
LO SPRAWL
Che cos’è
Se cerchiamo nella letteratura troviamo un gran numero di definizioni di un fenomeno che sta diventando sempre più preoccupante. Possiamo raggrupparle in diverse categorie:
- definizioni che attribuiscono al fenomeno il carattere di una mutazione della città, di una forma nuova della città cui peraltro si dà un significato negativo (ville éclaté = città esplosa, ville eparpillée = città sparpagliata, città diffusa)
- definizioni analoghe alle precedenti, che assumono però il fenomeno acriticamente, come registrazione di un evento indiscutibile (non assoggettabile a discussione), oppure addirittura come fenomeno positivo (osserva Cristina Bianchetti, in riferimento alla posizione di Bernardo Secchi, che per lui “non solo è vano, ma è male comprimere gli esiti territoriali di questo prepotente e rinascente individualismo”)
Preferisco adoperare termini che, a differenza dei precedenti, esprimano con chiarezza il concetto che il fenomeno è un fenomeno negativo, e che in quanto tale deve essere essere contrastato. Quindi preferisco definizioni le quali, pur senza prescindere dall’origine “urbana” del fenomeno, sottolineano il fatto che l’insediamento che ne nasce non ha i titoli per essere definito città. Termini come il francese étalement urbain (spalmatura urbana), o “diffusione insediativa” Mi sembra che il termine sprawl sia altrettanto efficace, nel suo significato di insediamento “sguaiatamente sdraiato” sul territorio.
I danni
Nel libro che discuteremo oggi pomeriggio troverete numerose testimonianze e descrizioni dello sprawl in Italia e all’estero. Qui vorrei sottolineare i danni di questo irrazionale sparpagliamento dell’insediamento sul territorio. Li distinguo nelle due categorie classiche della valutazione del portato negativo di un atto: il danno emergente e il lucro cessante.
Il danno emergente è certamente costituito dallo spreco di risorse pubbliche e dall’aumento del disagio sociale che esso provoca:
- l’aumento del rischio determinato dall’indifferenza della dispersione insediativa nei confronti delle caratteristiche proprie dei suoli,
- l’allungamento crescente del costo e del tempo dei trasporti,
- la ridotta funzionalità di tutte le reti e i servizi dell’urbanizzazione e la necessità di ricorrere a modi individuali di soddisfare esigenze di massa,
- la sottrazione al ciclo biologico di risorse insostituibili per l’equilibrio tra uomo e natura,
- l’indebolirsi dei legami cui è affidata la coesione sociale,
la distruzione di testimonianze preziose della storia e della cultura della nostra civiltà e di quelle che l’hanno preceduta,
- il danno estetico: dell’aggressione alla bellezza dei paesaggi, pesantemente guastati dai modi che assume la squallida edilizia della “città diffusa”.
Il lucro cessante è di duplice ordine.
Da un lato, vengono sottratte all’uso agricolo parti del territorio che storicamente erano finalizzate all’alimentazione della città: adibite a produzioni ortive e frutticole rese obsolete dal prevalere dell’agricoltura industrializzata, oggi di nuovo tornate alle fortune del mercato a causa della ricerca, sempre più diffusa, di consumi alimentari meno artefatti e più sani di quelli prodotti col largo impiego di manipolazioni chemiofisiche.
Dall’altro lato, la perdita di quella risorsa, indispensabile per elevare la qualità dell’habitat umano, e quindi anche per attirare residenti e visitatori, costituito dalla bellezza, dall’ordine, dalla civiltà – in una parola, dalla qualità – della città e del territorio sul quale vive.
Lo sprawl in Europa
Vedremo oggi pomeriggio (e vedrete nel libro che presenteremo) in che modo l’Europa combatte lo sprawl, e come negli stessi USA ci siano pratiche virtuose per contrastare fenomeni analoghi.
A me sembra che si debba innanzitutto segnalare come al di là delle Alpi il fenomeno sia molto meno vistoso e drammatico e diffuso di quanto non sia da noi. Direi che qui una certa dose di mancanza di controllo dell’espansione urbana c’è dappertutto, non solo nelle gigantesche “diffusopoli” che gli studi territoriali indagano dai tempi delle prime analisi di Giovanni Astengo e di Giuseppe De Matteis.
Basta sorvolare in aereo qualunque parte dell’Austria o della Germania o di molte regioni della Francia o della Gran Bretagna per osservare come lì ci sia un netto taglio che divide l’area urbana (di una città o un paese o un villaggio) e il territorio rurale. Non ci si può non domandare allora perché il Italia ci sia, da un lato, una diffusione così ampia del fenomeno e, dall’altro lato, un così grave ritardo nel contrastarlo.
Perché e come in Italia
Nel mio contributo al libro No Sprawl osservo che la sottovalutazione italiana non è priva di motivazioni forti: non è distrazione, è coerenza. Osservo che è coerenza con una concezione dell’economia che vede l’indicatore del progresso nella crescita quantitativa di qualsiasi entità prodotta (sia essa costituita da cibi, indumenti, farmaci, libri, oppure calce, mattoni, asfalto, oppure inutili orpelli, oppure ancora strumenti di distruzione e di morte), e con una pratica della politica che la vede serva di quella concezione dell’economia. (Vedi l’articolo di Pierluigi Sullo su Carta 7/2007 e l’editoriale di Carta 8/2007, entrambi su eddyburg.it)
Ed è coerenza con una connotazione specifica del nostro paese, che rende l’Italia diversa dalla maggior parte degli altri paesi europei: il fortissimo peso che ha, nella nostra economia e nella nostra società, la rendita immobiliare.
Nel valutare le condizioni del territorio e dell’economia in Italia non bisogna mai dimenticare l’incompiutezza della rivoluzione capitalistico-borghese nel nuovo Stato italiano, il compromesso che la borghesia del Nord strinse con la proprietà latifondista del Sud (e poi con l’aristocrazia all’ombra del Cupolone). È lì che sono le radici delle distorsioni parallele del territorio e dell’economia: la rendita fondiaria come componente rilevante della ricchezza della classe dirigente, lo sfruttamento del territorio a fini edilizi come sua “vocazione”.
Alla strategia implicita in questa distorsione di fondo è funzionale anche l’altra caratteristica dell’assetto economico-sociale del nostro paese: la forte spinta all’affermazione della proprietà privata in tutte le sue forme e articolazioni.
La proprietà privata non come premessa e base per l’invenzione di nuovi modi di produrre e di arricchirsi, ma come assicurazione contro le incertezze della vita, non come fattore di dinamismo ma come elemento di stabilità sociale. In termini più prossimi alla dialettica territoriale, la proprietà privata come formatrice di quelle “fanterie” che, aggregate attorno agli stati maggiori del ”blocco edilizio”, hanno impedito ogni riforma seria dei modi del governo del territorio.
CHE FARE CON LO SPRAWL?
Posizioni diverse
Credo che ciascuno di noi, nel valutare lo sprawl, debba innanzitutto compiere una scelta di campo, alla quale ho fatto riferimento all’inizio di questo ragionamento. È un fenomeno che vogliamo studiare proponendoci innanzitutto di interpretarlo, assecondarlo, correggerlo nei suoi effetti, mitigarlo? Diamo insomma per scontato che “è male comprimere gli esiti territoriali di questo prepotente e rinascente individualismo”?
Oppure, al contrario, riteniamo che l’impegno prioritario debba essere quello di comprimere decisamente “questo prepotente e rinascente individualismo”? È quest’ultima, ovviamente, la mia opinione.
Come contrastare lo sprawl
Molti progetti di legge in materia di urbanistica (o governo del territorio) sono stati presentati al Parlamento. Più d’uno dichiara la volontà di contrastare lo sprawl.
La proposta dell’on. Mantini e Jannuzzi della Margherita dichiara (articolo 5, comma 5):
“Il territorio non urbanizzato è edificabile solo per opere e infrastrutture pubbliche e per servizi per l’agricoltura, l’agriturismo e l’ambiente. Le regioni stabiliscono i casi di edificabilità, attraverso l’individuazione, per categorie generali, degli ambiti del territorio non urbanizzato”.
Quella che l’Unione, per iniziative dei DS, sta per presentare dichiara a sua volta, nella stesura del 28 dicembre 2006 (articolo 3, comma 6):
“L’utilizzazione di territorio non urbanizzato è ammessa solo quando non sussistano alternative derivanti dalla riorganizzazione funzionale dei tessuti insediativi esistenti e dalla sostituzione di parti dell’agglomerato urbano”.
Me nelle stesure successive l’affermazione sembra sostituita da indicazioni molto più blande.
Entrambe le proposte si limitano comunque a dichiarare l’intenzione e il principio, non precisano i termini dell’impegno richiesto al legislatore regionale né si preoccupano in altro modo dell’efficacia della dichiarazione di principio.
Come vedrete, nel libro No Sprawl, nel contributo di Luigi Scano, anche le legislazioni regionali si limitano a dichiarare, più o meno perentoriamente, il principio della tutela del territorio e della conseguente limitazione del consumo di suolo, ma non vi è nessun precetto di immediata efficacia o meccanismo pianificatorio che garantisca l’efficacia di questa perorazione.
La proposta di eddyburg
In appendice al libro No Sprawl è pubblicata una proposta di legge, elaborata da un gruppi di “Amici di eddyburg” che fu a suo tempo presentata a tutti i gruppi politici del centro-sinistra, e successivamente presentata al Senato da un gruppo di senatori di PRC, DS, PCdI e Margherita e alla Camera dai deputati di RC. Questa proposta contiene due ordini di indicazioni:
- da una parte, precetti rivolti al legislatore regionale, poiché rientrano negli argomenti che riguardano il “governo del territorio”, e quindi appartengono al novero della “legislazione concorrente”;
- dall’altra parte, precetti rientranti nelle specifiche competenze statali, quindi immediatamente efficaci sul territorio.
Vediamole distintamente.
In materia di legislazione concorrente
L’articolo 7 ha come titolo “Il contenimento dell'uso del suolo e la tutela delle attività agro-silvo-pastorali
La premessa è la dichiarazione che “nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti”.
Per concretare questo obiettivo le leggi regionali “assicurano che, sul territorio non urbanizzato, gli strumenti di pianificazione non consentano nuove costruzioni, né demolizioni e ricostruzioni, o consistenti ampliamenti, di edifici, se non strettamente funzionali all'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, nel rispetto di precisi parametri rapportati alla qualità e all'estensione delle colture praticate e alla capacità produttiva prevista, come comprovate da piani di sviluppo aziendali o interaziendali, ovvero da piani equipollenti previsti dalle leggi”.
Le leggi regionali devono anche stabilire che le trasformazioni consentite siano assentite previa sottoscrizione di apposite convenzioni nelle quali sia prevista la costituzione di un vincolo di inedificabilità, da trascrivere sui registri della proprietà immobiliare, fino a concorrenza della superficie fondiaria per la quale viene assentita la trasformazione, nonché l'impegno a non operare mutamenti dell’uso degli edifici, o delle loro parti, attivando utilizzazioni non funzionali all’esercizio delle attività agro-silvo-pastorali, e a non frazionare né alienare separatamente i fondi per la parte corrispondente all'estensione richiesta per la trasformazione ammessa.
Le leggi regionali devono anche disciplinare “le trasformazioni ammissibili dei manufatti edilizi esistenti“ escludendo la demolizione e ricostruzione; devono prevedere “la demolizione senza ricostruzione dei manufatti edilizi già utilizzati come annessi rustici, qualora perdano la destinazione originaria”, come è già previsto dalla legislazione toscana; infine, “possono disporre ulteriori limitazioni, fino alla totale intrasformabilità, in relazione a condizioni di fragilità del territorio, ovvero per finalità di tutela del paesaggio, dell'ambiente, dell'ecosistema, dei beni culturali e dell’interesse storico-artistico, storico-architettonico, storico-testimoniale, del patrimonio edilizio esistente”.
In materia di competenze esclusive dello Stato
Non abbiamo voluto limitarci a prescrivere regole perché le leggi regionali e poi la pianificazione comunale provvedessero alla tutela delle aree rurali attraverso particolari contenuti della pianificazione. Abbiamo voluto introdurre un altro elemento, per assicurare un’efficacia immediata alla volontà di limitare il consumo di suolo. Abbiamo proposto che all’elenco delle categorie di beni paesaggistici tutelati ope legis (inizialmente dalla legge Galasso del 1985, e poi via via dalle varie stesure del Testo unico e adesso del Codice del paesaggio, alle varie categorie dei beni tutelati ope legis (i boschi, le coste, i corsi d’acqua ecc.), si aggiungesse il territorio rurale.
Quindi l’articolato propone che alle varie lettere, alle varie categorie di beni da tutelare, si aggiunga anche “il territorio non urbanizzato sia in prevalente condizione naturale sia oggetto di attività agricola o forestale".
Si dispone poi che “i comuni, d'intesa con la competente soprintendenza, individuano, nell'ambito dei rispettivi strumenti di pianificazione, il territorio” di cui sopra. Fino ad allora il territorio vincolato “coincide con l’insieme delle zone di cui alla lettera E) dell’articolo 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444”. Naturalmente l’utilizzazione di quei territori per “realizzare nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali può essere definita ammissibile, nei nuovi strumenti di pianificazione, d’intesa con la competente soprintendenza, soltanto ove non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture o attrezzature esistenti”. Infine, “il piano paesaggistico prevede obiettivi e strumenti per la conservazione e il restauro del paesaggio agrario e non urbanizzato", e “fino all’adeguamento delle leggi regionali” e fino “all’entrata in vigore dei piani paesaggistici”, “all’eventuale adeguamento degli strumenti urbanistici, è vietata ogni modificazione dell’assetto del territorio, eccezione fatta per quelle finalizzate alla difesa del suolo e alla riqualificazione ambientale”.
QUALCHE SPUNTO SUL NOSTRO MESTIERE
Dall’”urbanistica” ...
Nelle leggi nazionali non si parla più di “urbanistica”. Si parla di “governo del territorio. Ho cercato di capire a che cosa corrispondesse questa sostituzione di termini: che cosa si intendesse per urbanistica nella legislazione nazionale dal 1942 e in poi, e che cosa si intenda per “governo del territorio” dal 2001 in poi.
Partiamo dalla legge madre dell’urbanistica italiana,la 1150 del 1942. L’articolo 1 definisce la “Disciplina dell’attività urbanistica e suoi scopi”:
“L’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio del Regno sono disciplinati dalla presente legge. Il Ministero dei lavori pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo”.
Arriviamo alla definizione di urbanistica dell’articolo 80 del DPr 616 del 1977:
“Le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernono la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”.
Osserviamo il profondo cambiamento tra la formulazione del 1942, limitata ai centri abitati e al loro ampliamento edilizio, e la formulazione del 1977, che estende l’urbanistica all’intero territorio e “a tutti gli aspetti” del suo governo
…al “governo del territorio”
Vediamo che cosa si definisce “governo del territorio in due testi legislativi i quali, seppure non abbiano raggiunto l’approvazione completa, sono stati condivisi da maggioranze parlamentari alla Camera dei deputati.
Il testo unificato licenziato dalla Commissione parlamentare del gennaio 2001 (“legge Lorenzetti”)
“Governo del territorio: le disposizioni e i provvedimenti per la tutela, per l'uso e per la trasformazione del territorio e degli immobili che lo compongono”.
Il disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005 (“Legge Lupi”):
“Il governo del territorio consiste nell’insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio. Il governo del territorio comprende altresì l’urbanistica, l’edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, nonché la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie”.
Si osservi l’analogia del primo testo (Lorenzetti) con la definizione di “Urbanistica” del 1977. Il secondo testo (Lupi) riprende alcuni elementi della definizione del 1942 (“obiettivi di sviluppo del territorio”), ma non contraddice il carattere generale del “governo del territorio”
Contenuto semantico del passaggio
A me sembra che questa lettura delle trasformazioni legislative abbia due significati, che non si elidono necessariamente.
Da una parte, possiamo parlare di carnevalata. L’espressione “governo del territorio” copre esattamente lo stesso contenuto del termine “urbanistica”. Si chiama oggi “governo del territorio” ciò che ieri si chiamava “urbanistica”.
Ma dietro questa verità un’altra si cela. Il vecchio significato di “urbanistica”, (l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio, il rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città) è stato interamente superato dalla nuova definizione urbanistica (1977), che veda questa disciplina come l’insieme delle disposizioni e dei provvedimenti per la tutela, per l'uso e per la trasformazione del territorio e degli immobili che lo compongono.
L’urbanistica è insomma considerata dal legislatore nazionale una disciplina ampia, che dal disegno della città si è espansa, in relazione alle trasformazioni effettive e oggettive del fenomeno urbano, alla considerazione dell’intero territorio, letto e disciplinato nei suoi aspetti edilizi, paesaggistici, ecologici, comprendenti l’insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo.
Il buffo è che, nel 2001, a differenza che nel 1977, il legislatore non ha ritenuto sufficiente prendere atto del più ampio significato di un termine antico. Ha voluto inventare un termine nuovo. Ma questo fa parte di quel vezzo di “modernizzare” l’abito conservando immutati i vecchi corpi.
La nascita dell’urbanista in Italia
La riflessione sul mutato significato di “urbanistica” mi sollecita a ripensare a quanto avvenne in Italia quando si “invento”, nel nostro paese, il termine “urbanistica” e si definì il processo formativo dell’urbanista e la sua fisionomia professionale.
A differenza che in altri paesi in Italia l’urbanista è nato come una specializzazione della figura dell’architetto: un architetto che, invece di progettare edifici, progetta città. Quasi con le stesse tecniche (magari integrandole con scienze irrimediabilmente ausiliarie, quasi servili), quasi con la stessa impostazione al cospetto della realtà: il prevalere dell’“idea progettuale”, il ruolo dell’Autore del piano (simile a quello dell’Autore del progetto), la fiducia di poter dominare da solo l’insieme del progetto (del piano), anticipandone nella sua previsione l’intera realizzazione.
È interessante osservare (a riprova del fatto che la storia che conosciamo non è l’unica storia possibile) che per giungere a questa soluzione si discusse a lungo tra due proposte alternative. A quella dell’Architetto-Urbanista si contrapponeva infatti la proposta dell’Urbanista come esperto della gestione urbana, e quindi versato non nelle belle arti, ma soprattutto nelle discipline dell’amministrazione e dell’ingegneria civile
Negli anni tra il 1922 e il 1926 sostenitore della prima proposta, poi vittoriosa, era l’architetto romano Alberto Calza Bini, libero professionista e accademico. Propugnatore della seconda era Silvio Ardy, funzionario comunale in Liguria e in Piemonte. Materiali su questo dibattito consultabili in http://eddyburg.it.
Nelle successive vicende, il ruolo e la formazione dell’urbanista si sono notevolmente divaricate rispetto all’impostazione originaria. Oggi l’impiego diretto nella amministrazioni pubbliche, o la collaborazione con queste dall’esterno, costituiscono il campo d’applicazione più vasto degli urbanisti. Alla loro formazione è dedicato, a partire dal 1971, uno specifico corso di laurea nelle facoltà di architettura e, a partire dal 2001, una facoltà di pianificazione del territorio. E nella preparazione dei documenti di panificazione nei quali le amministrazioni sono impegnate il ruolo del “progetto di città” appare sempre meno rilevante rispetto a quelli dell’attuazione, della valutazione, del monitoraggio, della ricerca del consenso e delle energie necessarie per la sua implementazione. Un ricorso sempre più largo all’interdisciplinarità, una capacità sempre maggiore di coordinare e finalizzare a un’operazione complessa equipe articolate, una sensibilità alle nuove tecnologie, un’attenzione ai moti della società: questi sono – mi sembra - tra i principali requisiti del mestiere dell’urbanista.
Il ruolo sociale dell’urbanista
Ma qual è il nocciolo del ruolo sociale dell’urbanista? Diamo uno sguardo fuori d’Italia.
Scrive il documento fondativo del Conseil Français des Urbanistes: “bisogna sempre ricordare che l’urbanistica è di ordine pubblico e d’interesse pubblico” (“Il convient toujours se rappeler que l'urbanisme est d'ordre public et d'intérêt public”),
Afferma il codice deontologico dell’American Institute of Certified Planners: “Il primo dovere di un urbanista è di servire il pubblico interesse” (“A planner’s primary obligation is to serve the public interest”).
Decretano le “Norme di deontologia professionale” del Consiglio Europeo degli Urbanisti: l’urbanista deve “agire sempre nell’interesse del proprio cliente o committente”, ma con la “consapevolezza che l’interesse pubblico deve restare preminente”,.
Poiché il concetto di pubblico interesse è oggetto di elaborazione e dibattito, il documento dell’American Institute of Certified Planners si preoccupa di definire i paletti entro i quali l’urbanista deve comunque inscrivere la propria azione. Ne sono elementi essenziali la consapevolezza del carattere sistemico e della lunga portata temporale delle decisioni sul territorio, la completezza e la chiarezza dell’informazione fornita al pubblico, l’attenzione agli interessi delle categorie più svantaggiate, all’integrità dell’ambiente naturale e alla tutela del patrimonio culturale.
L’urbanista del futuro
In Italia siamo depressi per la scarsa considerazione che il mestiere di urbanista riceve nella pubblica opinione. Quale sarà il futuro dell’urbanista? Aiuta a dare una risposta un recente studio che si riferisce alla situazione della Gran Bretagna: Future Planners: Propositions for the next age of planning, redatto da P. Bradwell, Inderpaul Johar, Clara Maguire e Paul Miner, febbraio 2007 (tradotto da Fabrizio Bottini per eddyburg.it[1]
“Quella del planner è una professione moderna. Sin dal suo emergere negli anni ’20 ha avuto alti e bassi, a seguito di mutamenti nelle ideologia politiche e del contesto sociale. È possibile tracciare una storia professionale contemporanea a partire dagli anni ’80, decennio contrassegnato da una fede politica nel libero fluire del mercato e nella deregulation. Il sistema di pianificazione era considerato un ostacolo all’incremento della crescita economica. Ma oggi assistiamo a un ritorno dell’idea di pianificazione come elemento chiave per consentire uno sviluppo sostenibile legittimato democraticamente”.
Il rapporto prosegue delineando i nuovi ruoli che spettano al planner dei nostri tempi. In tutti viene sottolineata “la sua funzione chiave nella redazione e gestione di progetti per realizzare valori pubblici”. La ribadita preminenza di tali valori pubblici è la chiave per comprendere in quale contesto si collochino i nuovi ruoli di “negoziatore”, “facilitatore”, “mediatore” che al planner vengono attribuiti: un contesto radicalmente diverso dal nostro. In Italia infatti, nel XXI secolo, quei ruoli non alludono alla rapporto tra istituzioni pubbliche tra loro o con i cittadini, ma a quello tra i decisori e gli interessi immobiliari.
Sono convinto che il mestiere dell’urbanista può trovare una sua nuova affermazione se riesce a restaurare la sua tradizione di mestiere fortemente radicato nelle esigenze, nei problemi e nelle speranze della società, vista non come mero aggregato di individui, ma non come massa, ma come portatrice di valori e interessi comuni.
[1] I testi cui mi riferisco in questo e nel precedente paragrafo sono disponibili in internet; sono raccolti nel mio sito http//eddyburg.it
Qui di seguito alcuni stralci. In calce il link al testo integrale in .pdf
1. LA FILOSOFIA DEL PPR NEI DOCUMENTI CHE HANNO AVVIATO IL LAVORO
Le “Linee guida”
“I principi ispiratori per il lavoro di predisposizione del Piano Paesaggistico Regionale” sono stati definiti dal documento Linee guida per il lavoro di predisposizione del PPR (deliberazione Giunta regionale 13 maggio 2005).
Il paesaggio
La prima parte del documento è dedicata alla definizione del concetto di paesaggio, così come risulta dai più aggiornati documenti prodotti dalle istituzioni mondiali, europee e nazionali. Emergono le interpretazioni del paesaggio “come luogo di cultura fatto di elementi del contesto naturale e ambientale, del contesto storico, del contesto delle trasformazioni apportate dall’uomo”, come “ fenomeno sociale, come ambiente di vita e parte integrante della cultura della regione”, non riducibile “a un semplice dato naturale da conservare immobilizzandolo”, ma “fattore determinante della qualità della vita sia nelle aree urbane che in quelle rurali, sia nei territori degradati che in quelli di pregio”, come realtà cui è necessario riferirsi prendendo “in considerazione non solo i paesaggi eccezionali, ma anche quelli della quotidianità e del degrado”.
Del paesaggio si mette in evidenza il carattere dinamico e processuale, la necessità di “una visione di sintesi più complessa”, che affronti “la ricchezza della diversità e della dinamicità anche conflittuale”, la conseguente necessità di gestire i “processi di trasformazione fino alla previsione della progettazione di nuovi paesaggi contemporanei di qualità”.
Si afferma che se “il paesaggio è insieme prodotto e produttore di identità” la pianificazione paesaggistica, insieme alle politiche di governo del territorio e dello sviluppo sostenibile, deve muovere da una riflessione sull’identità in quanto valore condiviso, da preservare, arricchire e rielaborare costantemente”. Quindi “l’idea di identità da assumere quale base della pianificazione paesaggistica deve essere in grado di coniugare la conservazione con l’innovazione”. Un’identità “modellata e rimodellata continuamente nel confronto con la contemporaneità, che faccia delle peculiarità del nostro paesaggio plasmato dalla storia e dalla cultura delle comunità locali il valore aggiunto delle preziose risorse naturali e ambientali”.
Nella medesima parte del documento si svolgono considerazioni sul rapporto del paesaggio e gli strumenti della pianificazione ordinaria e specialistica, la sostenibilità di vario ordine e grado, le attività economiche e in particolare il turismo, la governance e la partecipazione.
Obiettivi strategici
Alla parte definitoria il documento della Giunta fa seguire un abbozzo di descrizione delle caratteristiche peculiari del paesaggio della Sardegna, visto alla scala dell’intera regione, e una illustrazione della vicenda dei precedenti piani paesaggistici. A partire da questi elementi, il documento definisce sinteticamente gli obiettivi strategici cui la pianificazione paesaggistica deve essere improntata: “tutelare e valorizzare l’identità culturale e ambientale del paesaggio della Sardegna; governare in forma sostenibile le trasformazioni del territorio, ricercando e assumendo principi di sviluppo fondati sulla sostenibilità e a perseguire” una serie di obiettivi così definiti:
”- alta qualità ambientale, sociale, economica, come valori in sé, come indicatori di benessere e nel contempo come condizioni per competere nei mercati globali;
”- mantenimento e rafforzamento dell’identità della regione come sistema (la storia, la cultura, il paesaggio, le produzioni, ecc.) e della sua coesione sociale”.
Le tendenze in atto
Il documento pone l’accento sugli aspetti inquietanti delle tendenze che hanno prevalso nel passatoi. Si osserva che “le trasformazioni intervenute negli ultimi cinquanta anni sul territorio regionale non sono state assecondate” dalla “capacità di prevederne gli effetti irreversibili e le alterazioni ricadenti sull’ambiente e sul paesaggio”. La crescita economica, “a lungo e disordinatamente perseguita”, è avvenuta “non anteponendo i necessari sistemi di regolazione e di equilibrio nel rapporto tra popolazioni e territorio”. Così, “al paesaggio storico-ambientale si sono sovrapposte, con sempre maggiore intensità, forme, modelli e funzioni standardizzate, prevalentemente estranee alla cultura storicamente consolidata ed agli equilibri fisici e biologici del territorio sardo”.
Tutto ciò, in assenza di “una complessiva pianificazione e senza tutele ha provocato una riduzione della funzionalità degli ecosistemi, un indebolimento della qualità e quantità delle risorse ambientali”. La qualità dell’ambiente “costituisce, nella percezione generale, una delle principali criticità”. Infatti – prosegue il documento – “all’usura dei sistemi naturali dovuti all’incuria e allo spopolamento, alla scadente qualità ed incoerenza degli insediamenti ed in genere al degrado della naturale armonia del paesaggio”, si aggiungono elementi e processi che “situazioni gravi di insicurezza e vulnerabilità del territorio”.
Le parole del Presidente
Il Presidente della Regione ha espresso in più occasioni la filosofia che si intendeva esprimere con lo strumento del PPR: con parole rivestite di poca tecnicità, quindi forse più efficaci a rendere trasparenti le intenzioni del governo regionale. Si danno qui alcuni stralci che si ritengono significativi, di scritti pubblicati anche nel sito eddyburg.it.
Al Comitato scientifico
[...]
Ai sindaci
[...]
2. LA FILOSOFIA DELLA PIANIFICAZIONE PAESAGGISTICA NELLA CULTURA E NELLA PIANIFICAZIONE
La tutela del paesaggio
dal vincolo alla pianificazione
Premessa: la cultura e la legge
L’evoluzione culturale sulle materie delle quali ci stiamo occupando (il paesaggio e la sua tutela e pianificazione, l’’urbanistica, l’ambiente e il territorio, i beni culturali) e le grandi leggi che le hanno disciplinato nel tempo, hanno sempre avuto un rapporto molto stretto. Il dibattito culturale ha in qualche modo preparato il terreno, stimolato la necessità, formato lo stesso linguaggio con il quale le leggi sono state poi redatte. Spesso gli esponenti più autorevoli del dibattito culturale hanno direttamente concorso alla formazione delle leggi.
Si può dire in definitiva che le leggi esprimono quanto del dibattito e dell’elaborazione culturale emerge come più condiviso e più realistico – naturalmente con tutte le approssimazioni che derivano dal filtro che le opportunità politiche e le necessità del linguaggio legislativo frappongono. Ma al tempo stesso si deve dire che le leggi stesse, e la giurisprudenza che la loro applicazione produce, fanno a loro volta cultura: non solom orientano il dibattito e l’elaborazione culturali, ma direttamente le arricchiscono e nutrono.
Una prima intuizione: il paesaggio come espressione della Patria
[...]
La legislazione d’avvio
[...]
Il paesaggio nella Costituzione
[...]
Tutela del paesaggio e proprietà privata
[...]
Le legge Galasso (1985)
[...]
Gli elementi cardine
della pianificazione paesaggistica
Due percorsi per la lettura del paesaggio
[...]
La questione delle competenze
[...]
Gli ambiti e i rapporti con la pianificazione locale
[...]
Le condizioni alle trasformazioni
[...]
“Statuto dei luoghi” e “invarianti strutturali”
[...]
3. BENI PAESAGGISTICI E AMBITI DI PAESAGGIO
NEL PPR DELLA SARDEGNA
La forma del piano
Un piano per il paesaggio
Tra le due modalità consentite dalla legislazione nazionale (“piano paesaggistico” oppure “piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici”) si è scelta la prima. Ciò significa che si è avuta fin dall’inizio la consapevolezza che il piano non si propone di definire tutti gli aspetti della disciplina e del funzionamento del territorio, ma ne costruisce i presupposti con l’individuazione delle regole e delle azioni necessarie per consentire che le trasformazioni del territorio, che saranno definite dalla successione delle varie fasi della pianificazione (comunale, provinciale, regionale) siano funzionali alla tutela delle caratteristiche qualitative proprie della configurazione del territorio.
La sottolineatura di questa scelta mi sembra assolutamente necessaria. Essa comporta infatti che l’obiettivo della qualità delle trasformazioni, che è un obiettivo fondamentale della politica territoriale della Regione, sia perseguita coerentemente nelle successive fasi della pianificazione e delle sua implementazione. Il carico di responsabilità che viene attribuito dal PPR a quanti (amministratori e tecnici) concorreranno alle successive fasi è davvero grande.
Una città bella è una città costruita da belle architetture, ma non esistono belle architetture se non sulla base di una buona urbanistica: questa è una verità proclamata da molti studiosi dell’architettura e dell’urbanistica, da Hans Bernoulli a Leonardo Benevolo. Analogamente si può affermare che la ricerca e la costruzione di una maggiore qualità del paesaggio sardo ha nel PPR solo il suo inizio e la sua matrice, l’indicazione delle invarianti da rispettare e delle opportunità da cogliere, ma essa avverrà unicamente se a livello locale si saprà proseguire secondo il medesimo indirizzo.
Le “tavole” e le “norme
Come ogni piano che si rispetti il PPR è costituito da una stretta collaborazione degli elaborati cartografici ed elaborati testuali (nel linguaggio corrente, le “tavole” e le “norme”. I primi elaborati, specificamente riferiti al territorio simulato dal sistema informativo, sono il prodotto delle ricognizioni e delle analisi che hanno via via condotto a individuare, a classificare e a perimetrare le differenti porzioni di territorio sottoposti alle diversificate discipline (regole e azioni). I secondi elaborati esprimono i contenuti delle regole e delle azioni cui si dà luogo (e che quindi devono essere rispettate dai diversi soggetti) o che devono a loro volta guidare l’azione delle successive azioni tecniche e amministrative di pianificazione, regolamentazione e promozione.
“Tavole” e “norme” devono essere visti, compresi e interpretati nel loro insieme. Le une senza le altre sono monche, incomprensibili, inutili. La loro efficacia deriva unicamente dalla loro sinergia: il loro insieme costituisce la componente paesaggistica del progetto di territorio di cui il PPR è il primo tassello.
Due strati del progetto di paesaggio
Riepilogando quanto ho esposto, il PPR imprime al territorio un duplice ordine di indicazioni, risultanti da due distinte letture analitiche ed altrettante efficacie normative.
Da un lato, è stato necessario individuare le categorie di beni che è necessario sottoporre a tutela, a partire da quelle definite dalla legislazione vigente ma articolandole e arricchendole sulla base dello specifico contesto territoriale e culturale. Si è trattato di partire da quanto disposto dalle leggi nazionali (dalla L. 431/1985 al DLeg 157/2006), costruendo un ulteriore tassello – regionale - di quella “riconsiderazione assidua” del territorio “alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale” che la Corte costituzionale ritiene necessaria.
Dall’altro è stato indispensabile tener conto che il paesaggio non è costituito dalla mera giustapposizione di elementi di particolare rilievo, ma anche dall’integrazione che si è determinata tra gli stessi elementi e il contesto territoriale intorno: quella integrazione che ha condotto storicamente alla costituzione di specifiche individualità territoriali.
Il PPR, in risposta alla duplice esigenza ora ricordata, si basa nella sostanza sulla complementarietà di due strati normativi, che si distinguono non tanto per la scala o il grado di specificazione, ma per la loro funzione diversamente “regolatrice” della pianificazione:
Il primo strato, espresso in una prima serie di tavole e nei corrispondenti titolo delle norme, è riferito sia ai singoli oggetti o elementi territoriali per i quali è necessaria e possibile la tutela ex articoli 142 e 143 del DLeg 42/2004 (beni paesaggistici appartenenti a determinate categorie a cui è possibile ricondurre i singoli elementi con criteri oggettivi, in jure “vincoli ricognitivi”), sia alle componenti ambientali-territoriali che, pur non essendo dei beni (anzi magari essendo dei “mali”, come ad es. i siti inquinati o le aree di degrado) devono essere tenute sotto controllo per evitare danni al paesaggio o per favorirne la riqualificazione.
È importante notare che, ai sensi del Codice, questo primo insieme di norme implica un esplicito riconoscimento di quegli oggetti di disciplina da considerare come “beni paesaggistici”, al fine di assicurarne la “puntuale individuazione” ai sensi dell’art.143 e di differenziarli dalle altre componenti (pur dotate di valenza paesistica, come gran parte dei beni culturali che il Piano intende valorizzare) non solo sotto il profilo procedurale (l’obbligo di specifica autorizzazione paesaggistica per gli interventi che li concernono) ma anche sotto il profilo sostanziale, in relazione al ruolo che essi svolgono nel determinare la qualità complessiva dei contesti in cui ricadono. Ciò implica anche che l’individuazione dei beni paesaggistici, pur prendendo le mosse dalle categorie già definite a livello nazionale (come le categorie dell’art. 142), si è fondata su quelle maggiori specificazioni che fanno riferimento alla concreta realtà regionale (ad es. distinguendo zone umide, apparati dunali, falesie ecc.); specificazioni che a loro volta possono comportare ulteriori approfondimenti conoscitivi da sviluppare nelle fasi successive della pianificazione paesistica.
Il secondo strato normativo è riferito ad ambiti territoriali – ambiti di paesaggio ai sensi dell’art. 135 del Codice - per la definizione dei quali i caratteri paesaggistici ed ecologici sono determinanti, e che sono la sede per definire indirizzi, direttive e prescrizioni anche di tipo urbanistico, da rendere operativi mediante successivi momenti di pianificazione; in particolare per precisare la definizione degli obiettivi di qualità paesistica, gli indirizzi di tutela e le indicazioni di carattere “relazionale” volte a preservare o ricreare gli specifici sistemi di relazioni tra le diverse componenti compresenti.
Va rilevato che la disciplina degli ambiti, ordinata alla tutela e al miglioramento della qualità del paesaggio, è anche la sede nella quale cercare, come prevede la Convenzione Europea all’art. 5d, di “integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere un’incidenza diretta o indiretta sul paesaggio”.
Le categorie di beni paesaggistici
Tre letture su tre aspetti del paesaggio
l paesaggio è il risultato della composizione di più aspetti. È anzi proprio dalla sintesi tra elementi naturali e lasciti dell’azione (preistorica, storica e attuale) dell’uomo che nascono le sue qualità. È quindi solo a fini strumentali che, nella pratica pianificatoria, si fa riferimento a diversi “sistemi” (ambientale, storico-culturale, insediativo) la cui composizione determina l’assetto del territorio, e dei diversi “assetti” nei quali tali sistemi si concretano.
Anche la ricognizione del territorio effettuata come base delle scelte del PPR si è articolata secondo i tre assetti: ambientale, storico-culturale, insediativo. Tre letture del territorio, insomma, tre modi per giungere alla individuazione degli elementi che ne compongono l’identità. Tre settori di analisi finalizzati all’individuazione delle regole da porre perchè di ogni parte del territorio siano tutelati ed evidenziati i valori (e i disvalori), sotto il profilo di ciò che la natura (assetto ambientale), la sedimentazione della storia e della cultura (assetto storico-culturale), l’organizzazione territoriale costruita dall’uomo (assetto insediativo) hanno conferito al processo di costruzione del paesaggio.
Ciascuno dei tre piani di lettura ha consentito di individuare un numero discreto di “categorie di beni”: cioè di tipologie di elementi del territorio, cui il disposto degli articoli 142 e 143 del Codice del paesaggio consente di attribuire l’appellativo di “beni paesaggistici”.
Dalla ricognizione e dall’individuazione delle caratteristiche dei beni nasce la definizione delle regole. Sicché dalle tre letture sono nati i tre “capitoli” delle norme. Ciascuno di essi detta le attenzioni che si devono porre perchè, in relazione ai beni appartenenti a ciascuna categoria, le caratteristiche positive del paesaggio vengano conservate, o ricostituite dove degradate, o trasformate dove irrimediabilmente perdute.
Tra prescrizioni e indirizzi
I beni e le componenti appartenenti alle diverse categorie hanno gradi diversi di rilevanza e necessitano di regole differenziate per la loro tutela. Per alcune categorie nella norma di tutela prevale un contenuto immediatamente prescrittivo, nel senso che vengono imopedite azioni suscettibili di compromettere irrimediabilmente i beni che a quella categoria appartengono. Per altre categorie la tutela richiede prevalentemente un’analisi più attenta e dettagliata, che non può che avvenire alla scala locale: nella norma di tutela prevale quindi un carattere più di indirizzo, di guida e di indicazione anche stringente per la pianificazione sottordinata.
SI può dire, in senso generale, che per le categorie derivate dalla lettura ambientale prevalgono le indicazioni immediatamente prescrittive (sebbene non manchino certamente quelle di orientamento alle successive azioni), per quelle relative al sistema insediativo prevalgono (e anzi sono largamente maggioritarie) quelle di indirizzo e direttiva, mentre quelle di carattere storico culturale i due tipi di precetti si bilanciano.
Rinviando all’intervento dell’ing Cannas una più puntuale disamina dei contenuti del piano relativo alle diverse categorie di beni, vorrei soffermarmi su due situazioni, entrambe di grandissimo rilievo in quanto rappresentano la testimonianza più significativa di un rapporto equilibrato e virtuoso tra l’uomo e la natura e di una sapienza plurisecolare nel costruire paesaggi dei quali oggi è indiscutibile il valore: gli insediamenti storici e le zone agricole.
Il significato, le modalità d’individuazione, il carattere e il contenuti delle regole sono – mi sembra – sufficientemente chiariti nel tetso delle norme e nella relazione. Mi limiterò a sottolineare alcuni aspetti.
La fascia costiera
La legge Galasso già indicava già i territori costieri compresi nella fascia dei 300 m dalla linea di costa come bene paesaggistico meritevole di tutela. Tale limite, meramente geometrico, costituiva una prima “sciabolata” (comne tutte le altre indicazioni quantitative, dal decreto del 1983 al Codice del 2006)..
Tra i beni a matrice prevalentemente ambientale gioca quindi, in particolare in Sardegna, un ruolo del tutto particolare il bene costituito dalla fascia costiera nel suo insieme. Questa, pur essendo composta da elementi appartenenti a diverse specifiche categorie di beni (le dune, le falesie, gli stagni, i promontori ecc.) costituisce nel suo insieme una risorsa paesaggistica di rilevantissimo valore: non solo per il pregio (a volte eccezionale) delle sue singole parti, ma per la superiore, eccezionale qualità che la loro composizione determina.
Essa non può essere artificiosamente suddivisa, se non per scopi amministrativi, ma deve mantenere il suo carattere unitario complessivo soprattutto ai fini del PPR e, pertanto, deve essere considerata come un bene paesaggistico d’insieme, di valenza ambientale strategica ai fini della conservazione della biodiversità e della qualità paesistica e dello sviluppo sostenibile dell’intera regione.
I beni e le componenti appartenenti alle diverse categorie hanno gradi diversi di rilevanza e necessitano di regole differenziate per la loro tutela. Per alcune categorie nella norma di tutela prevale un contenuto immediatamente prescrittivo, nel senso che vengono imopedite azioni suscettibili di compromettere irrimediabilmente i beni che a quella categoria appartengono. Per altre categorie la tutela richiede prevalentemente un’analisi più attenta e dettagliata, che non può che avvenire alla scala locale: nella norma di tutela prevale quindi un carattere più di indirizzo, di guida e di indicazione anche stringente per la pianificazione sottordinata.
SI può dire, in senso generale, che per le categorie derivate dalla lettura ambientale prevalgono le indicazioni immediatamente prescrittive (sebbene non manchino certamente quelle di orientamento alle successive azioni), per quelle relative al sistema insediativo prevalgono (e anzi sono largamente maggioritarie) quelle di indirizzo e direttiva, mentre quelle di carattere storico culturale i due tipi di precetti si bilanciano.
Rinviando all’intervento dell’ing Cannas una più puntuale disamina dei contenuti del piano relativo alle diverse categorie di beni, vorrei soffermarmi su due situazioni, entrambe di grandissimo rilievo in quanto rappresentano la testimonianza più significativa di un rapporto equilibrato e virtuoso tra l’uomo e la natura e di una sapienza plurisecolare nel costruire paesaggi dei quali oggi è indiscutibile il valore: gli insediamenti storici e le zone agricole.
Per gli insediamenti storici il piano definisce una serie di prescrizioni, indirizzi e direttive rivolte alla pianificazione locale: un’elencazione minuziosa delle attenzioni che occorre porre nell’analizzare i contesti e i loro elementi, nel leggere le stratificazioni, nel progettare la conservazione cogliendo le opportunità fornite dai vuoti e dalle situazioni di pronunciato degrado per migliorare la qualità degli insediamenti.
In attesa della formazione dei nuovi piani locali, adeguati alla filosofia e ai contenuti del PPR, questo prevede una norma di salvaguardia, resa indispensabile dalle numerose e pesanti manomissioni consentite dalle ancora vigenti disposizioni legislative. Le norme prescrivono infatti che, “fino all’adeguamento dei piani urbanistici comunali al PPR, tenuto conto (sic) delle perimetrazioni riportate nelle cartografie di PPR, sono consentiti”, per i comuni non dotati di piani particolareggiato, solo gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia interna.
Dato il “principio di precauzione” che ogni piano paesaggistico assume come proprio, le perimetrazioni degli insediamenti storici del PPR sono generalmente più ampi di quelli dei vigenti piani comunali. Ciò mi sembra assolutamente ragionevole, non solo per quel principio che ho or citato, ma anche perché la tendenza naturale, in tutte le città italiane dove negli amministratori alberghi saggezza, è allargare i confini della protezione e della qualità inserendo in essi elementi che magari venti o dieci anni fa ci sembravano privi di valore, mentre oggi ne riconosciamo l’importanza.
Comunque, come la recente circolare precisa, si tratta di perimetri che potranno essere rivisti nelle fasi successive della pianificazione.
L’edificazione in zone agricole
In tutte le regioni europee la tutela delle aree extraurbane e la lotta allo sprawl (allo sguaiato sdraiarsi della città sulla campagna) sono diventati impegni nazionali. Nel nostro paese questo non è ancora avvenuto, e in ciò è una delle ragioni che rendono il nostro paese ancora per molti aspetti ai margini dell’Europa evoluta.
Hanno cominciato le regioni a tutelare le aree extraurbane, o con norme protezionistiche di tipo paesaggistico oppure riducendo drasticamente, già a livello di legislazione urbanistica regionale, le possibilità di edificazione nelle campagne. La tendenza che si sta prevalendo (a cominciare dalla Toscana, dove il territorio agricolo è considerato un valore anche economico per l’immagine che riverbera sulla produzioni locali) è quella di commisurare strettamente l’edificazione in zona extraurbana allo stretto necessario per l’utilizzazione agricola o silvo-forestale dell’area.
Nelle legislazioni regionali più evolute la stessa realizzazione di manufatti al servizio dell’agricoltura è strettamente vincolata alla durata dell’attività produttiva, e chi chiede e ottiene l’autorizzazione a realizzare un edificio legato alla produzione rilascia al comune una fideiussione per la riduzione in pristino del’area provvisoriamente occupata dal manufatto ove l’attività economica non lo renda più necessario.
Il PPR si colloca esattamente in questa linea. Non poteva non farlo, poiché il paesaggio extraurbano caratterizza fortissimamente l’immagine stessa della Sardegna, e il suo degrado a opera della diffusione urbana (lo svillettamento della campagna) è privo di qualsiasi giustificazione. La recente circolare ribadisce e precisa le ragioni e i termini delle limitazioni all’edificazione nelle aree che devono essere riservate alla naturalità e alla difesa, e ricostituzione, delle connotazioni essenziali del paesaggio.
Nelle epoche più felici della nostra storia civile la bellezza della città e la bellezza della campagna erano l’una la condizione e il riflesso dell’altra. La bellezza del territorio e del paesaggio, e la testimonanza del “buon governo” era nella esatta simmetria di questa due facce, diverse ma strettamente connesse, della qualità comune e della comune identità. Per lasciare ai nostri posteri qualcosa di meglio di cò che abbiamo ereditato, bisogna che – mentre rendiamo più bella la città attraverso la buona urbanistica e la buona arcgitettura– riusciamo a rendere più bella la campagna che ne è la il complemento.
Le tre letture di cui al punto precedente hanno consentito di individuare e regolare i beni appartenenti a ciascuna delle categorie individuate. Ma, nella concretezza del paesaggio – come si è detto - ogni elemento del territorio appartiene a un determinato contesto, e in quel contesto entra in una particolare relazione con beni (e, più generalmente, con elementi del territorio) appartenenti ad altre categorie.
Ecco perchè, all’analisi del territorio finalizzata all’individuazione delle specifiche categorie di beni da tutelare in ossequio alla legislazione nazionale di tutela, si è aggiunta un’analisi finalizzata invece a riconoscere le specificità paesaggistiche dei singoli contesti. Sulla base del lavoro svolto in occasione della pianificazione di livello provinciale si sono individuati 27 ambiti di paesaggio, per ciascuno dei quali si è condotta una specifica analisi di contesto.
Per ciascun ambito il PPR prescrive specifici indirizzi volti a orientare la pianificazione sottordinata (in particolare quella comunale e intercomunale) al raggiungimento di determinati obiettivi e alla promozione di determinate azioni, specificati in una serie di schede tecniche costituenti parte integrante delle norme.
Gli ambiti di paesaggio costituiscono in sostanza una importante cerniera tra la pianificazione paesaggistica e la pianificazione urbanistica: sono il testimone che la Regione affida agli enti locali perchè proseguano, affinino, completino l’opera di tutela e valorizzazione del paesaggio alla scala della loro competenza e della loro responsabilità. In tal senso la disciplina proposta per gli ambiti di paesaggio è la parte del PPR che più viene segnalata agli interlocutori locali della discussione dei documenti di piano, perchè è su di essa che le verifiche, gli arricchimenti, le correzioni e integrazioni avranno maggiore utilità per il completamento del piano.
Gli ambiti come laboratori del progetto di paesaggio
Il paesaggio, soprattutto nell’accezione che ne danno la cultura e la giurisprudenza italiane, è una realtà dinamica. Solo in alcune sue parti, e per alcuni suoi elementi, esso può essere considerato una realtà da conservare intatta, mediante una manutenzione e una gestione accorta. Spesso esso deve essere oggetto di interventi di restauro, che lo salvino dalla prospettiva di degrado inevitabile in tutte le parti che non hanno raggiunto la fase del climax. Spesso deve essere ripristinato, utilizzando le tecniche della rimozione degli elementi che lo hanno danneggiato e quelle della ricostituzione delle condizioni ottimali – dove queste sono individuabili e raggiungibili. Altre volte infine (molto spesso) devono essere realizzati paesaggi nuovi, che sostituiscano quelli foggiati dall’incuria, dalla rozzezza, dalla miopia dello sfruttamento immediato.
È una grande scommessa che si presenta agli amministratori e ai tecnici. In particolare agli urbanisti che disegneranno i nuovi piani locali raccogliendo e prolungando il messaggio del PPR, adeguandosi criticamente agli indirizzi e alle direttive contenute nelle norme della pianificazione regionale.
Il momento della pianificazione urbanistica locale è un momento decisivo, se è vero che (ripeto le parole di Leonardo Benevolo) è solo dalla buona urbanistica che nasce la buona architettura. Ma un altro momento decisivo è quello costituito dal recupero delle tecniche, dei materiali, dei mestieri che hanno caratterizzato la Sardegna e le sue diverse regioni, che hanno dato luogo alla realizzazione degli edifici e dei manufatti che ne caratterizzano il paesaggio, e che costituiscono un prezioso elemento della sua identità.
Gli ambiti come luoghi del rapporto tra spazio e società
Gli ambiti di paesaggio, per la loro natura, il loro ruolo e i modi in cui sono stati delimitati, sono anche i luoghi nei quali si esprime più compitamente il rapporto tra le esigenze e le dinamiche della società e le trasformazioni che la forma del territorio ha subito. Si tratta di un rapporto le cui caratteristiche sono fortemente mutate nel tempo. Nelle epoche (lunghe) nelle quali quel rapporto è stato positivo, la società ha collaborato con la natura e con la storia: ha sviluppato in modo organico ciò che preesisteva, ha completato e arricchito ciò che i suoi predecessori avevano costruito, ha guidato la natura utilizzandone le regole senza usarle violenza. Da ciò sono nati i paesaggi cui oggi riconosciamo valore.
Tutto è cambiato, ahimè, nella breve fase che speriamo (senza esserne sicuri) essere alle nostre spalle. Il mito dell’onnipotenza delle “tecnologie innovative”, l’omogeneizzazione di costumi e di sentimenti indotta dalla globalizzazione, il prevalere della miopia nelle visioni politiche e nella gestione dei patrimoni, la tendenziale riduzione d’ogni bene in merce, tutto ciò ha provocato una cesura profonda nel modo in cui la società, e i suoi membri e gruppi, considerano e vivono le due essenziali componenti del paesaggio: la natura e la storia.
Oggi molti di noi sentono in se stessi il conflitto tra due esigenze. Da una parte, l’esigenza ottimisticamente fatta propria dalla Convenzione europea del paesaggio, che nella stessa definizione del paesaggio mette al centro la percezione che del paesaggio hanno i suoi abitanti. Dall’altro lato, la consapevolezza che negli attuali abitatori dei nostri paesaggi dominano concezioni, interessi, culture che vedono nel paesaggio più una miniera dalla quale estrarre quanto più minerale è possibile che un patrimonio da custodire vivendolo in modo adeguato al suo valore. Se così non fosse, non si spiegherebbe perché luoghi la cui bellezza originaria non dovrebbe trovare cuori insensibili e cervelli guastati dalla miopia (penso alla Gallura come alla Val d’Orcia), perché simili luoghi possono essere devastati, o minacciati di devastazione, proprio dai poteri locali, espressione delle locali popolazioni.
Credo che da questo conflitto si possa uscire solo con una consapevolezza e un impegno.
La consapevolezza che, fino a quando la tutela del paesaggio non sarà sentita coime una necessità vitale dagli stessi abitanti dei luoghi, e dalle loro rappresentanze elettive, la tutela del bene comune che il paesaggio costituisce sarà sempre il risultato di una lotta faticosa, dura, sgradevole, incerta negli esiti, logorante negli sforzi che richiede, ma indispensabile per garantire il futuro di noi tutti.
L’impegno ad adoperare la pianificazione, a tutte le scale, come un momento e uno strumento per far sviluppare nelle coscienza la consapevolezza che la qualità del nostro territorio, dei suoi paesaggi urbani ed extraurbani, prodotti dall’uomo e prodotti dalla natura, è un bene, al quale molte merci sono sacrificabili: è un interesse della civiltà che in tal modo esprimiamo.
La Sardegna ha due primati: è la prima regione italiana il cui presidente abbia rifiutato il titolo mediatico di “governatore”, che rappresenta un simbolo delle velleità autoritarie e centralistiche che una fase del regionalismo ha conosciuto, ed è la prima regione italiana che abbia messo il paesaggio al centro della sua attenzione. Renato Soru ha ripreso in questo senso una grande intuizione di Benedetto Croce: il paesaggio come espressione concreta della identità del paese. Il paesaggio della Sardegna come valore in sè: è valore, perciò non ha bisogno di essere “valorizzato”. Soprattutto se guardiamo al modo in cui altri hanno “valorizzato le coste della Sardegna costruendo orrori di finti paesi, omologhi a quelli che sorgono in ogni altro luogo ridente del mondo, e sconvolgendo la vita dei territori circostanti: “hanno costruito villaggi fantasma, e hanno reso fantasmi i villaggi vivi”, ha detto il presidente Soru nell’aprire i lavori del Comitato scientifico.
Questo paesaggio va in primo luogo difeso, perché è soggetto a tensioni fortissime a una trasformazione che è distruzione: distruzione della memoria, della bellezza creata dalla collaborazione del lavoro e della cultura dell’uomo con la natura, distruzione di una ricchezza che è risorsa per il futuro, e che può essere resa risorsa economica anche per il presente. Conservare infatti non equivale a congelare né a lasciar deperire. Anzi, conservare significa impiegare impegno, risorse, attività, saperi per mantenere, per ripulire, per ridare vita a ciò che si è lasciato morire – e anche per costruire di nuovo là dove l’intervento recente dell’uomo ha distrutto ciò che vale per sostituirlo con oggetti privi di qualità e di storia: per “costruire collaborando con la terra”, come ha scritto Giorgio Todde.
Il piano paesaggistico regionale vuole dare gambe a questa filosofia, regole e indirizzi a una serie di attività tutte coerentemente orientate a questo grande progetto, di cui la Giunta regionale ha definito le premesse e i lineamenti e a cui sono orgoglioso di essere stato chiamato a collaborare. Nella speranza che l’esempio della Sardegna venga seguito anche dalle regioni, dalle province e dai comuni del resto dell’Italia: che, in questo senso, la Sardegna non sia più un’isola, ma si impadronisca del continente.
LE CITTÀ D'EUROPA
L'Europa é ancora possibile
Vezio De Lucia ha aperto la sessione di ieri con una relazione rigorosamente segnata dal pessimismo della ragione. L'ha chiusa con un segno di speranza, fornito proprio da questo convegno. E' alla fine della relazione di Vezio che voglio idealmente riallacciarmi per aprire questa seconda sessione, dedicata al "domani", e quindi necessariamente aperta alla speranza. Speranza critica, naturalmente. Ed é questa, mi sembra, l'indicazione che ci viene dall'Europa.
Con la ratifica del trattato di Maastricht l'Europa diventerà una realtà politica ed economica. Ciò non significa che l'unità europea sia dietro l'angolo. Dopo la dimostrata incapacità di governare la crisi monetaria (e ciò che sotto il "velo monetario" si nasconde), e l'impotenza politica rivelata dalla lacerante crisi dei Balcani, é chiaro a tutti che non é più tempo di ottimismi acritici né di fiorita retorica, ma di meditate riflessioni e di azioni calibrate.
Un dato, però, rimane fermo. Le frontiere che separano i cittadini dei paesi dell'Europa (le loro culture, la loro vita quotidiana, le loro curiosità, i loro sentimenti), già diventate sempre più permeabili, dal Capodanno del 1993 saranno scomparse del tutto. 340 milioni di cittadini europei circoleranno liberamente. I viaggi dei turisti e quelli dei capitali, gli spostamenti per il lavoro e quelli per la soddisfazione della curiosità di conoscenza diventeranno - più ancora di quanto già lo siano - un radicato costume. Si imporranno confronti sempre più ravvicinati tra le condizioni di vita al di qua e al di là dei confini delle nazioni europee.
Quali che siano le vicissitudini della congiuntura (e quale che sia la sua durata) l'Europa rimane del resto l'unico orizzonte possibile perché la civiltà della sua storia non si dissolva, nel prossimo secolo, in una miriade di "microciviltà" affidate all'attenzione degli etnologi. Occorre allora pazientemente lavorare per proseguire la costruzione di una unità europea nelle culture specialistiche, nelle politiche nazionali, e nella formazione delle condizioni dell'esistenza e della vita sociale. Gli organizzatori di questo convegno hanno avviato un lavoro in questa direzione, sul terreno circoscritto ma fondamentale delle questioni della città, dell'ambiente, del territorio, nel convegno svolto in questa stessa sala un anno fa. Vogliono proseguirlo adesso.
Le città europee tra qualità e crisi
Parlare di città, in Europa, significa oggi parlare di crisi. I due termini, in questo scorcio di secolo, sono sempre più frequentemente associati. "La ville partout et partout en crise" é il titolo di un dossier di Le monde diplomatique, che inquadra questa crisi nel panorama planetario della crisi ambientale, del conflitto tra i grandi interessi economici dei nuovi imperialismi e da quello tra le culture. Nel convegno dell'anno scorso abbiamo ragionato a lungo, a partire dal Libro verde per l'ambiente urbano della CEE, sulle caratteristiche della crisi. Ricordiamone alcuni aspetti.
Ricordiamo la crisi d'identità personale e sociale che si consuma nelle metropoli. Ricordiamo il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell'homo socialis (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Ricordiamo le difficoltà crescenti a usare abitazioni adeguate, per località, tipologia e canone d'uso, alle esigenze delle famiglie. Ricordiamo l'inquinamento dell'aria e dell'acqua, l'abnorme produzione di rifiuti che minacciano di seppellirci, i rumori che ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio. Ricordiamo come la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, delle persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri.
E ricordiamo, soprattutto, quello che nel convegno dell'anno scorso abbiamo definito "il paradosso del traffico". Muoversi, spostarsi - dicevamo - è diventato un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità - dicevamo ancora - non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.
Ma la crisi della città é solo una faccia della sua attuale condizione. Esiste anche un'altra faccia. Le città dell'Europa sono anche il più grande deposito non solo di testimonianze, ma di viventi patrimoni della civiltà. Nelle città d'Europa (nelle loro forme, nelle loro architetture e nei loro spazi, nei loro palazzi e nei loro musei, nella terra sulla quale sono costruite e negli orizzonti che le legano al territorio, nelle tradizioni e nella vita quotidiana dei loro cittadini, nelle loro biblioteche e teatri e nelle loro istituzioni culturali e civili) si é consolidato e conservato, nonostante i saccheggi perpetrati in questo secolo, qualcosa che é un valore in molti sensi. E' un valore come testimonianza del passato e perciò come fondamento del futuro; é un valore come fonte d'insegnamento, di cultura, e di godimento estetico; ed é un valore in termini strettamente economici, come risorsa primaria di quell'industria del turismo che acquista un peso sempre maggiore (e pone problemi sempre più urgenti per il suo governo).
La ricchezza costituita dalla cultura delle città é la maggiore risorsa per il futuro delle città europee. Condizione perché essa non venga dissipata, e possa dispiegare tutte le sue potenzialità, é che la città venga sottratta al suo possibile destino di crisi.
Le città europee tra concorrenza e integrazione
Le città d'Europa sono già in un unico mercato. Ciascuna di esse vuole attirare risorse, investimenti, flussi d'interesse e di visitatori, turisti, valuta. Ciascuna di esse teme che i flussi si dirigono altrove, che il suo rango cali di livello, che il suo peso politico diminuisca. Tra le città é in atto la concorrenza.
Dove i politici e gli amministratori sono più attenti alle ragioni del governo del territorio, si corre ai ripari, si lavora, ci si attrezza. Così, per timore della forza attrattiva già esercitata dalla grande concentrazione che da Londra, attraverso i Paesi Bassi e la Valle del Reno, si prolunga fino a Milano (la "banana blu"), le città della Francia e della Germania si stanno organizzando in reti, tentano di coordinarsi e spesso ci riescono con efficacia: rievocano dalla storia i fasti e i regolamenti della Lega anseatica e della Decapoli alsaziana per realizzare sinergie amministrative, economiche, promozionali all'altezza dei problemi di oggi.
Attraverso l'integrazione, cercano di diventare più forti sul terreno difficile della concorrenza. Per restare vittoriosamente sul mercato, mettono in gioco le loro qualità e si sforzano di accrescerle: le qualità ambientali, storiche, artistiche, e le qualità urbane: qualità dell'attrezzatura e dei servizi, qualità della vita, qualità dell'organizzazione dell'insediamento, qualità dei trasporti, qualità e ricchezza delle occasioni di incontro, di arricchimento culturale, di ricreazione.
L'investimento nella qualità é sempre più considerato, nelle società davvero moderne, la garanzia più forte per un futuro migliore: la socialdemocrazia tedesca l'aveva compreso più di vent'anni fa, nella Ruhr, la terra di Willy Brandt.
Per accrescere la loro qualità urbana e rafforzarsi mediante l'integrazione delle loro differenti potenzialità le città ben governate dell'Europa scelgono, come strumento e come metodo, la pianificazione territoriale e urbana. Lo ha detto recentemente il primo ministro della Francia, Pierre Bérégovoy: "Ho intenzione di fare della pianificazione territoriale, nella prospettiva della realizzazione dell'Europa, una vera priorità nazionale".
In Europa, l'urbanistica (questa pratica sociale vituperata negli anni 80 dai fautori della "modernizzazione" fasulla che ha prodotto Tangentopoli e la crisi economica), é di nuovo all'ordine del giorno. Ma quale urbanistica, per quale città?
UNA NUOVA URBANISTICA
Urbanistica e sviluppo: la città sostenibile
Una nuova urbanistica deve innanzitutto fare i conti con una nuova visione dell'economia.
L'urbanistica moderna, quella che in Italia si é affermata nel segno della legge 1150/1942, si é foggiata misurandosi con i problemi dell'espansione: espansione della città, espansione dell'urbanizzazione sul territorio, ed espansione dell'economia. Lo sviluppo (dell'economia e della città) é stato visto, concepito e misurato in termini meramente quantitativi.
Tutto questo è cambiato. La cultura urbanistica più attenta l'ha scoperto da tempo: l'età dell'espansione é terminata; siamo entrati ormai nell'età del recupero, del riuso, della riqualificazione. La cultura economica lo sta scoprendo anch'essa: misurare lo sviluppo nei termini quantitativi tradizionali significa condannare non solo la società, ma il genere umano alla morte.
Fare i conti con l'economia significa allora, per l'urbanistica, fare i conti con l'ambientalismo, con l'esigenza profonda che questo movimento esprime.
Al convegno dell'anno scorso abbiamo lanciato uno slogan che esprime questa tensione. Ci siamo rifatti alla definizione di "sviluppo sostenibile" coniata dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell'Onu per applicarla alla città. Per "sviluppo sostenibile" - si legge nel Rapporto della Commissione - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri". Per città sostenibile, dicevamo, bisogna intendere qualcosa in più. Così grave é la situazione di crisi che non basta "non compromettere" la capacità delle generazioni future. Non basta conservare la qualità urbana esistente, occorre aggiungerne. E abbiamo definito città sostenibile una città che soddisfi i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri.
Io penso che l'obiettivo della città sostenibile debba essere il fondamento della nuova urbanistica.
Urbanistica e politica: l'urbanistica é "una parte della politica"?
A volte si ragiona come se l'urbanistica fosse compito pressoché esclusivo di una determinata categoria professionale. Se il compito dell'urbanistica é quello di costruire la città del futuro, allora é evidente che non può essere così. Leonardo Benevolo, con la sua consueta rigorosa chiarezza, afferma, seccamente, che "l'urbanistica é una parte della politica".
Certo, l'espressione di Benevolo va interpretata. L'urbanistica é una "parte" che richiede determinati specialismi. Che, quindi, richiede un apporto determinante di tecnici determinati, debitamente formati, capaci di esplicare (nella sfera delle loro attribuzioni) l'autonomia necessaria per ogni attività creativa. L'urbanistica pretende un rapporto dialettico tra il personale politico e quello tecnico, tra le responsabilità e le capacità dell'uno e quelle dell'altro.
Ma guai a delegare intieramente all'urbanista tutte le scelte che concernono la città del futuro, e ad attribuire a lui solo le responsabilità di tracciare le linee del percorso, i traguardi, le priorità. E guai d'altra parte a ritenere che queste scelte possano essere tracciate da un mero atto di volontà politica, senza un'accurata prospettazione dei rapporti tra cause ed effetti, una verifica delle coerenze necessarie, una individuazione delle alternative possibili.
Guai a confondere, e guai a separare. Occorre distinguere i ruoli e gli apporti. Ma ciò che oggi soprattutto occorre (De Lucia lo ha detto con molta chiarezza nella sua relazione di ieri) é che, in Italia, la politica si riappropri della responsabilità di dare il suo determinante contributo alla soluzione dei problemi di fondo, delle scelte "di sistema" che sono necessarie per costruire una nuova città. Se così non avvenisse, ogni impegno sul versante della cultura urbanistica servirebbe solo all'accademia. Cioè a nulla.
Urbanistica e morale: uscire da Tangentopoli
Quando la politica non si occupa responsabilmente della città, la crisi investe il terreno della morale: Tangentopoli lo insegna. Non assumere le questioni dell'urbanistica come questioni politiche centrali significa abbandonare la città, e i grandi interessi che la sua trasformazione comporta, ai faccendieri della politica, dell'urbanistica e degli affari. Quando non si occupa dell'urbanistica la politica alta, essa diviene terreno di pascolo della politica bassa: diviene terreno d'impaludamento della politica.
Se appena si esce dalla retorica delle affermazioni generiche e dall'enunciazione acritica di tutti gli obiettivi (magari contrastanti) proponibili e di tutte le priorità (magari contraddittorie) elencabili, le scelte sul futuro della città coinvolgono interessi di grandissime dimensioni. Ogni ipotesi di trasformazione del territorio, ogni "progetto" (sia esso costituito da una sola operazione, come il caso della Fiat-Fondiaria a Firenze e in tutti gli altri episodi di urbanistica contrattata, sia che si tratti degli effetti cumulativi di una miriade di operazioni suscitate da una scelta urbanistica, come nel caso di una modifica delle norme di edificabilità), premia interessi economici di alcuni soggetti, e correlativamente punisce altre aspettative.
Basta un segno con il pennarello, o la correzione di un numero o di un avverbio nelle norme di un piano, per costruire ricchezze senza fatica per nessuno (se non per quei cittadini, di oggi e di domani, che pagheranno per le scelte sbagliate). Se così stanno le cose, come é pensabile che per un decennio almeno si siano calpestate, violate, svuotate le regole, nate dalla legge di cui oggi celebriamo il cinquantennio, cui era affidato quel tanto di trasparenza, di responsabilità, di dimostrabilità delle ragioni e delle conseguenze delle scelte, che il legislatore era riuscito ad escogitare?
Se le regole date non soddisfano, esse vanno cambiate con regole nuove. Non farlo, limitarsi a distruggere senza ricostruire, significa aprire varchi smisurati attraverso cui passano il malaffare, la corruzione, la prepotenza della concussione, e la stessa delinquenza organizzata. Risolvere la questione morale, denunciata da Enrico Berlinguer vent'anni fa e aperta dalla magistratura in questi mesi, significa ricostruire un sistema di regole per il governo del territorio: regole certe, valide nei confronti di tutti, blindate contro le deroghe e le violazioni.
QUALE PIANIFICAZIONE, PER QUALE CITTÀ
La pianificazione, metodo e strumento per il governo del territorio
In che modo però, sulla base di quale ipotesi sul ruolo del potere pubblico nel governo del territorio, con quali rapporti tra i vari livelli del potere pubblico e di questi con i poteri e le iniziative private occorre formare il nuovo sistema di regole? E quali metodi e quali strumenti sono necessari per definire nella chiarezza e nella reciproca responsabilità le scelte politiche e quelle tecniche, e delineare così (e sistematicamente gestire) il "progetto" del futuro della città? Quali attrezzi infine adoperare per avere ragionevoli garanzie del fatto che si progetta e costruisce una "città sostenibile", e non un informe e invivibile agglomerato di squallide e inquinate periferie?
E' necessario in primo luogo ribadire che le scelte che determinano l'assetto del territorio (di quel sistema cioè di cui le città costituiscono i principali punti di forza) sono di competenza degli enti pubblici elettivi, costituzionalmente e costitutivamente rappresentanti della volontà popolare e responsabili dei suoi destini.
Ma é poi necessario completare subito questa affermazione con un'altra, che tarda ancora (almeno nel nostro paese) a farsi strada. Occorre affermare che tutte le scelte suddette, che si tratti di tutele, infrastrutture, opere e politiche di competenza statale o regionale, o che si tratti delle più estese e compiute competenze delle province e dei comuni, non possono essere il prodotto di decisioni casuali, separate le une dalle altre, e quindi di necessità contraddittorie e alla fine inefficaci e inefficienti. E neppure possono essere unicamente il portato di politiche e programmi di settore, talché, ad esempio, con un programma per le autostrade si distrugge quello che si era deciso di conservare con la salvaguardia ambientale, o con un vincolo di tutela si impedisce quello che si era deciso di realizzare con un programma di infrastrutture.
Occorre, insomma, che ad ogni livello di governo le scelte che incidono sul territorio vengano definite, verificate nella loro coerenza complessiva e nei loro effetti, dimostrate nella loro necessità, rese trasparenti nel procedimento della loro formazione e nella loro attuazione, mediante l'applicazione dell'unico metodo il quale, allo stato degli atti, sia stato escogitato (e, fuori d'Italia, anche applicato) come idoneo a ottenere i risultati siffatti: il metodo della pianificazione territoriale e urbanistica.
Una nuova pianificazione
Prima di essere un insieme di strumenti, la pianificazione territoriale e urbanistica é un metodo. Questo metodo evidentemente richiede applicazioni diverse, e strumenti diversi, a seconda delle differenti situazioni alle quali si applica. Una pianificazione foggiata in relazione alle esigenze dell'espansione (qual'é quella che finora abbiamo conosciuto) deve evidentemente essere profondamente modificata in un'epoca in cui altre sono le prospettive e le esigenze. Una pianificazione immaginata quando la tutela dell'ambiente era preoccupazione soltanto di qualche intellettuale e qualche esteta é certamente insufficiente quando la questione ambientale diventa consapevolezza di massa. Una pianificazione costruita quando gli interessi privatistici dominanti erano quelli della grande proprietà fondiaria deve rivedere i suoi strumenti e le sue priorità in una realtà dominata dal grande capitale finanziario transnazionale.
Quale deve essere oggi la pianificazione? Per le cose che ho appena detto, certo una pianificazione diversa da quella del passato. Intanto, non dovrà ridursi a formare, una volta ogni tanto, un pacco di documenti contrassegnati dal nome "piano". Occorre passare "dal piano alla pianificazione". Occorre dar luogo a un'attività continua e sistematica di governo delle trasformazioni urbane e territoriali, caratterizzata dai due requisiti complementari, sussidiari, della coerenza e della flessibilità.
Ma per comprendere quale pianificazione é necessaria, occorre domandarsi: quale città vogliamo costruire con la pianificazione?
La premessa necessaria: il regime degli immobili
Vogliamo costruire innanzitutto una città libera di disporre del suo destino, e quindi affrancata dal dominio della proprietà immobiliare e della rendita. La questione del regime degli immobili é perciò basilare, oggi più che mai. L'attuale assenza di certezza e chiarezza é alla radice sia delle condizioni disastrose del nostro territorio urbano ed extraurbano, sia della diffusione di Tangentopoli.
Il Presidente del consiglio dei ministri in carica, accogliendo una proposta del Segretario del Pds, ha promesso di porre la questione all'ordine del giorno dell'attività legislativa proprio per "consentire ai comuni di superare la prassi dell'urbanistica contrattata". Non si tratterà quindi solo di indennità di espropriazione, si tratterà di regime degli immobili: di decidere che cosa appartiene alla collettività e che cosa appartiene al proprietario, in termini economici e in termini di poteri, in ogni trasformazione di rilevanza urbanistica operata sugli edifici e sulle aree.
Alcuni princìpi vanno affermati con forza, e devono costituire i cardini di una nuova politica in materia. Voglio proporli alla discussione appunto come punti politici, sui quali il confronto non può essere solo specialistico.
Il primo punto é che il potere di decidere quali trasformazioni aventi rilevanza urbanistica siano ammissibili e quali no (ossia, in concreto, il potere di decidere le scelte sul territorio) spetta al potere pubblico, il quale lo esercita mediante gli strumenti della pianificazione. E lo esercita davvero, non mettendo lo spolverino alle decisioni prese dal capitale finanziario o immobiliare, come nell'urbanistica contrattata.
Il secondo punto é che il valore riconosciuto alla proprietà immobiliare (in caso di espropriazione, o di acquisto, o di convenzionamento dell'uso, o in qualunque altra transazione tra pubblico e privato) non deve comprendere le quote, o gli incrementi, derivanti dalle decisioni, dagli interventi e dalle opere della collettività, ma deve compensare solo l'uso legittimo del bene. Questo principio, del resto, era già contenuto nella legge generale delle espropriazioni del 1865.
Il terzo punto cardine di una nuova politica immobiliare é che il meccanismo di determinazione dei valori deve essere tale da rendere i proprietari indifferenti alle destinazioni dei piani. Questo principio é essenziale per ottenere la perequazione tra le differenti situazioni proprietarie. Esso é decisivo non solo dal punto di vista delle disparità di trattamento che si determinerebbero se non fosse ottenuto, e quindi delle censure di costituzionalità, ma anche perché non raggiungerlo significherebbe subordinare di fatto la pianificazione alla contrattazione con i proprietari, e quindi perpetuare le condizioni che hanno favorito l'espansione di Tangentopoli.
Il quarto punto é che la determinazione dei valori degli immobili deve essere tale da non essere punitiva nei confronti dei proprietari e da non privarli dell'investimento che hanno effettuato. Questo risultato deve ovviamente essere raggiunto secondo modalità che non siano contraddittorie con i punti precedenti. Ciò é possibile consentendo al proprietario di ottenere, in alternativa al "valore standard" l'equivalente del prezzo che é stato corrisposto, e dichiarato in atti pubblici, nell'ultima transazione.
La proposta di legge che Luigi Scano ha predisposto per l'associazione Polis, e che illustrerà più tardi, é una delle possibili traduzioni (a mio parere particolarmente rigorosa e completa) di questi punti politici in una più complessiva normativa dei modi e degli istituti attraverso i quali esplicare un efficace governo del territorio. Ma disporre di un testo legislativo idoneo non é sufficiente per condurre davvero una politica fondiaria efficace e moderna. Così come, del resto, non disporne ancora non é una buona ragione per accodarsi agli interessi fondiari e subirne la volontà, come troppe amministrazioni pubbliche ancora fanno.
I contenuti: qualità ambientale, qualità sociale
Qualità ambientale, qualità sociale: queste due espressioni racchiudono l'insieme dei requisiti che chiediamo alla città del futuro.
Qualità ambientale. Significa in primo luogo tutela delle qualità naturali e storiche presenti: tutela dei centri storici (ancora oggi devastati dalla miopia culturale dei progettisti e dalla miopia politica degli amministratori, come la Città vecchia di Trieste, minacciata in questi giorni di distruzione da un devastante "piano di recupero"), nelle loro caratteristiche fisiche e nella loro struttura sociale; tutela delle ville ancora presenti, delle pendici collinari, dei lembi di campagna e dei casali interclusi nelle periferie; tutela di tutti i segni che il sapiente intreccio tra storia e natura hanno lasciato a testimonianza di una civiltà.
Significa poi costruzione di qualità nuove, soprattutto là dove la speculazione, l'incuria e l'individualismo sfrenato di diplomati o laureati presuntuosi o avidi hanno costruito ambienti invivibili. Qualità nuove da realizzare in primo luogo ridisegnando il sistema degli spazi ed edifici pubblici e del verde, costituendo in essi un sistema delle qualità, una trama continua di percorsi pedonali e ciclabili nel verde che leghi in un'unica trama i luoghi della bellezza, della ricreazione, della socializzazione: i luoghi propriamente "urbani".
Significa infine protezione delle risorse e dell'integrità fisica della terra, dell'acqua e dell'aria. Significa disinquinare e smaltire i rifiuti senza produrre ulteriore inquinamento, ma significa in primo luogo produrre meno inquinamento, meno rifiuti. Significa sottrarre meno terreno possibile al ciclo naturale, asfaltare e cementificare nella più stretta misura possibile, occupando prima degli altri (se impermeabilizzare nuovi terreni é davvero indispensabile), i suoli già sottratti al ciclo biologico. Significa progettare la città in modo da risparmiare energia e ridurre l'impatto delle costruzioni sul clima, e quello del trasporto sulla produzione di aeriformi nocivi. Significa perciò anche più tram e meno automobili, ma significa in primo luogo progettare città dove l'energia (e il tempo) necessari per i percorsi casa-lavoro, casa-servizi, servizi-lavoro siano i minori possibili.
Qualità sociale. Significa certo, in primo luogo, una città che funzioni. Una città nella quali i luoghi in cui il cittadino deve recarsi (per lavorare e per riposarsi, per curarsi e per educarsi, per nascere e per morire, per comprare e per vendere, per incontrare altri o per meditare da solo) siano riconoscibili, piacevoli, raggiungibili con il minimo dispendio di tempo e di energia.
Significa una città che funzioni per tutti: una città al cui interno non ci sono barriere, e quelle che ci sono siano facilmente superabili dai forti e dai deboli: penso, più che alle "barriere architettoniche", a quelle barriere invisibili costituite dalla selezione sociale a sua volta determinata dai prezzi delle case. Significa perciò anche una città nella quale le qualità e i luoghi d'attrazione (i grandi servizi urbani, il terziario, gli spettacoli) non siano tutti localizzati nel centro della città, ma siano adoperati come elementi di riqualificazione e di vitalizzazione delle periferie e facciano di queste non le parti subalterne e marginali della città, il "rovescio" del centro, ma parti dotate delle stesse qualità e degli stessi diritti.
Significa una città nella quale le infrastrutture per il trasporto siano organizzate per il cittadino e non per l'automobilista. In cui sia realizzato quell'obiettivo che il Libro verde sull'ambiente urbano della Cee proponeva: "rendere l'automobile un'opzione, non una necessità". In cui il trasporto pubblico abbia la priorità assoluta degli impegni, degli investimenti, degli spazi urbani. In cui i parcheggi non siano collocati nei luoghi centrali (o addirittura nei centri storici o ai loro margini), ma nei punti di scambio periferici dove si può lasciare l'automobile e prendere il tram o la metropolitana. Una città, un sistema urbano in cui i diversi vettori del trasporto pubblico (i treni, la metropolitana, i tram e gli autobus, l'aereo, le navi e i traghetti) non siano progettati e gestiti come entità separate, ma come elementi d'un unico sistema: al servizio del cittadino, non dell'azienda.
A ben vedere, una città dotata di qualità urbana é una città dotata di qualità ambientale. I requisiti necessari per costruire la "città sostenibile" sono ben più che la base di partenza per conquistare la "città sociale": ne costituiscono parte sostanziale. La "città sostenibile" é già, in una misura ampia, anche la "città sociale".
Le procedure: chiarezza, responsabilità trasparenza,
Le procedure di formazione di un qualsiasi atto esprimono il modo in cui le diverse volontà, i diversi poteri coinvolti in quell'atto concorrono a formarlo. Gli atti della pianificazione esprimono (dovrebbero esprimere) la volontà d'un unico potere: la collettività, l'insieme dei cittadini. Nel nostro regime la volontà dei cittadini é espressa nelle forme della democrazia parlamentare, fissate dalla costituzione repubblicana. E' a quelle forme, é agli istituti che esse configurano che occorre quindi riferirsi: in particolare, agli istituti a rappresentatività generale e territoriale, cioè al Comune, alla Provincia o alla Città metropolitana, alla Regione, allo Stato. Oggi i rapporti tra questi istituti (tra questi livelli di governo) sono caratterizzati dalla confusione e dall'incertezza, dalla deresponsabilizzazione e dalla prepotenza. I giuristi dicevano che gli atti di pianificazione sono atti amministrativi complessi: in realtà sono diventati, a causa del sovrapporsi caotico di leggi, decreti, regolamenti e comportamenti, soltanto atti complicati. Occorre riordinare profondamente la materia, ispirandosi a pochi princìpi chiave.
Occorre stabilire in primo luogo quali sono gli oggetti e gli aspetti di competenza di ciascun livello di governo. L'ipotesi più convincente é che rientri pienamente nelle competenze di ciascun livello (nazionale, regionale, provinciale o metropolitano, comunale) la determinazione prima (propositiva) e ultima (decisionale) circa quegli elementi e aspetti della struttura territoriale che hanno influenza diretta sulle trasformazioni che operano a quel livello.
Per dirlo in termini formalmente più corretti, si tratta di assumere come criterio quello per cui devono spettare all'ente esponenziale dell'aggregazione comunitaria più vasta tutte, e soltanto, le funzioni relative ad aspetti che incidono su interessi la cui titolarità non sia interamente riconducibile alle aggregazioni comunitarie meno vaste. Si tratta, in sostanza, di quello che la Cee definisce "principio della sussidiarietà".
Una volta stabilite quali sono le competenze di ciascun livello, diventa poi agevole stabilire procedure che consentano precisa attribuzione di responsabilità, concorso di ogni livello sulle decisioni di competenza degli altri, tempestività e anzi automaticità dei tempi. Alcuni di noi stanno lavorando da molti anni a proposte che possano risolvere in modo soddisfacente il problema. Questo convegno potrà essere l'occasione per verificare se il lavoro merita di essere proseguito, e portato a una conclusione politica.
La chiarezza delle responsabilità e delle competenze aiuta poi a risolvere l'altro grande problema: quello di render chiare ed esplicite al cittadino le scelte, le loro motivazioni e conseguenze, le responsabilità circa la loro formazione e la loro attuazione. Si tratta del grande problema della trasparenza. Parlo di problema, perché mi sembra che ancora non sappiamo bene che cosa bisogna intendere con questo termine, e soprattutto in che modo dobbiamo attrezzarci per raggiungerlo. Non basta cambiar nome all'Ufficio reclami o all'Ufficio informazioni. Occorre un'operazione più complessa, che forse esige specifiche e nuove professionalità, modi nuovi di elaborare i media: non come semplificazione spesso distorcente, ma come compiuta interfaccia degli atti tecnici, amministrativi e legislativi, per loro natura complessi e perciò stesso poco comprensibili a chi non abbia le conoscenze necessarie.
Gli strumenti: competenze, strutture, partecipazione
Sappiamo ormai da tempo che la pianificazione, se deve servire davvero a costruire una città migliore, non può essere un'attività episodica. Essa é un modo di governare le trasformazioni territoriali da parte della pubblica amministrazione: un modo nuovo, profondamente diverso da quello tradizionale. Ma se é così, allora certamente la questione che viene prepotentemente in campo é la necessità assoluta e urgente che la pubblica amministrazione, a tutti i livelli, si attrezzi per divenir capace di assumere davvero il metodo della pianificazione quale suo generale criterio di condotta.
E' finito, deve essere finito il tempo in cui la pianificazione si riduceva ad affidare a un'équipe tecnica estranea alla pubblica amministrazione il compito di redigere il piano, poi consegnandolo infiocchettato al Sindaco o al Presidente. E' esperienza comune di tutti i paesi realmente "moderni" dell'Europa, e anche delle regioni italiane dove la cultura della pianificazione non é una parola vuota: si può governare il territorio in modo efficace, conforme agli obiettivi politici e culturali che la collettività si pone, solo là dove l'amministrazione pubblica é dotata di strutture efficienti, autorevoli, competenti, capaci di richiedere e di utilizzare competenze esterne senza delegare ad esse la propria responsabilità.
In questa direzione c'é moltissima strada ancora da compiere nel nostro paese. Per percorrerla fino in fondo c'é da risolvere una questione di non piccolo momento: é quella del rapporto tra responsabilità del politico, dell'amministratore, e responsabilità del tecnico, del funzionario comunale o provinciale o statale che sia. E' un aspetto del problema, cui prima ho accennato, del rapporto tra urbanistica e politica: ma é un aspetto che rinvia a sua volta a questioni ancor più generali, che riguardano la distinzione (e l'intreccio) tra le sfere della politica, delle istituzioni, della società. Sembra a me che un modo di concepire la pianificazione, distinguendo in essa le parti, e le scelte, che hanno un maggior carattere di "tecnicità" o di "oggettività" da quelle che rivestono una più marcata rilevanza "sociale" o "politica" (come alcuni di noi da qualche tempo si sforzano di proporre) possa aiutare in questa direzione.
C'é moltissima strada da compiere, soprattutto in alcune aree. Penso in particolare alle strutture degli enti locali, che mi sembrano, nelle zone più "felici" del paese, in uno stato di profonda e regressiva demotivazione, e nelle altre zone praticamente inesistenti. E penso in particolare al Mezzogiorno, dove paradossalmente l'intervento straordinario sembra aver spento del tutto - anziché stimolare e sorreggere - la possibilità di costruire gli strumenti di un'azione ordinaria per il governo del territorio. Peggio ancora, ha contribuito a ridurre il ruolo del potere pubblico a quello, più che di mediatore, di complice e socio di gruppi d'interessi privati, spesso malavitosi.
Questo é davvero l'obioettivo e l'impegno centrale: la ricostruzione (e, spesso, la costruzione ex novo) di una burocrazia pubblica autorevole ed efficiente, a tutti i livelli ma soprattutto e in primo luogo a livello degli enti local. Si tratta davvero di un'impresa politica così ardua da far tremare le vene e i polsi a chi voglia impegnarvisi. Ma senza affrontare e risolvere con risolutezza questo problema é impensabile che il nostro paese possa effettivamente "modernizzare" la propria vita sociale e la propria struttura economica, che possa tenersi al passo con quelli che guidano la costruzione dell'Europa. Ed é altrettanto impensabile (concordo pienamente con le posizioni espresse in più occasioni da Sabino Cassese) che si possa davvero sconfiggere la corruzione politica, che é indubbiamente alimentata anche dalle disfunzioni e dalle sregolatezze dell'amministrazione pubblica.
La responsabilità del futuro
Per accontentare questa o quest'altra categoria di cittadini (i pensionati o i farmacisti, i metalmeccanici o i pacifisti, gli imprenditori o i risparmiatori, i cacciatori o i commercianti) possono bastare impegni politici congiunturali, o al più di medio periodo. Per affrontare in modo non effimero la questione urbana é indispensabile un impegno di lunga lna: é necessario saper guardare a un futuro che si prolunga molto al di là del mandato elettorale.
Questa é probabilmente la ragione per cui l'urbanistica, in Italia, ha avuto la fortuna dell'attenzione solo nei grandi momenti di progettualità politica: solo quando la politica era essa stessa proiettata verso il futuro - e verso un futuro di cambiamento radicale, nutrito da una critica impietosa della situazione data. E questa é anche (e per converso) la ragione per cui l'urbanistica é stata gettata alle ortiche quando hanno prevalso l'opportunismo, la rincorsa dell'emergenza, la ricerca del potere per il potere, l'indifferenza ai contenuti e ai discrimini tra le posizioni. Quando insomma la forza vincente é stata costituita dal connubio tra doroteismo (non solo democristiano) e rampantismo pseudo modernizzante (non solo socialista).
Oggi, però, siamo chiaramente a un bivio. O la politica - la politica della sinistra - ha la forza di superare i modi della politica dell'ultimo ventennio, e insomma ha la capacità indicare un futuro convincente e credibile nel quale tutti i cittadini possano riconoscersi e per il quale possano lavorare e sperare, e allora essa stessa ha un futuro, una prospettiva. Oppure, se ciò non accadrà, allora sarà inevitabile la vittoria di quelle forze disgregatrici che si alimentano, lusingandole, della miriade di insoddisfazioni, frustrazioni, mortificazioni che la nostra disordinata società, e i suoi obsoleti ma ancora irremovibili reggitori, producono a getto continuo.
Come poche altre questioni, quella urbanistica offre alla politica l'occasione di costruire un progetto e un programma per il futuro. Sta alla politica coglierla, smettendo di oscillare tra delega ai tecnici e indifferenza per le loro ragioni.
Da il manifesto, 5 febbraio 2008
La vicenda del piano
Lo strumento urbanistico ancor oggi vigente per il centro storico di Venezia è costituito dai PP adottati nel 1974 e approvati dalla regione nel 1979. Sono dei PP fortemente atipici. Hanno il livello di (im)precisione di un tradizionale PRG, e devono essere attuati mediante uno strumento anch'esso atipico che è il Piano di coordinamento (praticamente, un vero e proprio PP). Questa stranezza veneziana deriva da complesse ragioni politiche, legate ai rapporti che intercorrevano tra il '70 e l'80 tra le diverse forze politiche veneziane e tra le istituzioni e l'opinione pubblica cittadina e quelle nazionali e internazionali.
La storia dei PP del 1974-79 è parte della storia della legge speciale per Venezia del 1973: delle sue intuizioni e delle sue illusioni, dei suoi equivoci e dei suoi errori. Qui interessa annotare che i PP furono approvati definitivamente nel 1979, e che già l'anno successivo cominciammo a lavorare per formare un piano regolatore del tutto nuovo.
Abbiamo cominciato a lavorare al nuovo piano per il centro storico nel 1980-81. Nel precedente quinquennio (1975-80) la maggioranza PCI-PSI si era formata proprio sul tema dei PP (la cui adozione aveva visto uno schieramento DC, PSI e PCI e aveva costituito l'avvio di quel ribaltamento delle alleanze che diede vita, nel 1975, alla prima giunta di sinistra a Venezia).
Al centro del suo programma quella giunta aveva il completamento dell'iter e l'attuazione di quegli anomali PP In questo tentativo si è consumato il mio primo mandato di Assessore all'urbanistica. Il periodo 1975-80 appare per la verità molto più fruttuoso di quanto oggi qualcuno ne dica. Esso è servito, "in negativo", a verificare nel concreto l'impossibilità di attuare quei piani particolareggiati e i meccanismi da essi previsti. Ma esso è servito anche ad avviare una serie di iniziative di risanamento e di riqualificazione urbana, con molti interventi di recupero e alcuni qualificati interventi di completamento urbano. Ed è servito poi soprattutto - questo è il punto che voglio sottolineare in questa sede - a sperimentare un nuovo metodo di pianificazione.
Abbiamo insomma colto le diverse occasioni di pianificazione estese ad ambiti limitati che i programmi comunali indicavano (specialmente i primi 7 "piani di coordinamento" e il Piano particolareggiato di Burano) per elaborare via via nuovi criteri normativi. E abbiamo utilizzato i progetti edilizi che l'Amministrazione redigeva o seguiva o controllava per verificare l'impatto delle norme nel concreto degli interventi edilizi. E' stato un lavoro molto faticoso e, nel breve periodo, poco gratificante, ma molto utile, perché ci ha permesso di comprendere che cosa precisamente andava analizzato, e come, per poter costruire regole che consentissero agli operatori di intervenire in modo diffuso sullo stock edilizio.
Abbiamo così, passo per passo, costruito quello che in buona misura ci sembra possa essere definito un metodo nuovo. All'inizio del mio secondo mandato di Assessore all'Urbanistica, nel 1980, ho proposto di applicare quel metodo in modo generalizzato all'intero centro storico veneziano, per estenderlo poi al resto del territorio comunale.
La Giunta non approvò mai formalmente il mio programma di lavoro. Forse era un documento troppo complesso, che oggi però varrebbe la pena di rileggere perché mi sembra che anticipi molti dei ragionamenti che in questi anni sono diventati opinione comune. Più probabilmente, ha influito il fatto che in quegli anni (parlo dell'inizio degli anni '80) la pianificazione urbanistica, e la logica della programmazione, non godevano di molto credito, in Italia e anche a Venezia. Si preferiva rincorrere l'emergenza, praticare la deroga, godere dei vantaggi della discrezionalità.
La Giunta, tuttavia, approvò volta per volta gli atti che via via proponevamo come necessari per procedere nel lavoro di costruzione del nuovo piano. Abbiamo così potuto produrre le basi materiali del piano regolatore che oggi presentiamo:
1) il fotopiano a colori in scala 1:500;
2) la cartografia computerizzata;
3) la planimetria, al livello del piano tipo, degli edifici dell'intero centro storico.
Questi elementi costituiscono le prime fondamentali componenti di quel Siute (Sistema informativo urbano territorializzato) che è ormai pronto a "girare" nel centro elettronico dell'Assessorato all'Urbanistica, non appena sarà risolto il problema del rientro del tecnico formato per gestirlo.
Insieme alle basi materiali, abbiamo predisposto le basi di analisi. Tre soprattutto voglio ricordarne: la schedatura e mappatura delle utilizzazioni attuali degli edifici, l'analisi delle tipologie strutturali delle unità edilizie, il rilevamento e la mappatura di tutti gli spazi scoperti e delle essenze arboree. Queste analisi, il loro livello di approfondimento, la loro estensione all'intero centro storico (che è, ricordiamolo, il più grande d'Italia insieme a quello di Roma, e il più abitato del mondo), sono state decisive per poter redigere un piano quale quello che vi stiamo illustrando. Essenziale però è la capacità di aggiornarle con continuità e sistematicità: mi riferisco in particolare all'analisi delle utilizzazioni degli edifici, che è già fortemente e inevitabilmente datata e che andrebbe invece, adoperando il Siute, aggiornata in tempo reale, per poter adeguare le componenti programmatiche del piano alle modificazioni della realtà.
Il lavoro che vi ho sinteticamente descritto era stato in gran parte completato alla fine del quinquennio 1980-'85
Si è praticamente fermato per un paio d'anni, nei quali ha governato una giunta DC-PSI; in quegli anni purtroppo è stato in qualche misura anche smantellato l'ufficio che lo stava elaborando. Il lavoro è ripreso poi ed è stato portato a termine con la Giunta rosso-verde, grazie soprattutto alla sintonia con Stefano Boato, e alla larga fiducia che quest'ultimo ha dato a Edgarda Feletti, a Luigi Scano e a me.
Illustrazione sintetica del nuovo piano
Prima di dare la parola a Feletti e a Scano, che illustreranno più puntualmente il nuovo piano soprattutto nei suoi contenuti metodologici, vorrei provarmi a darne una descrizione sintetica, riferendomi prima al rapporto tra piano e spazio, e poi al rapporto tra piano e tempo.
Il piano e lo spazio
Per la parte del territorio del centro storico in cui si prevede ( e prescrive) la conservazione del disegno urbano preesistente, il piano classifica tutte le unità elementari di spazio in funzione operativa. In particolare, le unità edilizie (e cioè gli edifici caratterizzati da unità di volume e di prospetto) sono classificate in una quarantina di classi sulla base di un'analisi delle tipologie strutturali. Per ogni classe, sono definite sia le regole delle trasformazioni fisiche consentite o prescritte (quali elementi strutturali e funzionali devono essere conservati o ripristinati, e come; quali possono essere modificati, e come, o eliminati), sia la gamma delle utilizzazioni compatibili.
Ciò che mi interessa adesso sottolineare è che, in questo modo, ogni concreta unità edilizia è riferita a un tipo, e per ogni tipo c'è una scheda normativa che dice quello che si può fare e quello che non si può fare.
Per questa parte, il piano è interamente attuabile mediante semplice concessione o autorizzazione edilizia, sulla base di singoli progetti edilizi. Il che, per un piano regolatore generale di un centro storico che comprende 13 mila unità edilizie, non è davvero poco.
Fanno eccezione all'intervento diretto solo quelle parti del centro storico (si tratta di 50 ambiti) nelle quali sono ritenute necessarie, e quindi sono prescritte o ammesse, trasformazioni consistenti o dell'assetto fisico (come per esempio la Marittima, o la decina di insediamenti Iacp incongrui con la morfologia urbana) o dell'assetto funzionale (come per esempio l'Arsenale storico) o dell'uno e dell'altro insieme (come le aree di San Basilio, Stucky, Manifatture Tabacchi, S. Maria Maggiore, ex Inceneritore, ecc.).
Per queste aree il piano prevede la formazione di piani particolareggiati. Per ciascuno degli ambiti si prescrivono con precisione quantità, utilizzazioni e direttive per l'organizzazione fisica e morfologica, ma non si prescrivono indicazioni grafiche, "disegni".
Si tratta di interventi che si faranno magari tra dieci o quindici o magari cinquant'anni anni. Sarebbe sbagliato irrigidire in soluzioni formali, inevitabilmente approssimative, qualità che devono essere il prodotto di una progettazione attenta, strettamente calibrata sulle necessità (e sulla cultura) del momento in cui l'intervento in questa o quell'altra area diventerà operativo.
Il piano e il tempo
Per quanto riguarda il rapporto tra il piano e il tempo, provate a immaginare il piano come la somma di due parti: una parte fissa nel tempo, e quindi valida a tempo indeterminato (almeno in termini schematici), e una parte invece mobile, o più esattamente valida per un arco temporale breve (per esempio, cinque anni, tempo corrispondente a quello di un mandato amministrativo).
In realtà, nella pianificazione una serie di indicazione e prescrizioni sono fisse, valgono sempre, costituiscono delle invarianti rispetto a tutte le modifiche della realtà immaginabili, altre invece hanno una validità legata a previsioni, a esigenze, a impostazioni politiche, a programmi che hanno una limitata validità nel tempo. Questa differenza vale in particolare, e soprattutto, per le cosiddette "destinazioni d'uso", cioè per le funzioni, gli usi cui possono essere adibite le diverse unità di spazio.
Noi abbiamo distinto due aspetti. Da un lato, le regole delle trasformazioni fisiche e le utilizzazioni compatibili. Per ogni categoria di unità edilizie (come per ogni categoria di unità di spazio scoperto) il piano stabilisce quali sono le regole e quali tutte le utilizzazioni che sono compatibili con le particolari caratteristiche di quel tipo, cioè le utilizzazioni che sono tali da non stravolgere, ma anzi utilizzare al meglio le unità edilizie che appartengono a quella classe. Si tratta normalmente di una gamma ampia, che nella normativa abbiamo dettagliato molto pere evitare genericità e discrezionalità. Questa gamma di utilizzazioni compatibili evidentemente è valida a tempo indeterminato.
All'interno di questa gamma, la parte programmatica del piano stabilisce, ad ogni quinquennio (cioè con un ciclo corrispondente a quello del mandato politico-amministrativo) quali sono, nel prossimo quinquennio e solo per questo, le utilizzazioni - anzi, in questo caso, le destinazioni d'uso - che sono obbligatoriamente prescritte.
Ogni quinquennio insomma, tenendo conto delle condizioni sociali, delle possibilità economiche, degli indirizzi politici, delle disponibilità degli operatori, il Consiglio comunale (mentre verifica e aggiorna la parte "fissa" del piano), rielabora integralmente la parte "programmatica" del piano: stabilisce di nuovo quali sono, nell'ambito della gamma ampia di utilizzazioni compatibili con i vari tipi edilizi, le destinazioni d'uso che devono, o possono essere attivate nel periodo successivo.
E stabilisce anche quali sono gli ambiti per i quali si procederà alla formazione dei piani particolareggiati, e approva quelli nel frattempo redatti. Naturalmente una simile impostazione, se apre la strada a una adeguata ridefinizione e distinzione delle competenze del tecnico e dell'eletto, della cultura e della politica, e se riesce ad avvicinarsi ad entrambi gli obiettivi della coerenza e della flessibilità, richiede - per il suo pieno esplicarsi - di una condizione irrinunciabile: una struttura di pianificazione e gestione comunale solida, efficiente, autorevole, e dotata degli attrezzi necessari per operare con continuità, sistematicità ed efficacia. Il Siute è un primo passo significativo in questa direzione
Possibilita e condizioni di un nuovo assetto della residenza
di Edoardo Salzano
Da La Rivista Trimestrale. Storia, economia, politica, letteratura, diretta da Franco Rodano e Claudio Napoleoni, dita da Paolo Boringhieri, n. 15-16, settembre - dicembre 1965, pp. 572-605
Se non ci si lascia ingannare dalle molteplici sfumature, dalle coloriture particolari, dalle diverse sfaccettature nelle quali si riflette l'intricata sedimentazione di opinioni, esigenze, ideologie, interessi, tradizioni e consuetudini, situazioni storiche e sociali, che si aggroviglia attorno alla questione della casa, e se ci si studia invece di distinguere - al di sotto di un simile variegato intreccio - quali siano le posizioni di fondo relative a tale questione, ci si accorge facilmente che esse, in ultima analisi, sono riconducibili a due soltanto.
Da un lato, infatti, v'è quella che potremmo definire “concezione individualistica della casa”; la concezione cioè, ancestrale, tradizionale e oggi divenuta dominante, per cui si considera la casa come un qualsiasi bene di consumo fruibile individualmente: nel caso specifico, come il luogo entro il quale l'individuo - con la sua famiglia - esaurisce tutte le sue esigenze relative all'abitare, nella più assoluta indifferenza per quanto avviene al di là dell'uscio.
Dall'altro lato si va affermando una posizione - certamente diversa dalla prima, sebbene non ancora esplicitamente antitetica rispetto a essa -nel cui ambito la casa, pur definita ancora in modo approssimativo e generico come un “servizio sociale”, viene comunque concepita, in sostanza, come uno dei vari momenti della residenza (l'alloggio, la scuola, il parco, la chiesa, l'ospedale, il negozio, la biblioteca, la strada) intrinsecamente legato agli altri: strettamente e organicamente integrato, in particolare, a quei momenti della residenza, a quegli elementi dell'habitat, che costituiscono da sempre il luogo delle esigenze soddisfacibili mediante un consumo comune, e che gli urbanisti non a caso definiscono “attrezzature collettive”.
La casa come isola, come luogo di abitazione esclusivizzato e chiuso secondo le esigenze dell'individuo e della sua famiglia; la casa, invece, come elemento - uno degli elementi - dell'habitat civile, come cellula elementare e organica della struttura urbana, come parte della città: queste sono dunque, nel loro nocciolo, le due fondamentali posizioni in merito alla concezione della casa; questi sono i due modi, tendenzialmente cotrapposti, di concepire la casa dell'uomo e, conseguentemente, di analizzare i suoi problemi e di configurare le possibili soluzioni. Ma - vogliamo domandareí ora - quali sono, se non le origini, le più immediate radici storiche e culturali dell'una e dell'altra posizione? A quali eredità esse si riallacciano, di quale patrimonio ideale costituiscono il prolungamento?
È chiaro che una risposta esauriente a un simile interrogativo pretenderebbe uno studio assai ampio, che non può essere compiutamente affrontato nello spazio di queste note; tuttavia, basandoci anche sui risultati di una ricerca sulla città che abbiamo svolto nei precedenti fascicoli di questa rivista, ci proveremo a dare almeno un inizio di risposta.
Per quanto riguarda la prima delle due concezioni sopra enunciate, si può intanto osservare che la casa è sempre stata vissuta individualisticamente dall'uomo; e non a caso abbiamo già affermato che la concezione individualistica della casa è quella ancestrale, poiché essa affonda certamente le sue radici nel più oscuro e remoto passato della storia del genere umano.
Tuttavia, come vedremo meglio in seguito, una simile concezione è esplosa, fino a ridurre interamente a se medesima tutto l'habitat, nel momento del trionfo della borghesia; in essa infatti si riflette e si esprime pienamente - sul terreno specifico della questione della casa - quell'índividualismo prevaricatore, aggressivamente proteso a informare di sé l'intera realtà sociale, che costituisce una caratteristica peculiare dell'ideologia e della stessa figura sociale del borghese.
Per quest'ultimo invero, mentre l'unica dimensione in qualche modo comune è quella, oggettivamente e strumentalmente “sociale”, della produzione, l'intera vita personale e familiare - la vita degli affetti, delle consuetudini quotidiane, delle attività disinteressate, delle necessità dei consumi - si risolve tutta sotto il segno del privatismo e dell'individualismo connaturato allo spirito borghese.
Certo, sul piano storico un simile individualismo ha dovuto trovare, nel periodo della nascita e della prima affermazione della classe borghese, il suo limite e il suo condizionamento nella promozione di determinati interessi comuni; ed è appunto per questa necessità - in concreto per le esigenze politiche e militari della lotta contro il signore[1] - che la borghesia, nel suo autonomo affermarsi, mentre è stata intrinsecamente condotta a determinare il sempre più largo e irreversibile passaggio dell'insediamento umano dalla forma dispersa a quella forma concentrata che è la sola omogenea al carattere “sociale” del capitale, e mentre quindi ha dato materialmente vita al trionfo della città, ha potuto poi conferire a quest'ultima una forma autonoma unicamente perché (e solo nella misura in cui) è stata costretta a configurarla come il luogo della comunità in quanto tale.
E però - come abbiamo ampiamente argomentato nella nostra precedente ricerca - quando quelle esigenze politiche e militari sono venute a cessare, l'individualismo peculiare alla borghesia ha ripreso il sopravvento e ha continuamente teso a negare e a contraddire quella dimensione del consumo comune che è necessaria alla pienezza della città. Così quest'ultima, nonostante i tentativi di recuperare almeno parzialmente taluni elementi di quella sua dimensione comune, è stata sempre più sospinta verso la dissoluzione della sua forma, verso la sua trasformazione appunto in un aggregato informe - solo estrinsecamente e sempre parzialmente ordinabile - di particelle proprietarie e di privati edifici, e non ha potuto comunque conseguire alcun dispiegato sviluppo; così, parallelamente, la residenza si è sempre più risolta in un insieme di individuali dimore, cui le residue “attrezzature comuni” non erano più capaci di conferire alcun organico legame, alcuna autonoma forma.
Una conclusione si può dunque trarre da tutto ciò: l'ancestrale concezione individualistica della casa, esaltata ed esclusivizzata dalla borghesia, è antitetica rispetto a quel processo storico che ha condotto dall'insediamento disperso alla città, e tende anzi a negare la città medesima. E tuttavia, basta guardarsi intorno, basta vedere le nostre città paralizzate e guastate dal privatismo dominante nel mercato delle aree fabbricabili, nei trasporti; nella progettazione, costruzione e uso delle dimore, per rendersi conto che quella concezione è, ancor oggi, la concezione dominante; che quindi è con essa che è necessario fare i conti, per liquidarla.
Ma la concezione individualistica della casa non è l'unica eredità che la storia ci ha tramandato; non è quindi necessario, per liquidarla, ripartire da zero. E in realtà ci sembra che la concezione della casa come “servizio sociale” - nei termini, almeno, in cui l'abbiamo più sopra enunciata - possa costituire il punto di partenza per la ripresa di uno sviluppo organico di quel processo che è giunto a fondare e ad affermare l'insediamento concentrato come città, solo perché l'ha configurato come il luogo di determinati consumi comuni.
D'altra parte la storia della città (come del resto la medesima letteratura urbanistica) ci fornisce una serie di esempi i quali comprovano il fatto che l'esigenza di considerare la casa come un elemento strettamente e intrinsecamente legato ai luoghi del consumo comune, alle “attrezzature collettive”, non sia un'esigenza che nasce oggi, ma sia invece affiorata nei momenti più felici della storia della città, nelle intuizioni più valide e nelle proposte più anticipatrici dei maggiori esponenti della cultura urbanistica.
Si rifletta, ad esempio, sul rapporto tra dimora e luoghi pubblici nella città del medioevo comunale; non è chiaro forse che in questo illustre esempio le case nascono d'un solo getto con gli spazi e gli edifici destinati alle comuni funzioni, alle comuni necessità, ai comuni interessi? Spesso sono le case medesime a costituire, nella loro aggregazione preordinata, la prima e decisiva attrezzatura pubblica: la cinta difensiva. Quasi sempre sono le case, disposte secondo un disegno sapiente e consapevole, a formare gli invasi delle piazze civili e religiose e mercantili: del sistema di spazi, dunque, organicamente connessi e coordinati tra loro, che è il luogo stesso della cittadinanza, il cuore, il fulcro della città. Assai frequentemente, infine, la ripetizione e l'aggregazione di un'unica tipologia edilizia, intimamente correlata al sistema delle strade, delle acque, delle fogne, degli spazi aperti pubblici e privati, costituiscono un unico compatto tessuto che è la forma medesima della città, e che sottolinea e commenta - come un coro armonioso - gli edifici singolari e dominanti della cattedrale o del palazzo civico.
Si rifletta, ancora, alle intuizioni contenute nelle proposte di alcune tra le piú singolari e significative personalità della cultura urbanistica: agli utopisti “classici”, ad esempio, e a Le Corbusier [2]. Nella concezione dei primi come negli esperimenti del secondo (nei “parallelogrammi” di Owen, nei “Falansteri” e nei “Familisteri” di Fourier e di Godin, nelle unitées d'habitation di Le Corbusier), è un unico complesso, formalmente e funzionalmente definito, che raccoglie tutti i locali, gli edifici e gli spazi adibiti alle varie esigenze della residenza; e gli stessi alloggi, gli ambienti nei quali si svolge il momento privato della vita familiare, altro non costituiscono (se ci è consentito capovolgere una nota espressione lecorbusieriana) che gli organici “prolungamenti delle attrezzature comuni”.
Qual'è allora il motivo per cui, nel corso del processo storico, è la prima concezione, quella individualistica, che ha finito per prevalere, mentre non si è potuto proseguire e sviluppare adeguatamente l'esperienza della città medioevale, e le stesse intuizioni dell'urbanistica moderna sono rimaste sostanzialmente congelate nel limbo dell'utopia? Abbiamo già tentato di fornire, nei nostri precedenti scritti sulla città, una prima risposta a questa domanda; vogliamo provarci adesso ad aggiungere qualche altra considerazione, che interessa in modo specifico la questione della casa e che ci consentirà - cosí almeno speriamo - di proseguire e approfondire l'analisi intorno ad alcuni temi centrali della nostra ricerca.
C'è un punto soprattutto che ci sembra necessario sottolineare e argomentare. Sviluppare in maniera veramente adeguata quel processo che ha condotto alla nascita della città, concretare in modo generalizzato le anticipazioni dei padri dell'urbanistica moderna, avrebbe comportato - e tuttora comporta - una decisa rottura, un vero e proprio salto qualitativo, proprio sul terreno della fruizione della casa; una rottura e un salto di cui ci sembra che mai, fino a oggi, la cultura urbanistica abbia compreso con sufficiente chiarezza l'entità e le conseguenze.
Per chiarire e argomentare questa nostra tesi, prenderemo le mosse dall'esempio cui ci siamo più sopra riferiti: quello della città medioevale. Com'era risolto, entro quest'ultima, il rapporto tra la casa e la città? Qual'era il motivo per cui tra l'una e l'altra non esisteva una contrapposizione, una negazione reciproca e una prevaricazione secca dell'una sull'altra (come dobbiamo invece ai giorni nostri riscontrare e patire), e si manifestava invece una integrazione feconda e carica di virtualità estetica?
Nella città del medioevo la casa era certamente, come è tuttora, il luogo dell'individualismo. In essa si svolgeva difatti la vita di una famiglia nella quale la stessa dimensione economica ribadiva e consolidava quel chiuso particolarismo che ha sempre contrassegnato la forma storica dell'istituto familiare. Non solo il momento del consumo (di tutto il consumo economicamente riconosciuto come tale) veniva organizzato e fruito nell'ambito della famiglia e della casa; anche il momento della produzione - il quale certo sempre più veniva a espandersi, a crescere, a travalicare dalle mura domestiche e ad acquistare una sua autonomia dalla famiglia - restava comunque ancora amministrato da quest'ultima, in una sostanziale indistinzione tra capitale e patrimonio, mentre una quota della produzione (quella più direttamente ordinata agli immediati consumi familiari) rimaneva d'altra parte anche gestita e materialmente prodotta entro le mura domestiche.
Perché allora, se la casa era il luogo di un individualismo familiare ancora solidamente radicato in tutti gli aspetti dell'attività economica del cittadino, essa non distruggeva e divorava la città, non la riduceva a un mero insediamento concentrato, ma poteva trovare anzi nella città un ordine, un'íntegrazione, una forma, un superiore livello d'organizzazione? Ciò poteva accadere unicamente perché, in quella determinata epoca storica, erano le ragioni della comunità, della società civile e politica - e quindi della città - a dominare e a prevalere su quelle individuali, familiari, e dunque su quelle medesime della casa.
In altri termini, poiché tutto l'edificio sociale era ancora sostanzialmente dominato da quei criteri di massima coazione sociale e politica che erano peculiari all'ordinamento signorile, e poiché quindi lo stesso individualismo del nascente borghese doveva trovare il suo necessario sostegno - ma perciò anche il suo limite e il suo condizionamento - nelle leggi e negli istituti del “comune”, sul piano della residenza, allora, l'individualismo della casa veniva necessariamente a subordinarsi, a comporsi, a piegarsi (e perciò a completarsi) nell'ordine egemonico della città.
Si può allora facilmente comprendere perché, con il dispiegarsi del trionfo borghese, le cose siano mutate in modo così radicale come oggi ci è dato di constatare; perché, insomma, quel sostanziale equilibrio tra la dimensione individualistica della casa e quella comune della città sia stato infranto, e la seconda abbia dovuto rimaner soccombente.
La piena affermazione della classe e dell'ideologia borghese ha comportato la liberazione di ogni soggetto, di ogni produttore, di ogni cittadino, da qualsiasi subordinazione di tipo signorile; essa ha spezzato ogni residuo socialmente rilevante di quei “variopinti legami che nella società feudale avvincevano l'uomo ai suoi superiori naturali”. Non solo i cittadini di pieno diritto, i mercanti, i capitalisti, i maestri artigiani, i possidenti; non solo i proprietari delle private dimore urbane, non solo i borghesi erano ormai pienamente liberi: anche i loro servi e garzoni e operai divenivano padroni di se stessi, produttori affrancati (e capaci perciò di esser ridotti a libera e generica forza-lavoro, impiegabile nel processo accumulativo).
Una siffatta liberazione, però, si è svolta e si è conclusa interamente sotto il segno dell'individualismo: né poteva avvenire altrimenti, dato che essa è stata gestita dalla borghesia. E in realtà gli uomini - i servi e gli operai come i borghesi - sono divenuti soggetti di un uguale diritto solo perché sono stati ridotti a individui; perché, in altri termini, solo riducendo ugualmente ogni uomo a individuo era possibile garantire il manifestarsi e il consolidarsi (non solo come fondamentale, ma come unica) di quella fondamentale discriminazione tra proprietari e non proprietari, tra possessori del capitale e possessori della propria forza-lavoro, tra capitalisti e proletari, che è la condizione per lo sviluppo di un'economia incentrata nell'accumulazione e che trova appunto la sua piena codificazione giuridica nella forma borghese del privatismo proprietario. Tutti, dunque, sono divenuti soggetti di un diritto individualistico: e il peso di quest'attributo non è stato davvero lieve sullo sviluppo della società e della città.
Così, e proprio per il carattere individualistico assunto dalla rottura operatasi col trionfo della borghesia, sul piano della residenza il privatismo individuale, che aveva sempre dominato nella vita della famiglia e nella concezione della casa, è stato anch'esso “liberato” dall'ordine della città. Quest'ultima ha perduto la sua originaria capacità ordinatrice, e si è ridotta a essere la mera figura risultante dalla giustapposizione delle particelle proprietarie e dei privati edifici. E la residenza, quindi, si è sempre più racchiusa, ristretta, limitata alla casa, alla privata dimora, mentre le attrezzature, gli spazi e i luoghi e gli edifici della comunità in quanto tale, si sono ridotti a simulacrí di se medesimi e, privati ormai del loro ruolo di centri organizzativi della vita e della forma della città, hanno trovato una collocazione subordinata e casuale su questo o su quell'altro ritaglio della trama proprietaria dell'insediamento[3].
Fragile e precario era dunque l'equilibrio raggiunto tra casa e città nei secoli del medioevo comunale. Esso era infatti il frutto di un compromesso tra le ragioni della comunità e le leggi dell'individualismo; ma poiché queste ultime hanno potuto essere soltanto contenute e imbrigliate, poiché hanno sempre dominato in una parte decisiva della residenza (la casa), poiché insomma non sono state mai definitivamente battute e sconfitte, ecco che sono aggressivamente risorte appena la bufera del trionfo borghese ha soffiato sulle braci assopite - e però mai spente - del particolarismo individuale e privato.
Dalla storia si può quindi trarre un insegnamento ben preciso: per risolvere realmente e definitivamente il rapporto tra casa e città, per concretare un assetto della residenza in cui sia garantita in modo irreversibile la piena integrazione tra i momenti che, fino a oggi, sono sempre rimasti governati dall'individualismo e quelli che possono essere soltanto comuni, è indispensabile compiere proprio quel profondo salto di qualità nella fruizione della casa di cui abbiamo più sopra affermato la necessità.
Questa, ci sembra, è anche la verità sottesa alla formula della “casa come servizio sociale”. Ma si deve convenire allora che una simile formula è inadeguata a esprimere in maniera del tutto esplicita e chiara, fuori da ogni ambigua imprecisione, una concezione della casa realmente nuova e diversa da quella individualistica, e anzi a questa antitetica. Quella formula, ínvero, mentre non pone sufficientemente in luce il fatto che l'alloggio deve essere uno dei momenti della residenza, e che non può pertanto risolvere in se medesimo (come è implicito nella concezione individualistica) tutta la residenza, così d'altra parte non indica, se non allusivamente e indirettamente, qual'è la dimensione nella quale si manifesta l'unità dei diversi aspetti e momenti della residenza, e quindi non riesce a cogliere, in tutta la sua portata, la differenza profonda tra la concezione tradizionale della casa e quella nuova concezione che deve ormai manifestarsi esplicitamente e chiaramente, affermarsi, prevalere.
E' quest'ultimo, riteniamo, un punto di estrema rilevanza, sul quale bisogna tentar di raggiungere la massima chiarezza e consapevolezza possibile. Per conto nostro, siamo del parere che la dimensione, il terreno su cui può essere individuata la differenza di fondo tra la concezione individualistica della casa e la nuova concezione sottesa alla formula della “casa come servizio sociale”, siano costituiti dal consumo.
E difatti, sul terreno del consumo è facile vedere che, mentre nell'ambito della concezione individualistica ogni singolo richiedente si provvede sul mercato dell'oggetto “alloggio” per consumarlo individualisticamente, la nuova concezione comporta invece la necessità di considerare la casa come un elemento del consumo comune: come un bene, cioè, che non può venir fruito dagli uomini in quanto singoli individui, ma solo in quanto membri di una comunità, di una società, di una collettività. Essa comporta quindi, per ciò stesso, anche una struttura del mercato radicalmente diversa da quella attuale: una struttura in cui il consumo comune dia luogo a una committenza anch'essa comune, e quindi a una domanda organizzata che abbia un peso effettivo, una capacità d'incidere nel modo in cui l'offerta viene predisposta e determinata.
Sul piano del consumo si può dunque incominciare a cogliere, con sufficiente esattezza, l'entità del passaggio dall'una all'altra concezione della casa; ma è anche su questo medesimo piano che si può comprendere in modo non ambiguo quale sia il necessario fondamento dell'unità dei vari momenti della residenza. Non è proprio la forma particolaristica del consumo che ha costituito la base per il sopravvivere - e per il prevalere - della concezione individualistica della casa, quando la piena affermazione del capitalismo borghese ha definitivamente distaccato la produzione dall'ambito domestico? E non è stata proprio la contraddizione tra il consumo individualistico della casa e il consumo, necessariamente comune, della città, all'origine della crisi di quest'ultima?
Su tutto ciò, crediamo, ci siamo già soffermati a sufficienza; ma ci sembra allora che se ne possa trarre una conseguenza particolarmente significativa. Se infatti è essenzialmente sul terreno del consumo che è esplosa e si è consumata l'antitesi tra casa e città, è chiaro che è proprio su questo stesso terreno che deve essere fondata l'unità tra i diversi aspetti della residenza; è chiaro, cioè, che il nodo da sciogliere e il fulcro su cui far leva per giungere a un'organica composizione di tutti gli edifici, i luoghi, gli spazi, gli ambienti destinati alla residenza dell'uomo, sono costituiti dal modo in cui viene ordinato il consumo della casa. È su questo piano, è sul piano del consumo della casa, che l'individualismo deve essere combattuto e liquidato, ed è perciò in definitiva necessario, è anzi indispensabíle, che anche la casa, anche l'alloggio, vengano vissuti e fruiti come un momento, un aspetto, una parte del consumo comune della residenza.
Per uscire dalla concezione individualistica della casa, per fondare e affermare pienamente quella nuova concezione che è indispensabile per consentire uno sviluppo della dimensione urbana dell'insediamento umano, è quindi necessario uscire dall'individualismo che ha sempre dominato nel consumo della casa; ma poiché un simile individualismo è legato intrinsecamente (come abbiamo più volte sottolineato) a un determinato modo di concepire e vivere la famiglia, poiché esso trova la sua radice e la sua ragione nel fatto che l'istituto familiare è sempre stato il luogo stesso dell'individualismo e del particolarismo, è chiaro altresì che il dispiegarsi della nuova concezione della casa postula inevitabilmente un nuovo modo di concepire, di organizzare, di vivere la famiglia medesima. Finché infatti la famiglia rimane il luogo nel quale vengono organizzati, gestiti e fruiti i consumi, finché essa rimane un'azienda, un'unità economica in senso tradizionale (e sia pure ordinata soltanto, ormai, all'economia del consumo), essa non può non rimanere come una cellula chiusa e segregata dell'ordinamento sociale, e deve pretendere e sostenere perciò la concezione individualistica della casa come l'unica pienamente omogenea alla sua condizione.
Viceversa, solo se la famiglia sarà liberata dalla gestione domestica del consumo, solo se la sua dimensione privata troverà la propria ragione - e la sede del proprio esplicarsi - essenzialmente nel momento dell'otium, degli affetti, del “vivere insieme” coniugale e familiare, essa potrà sussistere senza prevaricare, potrà svilupparsi senza essere soffocata dal particolarismo, e senza dissolvere nell'individualismo la residenza e la città. L'alloggio, allora, potrà certamente restar configurato e definito come il luogo in cui l'uomo e la sua famiglia vivono una parte della loro residenza, e in cui quindi potranno ancora venir fisicamente fruiti alcuni consumi; ma ciò non sarà più contraddittorio e antitetico rispetto alla necessaria dimensione comune della città (e della società), ma sarà anzi sorretto, garantito, alimentato da una siffatta dimensione.
Così, mentre quei medesimi residui consumi che saranno ancora fisicamente fruiti nell'ambito domestico, saranno però organizzati e gestiti fuori da questo, una quota di consumi incomparabilmente più alta di quella attuale potrà e dovrà essere fruita in modo comune. Non solo i consumi relativi alle esigenze scolastiche, sanitarie, del culto, della ricreazione e così enumerando; non solo i consumi che da decenni oda secoli sono organizzati in modo comune, e che costituiscono la ragione dell'esistenza delle “attrezzature collettive”; non solo i classici consumi comuni, insomma, saranno gestiti in una simile forma, ma anche quegli stessi consumi del vitto, della manutenzione dell'alloggio, della cura degli indumenti, della custodia della prole, che sono stati finora amministrati individualisticamente nell'ambito della casa e della famiglia.
Sicché, in sostanza, quello che è necessario compiere è un deciso e radicale mutamento di prospettiva. Non più la casa e la famiglia come l'istituto e il luogo, tendenzialmente esclusivizzati, dove viene organizzata, gestita e fruita la massima parte possibile dei consumi, e la città come luogo dei complementi, e degli avari prolungamenti, dell'abitazione. Ma, viceversa, la residenza - nel suo insieme - come luogo dell'organizzazione, della gestione e della fruizione di tutto il consumo; e la casa, cellula inscindibile della città, come luogo in cui la famiglia, liberata da ogni supplenza di lavoro sociale, da ogni tradizionale dimensione economica, da ogni negotium, vive il momento della propria vita privata: di quella vita privata - vogliamo sottolinearlo - che ha senso e ragione solo se è un momento della complessiva vita dell'uomo, e se perciò è organicamente legata al momento della vita pubblica e comune.
Il passaggio dalla concezione individualistica della casa a quella nuova concezione che abbiamo tentato di delineare è quindi un passaggio profondo, radicale, realmente rivoluzionario. Esso postula un modo nuovo d'impostare il problema del consumo, e comporta perciò modificazioni profonde nell'assetto della famiglia, e in quello medesimo della società. Ma non è su questi temi che vogliamo ancora soffermarci; quel che invece ora ci interessa di porre in evidenza sono le conseguenze che un simile passaggio può provocare sul piano dell'urbanistica e su quello, altrettanto decisivo, della produzione edilizia.
Già da quanto abbiamo precedentemente affermato è facile comprendere, in tutta la sua estensione, la positività che la concezione della casa come momento del consumo comune della residenza comporta nei riguardi dell'assetto urbanistico. È chiaro infatti che concepire la casa in un simile modo significa rendere esplicite e consapevoli le intuizioni affioranti nella letteratura urbanistica, liberarle dei loro limiti e svilupparle perciò compiutamente; significa rompere quella cesura tra urbanistica ed edilizia, tra città e casa, che si è venuta a determinare con il trionfo della classe borghese e in cui si è manifestata l'alienazíone dell'ordinamento formale della città; significa avere finalmente la possibilità di dare una piena unità funzionale e formale all'habitat, e di costituire insomma un assetto della residenza in cui ogni elemento - dall'alloggio alle tradizionali attrezzature - sia organicamente integrato agli altri, perché ogni elemento esprime un diverso aspetto del medesimo consumo comune.
Una serie di problemi pratici, la cui mancata soluzione ha gravemente pesato sulla qualità e sull'efficienza delle realizzazioni urbanistiche e sulla loro rispondenza all'uso, può trovare finalmente la via di una soluzione.
È il caso, ad esempio, del problema della determinazione degli standards tipologici. Questi, fino a oggi, sono stati fissati in modo necessariamente arbitrario dai progettisti e dagli imprenditori, sulla base delle esigenze - ipotizzate e presunte, o statisticamente mediate - di un generico utente individuale; possono invece, nell'ambito della nuova concezione, esser stabiliti da una committenza pubblica che rappresenti, nel mercato, la realtà del consumo comune, e che esprima per ciò stesso le reali esigenze dell'utenza[4].
È il caso, per riferirci a un altro problema del quale gli urbanisti hanno spessa avvertito la gravità, della gestione della residenza. È evidente che un simile problema non è risolubile fino a quando ogni alloggio è concepito e fruito come un bene esclusivamente individuale (in questo caso, com'è dimostrato dalla prassi della tradizionale gestione condominiale, non si arriva nemmeno a garantire la gestione del caseggiato), mentre la sua soluzione diviene possibile solo quando l'alloggio è vissuto come il “prolungamento” privato di una complessiva struttura residenziale comune: come il luogo, in definitiva, nel quale si esplica il momento individuale e familiare, distinto dal momento pubblico e comune, ma da esso sorretto e con esso pienamente integrato, senza contrapposizioni antitetiche e rigide soluzioni di continuità.
Altrettanto rilevanti, a nostro avviso, sono le conseguenze che la nuova concezione della casa può comportare sul piano della produzione edilizia. Crediamo infatti che non sia difficile dimostrare come la rottura dell'individualismo nella fruizione dell'alloggio - e di conseguenza nella domanda che si manifesta sul mercato - non solo rende possibile, ma anzi sollecita e sostiene uno sviluppo dell'industria edilizia fuori dalle condizioni di arretratezza tecnica ed economica che attualmente, com'è noto, caratterizzano il settore, e che, per il conseguente permanere di un alto livello dei costi e dei prezzi, sono all'origine della cronica carenza di alloggi in amplissime zone del mercato.
Come si è già accennato, concepire la casa come un momento del consumo comune della residenza postula il passaggio da una domanda individuale a una domanda pubblica, o comunque comune, collettiva; ma
è facile vedere allora che questa trasformazione del carattere della domanda porta con sé una serie di garanzie indispensabili per una positiva razionalizzazione del settore.
In primo luogo, infatti, dal momento che l'offerta non si trova più di fronte a una domanda individualistica, e quindi per definizione polverizzata, dispersa, sconosciuta, ma ha invece quale sua controparte una domanda organizzata, e perciò di notevoli dimensioni, economicamente e istituzionalmente concentrata, conoscibile nella sua configurazione e nella specificità deile sue richieste, ecco che divengono finalmente possibili quelle economie di scala che sono alla base di un ammodernamento produttivo del settore.
Ma in secondo luogo, poi, e sempre per la nuova dimensione assunta dalla domanda e per l'ampiezza che ogni singola operazione economica viene ad avere, può essere raggiunta quella specializzazione aziendale, tradizionalmente assai poco sviluppata nell'edilizia, la cui assenza è una delle cause principali della bassa produttività del settore.
In terzo luogo, infine, poiché una domanda del tipo di quella che ci siamo provati a configurare è una. domanda che, a differenza di quella individualistica, non può non comportare una ben precisa programmazione di lungo periodo (e non ci interessa in questa sede discutere degli strumenti tecnici e politici a ciò necessari), ecco che viene posta in essere una ulteriore condizione per una razionalizzazione della produzione edilizia: la sicurezza, cioè, dell'ammortamento dei capitali tecnici aziendali, anche ove questi debbano essere di cospicue dimensioni.
Certo - l'abbiamo ampiamente dichiarato - procedere lungo una linea simile a quella che siamo venuti prospettando postula la soluzione di numerosi problemi di non lieve entità; siamo convinti però, e ci proveremo a dimostrarlo, che muoversi in una direzione diversa non può condurre a una sufficiente soluzione della questione della casa. Ma prima di affrontare questo punto vogliamo soffermarci brevemente su due argomenti strettamente collegati a quelli dei quali ci siamo ora occupati.
La prima osservazione che vogliamo svolgere riguarda un equivoco che può sorgere nell'ambito della posizione della “casa come servizio sociale”. Ci sembra che, in quanti condividono una simile posizione, si manifesti talvolta il convincimento che non sia legittimo considerare la casa come una merce, e che anzi il raggiungimento di una situazione in cui la casa sia effettivamente un “servizio sociale” porterà al superamento del carattere di merce della casa, mentre è proprio un tale carattere - si ritiene - a costituire uno dei più gravi aspetti della negatività della situazione presente.
Per conto nostro, dobbiamo dire che proprio non vediamo perché la residenza (nel suo insieme e nelle parti che la compongono) non debba essere un bene economico come gli altri, come gli altri prodotto a certi costi ed esitato a certi prezzi determinati dal mercato. Il problema, piuttosto, è quello di garantire che il bene “residenza” venga prodotto ai costi più bassi possibili, che di conseguenza nella formazione del prezzo non intervengano rendite di nessun tipo, e che infine, last but not least, le caratteristiche d'uso del bene medesimo vengano stabilite in relazione alle effettive esigenze del consumo.
Ma tutto ciò, evidentemente, non può esser raggiunto finché la casa non viene concepita come un momento del consumo comune: finché essa, in altri termini, è un bene la cui qualità e il cui prezzo vengono determinati sull'unica base degli interessi della produzione, com'è inevitabile che avvenga finché la casa è oggetto di un consumo individualistico. Ed è appunto per questo motivo, crediamo, che i sostenitori della concezione della “casa come servizio sociale”, nella misura in cui non riescono a cogliere la reale dimensione del problema, nella misura cioè in cui non vedono chiaramente nel passaggio dal consumo individualistico a quello comune il nodo cruciale della questione, sono portati a individuare nel carattere di merce della casa l'origine delle distorsioni del mercato che attualmente si manifestano.
La seconda osservazione riguarda il problema delle aree edificabili. La mancata soluzione di tale problema, com'è universalmente noto, concorre ancor oggi in larga misura al sussistere delle carenze, delle disfunzioni, dell'anarchia e dell'inefficienza dominanti nell'assetto urbanistico della residenza. Per quanto concerne in particolare l'aspetto produttivo del settore edilizio va ricordato che l'attuale regime proprietario delle aree comporta almeno due conseguenze assai gravi: in primo luogo, infatti, consentendo alle imprese di percepire quote della rendita fondiaria urbana, esso costituisce una remora oggettiva all'introduzione di innovazioni; in secondo luogo, poi, dal momento che il prezzo delle aree incide in misura assai notevole sul costo dell'alloggio, dal regime privatistica delle aree deriva un ulteriore ostacolo a quell'allargamento del mercato che è anch'esso indispensabile per produrre a costi decrescenti.
Ora, il punto che qui ci interessa di sottolineare è che, mentre da un lato la soluzione pubblicistica del problema delle aree si presenta ovviamente come l'unica omogenea alla nuova concezione della residenza, essa diviene anche - nell'ambito della linea che abbiamo prospettato - economicamente sopportabile dalle imprese edilizie. Queste ultime, infatti, saranno messe in grado di trovare (grazie alla razionalizzazione del processo produttivo consentita dalla nuova configurazione della domanda) un vero e proprio profitto, una remunerazione cioè derivante da un'attività produttiva e non da una partecipazione parassitaria al privilegio speculativo, e perciò nessuna crisi deriverà dal fatto di costringerle a rinunciare alle rendite loro consentite dall'appropriazione privatistica delle aree urbane.
Sul piano dell'urbanistica come su quello dell'edilizia, nell'aspetto del consumo come in quello della produzione, per i problemi della città e dell'habitat come per quelli del mercato degli alloggi, la concezione della “casa come servizio sociale” si presenta dunque - ove naturalmente venga progressivamente liberata dalla sua ambiguità, compresa fino in fondo nella verità che le è sottesa e sviluppata fino alle sue logiche conseguenze - come lo storico punto di partenza. per una linea effettivamente risolutrice. E però, vogliamo ora chiederci, discende forse da tutto quel che si è detto fin qui l'oggettiva necessità del trionfo della concezione della casa come momento del consumo comune della residenza? È questa concezione; in altri termini, così immediatamente superiore in ogni suo aspetto alla posizione antitetica, da legittimare l'ipotesi che non sia possibile opporle che le resistenze del passato, le remore della cecità e dell'incomprensione, le manovre rítardatrící di interessi particolari e minoritari - come tali inevitabilmente destinati alla sconfitta?
In realtà a noi sembra che, se la nuova concezione della casa fosse l'unica a poter garantire ciascuno dei risultati su cui ci siamo prima soffermati, se - in particolare - soltanto sulla sua base fosse possibile superare la “fame di case” e l'arretratezza produttiva dell'edilízia (i due aspetti più immediati e vistosi, dunque, dell'attuale questione della casa), quella concezione avrebbe una indiscutibile forza oggettiva, e facile, quasi inevitabile, sarebbe di conseguenza il suo trionfo. Ma siamo ugualmente convinti - e cercheremo di dimostrarlo - che anche nell'ambito della concezione individualistica della casa è consentito di eliminare almeno quelle due particolari e immediate carenze cui abbiamo ora accennato, e la cui presenza indubbiamente conferisce oggi alla questione della casa un massimo di drammaticità, di tensione, e quindi di evidenza politica e di presa sociale.
Come subito vedremo, una siffatta eliminazione di due rilevanti aspetti del problema non si configura certo come una reale soluzione: essa, in altri termini, mentre avviene necessariamente con tempi assai lunghi, comporta poi soprattutto costi economici, sociali e umani assai elevati. Ciò nonostante, essa è comunque tale da conferire alla concezione individualistica della casa una oggettiva capacità di resistenza, una potenzialità di lotta e di reazione non priva di una sua robustezza; il che rende evidentemente indispensabile l'individuazione di un quadro politico entro il quale la linea individualistica possa esser battuta, e la nuova concezione della casa possa trovare il sostegno, le alleanze, le condizioni oggettive per una sua piena affermazione.
Per illustrare e argomentare la tesi che abbiamo ora enunciato (o, se si vuole adoperare una terminologia più à la page, per “verificare l'ipotesi” che abbiamo formulato) dovremo esaminare la configurazione che assume la questione della casa nell'ambito di quel processo evolutivo del sistema sociale che caratterizza il nostro tempo, e che su queste pagine - come del resto oramai in gran parte dell'attuale pubblicistica - viene definito processo opulento.
Non ci interessa evidentemente, ai fini del particolare problema di cui ci stiamo ora occupando, ricordare le cause, le caratteristiche, le prospettive di un simile processo, sulle quali ci si -è d altronde largamente soffermati nei precedenti fascicoli di questa rivista. Quel che invece ci preme e ci serve qui di sottolineare è che una delle connotazioni essenziali del processo opulento è costituita dal fatto che in esso si manifestano una centralità sempre più decisiva e un allargamento sempre più cospicuo - e tendenzialmente indefinito - del consumo. Quest'ultimo poi - il consumo opulento - mentre da un lato si risolve nella fruizione individuale e chiusamente particolaristica dei beni, è dall'altro lato contrassegnato dall'essere, per principio, consumo di tutti i produttori, di tutti i cittadini; esso è dunque, in definitiva, un consumo individualistico di massa[5].
Due conseguenze discendono allora, per quanto riguarda la questione della casa, dalle caratteristiche del processo evolutivo in atto nel sistema sociale. Innanzitutto è chiaro che l'unica concezione della casa pienamente omogenea all'opulenza è quella individualistica; e non ci sembra di doverci ancora soffermare su questo punto, dal momento che abbiamo de finito una simile concezione proprio sulla base del fatto che nel suo ambito si considera la casa come un qualsiasi bene destinato a un consumo individualistico.
Questa prima osservazione ci permette di cominciare a vedere che la posizione individualistica ha senza dubbio alcune robuste carte politiche: quelle, esattamente, proprie a ogni posizione che possa trovare la sua affermazione semplicemente nel perdurare del trend, nel proseguire del processo evolutivo in atto. Essa, però, non ci consente ancora di dimostrare - ciò che appunto intendevamo fare - come rimanendo entro la concezione individualistica della casa sia possibile eliminare quei due particolari aspetti della questione delle abitazioni cui abbiamo più sopra accennato. Per sviluppare questo secondo punto, dovremo esaminare quali siano le conseguenze comportate, nei confronti del problema del deficit di alloggi e di quello dell'arretratezza produttiva, dalla dimensione di massa peculiare al consumo opulento, e dal generale e indefinito allargarsi di quest'ultimo.
Un fatto ci sembra abbastanza facilmente e chiaramente dimostrabile. Un processo caratterizzato -- com'è quello opulento - dall'ampliamento generalizzato del consumo, tende a ridurre e, al limite, a eliminare sia la carenza quantitativa di alloggi sia l'arretratezza tecnica del settore dell'edilizia.
È noto - e vi abbiamo d'altronde già accennato - che una delle più gravi strozzature presenti nel mercato edilizio è stata fino a oggi costituita dal fatto che a tale mercato possono effettivamente accedere solo quei potenziali consumatori che, appartenendo alle fasce più elevate della stratificazione dei redditi, sono in grado di pagare (in termini di acquisto o di affitto) gli alti prezzi che attualmente caratterizzano il mercato edilizio. Questi, però, sono restati a un livello relativamente elevato anche perché il limitato volume della domanda ha giocato nel senso di ostacolare fortemente la razionalizzazione produttiva, e di impedire conseguentemente una decisa riduzione dei costi di produzione.
Deficit di alloggi per una larga porzione dei cittadini e arretratezza produttiva sono dunque in sostanza, se non le due facce d'una medesima medaglia, certo due aspetti strettamente íntrecciati dello stesso problema. Ora ci sembra che quella caratteristica del processo opulento, che abbiamo più sopra sottolineato, incida proprio sull'anello di congiunzione tra tali due aspetti, investendoli perciò contemporaneamente.
E infatti, a mano a mano che lo sviluppo opulento procede, si accrescono di conseguenza le capacità individuali di consumo e aumenta, parallelamente, il numero di soggetti che dispongono di redditi tali da poterne impiegare una quota nell'acquisto di una casa; si allarga perciò, sul mercato degli alloggi, la domanda effettiva. Un simile ampliamento della domanda, mentre evidentemente significa che una maggiore aliquota di cittadini entra in possesso di un alloggio - ed è appunto per questo motivo che il processo dell'opulenza tende a “sgonfiare” il problema della “fame di alloggi” -, comporta poi, evidentemente, la possibilità di organizzare la produzione in vista di un mercato più largo, e di introdurre perciò nel settore edilizio quelle innovazioni tecnologiche che sono state fino a ieri impensabili anche a causa - appunto - dell'asfitticità del mercato.
Si deve allora convenire che, nel corso stesso del processo opulento, e della graduale eliminazione del deficit di alloggi e dell'arretratezza produttiva dell'edilizia, vengono a essere profondamente mutati i termini politicosociali del problema della residenza.
Prima, infatti, un simile problema (il problema della cesura tra casa e città, della mortificazione della dimensione urbana dell'insediamento umano, della mancata integrazione di tutti i momenti e gli elementi dell'habitat, e di tutte le varie carenze quantitative presenti nell'assetto della residenza) si presentava e si configurava essenzialmente come una realtà unitaria, nel senso appunto che tutti gli aspetti rivelavano, con diversa evidenza, insufficienze profonde. Gli aspetti più largamente urbanistici del problema, in particolare, restavano strettamente intrecciati a quegli aspetti più immediati, elementari e perciò diffusamente avvertibili, i quali, poiché appunto davano luogo alla profonda e generale insoddisfazione di tutti gli esclusi dalla disponibilità della casa, conferivano per ciò stesso alla questione della residenza una tensione sociale, una carica, una capacità di presa e di mordente che rendevano tale questione, nel suo insieme, un vistoso problema politico.
In altri termini, finché il consumo individualistico di massa non diviene la realtà dominante, e finché quindi non è consentito - nell'ambito della concezione individualistica - di incidere sui più cocenti aspetti quantitativi del problema della casa, la spontanea protesta che nasce dalla scarsità sociale di alloggi può essere indirizzata lungo l'unica linea che può realmente risolverla: verso un fine cioè (quello della soluzione del problema della residenza) il quale, se consente di rimuovere la causa immediata che originava e alimentava quella protesta, la trascende, però, e la risolve a un superiore livello.
Ora, invece, con il procedere dello sviluppo opulento, mentre il complessivo problema della residenza non trova certamente la sua soluzione - e viene anzi aggravato -, vengono comunque via via a essere ridotte, e tendenzialmente eliminate, proprio quelle carenze, quelle strozzature e insufficienze del mercato degli alloggi, che hanno tradizionalmente caratterízzato il problema della casa, e che hanno consentito allo stesso problema della residenza di porsi come una realtà emergente sul piano sociale e politico.
Il processo opulento, nel suo progressivo realizzarsi, non limita quindi la sua azione soltanto all'eliminazione di determinati aspetti della questione della casa; nel corso e nel corpo di questa medesima operazione esso viene via via a sottrarre, a qualsiasi posizione sulla residenza differente da quella individualistica, alcuni sostanziali - e fino a oggi decisivi - strumenti di sollecitazione sociale. Né vale obiettare, a una simile considerazione, che l'eliminazione sotto segno opulento della “fame di case” e dell'arretratezza economica del settore edilizio avverranno - come ci sembra índubitabile - in una prospettiva assai lunga, e comportando comunque costi notevolmente elevati, poiché questo non muta i termini sostanziali della questione.
Certo, si deve evidentemente convenire sul fatto che, nell'ambito del processo opulento, la razionalizzazione produttiva è affidata, in modo pressoché totale e comunque prevalente, alla mera spontaneità delle forze economico-sociali in gioco, e che perciò essa procede con tempi estremamente lunghi e deve lasciar scoperte amplissime zone del territorio: tutte quelle, precisamente, in cui l'assenza di un'adeguata concentrazione “fisica” di possibili consumatori impedisce il formarsi di un mercato sufficientemente ampio, e in cui di conseguenza la “soluzione” opulenta coinciderà con l'abbandono, o con la graduale emarginazione.
Così, ugualmente, non è possibile contestare che uno sviluppo della razionalizzazione qual'è quello consentito dal processo opulento trova il suo equilibrio a un livello di prezzi relativamente elevato. Ciò non solo perché nell'ambíto della linea opulenta e individualistica la questione delle aree edificabili non ha alcun motivo di emergere in tutta la sua indifferíbilità e la sua importanza (ed è anzi tranquillamente procrastinabile ed eludibile), e perché quindi la rendita fondiaria urbana continua a concorrere in una misura più o meno rilevante alla formazione del prezzo; né solo perché è facilmente ipotizzabile il costituirsi di rendite di monopolio, favorite dalla particolare natura, “a compartimenti chiusi”, del mercato dell'edilizia; ma anche ed essenzialmente perché, proprio a causa della lentezza (e in definitiva della parzialità) che caratterizza il tipo di razionalizzazione di cui ci stiamo occupando, può ritenersi inevitabile il sopravvivere, per un periodo assai lungo e comunque indefinito, di larghe aliquote di aziende marginali, le quali, producendo a costi elevati, consentiranno alle aziende ammodernate di conseguire prezzi più alti di quelli comportati dai loro costi.
E però, in definitiva, a che cosa si riducono questi inconvenienti della razionalizzazione opulentistica se non a ritardi, a sprechi e, politicamente e socialmente, ad attriti? Non v'è dubbio: i maggiori costi pretesi dalla soluzione individualistica e opulenta del problema della casa, rispetto a quelli consentiti dall'affermarsi della nuova concezione della residenza, saranno evidentemente pagati da qualcuno; essi saranno pagati, nel concreto, da tutti quei ceti e quelle categorie (e quei popoli e quei continenti) che sono oggi marginali o esclusi dal processo opulento, e che per anni o per lustri o per decenni dovranno restare in attesa, nell'inferno della miseria e della disperazione. Su queste zone del tessuto sociale si potrà certamente far leva, e si potrà utilizzare così, per la soluzione del problema della residenza, questa quota residua della generale carica di protesta che scaturiva dalla questione della casa; si potrà ancora giocare, insomma, sulle inevitabili contraddizioni - e soprattutto sui ritardi - che il processo opulento incontrerà nella sua strada verso l'eliminazione della “fame di alloggi”.
Ma tutto ciò non potrà durare all'infinito. A mano a mano che lo sviluppo opulento compirà il suo cammino, a mano a mano che esso consumerà i propri attriti, i propri ritardi - e che sacrificherà le innumerevoli e inevitabili sue vittime -, la “zona della immediata protesta” verrà a ridursi sempre di più, fino a scomparire del tutto. Ed è chiaro, allora, che se si vuole effettivamente affrontare e risolvere il problema della residenza (così come del resto quello della casa, ma in modo effettivamente umano e non privilegiato, non “svedese”, non per i pochi uperstiti ma per tutte le esistenze umane oggi in atto e da oggi possibili), è necessario non solo affrettarsi a utilizzare tutti i residui attriti che possono alimentare la lotta per un umano abitare dell'uomo, ma occorre altresì, fin d'adesso, ricercare le nuove forze politiche, sociali e civili, che possono cospirare in una simile lotta e anzi guidarla, poiché appunto direttamente interessate al problema della residenza in quanto tale.
Il problema della casa infatti, soprattutto se visto esclusivamente nei suoi aspetti di carenza di alloggi e di arretratezza produttiva, non esaurisce - già lo abbiamo implicitamente osservato - tutto il problema della residenza. Quest'ultimo, d'altra parte, non può essere per principio eliminato - come abbiamo sottolineato e ribadito - entro la linea individualistica e opulenta, la quale è peculiarmente incapace di avvertire, e quindi di affrontare e di risolvere, sia gli aspetti urbanistici che, in generale, gli aspetti qualitativi del problema.
E difatti, è chiaro che entro quella linea si procede nell'assenza di qualsiasi organizzazione autonoma del consumo, e che anzi il suo sviluppo è caratterizzato - e consentito - proprio da una espansione individualistica, anarcoide, disorganica di un consumo particolaristico e generico. Perciò appunto, mentre da un lato non si può giungere a un'effettiva soluzione dei problemi urbanistici della residenza, e nella città insorgono anzi continue tensioni dissolutrici, accade poi, dall'altro lato, che la razionalizzazione opulenta trova le sue regole esclusivamente all'interno della dimensione produttiva e non può quindi - data l'inesistenza di un adeguato condizionamento da parte del consumo - fornire alcuna garanzia sui risultati qualitativi, sui requisiti, sugli standards dei beni prodotti.
Ambedue queste conseguenze della soluzione opulentistica del problema della casa ci sembrano particolarmente rilevanti, e si traducono infatti nel pagamento di costi umani e sociali di notevolissima - anche se non subito evidente - gravità. L'entítà di tali costi può essere compresa se si riflette alla soluzione che un'industria razionalizzata secondo moduli opulentistici tende a fornire a uno dei decisivi aspetti qualitativi della residenza: quello della tipologia degli alloggi e degli insediamenti.
A quanti si occupano professionalmente di edilizia e di urbanistica è noto, per quotidiana esperienza, che il « punto d'impatto » tra la loro attività specialistica e le esigenze della concreta umanità, cui sono destinati gli oggetti che essi progettano e predispongono, è costituito proprio da quel momento, decisivo nel loro lavoro, in cui vengono stabilite le « tipologie »: in cui, cioè, vengono determinati e scelti gli schemi organizzativi degli alloggi, degli edifici, degli spazi, degli insediamenti, i rapporti tra le superfici e i volumi destinati alle diverse funzioni della residenza, la distribuzione e l'associazione delle molteplici quantità che compongono il prodotto finale della loro opera. E' proprio in questo momento che è massimo il loro sforzo di cogliere e di interpretare le necessità, le esigenze, le aspettative dei futuri consumatori della residenza (e dell'alloggio), per tradurle in modelli tipologici, che tenteranno poi d'esprimere in forme esteticamente valide.
Come abbiamo più sopra accennato, questa laboriosa ricerca, questo complesso lavorìo di comprensione e d'interpretazione, da cui deve scaturire un ambiente pienamente adeguato alla società che dovrà utilizzarlo e viverlo, non potranno mai giungere a un risultato sufficiente finché non sarà presente in modo corposo la realtà del consumo comune. Ma qual'è - vogliamo domandarci adesso - la “soluzione” che è fornita al problema tipologico dalla linea opulentistica?
L'esperienza già ci fornisce alcune precise indicazioni al riguardo. Dove la razíonalizzazíone dell'industria edilizia e la determinazione dell'assetto urbanistico della residenza si sviluppano nell'assenza di un reale condizíonamento da parte di un consumo comune, di una domanda organizzata, dove esse avvengono in relazione all'allargamento di un mero consumo individuale di massa, le tipologie sono dettate dalle esclusive esigenze aziendali delle unità produttrici, e comportano lo svuotamento e la dissoluzione della dimensione urbana dell'insediamento umano.
Come meravigliarsi, del resto, di un simile risultato? Esso rientra pienamente nella logica di un sistema, quale è quello dell'opulenza, in cui il consumo, mentre resta inevitabilmente individualistico, ha un valore puramente quantitativo (svolgendo difatti il mero ruolo di generico suscitatore di domanda), e in cui di conseguenza la sua qualità non è in alcun modo avvertibile.
Come stupirsi se la struttura e la forma dei quartieri sono determinati dalle convenienze economiche dei percorsi delle macchine edili, e se nelle tipologie degli alloggi si abbandonano - anziché svilupparle - le acquisizioni del razionalismo architettonico, per adottare gli schemi più elementari e amorfi, più immediatamente calzanti all'esigenza, necessariamente esclusivizzata, indiscriminata e incontrollata della riduzione dei costi aziendali? Come stupirsi se l'insediamento urbano si disgrega nel pulviscolo dei nuovi suburbi, costituiti dalla giustapposizione e dalla ripetizione ad infinitum di case unifamiliari, concepite, costruite e propagandate - e vissute - come unità perfettamente conchiuse e autosufficienti, al cui interno sono contenuti tutti i dispositivi e gli spazi che consentono alla famiglia di fruire del maggior numero possibile di consumi senza uscire dal recinto del lotto individuale? È inevitabile che tutto ciò accada, quando il consumo rimane individualistico, e perciò privo di una sua autonoma voce, d'una sua capacità di incidere e di pesare, di determinare le scelte e i risultati.
Ci sembra allora di poter definitivamente ribadire, sulla base del nostro esame delle prospettive che vengono offerte al problema della residenza (e alla questione della casa) nel quadro dello sviluppo opulento, una conclusione di singolare rilievo e di notevole portata pratica cui poco sopra abbiamo accennato. E difatti, se il processo evolutivo del sistema consente indubbiamente di sottrarre via via al problema della casa quegli elementi di immediata insopportabilità sociale che potevano costituire un'arma, uno strumento, una carica utilizzabile per sospingere verso una soluzione adeguata del problema della residenza nel suo insieme, ma se d'altra parte quest'ultimo, nell'ambito di quel medesimo processo, non può essere sufficientemente risolto, e deve anzi venir progressivamente e ulteriormente compromesso, è evidente che non ha alcun senso porre al centro dell'attenzione e dell'azione le tradizionali carenze quantitative che hanno fino ad oggi contrassegnato il problema della casa, e che diviene perciò indispensabile affrontare cbiaramente ed esplicitamente la questione della residenza nella sua interezza, nella sua complessità e nella sua autonomia.
La lotta indiscriminata e generica per la disponibilità di un alloggio a buon mercato e per tutti, insomma, si presenta ormai inevitabilmente come una battaglia di retroguardia; come tale, se ha ancora un significato (e lo ha, a nostro avviso), può avere soltanto quello, certamente subordinato e tattico, di utilizzare tutte le residue contraddizioni, gli attriti, i ritardi - e le conseguenti tensioni - caratteristici del processo opulento. Il centro, il cuore, il fulcro della lotta per il trionfo di una nuova concezione della casa, la sua dimensione strategica e fondamentale, possono essere oggi individuati, viceversa, unicamente nell'azione (e nella lotta) per un diverso assetto della residenza: per quell'assetto, cioè, che è contraddistinto dall'essere fondato su una concezione della residenza come consumo comune e della casa come momento organico d'una simile residenza, e la cui realizzazione consentirà di risolvere - ma con una efficacia, con una rapidità, con un risparmio di risorse, e dunque con una universalità, impossibili alla linea opulentistica e individualistica - anche quei medesimi aspetti quantitativi che abbiamo più volte ricordati.
Su quali interessi sociali e politici ci si può allora basare, per condurre un'azione siffatta? Quali sono le forze, presenti nel concreto della società civile, le cui aspettative non vengono in alcun modo colmate nel corso dello sviluppo opulento, e che possono quindi - e anzi devono, per le loro stesse peculiari esigenze - costituire il sostegno, lo stimolo, la base sociale per l'affermazione della nuova concezione della residenza? Questo è il tema sul quale dobbiamo soffermarci, allargando dunque lo sguardo al di là dei confini della disciplina urbanistica e della problematica strettamente pertinente all'edilizia, e affrontando quello che non esitiamo a definire “problema politico”.
A una simile questione viene generalmente fornita, da parte dei più fervidi sostenitori della concezione della “casa come servizio sociale”, una risposta ben precisa. Essi cioè (o per meglio dire quelli tra loro che hanno il merito di affrontare il problema in termini espliciti, ma che a noi sembrano francamente estremistici) tendono a vedere nella classica alleanza rivoluzionaria, quella degli operai e dei contadini, la forza sociale e politica essenziale - e anzi unica ed esclusiva - per l'affermazione, sul terreno della società, della loro concezione della casa.
Ora a noi pare - e cercheremo di dimostrarlo - che l'alleanza degli operai e dei contadini, se ha svolto storicamente un ruolo di massimo rilievo sul piano del problema della casa, non può costituire però una base sociale e politica adeguata alla soluzione del problema della residenza: del reale ed effettivo problema, quindi, di fronte al quale oggi ci troviamo. Le due proposizioni ora enunciate sono strettamente correlate tra loro, nel senso che dall'esame delle stesse ragioni che hanno determinato la positività del ruolo svolto da quell'alleanza nei confronti del problema della casa, è possibile dedurre l'insufficienza del blocco delle due tradizionali classi lavoratrici di fronte al problema della residenza.
Osserveremo intanto, in primo luogo, che la classica alleanza rivoluzionaria è stata certamente quella che ha consentito di raggiungere - in linea generale e di sistema - il fondamentale risultato della rottura del dominio borghese, ed è stata quindi l'elemento decisivo e centrale della lotta grazie alla quale si è giunti a una situazione, quale è quella del nostro tempo, in cui sono scomparsi o vanno inevitabilmente scomparendo gli antichi privilegi, gli antichi parassitismi, le antiche posizioni di rendita preborghese e propriamente borghese. Solo la vigorosa e continua spinta rivendicativa degli operai e dei contadini ha potuto infatti far si che l'incremento della domanda, indispensabile all'allargamento del processo accumulativo (e perciò alla stessa sopravvivenza di questo), non fosse perseguito “malthusianamente”, a destra, mediante l'espansione privilegiata del consumo improduttivo delle classi proprietarie, ma fosse raggiunto invece attraverso l'ampliamento del consumo dei produttori.
Sul piano specifico della questione della casa, poi, è appunto per il continuo e progressivo incremento dei redditi di lavoro, determinato dalla lotta rivendicativa, che si è potuti giungere a soddisfare in maniera sempre più larga e generale la “fame di case”: la primitiva e primordiale carenza, quindi, il cui sopravvivere è certamente, da tempo, un fatto in nessun modo tollerabile, e che in realtà è stato sempre avvertito come intollerabile da tutti i membri delle tradizionali classi lavoratrici, e ha concorso ad alimentare perciò la loro azione sindacale e i suoi prolungamenti politici.
E però, proprio perché la causa dello stimolo, della tensione, della sollecitazione, che hanno tradizionalmente sospinto l'insieme delle classi operaia e contadina a intervenire, con la loro lotta sindacal-politica nella questione della casa, era costituita dalla constatazione immediata e sofferta, viva ed elementare, della profonda insufficienza del mercato degli alloggi, della cronica carenza di case a buon mercato, dell'impossibilità, per larghissimi strati delle classi lavoratrici, di accedere alla disponibilità dell'alloggio, si deve necessariamente convenire che nelle stesse ragioni, che determinavano l'attivo interesse degli operai e dei contadini per la questione della casa, risiede anche - come abbiamo già accennato - il limite del ruolo della classica alleanza dei lavoratori.
Da la Repubblica, 27 dicembre 2007
Questo è un Congresso diverso da quelli tradizionali. Nella tradizione dell'Inu l'evento congressuale è infatti composto da due parti separate. Il vero e proprio Congresso, dedicato a un tema di generale richiamo, aperto a chiunque abbia interesse a parteciparvi, alimentato da relazioni specifiche affidate a personalità o a gruppi particolarmente versati nelle questioni enucleate, curato nello scenario e nella scenografia, negli aspetti anche piú appariscenti e rituali. E poi, separata dal Congresso e posta in sua prosecuzione, quasi in coda, l'Assemblea dei soci, dedicata a discutere le questioni piú interne della vita dell'Istituto e perciò riservata alle varie componenti della sua base associativa.
Anche questa volta la distinzione tra Congresso e Assemblea c'è, ma la separazione è scomparsa. Oggi iniziamo la discussione dei documenti congressuali, che sono stati distribuiti in anticipo e che sono composti da tesi, e non da relazioni (e dopo ne spiegherò le ragioni). Domattina la proseguiamo e la concludiamo domani pomeriggio, quando il nostro Congresso, pur restando ovviamente aperto a tutti quanti intenderanno seguirne i lavori, si trasformerà in Assemblea per condurre a termine la discussione delle tesi, con la loro prevista votazione riservata ai soci. Sabato poi l'Assemblea proseguirà i suoi lavori, sugli argomenti ordinari della vita dell'Istituto e con l'elezione delle cariche sociali. Le ragioni di questo intreccio diventeranno, credo, subito chiare fin da questa relazione introduttiva, la quale toccherà inevitabilmente questioni e temi che non hanno a che fare solo col tema del Congresso, ma anche con la natura e la congiuntura dell'Istituto.
Il titolo che abbiamo scelto, su intelligente proposta di Gaetano Lisciandra, presidente della Sezione Lombardia e perciò anche nostro ospite (voglio ringraziarlo subito per l'una e per l'altra cosa), mi sembra un titolo bello e ricco: «Il territorio dell'urbanistica». In primo luogo evoca l'oggetto del nostro lavoro e del nostro interesse. Esprime la nostra propensione a legare i nostri ragionamenti a qualcosa di concreto, di relativamente stabile. E soprattutto indica la volontà di comprendere meglio qual è il campo che dobbiamo occupare, e qual è il modo in cui oggi dobbiamo occuparlo.
Del campo dell'urbanistica sappiamo già molto. Sappiamo che occupa il medesimo spazio occupato dalla società in cui viviamo. Sappiamo che gli intrecci tra l'urbanistica e la società sono cosí essenziali da non poter essere recisi senza negare l'urbanistica; ma sappiamo anche che essi sono cosí complessi da esigere sempre (e forse oggi piú che ieri) lo sforzo di comprendere qual è l'ambito dell'autonomia della nostra disciplina, della nostra "funzione", del nostro punto di vista, della nostra responsabilità sociale e politica.
E sappiamo anche che il modo della nostra operazione è quello volto a vedere lo spazio fisico della vita della società come sede di una serie di eventi suscettibili di trasformare la sua consistenza fisica e il suo assetto funzionale; eventi che possono essere dominati ove se ne sappia comprendere il carattere complesso e sistemico, e definire una coerenza, attraverso quella specifica procedura che chiamiamo pianificazione territoriale e urbana; quella procedura culturale, tecnica, politica di cui vogliamo rivendicare la necessità sociale, in una società che cambia, che muta le proprie esigenze e i propri obiettivi.
E cercheremo appunto di ragionare collettivamente, qui e dopo, nel Congresso e oltre, tra noi e con gli altri, su come sia oggi necessario adeguare gli strumenti della pianificazione alle nuove esigenze e ai nuovi obiettivi della società, come alle nuove possibilità del nostro mestiere traendo tutto il frutto possibile dalle esperienze parziali che sono state compiute in questi anni in piú parti d'Italia.
Dal Congresso di Pescara al Congresso di Milano
Le basi di questo XIX Congresso dell'Inu furono poste nel corso stesso del XVIII Congresso di Pescara (1986), in un pubblico colloquio con Cesare Macchi Cassia, allora presidente della Sezione Lombardia; un colloquio che si svolse prima, durante e dopo il dibattito congressuale. Rileggendo oggi su Urbanistica informazioni (n. 90) alcuni passaggi di quel colloquio mi sono reso conto che le intenzioni che ci muovevano allora hanno alimentato il lavoro preparatorio del XIX Congresso in tutti questi anni, sebbene dal confronto con gli obiettivi espressi allora appaia con chiarezza, mi sembra che non tutti sono stati raggiunti. E per la loro pertinenza con quanto devo esporvi per presentarvi questo Congresso, consentitemi di citare con una certa ampiezza quanto allora, dialogando con Macchi Cassia, affermavo.
«Cesare Macchi Cassia mi aveva proposto di dedicare il prossimo XIX Congresso alla discussione del tema (e della tesi) della necessità di pianificazione. Questo tema mi era sembrato molto opportuno, cosí come mi era sembrato, e mi sembra, opportuno articolarlo maggiormente, nel senso di chiedersi, e di tentare di dare risposte, a quale pianificazione sia oggi necessaria. A me sembra infatti che ciò che oggi in qualche modo rende debole la posizione degli urbanisti nei confronti dei loro interlocutori sta nel fatto che, nonostante le molte variegate esperienze svolte e in corso, le molte idee innovative maturate, non si sia ancora raggiunto (ma sia raggiungibile senza troppe difficoltà) quello stato di elaborazione collettiva che consenta di presentare all'esterno una proposta positiva (che cosa fare, come farlo) chiara e convincente.
«Un altro elemento che mi piaceva, della proposta che Macchi Cassia avanzava anche a nome della Sezione Lombardia, era che, lavorare fin dall'indomani della preparazione del XVIII Congresso alla preparazione del XIX su questo tema, ci avrebbe permesso di riannodare intorno a un unico filo conduttore sia il proseguimento del lavoro fatto negli anni trascorsi (dalla critica all'efficacia del piano, alle rassegne urbanistiche, al regime degli immobili), sia quanto è maturato in preparazione e nel corso del XVII Congresso (le trasformazioni in atto nel sistema. territoriale), sia infine le questioni delle quali non potremo comunquenon occuparci nei prossimi anni (il bilancio sull'attuazione della legge 431/1985, le questioni delle grandi città e dei grandi interventi, il rapporto tra pubblico e privato nel governo delle trasformazioni).
«Infine, lavorare su questo tema, e impegnare tutto il corpo dell'Istituto a lavorarvi, avrebbe anche consentito di superare un limite della nostra attività (...). Il limite, cioè, consistente nel fatto che l'impegno ad affrontare e risolvere i problemi materiali e strutturali dell'Inu, e a condurli a soluzione in modo unitario, ha impedito di procedere con sufficiente impegno nella elaborazione, e quindi di dispiegare anche quel confronto tra posizioni diverse, quel procedimento dialettico per tentare di giungere a una sintesi, che è essenziale per un istituto di cultura».
Scusate questa lunga autocitazione. Ma essa non solo esprime, mi sembra con sufficiente chiarezza, quelle che sono stati fin dall'inizio le intenzioni, i moventi che ci hanno spinti a lavorare in questi anni, gli obiettivi che ci eravamo proposti di raggiungere, ma ci consente anche di valutare se quelle intenzioni erano giuste, e soprattutto di comprendere criticamente che cosa degli obiettivi abbiamo raggiunto e che cosa non abbiamo potuto raggiungere. Prima di toccare questi punti, prima di proporre al dibattito una risposta alle domande in essi implicite, vorrei brevemente illustrare il lavoro che abbiamo compiuto da allora a oggi.
Perché un Congresso a tesi
Il primo punto che vorrei sottolineare è questo: il nostro è un congresso a tesi. Perché questa scelta? Le sue ragioni sono già adombrate nel documento che ho prima citato, là dove si parla di "confronto tra posizioni diverse", di "procedimento dialettico". E già nel primo documento in preparazione del Congresso, approvato dal Cdn nel marzo 1987, si parlava di "posizioni differenti" che sarebbero emerse e della necessità che le convergenze e divergenze che certamente si manifestavano tra gli urbanisti italiani venis
sero messe in evidenza per dar luogo a un lavoro fruttuoso, prima, durante e dopo il Congresso.
Piú chiari ancora eravamo nel secondo documento di preparazione del Congresso, approvato dal Cdu nel novembre 1989.
In quel documento ponevamo in primo luogo i nostri obiettivi: «riaffermare la necessità della pianificazione, riflettere sul modo in cui oggi bisogna pianificare, e far emergere con la massima chiarezza le differenti posizioni che nell'Inu sono presenti. Quest'ultimo obiettivo - sottolineavamo - è essenziale. In questa fase della vita dell'Istituto, nella nuova dimensione che esso ha raggiunto, l'unanimità non è un dato acquisito a priori, ma può essere il risultato di un percorso che parta, appunto, dalla definizione esplicita e chiara delle posizioni presenti».
«La formula del congresso a tesi - scrivevamo ancora - è quella che meglio si presta a raggiungere gli obiettivi proposti. Essa infatti consente di affrontare un arco molto ampio di problemi enunciando e argomentando ciascuno di essi col massimo di chiarezza ed efficacia. Contemporaneamente, con la possibilità di misurarsi con tesi alternative, fornisce a tutte le posizioni presenti lo strumento per esprimersi con chiarezza, aiutando cosí anche la successiva costruzione di una sintesi. Infine, sollecita e agevola la partecipazione al Congresso e alla sua preparazione da parte di tutti i soci».
Questa nostra decisione nasceva da una valutazione della situazione dell'Inu. Il nostro Istituto, negli ultimi anni, è infatti molto cambiato. Da un organismo culturale molto coeso e compatto, dotato di una propria linea nella quale tutto il quadro attivo si riconosceva e che era facilmente riconoscibile dall'esterno, siamo diventati un insieme molto pluralista, dove convivono posizioni diverse, su determinati punti anche alternative. Queste posizioni diverse, però, non devono - questo è almeno il mio radicato convincimento - confondersi e stemperarsi in un confuso amalgama prima ancora d'essersi chiaramente e comprensibilmente espresse. In altri ter
mini, non dobbiamo cercare il compromesso a priori, la soluzione grigia e indeterminata che proprio per questo non incontra opposizioni e mette tutti apparentemente d'accordo. Dobbiamo invece fare lo sforzo perché le diverse posizioni presenti nell'Inu, a loro volta espressione delle diverse posizioni presenti nella società (o in quella parte della società che nell'Inu si riflette) si esprimano nella massima chiarezza, perché tra esse nasca un fruttuoso confronto.
Le questioni
Già nella prima discussione sul Congresso, e poi nella preparazione della 2a Rassegna urbanistica nazionale, avevamo individuato tre ordini di questioni capaci di strutturare un ragionamento complessivo sulla pianificazione oggi in Italia.
Il primo ordine di questioni riguardava la definizione dei requisiti che con la pianificazione si vogliono ottenere per l'assetto territoriale e urbano, cioè degli obiettivi di merito che la pianificazione dovrebbe porsi: in primo luogo l'obiettivo della qualità, nei suoi vari aspetti (funzionali, formali, culturali, sociali) e intesa sia come tutela delle qualità esistenti che come produzioni di qualità nuova.
Il secondo ordine di questioni che con le tesi ci eravamo proposti di affrontare riguardava l'efficacia del processo di pianificazione, da esaminare e definire nei suoi due versanti: la migliore rispondenza degli strumenti e dei procedimenti rispetto ai fini perseguiti, il piú razionale impiego delle risorse adoperate nel procedimento. Si trattava indubbiamente dell'argomento piú complesso, se volete piú "disciplinare", nel quale c'era da aspettarsi - piú ancora che difficoltà di elaborazione - l'affacciarsi di numerose e diverse posizioni, derivanti da differenti esperienze pratiche, sensibilità culturali, contaminazioni disciplinari, impostazioni metodologiche.
Il terzo ordine di questioni, infine, riguardava il rapporto tra pubblico e privato: un argomento che tocca una serie di versanti e di nodi tutti di grande importanza e delicatezza: da un lato, le questioni in qualche modo tradizionali ma sempre rinnovate nel modo di porsi (da quella del regime degli immobili a quella dell'urbanistica contrattata), dall'altro lato quel complesso di questioni che ruota attorno al rapporto tra etica, politica e cultura: questioni che è decisivo affrontare in modo non manicheo, nell'intento di far chiarezza tra ruoli, compiti e funzioni, oggi sempre piú ambiguamente intrecciati in una confusione che mortifica sempre e solo gli interessi generali.
Le tesi
Il modo in cui abbiamo lavorato per giungere alla elaborazione di un documento che potesse essere posto come base di discussione è sinteticamente descritto nella presentazione del documento stesso. Nulla voglio aggiungere ad esso, se non per sottolineare il grande sforzo, non solo organizzativo ma anche di lavoro intellettuale, che l'elaborazione del documento ha richiesto all'Istituto.
Un lavoro che ci ha impegnati per un tempo piú lungo di quello che avremmo voluto e che perciò ci ha costretti a rinviare piú volte la data del Congresso. Un lavoro di cui credo si debbano ringraziare tutti quelli che vi hanno collaborato, i cui nomi sono riportati nella Presentazione: con qualche imprecisione però, perché sono posti sullo stesso piano, e con la stessa responsabilità, quanti (e sono i piú) hanno lavorato scrivendo e partecipando alle numerose riunioni svolte, e quanti sono stati solo interpellati per raccogliere un loro parere od ottenere una verifica e una messa a punto.
A tutti, comunque, va un ringraziamento senza riserve per l'impegno, per il tempo e per la pazienza che hanno voluto spendere. E naturalmente il ringraziamento piú forte a quanti hanno coordinato il lavoro nei vari settori, in primo luogo quindi a Gianluigi Nigro, che mi ha validamente affiancato, e in certe fasi sostituito, nel coordinamento generale, e poi a Guido Masè, a Gaetano Lisciandra, a Gianfranco Pagliettini, ad Alessandro Dal Piaz.
Io sono convinto che la produzione di queste tesi, delle tesi pubblicate come base di discussione per il Congresso, costituisca un passaggio importante nella vita dell'Istituto. È la prima volta, dopo molti anni, che l'Inu si fa carico della proposizione di una piattaforma complessiva sui punti piú problematici del "fare urbanistica". È la prima volta, dopo quasi vent'anni, che l'Inu propone una traccia che, almeno tendenzialmente, copre tutto l'arco dei problemi che ci occupano e preoccupano, e che interessano i nostri interlocutori. Un buon punto di partenza, dunque, per una discussione fruttuosa e serena, quale quella che avremo in questo fine settimana.
Tre punti di un'autocritica
Credo che sia giusto e corretto però, soprattutto per chi è ancora per due giorni presidente di questo Istituto e quindi ha la massima responsabilità anche per questo suo prodotto, esporre qualche valutazione autocritica.
La prima, la piú ovvia, è quella di una certa incompletezza delle tesi. Noi abbiamo voluto cogliere quelli che ci sono sembrati i nodi delle questioni. Una certa ricerca di essenzialità dei temi toccati era doverosa. Ma forse qualcosa di rilevante, magari di essenziale, ci è sfuggito. Non mi riferisco tanto alle questioni di piú spiccata attualità (ad esempio, una valutazione sulla legge sugli espropri e del regime delle aree, o sulle iniziative per la vendita degli immobili demaniali), che nel nostro documento sono assenti non per dimenticanza, ma perché il taglio era quello di un documento che potesse guardare oltre le contingenze, tracciare le linee di un percorso lungo. Mi riferisco a questioni piú di fondo, che in certe fasi della vita dell'Istituto erano centrali e ora sono scomparse. È stato giusto, ad esempio, sottacere del tutto la questione della casa? oppure quella della mobilità e dei trasporti? Il dibattito ci aiuterà a comprenderlo.
Il secondo rilievo autocritico che vorrei fare al nostro lavoro è quella della scarsa chiarezza. Non è per qualche vezzo o ambizione lettera
ria che pongo questa questione. Non è perché pensi che un istituto "di alta cultura" debba essere necessariamente un istituto di belle lettere. Pongo semplicemente la questione che noi non siamo ancora capaci di trovare le parole che ci aiutino a comunicare le nostre idee a chi non è dentro il nostro specialistico linguaggio.
Perché non sappiamo scrivere chiaro e comprensibile per una cerchia piú ampia di persone di quella che noi stessi costituiamo? Non credo che la causa sia in una difficoltà tecnica, in una nostra scarsa conoscenza dell'italiano. Non credo neppure che essa sia prevalentemente nella insufficiente chiarezza delle idee. Credo che la causa piú rilevante stia in quello che è per me il terzo motivo di autocritica.
Il terzo e ultimo rilievo che vorrei fare al nostro lavoro, e al suo prodotto, è che non abbiamo fatto uno sforzo sufficiente per far emergere le differenze che tra noi ci sono, e anzi abbiamo fatto ogni sforzo, anche con generosità, per trovare l'unanimità, o almeno il consenso piú ampio, sulle formulazioni volta per volta prospettate. Io credo - voglio dirlo con la massima franchezza - che questo sia stato un errore. Come ho già detto, sono convinto che l'unanimità si può raggiungere (ove essa oggi sia raggiungibile) solo sulla base di una preliminare esposizione - scritta, formalizzata, chiaramente e durevolmente espressa, affidata alla logica e alla ragione e non all'oratoria o all'allusione o alla battuta - delle posizioni differenti che tra noi vi sono. Non perché io sia innamorato delle differenze, anzi. Ma perché sono convinto che, se le differenze ci sono, è dalla chiara espressione dei loro contenuti che bisogna partire per compiere il percorso verso la sintesi, verso l'unità.
Le tesi alternative
È anche per questo, è anche e soprattutto per questa mia profonda convinzione - che peraltro non ho mai sottaciuto - che sono stato il primo a pronunciare, e poi a scrivere, delle tesi alternative. Qualcuno si è scandalizzato del fatto che il presidente, garante dell'unità dell'Istituto, abbia prodotto posizioni alternative rispetto a quelle della maggioranza. Ma quello che in questa fase io ho sentito mio compito cercar di garantire è stato invece proprio non solo il diritto, ma in primo luogo il dovere, da parte di tutti, e perciò innanzitutto da parte mia, di esprimere con chiarezza il proprio punto di vista, la propria posizione, la propria proposta.
Non voglio adesso cambiare cappello e, dimesso quello di presentatore del Congresso, indossare quello di partecipante, passando a illustrare le tesi da me proposte. Come tutti, mi sono sforzato di essere chiaro. Se ci sono riuscito, le tesi si illustrano da sé; se non ci sono riuscito, merito di esser punito con l'incomprensione.
E non voglio neppure entrare nel merito delle varie tesi alternative e degli altri contributi proposti alla discussione. Abbiamo affidato ad alcuni molto autorevoli e prestigiosi presidenti di sezione il compito di regolare i lavori relativi alle tesi e proporne la conclusione, e quindi è a loro che lascio l'onere di esprimere valutazioni e proposte. Non avranno molto lavoro da fare, perché mi sembra che le tesi alternative pervenute siano pochine: come se fosse circolata una voce per scoraggiarne la presentazione! Consentitemi solo pochissime osservazioni personali.
A me sembra indubbio che il materiale presentato (quello almeno che ho potuto leggere perché mi è pervenuto per tempo) sia di grande interesse e utilità. Ciò sia quando si esprime in forma direttamente ed unicamente di valutazione critica, sia quando è formulato nella veste di puntuali tesi argomentate. Sono per esempio largamente d'accordo con la formulazione di Radicioni circa la tesi 17 (che indubbiamente completa su piú punti la formulazione di cui sono responsabile), mentre non condivido la sua critica e le conseguenti proposte di emendamento, all'istituzione della città metropolitana. E sono d'accordo con le proposte di Beltrame per le tesi del primo gruppo (che mi sembrano, nella sua stesura, utilmente asciugate e rese piú chiare). E sono molto d'accordo con le puntualizzazioni e i commenti contenuti nella comunicazione di Franco Girardi, che troverà non marginali coincidenze tra le sue considerazioni sulla pianificazione con le posizioni che ho espresso nelle tesi alternative che io stesso ho presentato. Viceversa, devo dire con franchezza che non condivido gli atteggiamenti genericamente, e a volte ingiustamente, liquidatori del lavoro compiuto che ho letto in qualche contributo.
Come concludere, quando concludere?
Insomma, credo che il materiale su cui imbastire un buon Congresso, e anche per lavorare al di là di esso, ci sia e sia abbondante. Spetta a tutti noi saper cogliere quest'occasione nell'interesse comune. Riusciremo a farlo fino in fondo, riusciremo a tirare le somme e aggiungere a una prima conclusione formalizzata, a un'approvazione delle tesi, nel corso stesso di questo Congresso? So che vi sono proposte per non arrivare al voto, per lasciare ancora aperto il confronto e l'elaborazione. Su queste proposte deciderà il Congresso, e poi l'Assemblea.
Io comprendo le ragioni che spingono ad approfondire, a riesaminare, a valutare con maggior attenzione. Ma sento anche, personalmente e istituzionalmente, molte perplessità nei confronti di questa proposta. Non vorrei che l'Inu si configurasse come un istituto che discute molto, ma che non è mai in grado di esprimere una propria posizione.
Sono certo che di una espressione di ciò che pensa il piú antico organismo degli urbanisti italiani ci sia bisogno piú che mai, in questi mesi, su molti argomenti, tutti in qualche modo toccati nelle tesi proposte dal Cdn e negli altri documenti presentati al Congresso. Basta accennare, a titolo quasi esemplificativo, ad alcune delle questioni che sono sul tappeto. Questioni, come vedrete, che sono certo tra quelle nodali per definire, o ridefinire, il modo di essere urbanisti, di sviluppare la nostra specifica cultura e di fare il nostro mestiere, ma che sono anche questioni che riguardano il nostro rapporto con la società, con interlocutori esterni alla nostra disciplina.
La questione del regime degli immobili. Finalmente uno dei due rami del Parlamento ha approvato una proposta, sostanzialmente sulla linea (e per la tenacia) del sen. Cutrera. Nel commentarla su Urbanistica informazioni (n. 110) ne ho individuato i limiti di fondo nell'esser un provvedimento che riguarda solo i suoli e non tutti gli immobili, nell'essere costruita sull'ipotesi della pertinenza dell'edificabilità alla proprietà dei suoli, nella conseguente non raggiunta "indifferenza" dei proprietari alle destinazioni dei piani. In queste mie valutazioni mi sono riferito alla posizione tradizionale dell'Inu messa a punto, nella sua forma piú compiuta, nel 1983, grazie soprattutto all'impegno della commissione coordinata da Luigi Scano, e all'apporto dell'indimenticabile Guido Cervati. È la proposta che è sintetizzata nella tesi 17. Ora, è ancora su quella linea che va misurata, culturalmente e non in termini di opportunità politica, la legge oggi all'attenzione della Camera. È in relazione a quella linea che vanno indirizzate le pressioni per modificarla e, quando sarà il momento, per attuarla? E se non è quella, qual è?
La questione dell'urbanistica contrattata". In molte città, anche le piú insospettabili, il piano viene sostituito, o scavalcato, dalla contrattazione diretta con i proprietari delle utilizzazioni e delle stesse quantità di edificazione. Su questa forma perversa di gestione del territorio, in cui la pubblica amministrazione incorre quanto meno nel reato di simonia, e in cui la proprietà immobiliare acquista un peso ancor maggiore di quello che aveva negli anni Cinquanta, talché sembriamo tutti esser tornati ai tempi della guerra di Corea, si soffermano secondo me in modo adeguato le tesi del terzo gruppo. Ebbene, è giusto che su questo tema, d'importanza certamente generale e nazionale, che esprime una tendenza in atto da tempo in tutto il Paese, la voce dell'Inu si esprima solo là dove (come per esempio a Firenze) la nostra sezione è vigile e tenace nel denunciare e nel proporre? È giusto, è utile che l'Inu in quanto tale, in quanto istituto nazionale, non si esprima con forza e con chiarezza nella sua massima assise?
La questione dei "principi ", delle nuove regole della pianificazione. Va bene continuare a pianificare secondo criteri, procedure, meccanismi che sono ancora quelli derivati dalla legge del 1942, complicati piú che arricchiti dalle legislazioni regionali? Oppure è necessario spingere perché il Parlamento finalmente statuisca una nuova definizione, organica e coerente, di "principi" - secondo la dizione costituzionale - ai quali ispirare le legislazioni regionali, in base ai quali affrontare piú sistematicamente, ad esempio, le questioni poste dalla legge Galasso (come assicurare effettiva priorità all'interesse generale della tutela del patrimonio ambientale, naturale e storico), o quelle toccate di striscio dalla nuova legge sull'ordinamento locale (come trovare coerenza tra l'assetto del potere pubblico e gli obiettivi che attraverso la pianificazione si possono perseguire)? E se si, se verso una nuova definizione dei principi della pianificazione bisogna spingere, secondo quali criteri, modelli, indirizzi bisogna farlo?
Ho accennato ad alcune questioni tra le tante che a ciascuno di noi vengono alla mente, tra le tante sulle quali la porzione piú attenta dell'opinione pubblica aspetta da noi una risposta. Abbiamo tentato, con le tesi, e poi vorremmo tentare con il Congresso, di formulare una risposta che non sia episodica e parziale, ma che abbia una qualche organicità. Una proposta che sia frutto di un dibattito e un confronto aperti, nel quale magari si arrivi a misurarsi e anche a contarsi là dove c'è divergenza. Non so se ci arriveremo in questi giorni. So però che, se cosí non riusciremo a fare, dovremo allora impegnare i nuovi dirigenti dell'Istituto, che sabato mattina eleggeremo, a lavorare perché ciò avvenga nell'arco di tempo il piú stretto possibile.
Perché, al piú presto, l'Istituto nazionale di urbanistica, nella sua piú ampia e collegiale rappresentatività, faccia sentire una voce chiara, determinata, precisa sulle questioni
sulle quali noi, piú di altri, abbiamo l'autorità per denunciare e per proporre. E se abbiamo l'autorità, abbiamo allora il dovere di farlo. Grazie a tutti, e buon lavoro.
Digitazione con scanner OCR da Urbanistica informazioni, n. 111, maggio/giugno 1990
LIVELLI DI PIANIFICAZIONE E LIVELLI DI GOVERNO:
LE TENDENZE CHE DEVONO AFFERMARSI
PER LA COSTRUZIONE DI UN PROCESSO UNITARIO DI PIANIFICAZIONE
Premessa
Poche questioni - nel campo almeno del governo del territorio - appaiono oggi così confuse, e del resto così poco discusse, come quella del rapporto tra i diversi livelli di pianificazione. Ciò dipende, a mio parere, da numerose circostanze che in qualche modo determinano, o condizionano, il clima in cui la nostra riflessione si svolge. Ed è anche per questo che è opportuno soffermarvisi brevemente.
La prima circostanza sta indubbiamente nel fatto che è il principio stesso, la categoria, della pianificazione che è oggi in una fase di parziale eclisse. Gli anni '50 furono in qualche modo contrassegnati dal paziente sforzo di un piccolo gruppo di urbanisti, compresi e appoggiati da qualche amministrazione, di gettare le basi della pianificazione nel nostro Paese. Gli anni '60 furono l'epoca della proposizione di piattaforme complessive di riforma urbanistica, della centralità di questo tema nel dibattito politico e culturale nazionale, della conquista di importanti - seppure parziali - traguardi legislativi e amministrativi. Gli anni '70 saranno probabilmente ricordati come quelli nei quali nuovi nodi vennero al pettine, nuove e nuove e più avanzate conquiste – ricche di potenzialità e di limiti - vennero dialetticamente raggiunte. Ed è facle affermare che gli anni '80 - quasi una interruzione ciclo evolutivo pressoché ininterrotto - saranno invece ricordati così come noi oggi li viviamo: come anni, cioè, nei quali quelli che dovrebbero essere i protagonisti della pianificazione, a tutti i livelli, appaiono sfiduciati, frustrati, impotenti, sottoposti all'attacco pressoché quotidiano di chi alla pianificazione non crede, o la pianificazione rifiuta.
La seconda circostanza, che è in qualche modo il corollario e la conseguenza della prima, sta nel fatto che proprio in questi anni, proprio cioè quando le potenzialità manifestatesi nel periodo trascorso avrebbero dovuto essere sviluppate e i limiti legislativi e amministrativi superati, proprio cioè quando il processo di riforma avrebbe dovuto dispiegarsi e finalmente affrontare i nodi di fondo, l'involuzione e la regressione hanno costretto quanti, e non sono pochi, credono alla pianificazione e all'urbanistica, a concentrarsi nella difesa di alcuni capisaldi essenziali del fare urbanistica quando invece sarebbe stato necessario andare avanti e innovare. Abbiamo avuto così il riesplodere delle questioni degli indennizzi e dei vincoli, quando si doveva affermare un nuovo regime degli immobili; la tragedia dell'abusivismo edilizio e urbanistico, quando si doveva puntare alla generalizzazione della capacità di governo del territorio; la liquidazione del mercato degli affitti e dell'intervento pubblico nell'edilizia abitativa, quando il problema del controllo e della gestione del patrimonio edilizio esistente assumeva il carattere di problema e obiettivo centrale; infine, la costante e sistematica azione di svuotamento della pianificazione locale attraverso la generalizzazione dell'istituto della deroga, quando si doveva rilanciare la pianificazione e il governo del territorio uscendo finalmente dai limiti dei confini municipali.
Ma al di là di queste circostanze, in qualche modo provocate da tendenze e azioni e accadimenti esterni alla cultura urbanistica, mi sembra che ve ne sia una terza sulla quale è opportuno richiamare l'attenzione. Mi sembra, insomma, che uno dei fatti caratterizzanti la situazione attuale sia che non esiste più un metodo, un indirizzo, un criterio unitario per la pianificazione: non esiste nei piani di livello comunale (in quelli dunque in cui c'è la più larga messe di esperienze e conoscenze e attività), e non c'è dunque da stupirsi se non esiste, come rilevava Giorgio Trebbi nella sua relazione al Seminario di Trento del maggio scorso, per quelli degli altri livelli e, di conseguenza, per gli intrecci e le connessioni dei livelli di pianificazione.
L'obiettivo: un sistema unitario di pianificazione
La tesi che vorrei proporre è in sostanza la seguente. Nella pianificazione tradizionale il punto di partenza è stato costituito dai piani di livello comunale: i piani regolatori generali comunali, formati e redatti nei modi che ben conosciamo, e quindi caratterizzati dalla definizione rigida delle destinazioni d’uso per zona, dalla centralità del ruolo del Comune ma dalla complessità di un iter procedurale fortemente garantistico per tutti i poteri coinvolti, dall'attuazione affidata alle decisioni degli operatori-proprietari e dal meccanismo del rinvio sistematico ai piani attuativi. I piani di livello superiore vengono generalmente pensati e costruiti nell'ipotesi che essi siano anelli di una catena di atti pianificatori che ha al suo termine il P.R.G. comunale così come esso è nella sua accezione tradizionale. E quindi sono nella forma del P.R.G. a maglie più larghe (o a colori più tenui); oppure sono nella forma di prescrizioni di tipo normativo, più o meno territorializzate, che diventano operative nella loro traduzione comunale nei P.R.G.; oppure sono un unico P.R.G. esteso a un territorio ampio; oppure ancora si limitano alla forma di documenti, poco operativi, di strategia e d'indirizzo generale o settoriale.
La pianificazione a tutti i livelli ha insomma, ancor oggi, nel P.R.G. comunale il suo essenziale riferimento e criterio. Ma oggi, è proprio il P.R.G. comunale che è sottoposto a una sostanziale e profonda discussione e verifica. Oggi è il P.R.G. che è sottoposto a critica: per la sua rigidità; per il suo meccanismo d'attuazione; per la complessità del suo meccanismo di formazione; per la separatezza (anche dopo la legge Bucalossi) del momento del piano da quelli del programma e della gestione. Oggi, è in corso una vasta ricerca e sperimentazione, in quel grande “laboratorio diffuso” costituito dalle amministrazioni comunali, nella quale si cerca per diverse vie, con diversi approcci, seguendo diversi percorsi, di costruire un modo nuovo e più adeguato di pianificare: anzi, di esercitare il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali.
In questa situazione, a mio parere, sarebbe sbagliato riflettere e lavorare sui livelli di pianificazione pensando solamente di aggiungere piani a livelli superiori (comprensoriali, provinciali, regionali, interregionali, di bacino o d'area montana ecc.) a un quadro di pianificazione a livello comunale già definito e immutabile. E ancor più sbagliato sarebbe costruire i piani di livello superiore semplicemente come estensione dei criteri e indirizzi e tecniche dei piani comunali: significherebbe unicamente estendere i limiti già riconosciuti dei piani regolatori comunali. Anzi, accentuarli, perchè si finirebbe unicamente per aggiungere nuovi anelli alla catena degli atti pianificatori.
Il vero problema, e il vero obiettivo, è allora secondo me quello di ritrovare una unitarietà di metodi, criteri, indirizzi, per tutto il processo di pianificazione. È quello - per esprimermi in modo molto sintetico - di trovare un unico piano, una unica “forma piano”, da formare utilizzando i diversi livelli di governo.
I requisiti del piano
Lo sforzo che vi propongo, che propongo a noi tutti, è quello di uscire per un momento dai confini amministrativi e dalle competenze dei livelli di governo. E di uscire anche dalle forme canonizzate degli strumenti di pianificazione. Di riflettere invece, in primo luogo, a quali devono essere i requisiti che un piano deve possedere, quale che sia l'estensione di territorio che deve governare o l'ente che ha la responsabilità di governo. Proviamo ad elencare questi requisiti.
Il piano deve essere basato su una lettura attenta della risorsa territorio, in tutte le sue componenti (dalla foresta all'orto urbano, dal terreno franoso alla villa, dal centro storico al lotto intercluso, dal complesso monumentale alla costruzione degradante). E per ciascuna delle componenti della risorsa territorio la lettura deve consentire di individuare quali sono i gradi e i modi della trasformabilità: quali sono le porzioni del territorio, o le classi di unità dello spazio, che devono essere conservate, quali e come possono essere trasformate in modo più o meno radicale, quali regole deve seguire la loro trasformazione. E quali costi le diverse trasformazioni comportano.
Il piano deve essere basato su una lettura altrettanto attenta della domanda sociale, cioè delle esigenze, dei fabbisogni, delle necessità che richiedono di operare trasformazioni territoriali, che richiedono di modificare assetti fisici preesistenti per ospitare funzioni nuove, o per ospitare altrove funzioni oggi non insediate correttamente, o per rendere i siti in cui già sono insediate funzioni più idonei e adeguati alle funzioni ospitate. E quali sono le risorse disponibili, in relazione alle varie funzioni, impiegabili per operare le trasformazioni necessarie.
Il piano deve definire quali sono - all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione della risorsa territorio - le operazioni che è concretamente possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla.
Il piano, allora, deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (poiché le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo, se si prescinde dalle trasformazioni operate dal piano), ma deve anche, e precisamente e tassativamente, indicare quali sono le trasformazioni operabili - prescritte - nel breve periodo: nel periodo per il quale le previsioni sono certamente attendibili, la volontà politica è certamente costante, le risorse sono certamente disponibili.
Il piano, quindi, deve costituire un quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale della risorsa territorio, e l'ampiezza dell'arco di tempo necessario ad eseguire le opere di trasformazione di più ingente consistenza), che per il breve periodo: per il periodo cioè nel quale in modo più certo esplica la propria efficacia.
Il piano, di conseguenza, deve essere contemporaneamente aggiornabile nella sua parte invariabile, o di lungo periodo, e programmabile nella attuazione delle trasformazioni di breve periodo: deve essere un quadro di coerenza dinamico, il quale abbia la capacità di adattarsi alle modificazioni da esso stesso impresse (e di seguire i mutamenti della domanda sociale e delle risorse disponibili) conservando costantemente la sua coerenza complessiva.
Il piano deve contenere al proprio interno gli strumenti della propria attuazione: i vincoli sulle risorse (e quindi sui bilanci) degli enti pubblici in vario modo coinvolti nella sua attuazione; gli incentivi e i disincentivi (finanziari, creditizi, fiscali, normativi, tecnici) capaci di indirizzare verso determinate trasformazioni anzichè verso altre l'impiego delle risorse e l'attività degli operatori privati, gli strumenti tecnici necessari per la sua gestione.
Il piano deve rendere il più breve possibile il tempo che separa il momento in cui si sceglie e si decide e quello nel quale la scelta diventa efficace; il processo decisionale, il percorso burocratico devono essere perciò resi completamente diversi da quelli attuali, concludersi in pochi mesi.
Il piano però, e contemporaneamente, deve essere formato e gestito in modo del tutto trasparente (offrendo in tal modo le garanzie oggi fornite solo formalmente dal complesso iter procedimentale), e deve esserlo da un ente che possieda i requisiti della autorevolezza, della rappresentatività e dall'efficacia.
Due corollari
Se fossimo d'accordo con la necessità di questi requisiti, credo che dovremmo poi convenire su due corollari che ne discendono.
Il primo: un piano siffatto è certamente molto diverso dai piani che conosciamo. Ma affermare che questi requisiti sono necessari, significa allora anche affermare che ciò di cui disponiamo oggi (nella cultura, nella legislazione, nella prassi ed esperienza) è solo un insieme di barlumi, di germi, di parziali anticipazioni del piano come deve essere. Significa perciò affermare che è necessario fare uno sforzo consistente per innovare il modo di pianificare: anzi, il modo stesso di concepire il piano.
Il secondo corollario: quei requisiti devono caratterizzare ogni piano, non un piano di un determinato livello. Anzi, devono caratterizzare il processo di pianificazione ad ogni livello, se conveniamo che più d'uno è il livello di governo coinvolto nel processo di pianificazione, nell'azione di governo del territorio.
Ma se questo è vero, allora forse è possibile riconoscere una validità e un senso alla tesi che ho dianzi accennato. Che, cioè, il problema di fondo non è oggi quello di consolidare le esperienze compiute negli ultimi 30 anni per ragionare con quali contenuti o procedure debba essere formato il piano provinciale o comprensoriale, il piano regionale, il quadro delle coerenze nazionali, e con quali definizioni o aggiustamenti di competenze questi differenti livelli di pianificazione debbano correlarsi tra loro e con il piano regolatore comunale. Ma che il problema da porre al centro della riflessione è quello di comprendere come deve svolgersi un'attività di pianificazione coerente e continua su tutto il territorio nazionale, che investa con una unica logica, e in un unico processo, tutti i livelli territoriali e di governo ritenuti necessari.
Le tendenze che devono affermarsi
Con una formulazione che può apparire paradossale, ma che non lo è, voglio affermare che il problema è di fare un piano, il piano, investendo l'insieme del territorio nazionale, nel corso di un unico processo di pianificazione / programmazione / gestione, il quale veda il coinvolgimento e la collaborazione procedimentale degli enti di governo competenti ai diversi livelli.
E se questo è il problema di fondo di fronte al quale ci troviamo, è allora con molta umiltà che dobbiamo porci nei confronti della pianificazione e dei suoi problemi, in questi anni. Con la consapevolezza che non abbiamo certezze se non su pochi punti cardinali; che dobbiamo avere perciò la tenacia e la spregiudicatezza che sono necessarie in una fase è, che deve essere, pienamente di sperimentazione e di ricerca.
Ma è anche con molta fermezza che dobbiamo porci per tentar di fare maturare i processi di pianificazione verso l'unitarietà che riteniamo necessarie. Con uno sforzo che non deve esercitarsi solo sul terreno della riflessione e della ricerca, ma anche sul terreno dell'azione politica, amministrativa, professionale. E allora, in questa direzione, possiamo forse individuare già alcune tendenze che devono affermarsi - nella definizione dei contenuti, delle competenze, delle procedure dei piani ai differenti livelli - perchè quel processo di costruzione della unità del piano possa svilupparsi fin d'ora. Nella consapevolezza che tendere verso l'unitarietà del processo di pianificazione è cosa che certo esige uno sforzo e un impegno nella direzione della “ingegneria istituzionale”, “pianistica”, della costruzione di un nuovo modello pianificazione e di connessione tra i livelli di piano e tra quelli di governo, ma esige anche - una volta individuata la direzione lungo la quale muoversi - l'impiego di determinazione, volontà e lucidità nell'individuare le forme di coordinamento, di unitarietà parziale, perseguibili fin dall'immediato.
Unitarietà delle analisi
Mi sembra che una prima tendenza che deve manifestarsi, un primo passo che bisogna compiere, è quello di ottenere il massimo coordinamento tra le analisi che i diversi livelli di governo eseguono, o promuovono, come base per la redazione dei piani. Le analisi che vengono effettuate dalle regioni, dalle provincie, dai comuni - sia sulla struttura fisica che su quella economico-sociale del territorio - non possono essere condotte più secondo criteri, parametri, indirizzi differenti, non comparabili, non integrabili. Quelle che vengono impostate ed eseguite alle scale minori devono poter essere sistematicamente integrate (oltre che verificate) da quelle impostate ed eseguite alle scale maggiori: le une e le altre devono essere maglie più larghe e più fitte d'una medesima rete di conoscenza.
È una rete di conoscenza che ha la sua base - il suo primo elemento - nel sistema cartografico, che è l'elemento primordiale e fondamentale di ogni processo di pianificazione. E se pensiamo al costo che un sistema cartografico comporta, non possiamo non considerare un gravissimo e ingiustificato danno il fatto che ciascun ente (ciascuna Regione, ciascuna Provincia, ciascun Comune) costruisce la propria cartografia separatamente l'uno dall'altro. È certamente benemerita l'attività del Centro interregionale di coordinamento e documentazione per le informazioni territoriali (forse l'unica struttura di coordinamento delle Regioni che funziona), ma è un'attività monca se e finché le Regioni si disinteressano della cartografia alle scale maggiori, se e finché anche le province e i comuni non sono coinvolti nella formazione di un unico e coerente sistema cartografico nazionale.
E la rete di conoscenze, in tutte le sue componenti di livello, nella sua componente a maglie larghe e in quelle a maglie via via più fitte, deve ovviamente essere aggiornata, con periodicità e sistematicità. Ebbene, è forse utopistico proporre che le date, le cadenze dell'aggiornamento siano le stesse per Regione, Provincia, Comune? che il complessivo sistema informativo (dalla cartografia ai censimenti, dalle analisi dirette e globali a quelle campionarie) sia unitario non solo nella sua concezione, nei suoi indirizzi e criteri, ma anche nella dinamica della sua trasformazione e nei modi della sua gestione?
Certo, perchè il sistema informativo territoriale raggiunga una sua unitarietà è necessario che un simile obiettivo venga perseguito da tutte le amministrazioni che hanno competenza primaria nel governo del territorio. Non possono essere le Regioni a imporlo a Provincie e Comuni, come oggi avviene là dove qualcosa di tenta di fare - e necessariamente in modo inefficace. Il ruolo delle Regioni è certamente decisivo, ma deve essere chiaro che le analisi sono la base del piano: una buona analisi contiene già in sè quasi l'orditura del piano. Non è quindi ininfluente il modo in cui l'analisi viene compiuta. E non può quindi il Comune delegare ad altri - sia pure espressivi di un “livello superiore” - il modo in cui fare l'elemento decisivo del piano.
Chiarimento delle competenze
Una seconda tendenza che deve affermarsi secondo me molto più ampiamente di quanto oggi avvenga è quella di chiarire in modo più univoco e più rigoroso quali sono gli elementi territoriali di competenza di ciascun livello di governo (e di piano). Da questo chiarimento dipende, da un lato, la possibilità di definire in modo convincente il contenuto dei piani ai differenti livelli, e dall'altro il potere che ciascuno dei livelli di governo esercita, e quindi le procedure. È un chiarimento essenziale, quindi, se vediamo il problema dei diversi livelli di piano e di governo non come un problema di regolazione diplomatica di sovranità diverse (non separate da confini, come quelle tradizionali, ma racchiuse l'una dentro l'altra) ma invece come concorso di diversi livelli di governo del territorio nella formazione e gestione d'un unico piano.
Io continuo a restar convinto che rientri pienamente nelle competenze di ciascun livello (nazionale, regionale, provinciale o comprensoriale, comunale) la determinazione prima (prioritaria) e ultima (decisionale) circa quegli elementi della struttura territoriale che hanno influenza diretta sulle trasformazioni che operano a quel livello. Così mi sembra indubbio, tanto per fare un esempio, che esiste una competenza di livello nazionale (anche se oggi nessuno sembra in grado di esercitarla) per quanto riguarda la grande rete delle infrastrutture che compongono il sistema nazionale, i conseguenti indirizzi di uso del territorio, così come per quanto riguarda le norme, e che concernono i diritti del cittadino italiano: e tra queste norme e indirizzi io porrei, con incisività, quelle che concernono la salvaguardia e la fruizione dei beni ambientali e culturali, che dovrebbero costituire materia non irrilevante della riforma costituzionale.
Ma la competenza di ciascun livello dovrebbe esprimersi con scelte che invadano il minimo possibile l'autonomia di scelta dei livelli territorialmente inferiori. Ed è possibile costruire una casistica dei diversi “margini di definizione” possibili. Esistono elementi per i quali è indispensabile individuare, nel piano di livello superiore, un'area definita (ad es., la posizione di un traforo o di un valico, o la delimitazione di un porto); altri per i quali è sufficiente un ambito di localizzazione o una direttrice (ad es., per la localizzazione di un aeroporto nel piano nazionale, di una università in un piano regionale, di un istituto scolastico superiore in un piano provinciale, della giacitura di una strada in qualsiasi piano); altri, infine, che implicano solo la definizione di una quantità o di una soglia quantitativa, perchè riguarda elementi della struttura territoriale influenti sull'assetto dei livelli superiori solo nella sommatoria delle decisioni che ne risultano (ad es., le quantità di strutture produttive, o di popolazione, o di posti barca da attribuire come soglia inferiore e/o superiore a ogni ambito comunale e intercomunale nel piano regionale).
Mi sembra indubbio che per quanto si tenti di contenere al massimo le competenze territoriali dei livelli superiori, esse comunque incideranno sempre sensibilmente sulle scelte dei livelli territorialmente più limitati. È inutile richiamare alla mente gli effetti devastanti che la politica delle ferrovie o quella delle autostrade ha provocato sull'assetto ai intere regioni, provincie e comuni. Si apre allora il grande problema delle procedure. Mi sembra che la tendenza che deve affermarsi è che vi sia un pieno concorso degli enti di livello inferiore nelle scelte dei livelli superiori e, invece, un mero controllo da parte degli enti di livello superiore sulle scelte di competenza dei livelli inferiori. Questa posizione ne comporta un'altra, che è bene rendere esplicita. A mio parere anche nella fase attuale - anche prima, cioè, che il sistema di pianificazione si sia evoluto fino a raggiungere quel carattere pienamente unitario che ho affermato necessario nella prima parte di questa relazione - è necessario che ciascuno dei livelli di governo che ha competenza sull'assetto del territorio definisca le proprie scelte mediante un piano. Cioè, mediante una serie di elaborati, riferiti a una base cartografica (cioè al territorio), che rappresentino il quadro di coerenza dell'insieme delle scelte formulate a quel livello. Credo che i cosiddetti piani o programmi di settore abbiano un senso, non siano distorcenti, non siano alla fine devastanti nei loro effetti, solo se costituiscono attuazione, o specificazione, di un piano - di un quadro di coerenze - unitario e complesso.
È nell'adozione e presentazione del piano che l'ente competente per livello esplica la sua potestà propositiva. È nella discussione del piano e nella formulazione di proposte alternative o correttive (ma sempre ponendosi all'interno dell'obiettivo della coerenza) che gli enti di livello territoriale inferiore esplicano la loro potestà di concorso. È nella sintesi delle proposte alternative e correttive presentate, e nell'approvazione del piano, che l'ente competente per livello esplica infine la sua potestà decisionale. Ed è solo la conformità e coerenza del piano di livello inferiore agli indirizzi, alle scelte e alle prescrizioni del piano di livello superiore la condizione sulla quale deve essere verificato in sede di controllo. Vorrei affermare - e non per provocazione - che una Regione che non ha formato il proprio piano urbanistico o territoriale non ha alcuna autorità morale, alcun diritto sostanziale, e comunque alcun criterio oggettivo sulla cui base valutare e correggere un piano comunale.
Politica di piano e politica di bilancio
La potestà decisionale degli enti di governo del territorio non dovrebbe però esplicarsi solo nella formazione del piano (del quadro delle coerenze territoriali). Dovrebbe manifestarsi anche, ed essenzialmente, su un altro e decisivo terreno: quello dell'attuazione del piano. Su questo terreno mi sembra debba affermarsi una tendenza che mi sembra ben lungi dal manifestarsi: la subordinazione, o se volete il raccordo obbligatorio, dalla politica di bilancio alla politica di piano.
Quest'affermazione merita di essere precisata. Io sono convinto che in ogni amministrazione che abbia competenza sul territorio la capacità di governo si esplica attraverso due ordini di coerenze: quella sulle scelte economiche (appunto il bilancio), e quella sulle scelte territoriali (appunto il piano). Finchè queste due dimensioni, questi due momenti, si muoveranno indipendentemente l'uno dall'altro, nelle trasformazioni territoriali la legge prevalente sarà sempre quella determinata dallo spontaneismo, individuale o aziendale, dal disordine, dall'abuso; e nella situazione economica delle amministrazioni pubbliche '(ma più generalmente della collettività) gli sprechi e le diseconomie dissiperanno risorse consistenti. Qualunque tentativo o tensione verso una austerità, verso un impiego accorto delle risorse, pretende una grande attenzione agli effetti territoriali. provocati o indotti dalle decisioni d'investimento. E, viceversa, le scelte territoriali, le decisioni di piano, restano monche e astratte se non si prolungano nelle politiche economiche, se non condizionano te decisioni di bilancio. Non mi riferisco, ovviamente, solo alle spese d'investimento, ma anche alle spese correnti: he senso ha decidere di pianificare e programmare il vincolo e poi l'acquisizione di aree per verde e scuole, se contemporaneamente non si impegna il bilancio per la formazione del personale che dovrà gestirle?
La salda connessione della politica di bilancio alla politica di piano deve evidentemente manifestarsi all'interno di ciascuno dei livelli di piano e di governo, per così dire “in orizzontale”. Ma essa è essenziale anche, e forse soprattutto, per le connessioni tra i diversi livelli. Se in un piano di livello comunale si decide, in accordo con le decisioni di pianificazione regionale, di localizzare e attuare una determinata infrastruttura, e in relazione a questa scelta si prevedono determinate trasformazioni nell'area coinvolta o connessa, oppure se in quel piano si prevede un intervento di adeguamento della capacità residenziale sulla base di un determinato programma di attribuzione di finanziamenti operato dalla Regione, occorre che poi il bilancio regionale sia vincolato ad eseguire effettivamente quegli investimenti previsti o programmati. È insomma necessario che operi una connessione tra bilancio e piano anche “in verticale”, anche tra i diversi livelli.
Il problema dell'efficacia
Una ulteriore tendenza e tensione che deve manifestarsi è quella che riguarda l'efficacia degli enti di governo che hanno competenza nella pianificazione territoriale e urbana. Raggiungere questa efficacia è obiettivo irrinunciabile. E raggiungerla in modo omogeneo (in tutti i livelli di governo, in tutte le porzioni di territorio) è condizione essenziale perchè la pianificazione non sia un eterogeneo insieme di atti pianificatori (dove più e dove meno credibili, dove maturi e dove del tutto assenti), ma un sistematico processo che investe l'insieme del territorio nazionale.
Affrontare questo tema, proporre questa tendenza, tentar di soddisfare questa condizione apre certo problemi complessi. Basta pensare a quello del modo di formazione, reclutamento, qualificazione, retribuzione del personale impiegato nelle attività di governo del territorio, e al gigantesco salto qualitativo che è necessario compiere - in primo luogo nella consapevolezza culturale del quadro sindacale e politico. Basta pensare al problema del modo ancora arcaico e “politico” nel quale sono ripartite e frammentate le competenze nelle amministrazioni pubbliche - dal Comune su su fino agli organi centrali, dello Stato.
Ritengo che questo problema, il problema (e l'obiettivo) dell'efficacia del processo di pianificazione sia così. rilevante che esso debba essere assunto quasi come una variabile indipendente rispetto ad altri problemi riguardanti la forma dei piani e i livelli di pianificazione; ciò soprattutto in una situazione, come quella italiana, nella quale le realtà territoriali sono così diversificate (penso alla distanza che separa le regioni dove esiste una consolidata cultura del piano e quelle nelle quali questa è assente, penso al grandissimo numero di comuni con una popolazione di poche migliaia, o addirittura di centinaia di abitanti).
In questo senso, mi sembra del tutto ragionevole che in determinate aree non vi sia un piano comunale, ma questo sia sostituito da un piano di livello intercomunale o comprensoriale o provinciale, il quale abbia la stessa efficacia del P.R.G. pur promanando (certo con le opportune interrelazioni tra i “classici” livelli di governo) da un livello di governo diverso: come del resto già avviene in alcune regioni.
In sostanza, se si concepisce la pianificazione come un insieme continuo che organizza il territorio nazionale come una unica e coerente rete, dove a maglie più larghe dove a maglie più fitte, il prezzo che si pagherebbe per il fatto che le aree pianificate “a maglie strette” non sempre e non dovunque coincidono con le circoscrizioni municipali, mi sembra meno rilevante del prezzo che si pagherebbe per l'inefficacia che si avrebbe in quelle aree dove la consistenza delle realtà comunali non consente di avere una sufficiente dotazione di “servizi del piano”, di raggiungere e superare la soglia al di sotto della quale la pianificazione è impossibile.
Considerazioni conclusive
Perchè i piani di differente livello non costituiscano una congerie di atti di scarsa o nulla efficacia complessiva, ma comincino a configurarsi come elementi di un unico, e coerente, e continuo, processo di pianificazione del territorio nazionale, è quindi necessario che, accanto e a sostegno della riflessione scientifica, si introducano - e via via si generalizzino - alcune decisive e sostanziali innovazioni rispetto al modo attuale di pianificare: innovazioni che concernono (questi sono i temi che mi sembrano più rilevanti) il coordinamento delle analisi, la definizione delle competenze per elementi della struttura territoriale, la conseguente trasformazione nel modo di formulare le procedure, la rigida connessione - a tutti i livelli - della politica di bilancio a quella di piano, l'efficacia degli enti di governo territoriali.
Credo però che si debba sottolineare come l'introduzione generalizzata di tali innovazioni comporti un consistente investimento di risorse.
In primo luogo, di risorse culturali. È giunto il tempo di investire capacità intellettuali. Non nella coltivazione di chiusi e separati orticelli specialistici, magari contrassegnati ciascuno dal titolo di una delle diecimila materie accademiche nelle quali si frammenta il potere universitario. Non nella contrapposizione di scuole l'una all'altra impermeabile e ciascuna esaltata nella contemplazione della porzioncella di verità che possiede. Ma nella ricerca dialettica dei modi in cui deve, e può, unitariamente configurarsi una nuova cultura del territorio.
Una volta, venti o trent'anni fa, la cultura del territorio era l'appannaggio e l'insegnamento e la predicazione di pochi maestri; oggi, può essere solo il paziente risultato di un lavoro di discussione e di confronto e di circolazione di idee e di verità parziali che nascono da mille laboratori, da mille esperienze, da mille realtà - disciplinari, ideali, territoriali - disseminate in tutto il paese. È giunto il momento, io credo, di tessere le fila di questo lavoro - certo faticoso, certo impervio - di ricomposizione dei frammenti di una possibile nuova cultura del territorio.
In secondo luogo, un investimento di risorse politiche. Il futuro, in una società complessa, in un'epoca caratterizzata dai limiti delle risorse naturali, può essere diverso dalla catastrofe unicamente se la primordiale risorsa - il territorio - è amministrata con lungimiranza e con l'attenzione, vorrei dire con l'avarizia, che è necessaria quando si amministra un bene di grande scarsità. Amministrare il territorio vuol dire pianificare. Preparare il futuro per la società di oggi vuol dire gestire il potere democratico, fare politica. La risorsa politica che sembra oggi più necessario investire è la capacità di lungimiranza, di prospettiva.
Lo spegnersi delle tensioni ideologiche ha condotto, negli ultimi anni, al trionfo degli opportunismi, dei corporativismi, degli accomodamenti di breve e mediocre respiro: in una parola, al trionfo della miopia politica. Uno scatto è necessario per far sì che la politica, pur laicizzandosi, ritrovi il respiro dei grandi momenti della nostra storia, il ruolo di costruzione - attraverso il presente - del futuro.
In terzo luogo, infine, è necessario un investimento di risorse economiche. Un assetto territoriale preordinato è fonte di risparmio di risorse. Ma raggiungerlo significa investire, spendere. In primo luogo, dotare di personale e di attrezzature gli uffici e gli enti cui spetta di governare il territorio, metterli nelle condizioni di adoperare i sistemi, le macchine, il personale che sono indispensabili per pianificare, programmare, gestire le trasformazioni territoriali. In secondo luogo, investire nel territorio, il quale è stato sede di interventi così devastanti che ha bisogno di consistenti risorse semplicemente per risarcirlo, per tamponare e far lentamente cicatrizzare le ferite che gli sono state inferte per la carenza di pianificazione e programmazione, per la conseguente proliferazione dell'abusivismo e delle illegittimità sostanziali, per l'abbandono delittuoso nel quale è stata lasciata la difesa del suolo.
Per finire, la questione del regime immobiliare L'impiego delle necessarie risorse culturali, politiche, economiche non è un'esigenza e una predicazione astratta. Ha una prima occasione sulla quale cimentarsi. È un'occasione basilare e fondamentale, perchè da essa dipende - in ultima istanza - l'efficacia di ogni possibile modo di esercitare il governo pubblico delle trasformazioni territoriali. Mi riferisco, com'è ovvio, alla questione del regime immobiliare.
L'aver lasciato per decenni irrisolta questa questione è colpa grave per quanti potevano agire e non hanno agito, come per quanti dovevano sollecitare e protestare e non l'hanno fatto, o l'hanno fatto troppo debolmente e sporadicamente. Finché quella questione non sarà risolta, finché permarrà l'incertezza sul modo in cui potestà pubblica e diritti patrimoniali privati trovano le regole dei loro reciproci comportamenti, finché insomma espropriazioni, indennità, vincoli, convenzioni saranno lasciate alla discrezionalità degli amministratori e all'oscillazione della giurisprudenza, l'attività di pianificazione e programmazione resterà qualcosa più vicino alla sfera dell'accademia che a quella del concreto intervento sul territorio.
Testo ottenuta dalla scansione, mediante un programma OCR e successiva revisione, dal testo raccolto negli atti del convegno. Gennaio 2008
L'editoriale de l'Unità del 17 gennaio 2008, di Antonio Padellaro
In un paese normale se la moglie del ministro della Giustizia viene messa agli arresti domiciliari sulla base dell’accusa (tutta da provare) di concussione, il ministro della Giustizia presenta le dimissioni in Parlamento. Clemente Mastella lo ha fatto con sensibilità istituzionale e gliene va dato atto. Qui però finisce la normalità italiana. Perché non è normale affatto che l’intervento, comprensibilmente accorato, del dimissionario venga accompagnato nell’aula di Montecitorio da applausi così appassionati e scroscianti come forse neppure Giovanni Paolo II ne ebbe il giorno della sua storica visita.
Non è normale che la seduta della Camera prosegua con una serie di attacchi frontali alla magistratura «politicizzata», in una sorta di assurda dichiarazione di guerra (o di correità) del potere legislativo contro quello giudiziario. Attacchi che non possono certo accrescere la già scossa fiducia dei cittadini nei confronti della «casta» politica. E non è normale soprattutto la lunga litania di solidarietà (non solo umana) che da quel momento in poi si alza dai banchi del governo e della maggioranza a favore del ministro. Unita alla richiesta pressante di recedere dall’insano proposito e di tornare a via Arenula. Comprendiamo tutti l’importanza che hanno per l’esecutivo i voti dell’Udeur, ma prima di solidarizzare «a prescindere» non sarebbe stato meglio informarsi bene sui reali contenuti dell’inchiesta? E vagliare attentamente le accuse con le quali, si apprenderà più tardi, la procura di Santa Maria Capua Vetere coinvolge lo stesso Mastella ipotizzando l’esistenza di una sorta di associazione per delinquere che avrebbe agito ai danni perfino del presidente della Regione Bassolino? Ci auguriamo sinceramente che Mastella e i suoi familiari dimostrino la loro estraneità ai fatti contestati. Ma la presunzione di innocenza deve valere per tutti. Per chi subisce le indagini e per chi le fa.
Il territorio cambia, e con esso cambia la vita degli uomini. Non tutti se ne rendono conto, ed è per questo che il suo governo (la pianificazione delle città e del territorio) è così trascurato. Quando poi impieghiamo ore nevrotiche nel traffico, o vediamo i paesaggi dell’infanzia scomparire, o non troviamo alloggio a prezzi ragionevoli là dove ci serve, o non troviamo vicino casa quello che nei paesi civili è la dotazione di ogni abitazione (il verde, la scuola, il negozio), allora di fatto lamentiamo, tardivamente, gli effetti di scelte compiute, nella distrazione di tutti, molti anni prima.
Benché nessuno se ne scandalizzi più che tanto, le decisioni attraverso le quali l’organizzazione e la forma del territorio (il suo “assetto”) vengono modificati non sono decisioni prese consapevolmente, da chi ha l’autorità morale per farle, nell’interesse degli utenti del territorio: sono (almeno nel nostro paese) il risultato di scelte conseguenti ad altri interessi. Interessi magari in se legittimi, ma orientati a obiettivi che non comprendono il maggiore benessere collettivo.
Così, quando si sono realizzate le ferrovie ci si è preoccupati di collegare il più velocemente ed economicamente possibile mercati tra loro connessi da ragioni commerciali, senza curarsi dei paesi tagliati in due (pensiamo a tante città italiane), delle spiagge allontanate dai suoi fruitori (pensiamo alla costa marchigiana e abruzzese), dei versanti dei monti tagliati e resi pericolanti e instabili. Quando si sono costruite le fabbriche ci si è preoccupati di avere il terreno a basso prezzo, la mano d’opera vicina, l’acqua a portata di mano: dell’inquinamento delle falde acquifere, degli effetti sul traffico nelle strade circostanti, dei rischi derivanti dalle specifiche produzioni industriali non ci si è preoccupati affatto.
E così, più recentemente, quando si sono aperti alle periferie delle città supermercati e ipermercati si è pensato alle quote di consumo che potevano essere accaparrate vendendo vasti assortimenti di merci a basso costo a un numero elevato di consumatori, non si pensato né alla congestione del traffico che ne derivava nella viabilità circostante né allo svuotamento dei centri antichi e dei quartieri urbani dalle attività ivi insediate. E’ stata, questa, una causa non piccola del degrado delle città, e in particolare delle parti più antiche. Ha incoraggiato la riduzione delle periferie in dormitori e dei quartieri antichi in luoghi fittiziamente animati solo dal turismo e dagli uffici.
Il commercio, lo scambio di beni e merci ha sempre avuto un ruolo particolare nella città. Alle origini, ne ha provocato la nascita e le fortune. La collocazione sul territorio dei nuclei originari delle nostre città è stata determinata, oltre e forse più ancora che dalle ragioni della difesa, da quelle dello scambio. Intrecciandosi con la vita civile e quella religiosa ha dato vita a una tipologia di luoghi che costituisce – insieme alla città – una delle invenzioni più rilevanti della creatività comune dell’umanità: le piazze, i luoghi dell’incontro, della socialità, dello scambio di beni, informazioni, esperienze, emozioni. Quando poi il commercio si è separato dalle altre funzioni urbane sono nate le periferie-dormitorio, la specializzazione funzionale delle diverse parti della città, la segregazione sociale – in una parole, una componente vistosa del disagio urbano.
Se questo è vero, se quindi la configurazione spaziale del commercio e la sua relazione con le altre funzioni urbane è essenziale per la città, e se questa è in una fase di veloce trasformazione, allora è evidente che il campo di ricerca di Fabrizio Bottini presentato in questo volume è importante non solo per gli studi urbanistici, ma per gli interessi degli abitanti delle città. Bottini indaga infatti sulle logiche interne che determinano l’attuale tendenza delle attività commerciali e delle loro connessioni con l’ambiente, sui modi in cui esse si esprimono e sulle mode che li alimentano, sugli effetti concreti che esse generano nei concreti territori della nostra vita.
Due sono gli spazi geografici privilegiati dall’analisi di Bottini: gli USA e quell’area pianeggiante, una volta irrorata dal Po e oggi da un rutilante sistema di comunicazioni, che l’attuale pubblicistica ha denominato Padania.
Evidente è la scelta del primo riferimento. Gli USA sono infatti l’ambito entro il quale è più facile osservare i risultati di uno sviluppo basato sulla netta prevalenza (sul dominio) delle ideologie liberiste e della concorrenza economica come motore esclusivo della macchina sociale. Una delle tendenze (delle ideologie) che attualmente si contendono il diritto di governare nel nostro paese: forse la più forte, certo la meno contrastata. Del resto, il pragmatismo americano è stato anche capace di comprendere per primo i limiti del mercato e di applicare alcuni empirici strumenti per non farli divenire catastrofici: non dimentichiamo che fu nell’America del nord (a New York, nel 1811) che si produsse il primo piano regolatore per disciplinare una città resa inutilizzabile dallo spontaneismo delle decisioni sul territorio, e che fu negli USA (col roosveltiano New Deal) che si applicò in grandi dimensioni la pianificazione territoriale per sanare gli effetti sulla società americana della crisi del capitalismo.
Studiare gli Stati uniti, comprendere e documentare come lì vanno le cose, le tendenze che si manifestano, i benefici e i danni che provocano, i soggetti tra cui si distribuiscono gli uni e gli altri, i modi in cui si cerca di governare e contenere gli effetti negativi è quindi molto utile non solo per acquisire consapevolezza di ciò che accade oltreoceano, ma per saper leggere e correggere in anticipo (prevenire) ciò che sta già avvenendo qui, da noi.
Qui da noi, e soprattutto nelle pianure del Nord evoluto e regressivo. Quel Nord padano lacerato tra l’antica propensione europea prima che europeista, e il più arcaico idiotismo delle valli chiuse e degli orizzonti ristretti, tra le consolidate tradizioni di saggezza amministrativa e di solidarismo sociale e le spinte individualistiche del guadagno rapido e certo. Quel Nord nel quale si sono sperimentati i più evoluti meccanismi di pianificazione e le più regressive pratiche di deregulation: per esemplificare, da Giovanni Astengo a Giovanni Verga. Qui, nelle sue terre che ancora gli suscitano commozioni, Bottini descrive e analizza, con il rigore dello scienziato, la passione dell’abitante, la penna del giornalista (e con un’ironia costante, che è insieme saggio distacco dalle cose e mitigazione di quanto in esse c’è di sgradevole e perverso) ciò che sta avvenendo, a prefigurazione di quanto potrebbe consolidarsi, ingigantirsi e propagarsi dappertutto.
Nel libro troverete dunque un’analisi appassionata di ciò che sta avvenendo in Italia, alla luce di ciò che è avvenuto negli Stati uniti: a partire dalla pompa di benzina (in cui Bottini vede il primissimo germe di quella connessione extraurbana, e intimamente antiurbana, tra commercio e autostrada) e dello shopping mall, passando per il factory outlet village, per giungere alla forma attuale del big box, la “grande scatola”, che in qualche modo sembra riassumere e concludere un percorso storico di nuova barbarie.
Intendiamoci: gli accenti perentori e indignati verso questa forma di distruzione della città sono miei, non dell'autore del libro. Bottini riesce infatti sempre ad avere un atteggiamento di comprensione nei confronti delle novità che si affacciano e delle esigenze cui rispondono. Sebbene metta sempre in evidenza i giudizi critici (gli è sempre presente lo slogan del sito Sprawlbusters!, “la qualità della vita vale più di un paio di mutande a poco prezzo”), lo spirito con il quale egli descrive e valuta è quello che emerge nelle conclusioni, dove precisa che il suo lavoro “non può e non vuole suggerire soluzioni, almeno non più di quanto implicitamente inteso nelle sequenze di casi e problemi esaminati”, e richiama “l’obiettivo di approfittare il più possibile delle opportunità offerte dai nuovi modi di uso dello spazio metropolitano e regionale, ferme restando le cautele di carattere sia ambientale che sociale su cui si è più volte tornati”.
Resta però, conclude Bottini, “la necessità di fare l’abitudine ad un rapporto fisiologicamente più conflittuale, a livello meno localistico, fra società e impresa commerciale; perché pare, e non da oggi, che solo dai conflitti nascano le innovazioni, in questo come in altri campi”.
Certo, il conflitto, la dialettica, è la molla che muove il mondo e lo fa progredire. Ma perché il percorso dialettico conduca alla sintesi, e non allo schiacciamento della tesi da parte dell’antitesi (o viceversa), occorre che vi sia un certo equilibrio tra le forze in campo. Non mi sembra che, sull’argomento specifico questo equilibro vi sia, almeno nel nostro paese e negli USA.
Sconfinato sembra infatti il potere di quella che Bottini definisce “impresa commerciale”: il mondo delle grandi holding, delle multinazionali dirette da un gruppo sempre più ristretto di soggetti, espressioni di una cultura dominatrice più che egemone. Un mondo il cui obiettivo è la maggiore ricchezza e il maggior potere acquisibili mediante l’impiego di tutti gli strumenti: il mercato e il monopolio, il liberismo e il protezionismo e l’assistenzialismo, la persuasione occulta e la guerra.
Esile invece, incerto sulla sua “missione”, affascinato dall’ideologia della “impresa commerciale” è dall’altro lato il mondo che del primo dovrebbe costituire l’antitesi onde costruire la superante sintesi: il mondo dell’amministrazione pubblica. Quel mondo il cui obiettivo istituzionale è difendere e promuovere gli interessi dell’intera società, e in particolare di gli strati e gli interessi dei quali il sistema dominante non si occupa se non residualmente.
Un simile squilibrio tra le forze in campo non stupisce negli USA, dove al potere pubblico è stato originariamente assegnato un ruolo di mero sostegno al mercato, e dove quindi il tentativo che si compie è quello di contrastare le iniziative della “impresa commerciale”, o più spesso di moderarne gli effetti più dannosi. Può stupire in Italia, parte di quell’Europa nella quale la relativa debolezza del sistema capitalistico-borghese ha storicamente condotto l’attore pubblico a svolgere un ruolo di guida e di supplenza al mercato e alle sue imperfezioni, e dove comunque gli interessi comuni, “cittadini”, hanno sempre costituito un potere strutturato, capace di confrontarsi in modo non subalterno con gli interessi dell’impresa.
Ma in Italia la capacità di governo del territorio si è manifestata unicamente a livello locale. Non a caso, in epoca contemporanea l’unico strumento di pianificazione adoperato è stato il piano regolatore comunale. Ora che i fenomeni (come Bottini limpidamente ed efficacemente illustra) sono diventati sovracomunali, si rivelano in tutta la loro gravità, da un lato, il ritardo con cui in Italia si è posto mano alla pianificazione territoriale (ai livelli provinciale, regionale e nazionale), e, dall’altro, lato la subalternità culturale della grande maggioranza delle forze politiche (e dello stesso mondo accademico) nei confronti dell’ideologia mercantilistica.
Non può considerarsi casuale il fatto che, mentre le strategie territoriali delle “imprese commerciali” si svelano nella loro lucida aggressività, la pianificazione territoriale delle regioni italiane si traduce nella predisposizione di testi ampiamente descrittivi, illustrativi e interpretativi delle situazioni di fatto, ma privi di qualsiasi operatività. Quest’ultima viene lasciata alle decisioni caso per caso, assunte giorno per giorno dal “governatore” o dal suo staff, aperte alla più scatenata discrezionalità. Ciò proprio mentre oltreoceano si ascoltano sempre più numerose le voci e le proposte che mirano a un’azione pubblica volta a contenere, regolamentare, controllare a priori le trasformazioni indotte dal sistema delle “imprese commerciali”.
L’invincibile provincialismo dei ceti che dirigono il Belpaese e ne determinano il futuro emerge ogni volta che, come nel libro di Fabrizio Bottini, vengono forniti onesti materiali di confronto. La speranza è che questi libri aiutino anche a superarlo.
Edoardo Salzano
Sorano, 31 ottobre 2004
La città è un’invenzione dell’uomo
Oggi consideriamo la città il luogo naturale della vita dell’uomo. In effetti, la stragrande maggioranza della popolazione vive nelle città. Oggi, in Italia la popolazione urbana è quasi il 70%, ma in Belgio, Paesi Bassi, Regno Unito, si avvicina al 90%, in Germania, Argentina, Australia, Nuova Zelanda, Corea, Giappone supera l’80%. [1]
Ma non è sempre stato così. L’uomo non ha sempre vissuto in città. La città è una invenzione dell’uomo. Per moltissimi secoli i nostri progenitori vivevano errando su territori sconfinati, seguendo gli animali delle cui carni si nutrivano e delle cui pelli si coprivano, raccogliendo frutti e radici, riparandosi in rifugi di fortuna quando le intemperie li colpivano o le belve li minacciavano. Erano associati in piccoli gruppi o in occasionali orde, quasi come i branchi di animali che inseguivano o con cui competevano. Non avevano regole comuni, se non quelle della sopravvivenza e del dominio del più forte.
Poi impararono alcune cose che gli altri esseri non conoscevano: ad adoperare il fuoco e a farlo vivere, a seminare i frutti degli alberi e delle piante e a far crescere e moltiplicare i prodotti della natura. Inventarono l’ agricoltura e l’ allevamento degli animali.
Ciò produsse una vera e propria rivoluzione nel loro rapporto con il territorio; non furono più “ nomadi” (errabondi sul territorio), divennero “ stanziali”: si fermarono in un sito, dove poter custodire il fuoco, coltivare piccoli appezzamenti di terreno, allevare gli animali addomesticati. Scelsero siti difesi dalle intemperie e dalle belve, terreni fertili, abbondanza di risorse (l’acqua, i prodotti del bosco, quelli del fiume e del mare). Vi costruirono gruppi di abitazioni, i villaggi: più stabili dove la loro attività principale era l’agricoltura, aggregazioni più mobili di capanne (ricordate i wigwam dei pellirosse?) dove praticavano l’allevamento
La stanzialità diede luogo a forme sociali un po’ più ricche del branco o dell’orda: si formarono tribù, famiglie ramificate o gruppi di famiglie. La convivenza stabile impose la necessità di regole: come governare i conflitti che insorgevano tra le persone, come ripartirsi gli incarichi utili a tutti, come proteggere i beni comuni.
Mano a mano che imparavano a migliorare le loro capacità di agricoltori, di allevatori o di pescatori gli uomini scoprirono che dalla natura potevano trarre più di quanto serviva loro per le esigenze elementari: più di quanto fosse necessario per nutrire se stessi e la prole, per coprirsi e ripararsi, per mettere da parte le sementi per la prossima annata e le scorte per i periodi di carestia. Una volta soddisfatte queste esigenze, restava un sovrappiù di beni. Che farne? Cominciarono a scambiarlo tra produttori dei villaggi vicini: chi aveva pelli le dava in cambio di grano, chi aveva pesci li scambiava con i prodotti del latte.
La necessità di scambiare i prodotti in eccesso rispetto alle esigenze di consumo condusse i villaggi ad accrescere le relazioni tra loro. Il territorio fino ad allora poteva immaginarsi costituito da una serie di villaggi da ciascuno dei quali si irraggiava una serie di percorsi, che solo casualmente si incontravano con quelli dei villaggi vicini. Da quel momento (da quando cominciò lo scambio del sovrappiù) si costituì via via una rete di tragitti che congiungevano villaggi diversi: una rete di sentieri, o di percorsi acquei, tracciati dai gruppi di uomini e donne che portavano i loro prodotti ai villaggi vicini, per scambiarli con i loro sovrappiù.
Man mano che le innovazioni introdotte nella loro attività aumentavano la loro produttività (la quantità di prodotto che erano in grado di formare ogni anno), aumentava il sovrappiù. L’esigenza di conservarlo, di difenderlo mentre si accumulava, di scambiarlo, fece nascere nuove necessità e nuove invenzioni, che modificarono l’organizzazione sociale e il rapporto con il territorio. Il villaggio si arricchì di nuove funzioni e nuove costruzioni. Si costruirono magazzini e difese per il sovrappiù, si attrezzarono luoghi dedicati allo scambio: nacque il mercato, là dove arrivavano le carovane che portavano i prodotti dagli altri villaggi, e gli abitanti che volevano scambiare i loro prodotti con quelli portati dai mercanti.
Con il mercante è nata una nuova funzione sociale. Accanto al produttore (agricoltore o allevatore o pescatore che fosse), è nato un soggetto la cui attività economica è quella di aiutare lo scambio: non è più il produttore che va al mercato del villaggio vicino a scambiare la sua produzione, ma è il mercante, che si fa dare il sovrappiù prodotto in un villaggio, lo porta in un altro villaggio, lo scambia. (Nel frattempo è nata la moneta: un equivalente universale di tutti i prodotti. Un prodotto si può scambiare con moneta, questa servirà a comprare un altro prodotto quando ciò sarà necessario o conveniente).
Aumenta il sovrappiù, aumenta lo scambio, si trasforma il territorio. Cresce l’importanza delle strade che collegano tra loro i villaggi (i mercati). Cresce importanza dei luoghi dove s’incrociano più percorsi: sono più facilmente raggiungibili da più punti, sono più accessibili. Il ruolo dei villaggi si diversifica: diventano più rilevanti, più dotati, più abitati i villaggi che si trovano accanto ai mercati dove affluiscono più mercanti. Dunque, quelli posti all’incrocio di itinerari di rilievo. (Avete mai osservatato quante città odierne, trasformazione di antichi villaggi divenuti via via più importanti, sono collocate in un punto dove un corso d’acqua e un percorso di terra si incrociavano, grazie a un guado o a un ponte? Oppure dove una strada di valle o di crinale raggiungevano un sito costiero dove l’approdo era facile?).
Là dove il sovrappiù prodotto dalla comunità non viene portato via da un padrone o da un brigante (ricordate il film “I Magnifici Sette”, o il suo bellissimo antenato “I Sette Samurai”?), là dove rimane nelle mani delle famiglie dei produttori, la società si arricchisce e diviene più complessa. Nascono nuove funzioni: al produttore e al mercante si è aggiunto l’artigiano (che dedica il proprio tempo e la propria intelligenza e fatica a riparare gli attrezzi). Alle funzioni propriamente economiche si aggiungono via via quelle sociali: l’amministrazione della giustizia, la difesa verso i nemici esterni, la celebrazione dei valori comuni, il governo degli interessi condivisi.
Nascono e si arricchiscono i luoghi destinati alle funzioni comuni. Accanto al mercato, diventano più belli e più complessi i luoghi dove ci si riunisce per decidere insieme, o per assistere alle celebrazioni comuni, o semplicemente per incontrarsi (così nascono le piazze, che rendono belle le città dell’Europa). Sorgono, e diventano via via più ricchi e adorni, gli edifici destinati alla celebrazione del culto, all’amministrazione della giustizia, al governo della cosa pubblica.
Dal villaggio è nata così, a conclusione di un lungo percorso storico, la città. Se riflettiamo sulle vicende della sua nascita e del suo sviluppo, scopriamo subito qual’è la ragione di fondo della sua invenzione. La città è nata come luogo finalizzato e organizzato per svolgere funzioni e soddisfare esigenze che i singoli uomini (le singole famiglie) non potevano risolvere da soli. La città, insomma, è nata per soddisfare esigenze e funzioni comuni, collettive, sociali.
E i luoghi, gli spazi, gli edifici dedicati a queste esigenze e funzioni hanno caratterizzato le città, hanno dato a ciascuna di esse una particolare identità e riconoscibilità, sono state la ragione della sua particolare bellezza. Osservate i centri storici delle città italiane o francesi, tedesche od olandesi, spagnole o austriache: quali immagini evocano alla vostra memoria? Ricordate certamente alcuni grandi edifici, adorni e ricchi, più maestosi degli altri, collocati al margine o al centro di piazze, o sistemi di piazze, a loro volta abbellite da fontane e statue e da studiate pavimentazioni. E ricordate i disegni antichi e le antiche storie che vi raccontano come in questi luoghi, nella piazza della cattedrale o in quella del palazzo del governo o in quella del mercato, donne e uomini, vecchi e bambini si incontravano nelle ore del lavoro e in quelle dello svago, e come in quegli stessi luoghi i cittadini accorrevano a frotte, in ogni occasione gioiosa e festosa, o ad ogni allarme o pericolo.
Attorno a questi edifici e spazi, potete osservare ancora oggi il regolare allinearsi delle casette “normali”, dove abitano e lavorano i cittadini e le loro famiglie: case uguali nelle strutture (le altezze, le larghezze, la forma del tetto, il modello delle finestre, nelle regioni piovose il portico sulla strada principale). Come nel contrasto armonico tra il coro e la voce solista, l’uniformità regolare della “edilizia minore” sottolinea l’importanza, la centralità, il ruolo dominante dei grandi volumi e dei grandi spazi (la cattedrale, il mercato, il palazzo del governo, il tribunale): i grandi volumi e i grandi spazi nei quali si identifica e si celebra la città.
La città, insomma, non è un insieme di case: è la casa della società.
Nella città tutti avevano diritti. Diritti non uguali: c’era il ceto dei più ricchi e potenti, come i mercanti, i possidenti, più avanti nel tempo gli imprenditori capitalisti; c’erano gli artigiani dei molti mestieri, i padroni di bottega e i semplici lavoratori, i garzoni, i manovali, più tardi gli operai delle fabbriche. Tutti avevano però una base comune di diritti: erano cittadini, quindi, a differenza di quanto non fossero nei villaggi, asserviti a un padrone della terra, erano liberi. Un antico detto medioevale afferma che “l’aria della città rende liberi”.
La comune libertà, il comune diritto di cittadinanza, non impediva i conflitti tra i membri delle diverse classi sociali. Ma i conflitti urbani avevano un carattere diverso rispetto alle sanguinose ribellioni che percorrevano le campagne, opponendo le torme dei miseri servi alle guardie dei ricchi: erano lotte per costruire, per cambiare qualcuna delle regole che garantivano la convivenza civile.
Così fu, ad esempio, nella “rivolta dei Ciompi”, nella Firenze del XIV secolo. I Ciompi erano gli operai della lana, cui si unirono garzoni e operai degli altri mestieri. Rovesciarono con la forza il governo del “popolo grasso” (i mercanti e i padroni delle fabbriche), sostituendovi un governo più vicino al “popolo minuto”. Non saccheggiarono né distrussero la città (come fece più volte il popolo servile delle campagne con i castelli dei signori), ma la governarono con moderazione.
E così fu – per fare un altro esempio classico - nella lotta sindacale che oppose a Lione, la capitale francese della seta, i “ canuts” (gli operai setaioli che, a domicilio, tessevano per i padroni) ai capitalisti e ai mercanti. Un rincaro dei prezzi dei beni d’uso comune li aveva spinti a chiedere un prezzo più alto per il loro lavoro. I padroni lo negarono; i canuts si asserragliarono nel loro quartiere (la Croix Rousse) e resistettero per tre giorni all’assedio e al bombardamento della guardia nazionale. Si giunse a un accordo, grazie alla compattezza dei canuts e delle loro famiglie. La città non fu distrutta e l’economia fiorì più prospera.
L’aria della città non rende solo più liberi: rende anche più solidali i cittadini.
Questa era la città, quando l’uomo la inventò e la rese la più bella e ricca delle sue costruzioni. Ma poi è cambiata. Oggi non è più così. La città, oggi, è in una crisi profonda. È difficile riconoscerla come la “casa della società”: è più facile definirla il luogo della lacerazione della società. Ricordiamo alcuni aspetti della sua crisi attuale: aspetti che sono presenti nell'esperienza quotidiana di ciascuno di noi.
Oggi moltissimi vivono il disagio nella ricerca e nell'accesso ai luoghi indispensabili per l'esistenza dell’uomo e della donna dei nostri tempi (dalle scuole agli ospedali, dal verde agli uffici pubblici). Oggi la città é divenuta inospitale, e spesso nemica, per persone appartenenti alle categorie e alle condizioni più deboli: le donne e i bambini, i vecchi e gli immigrati, i malati e i poveri: a causa del traffico e del rumore, del pericolo, del prezzo delle case, dello stesso disegno degli spazi pubblici. Oggi la nostra salute è minacciata dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua, i rumori ci assordano e rendono più ardua la riflessione e il colloquio. Oggi l'abnorme produzione di rifiuti minaccia di seppellirci..
E ricordiamo, soprattutto, quell'aspetto della crisi della città che è il traffico. Muoversi, spostarsi è diventato oggi un tormento, un'angosciosa perdita di tempo, un'assurda dissipazione di risorse pubbliche e private, un ingiustificato spreco di spazio e di energia, una preoccupante fonte d'inquinamento. La crisi della mobilità non è solo l'aspetto più appariscente e drammatico della crisi della città; ne é anche l'aspetto più emblematico e paradossale. La città è stata infatti storicamente il luogo degli incontri e delle relazioni, dei rapporti tra persone e gruppi diversi: sta degenerando, negli anni della "civiltà dell'automobile", nel luogo delle segregazioni, dell'isolamento, delle difficoltà di comunicazione.
Sarebbe lungo raccontare le ragioni della crisi della città. Ce n'è una che è centrale e nodale. La questione può essere sintetizzata nel modo seguente. All'enorme sviluppo della produzione di beni materiali e al parallelo sviluppo della democrazia - entrambi provocati dal processo di affermazione, evoluzione e trasformazione del sistema capitalistico-borghese - hanno corrisposto in Europa, fin dalla fine del '700 un poderoso aumento della popolazione e un parallelo aumento della quota di popolazione accentrata nelle città. Più avanti nel tempo, per effetto dell'evoluzione del medesimo processo, sono aumentati in modo consistente i redditi delle famiglie.
Come conseguenza di tutto ciò le città sono aumentate enormemente di dimensione. Da città dell'ordine di poche decine di migliaia di abitanti, si è passati a città che contano centinaia di migliaia, e a volte milioni, di abitanti. E sono città nelle quali, nonostante le segregazioni e le differenze anche profonde, i cittadini sono tutti ugualmente portatori di diritti, di esigenze che pretendono di essere soddisfatte. Nasce quindi una fortissima domanda di fruizione di funzioni urbane: di lavoro “libero” (affrancato dalla servitù), di incontri, di scuola, di salute, di ricreazione, di sport, di spettacolo, di comunicazione, di cultura, di bellezza.
Ora il punto cruciale è che, parallelamente a queste gigantesche trasformazioni quantitative e a questa esplosione della potenziale domanda urbana, c'è stata una grave trasformazione nel sistema dei valori e delle regole. Si sono affievoliti, fino a diventar quasi marginali, i valori, le ragioni e le regole della collettività, della comunità in quanto tale, e hanno viceversa assunto uno schiacciante predominio le ragioni e le regole dell'individualismo.
Ma la crisi della città é solo una faccia della sua attuale condizione. Esiste anche un'altra faccia.
Le città, intanto, sono ancora il luogo dell'homosocialis, dell'uomo sociale. Sono il luogo in cui l'uomo è inevitabilmente condotto a cercare l'incontrarsi, lo scambiarsi informazioni ed esperienze, gioie e paure, a cercare e trovare il comunicare, lo stare insieme. Sebbene dominata dall'individualismo, la città è ancora il serbatoio dei possibili valori comunitari, delle potenzialità collettive.
E le città poi, soprattutto nel nostro paese - ma nell’intera Europa - sono anche il più grande deposito non solo di testimonianze, ma di viventi patrimoni della civiltà. Nelle nostre città si é consolidato e conservato qualcosa che é un valore in molti sensi: si è conservato e consolidato nelle loro forme, nelle loro architetture e nei loro spazi, nei loro palazzi e nei loro musei, nella terra sulla quale sono costruite e negli orizzonti che le legano al territorio, nelle tradizioni e nella vita quotidiana dei loro cittadini, nelle loro biblioteche e teatri e nelle loro istituzioni culturali e civili.
È un valore come testimonianza del passato e perciò come fondamento del futuro; é un valore come fonte d'insegnamento, di cultura, e di godimento estetico; ed é un valore in termini strettamente economici, come risorsa primaria di quell'industria del turismo che acquista un peso sempre maggiore (e pone problemi sempre più urgenti per il suo governo).
È di qui, è dalla tutela e dalla valorizzazione dei valori sociali e culturali che si può partire, che si deve partire per progettare una città nuova: una città capace di superare la crisi attuale.
Abbiamo parlato della città. Ma per comprendere la città oggi, dobbiamo parlare di un altro protagonista: dobbiamo parlare del territorio.
Storicamente la città è nata in opposizione al territorio. La città era il chiuso, il difeso, l'artificiale, il costruito, il denso, il dinamico, mentre il territorio era il luogo aperto, dove si poteva essere attaccati, dove dominava esclusiva la natura, dove la presenza dell’uomo era rada e discontinua, dove le trasformazioni erano lente come i ritmi della natura.
Nel corso del grandioso e drammatico processo di espansione della civiltà urbana il rapporto con il territorio è venuto via via a modificarsi. La città ha cominciato ad "esportare" parti scomode della sua struttura: le prime sono state le fabbriche, allontanate dal tessuto urbano a causa dell'inquinamento e collocate nelle nuove "zone industriali" in periferia. Si è enormemente accresciuta, fin dalla metà del secolo scorso, l'importanza dei trasporti, e il territorio ha cominciato a essere segnato da infrastrutture come le strade, le ferrovie, i canali navigabili.
Nella seconda metà di questo secolo la mobilità sul territorio è aumentata in misura parossistica: è aumentata la rete delle infrastrutture del trasporto, ed è aumentata la loro utilizzazione. E le infrastrutture hanno creato a loro volta nuove convenienze per l'insediamento di funzioni specializzate. Gli ospedali e le caserme, le carceri e le strutture commerciali, gli stadi e le discoteche, contenitori di funzioni che una volta animavano la vita urbana, sono stati localizzate sempre più frequentemente fuori dalle città, in prossimità dei caselli autostradali o delle superstrade.
Contemporaneamente sono aumentate le ragioni per uscire dalla città e percorrere e usare il territorio. Oltre alle ragioni derivanti dal fatto che determinate funzioni (quelle di cui ho parlato or ora) sono state collocate fuori, oltre a quelle derivanti dal fatto che è più conveniente accedere a servizi localizzati in città diverse dalla nostra (per l’università, per l’ospedale specializzato, per l’approvvigionamento di merci rare, per il concerto o la mostra o lo spettacolo), nuove ragioni sono nate da nuove esigenze: esigenze di contatto con la natura, con ambiente incontaminati, esigenze di rigenerazione psicofisica, di sport attivo, di ricreazione all’aria aperta. La villeggiatura, le gite di fine settimana in collina o nel bosco o a mare, le settimane bianche sulla neve, lo sci e l’alpinismo e la vela: tutte queste pratiche della vita di ciascuno di noi, erano inesistenti o del tutto marginali fino a qualche decennio fa. Oggi, ci hanno condotto a usare il territorio in modo sempre più ampio e frequente.
Oggi possiamo dire, in definitiva, che il territorio non è più in opposizione alla città: non è l’altro, non è il fuori. Oggi, la città, o più precisamente la vita urbana, comprende il territorio. Oggi non è più il caso di parlare di città e territorio come di due realtà antitetiche. Oggi è più esatto parlare di territorio urbanizzato come una realtà che comprende insieme le città e il territorio.
Certo, il territorio urbanizzato è formato da realtà tra loro molto diverse. In alcune parti l’urbanizzazione è più densa, la presenza umana è più forte, i flussi di relazione che legano tra loro le diverse persone e attività sono più intensi, la presenza della natura è più debole. In altre parti invece succede il contrario: la presenza della natura è più marcata e più debole è invece la presenza dell’uomo, minore la densità dell’urbanizzazione, l’intensità dei flussi.
La città come “casa della società” si è insomma estesa al territorio, comprendendolo all’interno della rete delle sue esigenze e della sua organizzazione.
Questo fenomeno è avvenuto nel corso della seconda metà del secolo scorso e di questo secolo, con un’accelerazione progressiva. È avvenuto insomma nello stesso periodo di tempo, e per effetto delle stesse sollecitazioni, che hanno provocato la crisi della città. Quella crisi, la crisi della città, non poteva allora non riverberarsi sul territorio. E infatti nell’organizzazione del territorio vediamo rispecchiarsi allargati quegli stessi fenomeni di degrado che abbiamo visto nella città. Proviamo a comprendere che cosa è successo al territorio per effetto dell’estendersi su di esso della presa della città.
Com’era il territorio, fuori dal recinto della città, trecento o duecento o cent'anni fa? Non era un luogo selvaggio e aspro. Il territorio extraurbano era tutto curato, amministrato, gestito. Non solo quello agricolo, che occupava un'area più estesa di quella odierna, ma anche quello utilizzato per la pastorizia e la silvicoltura, e perfino quello del tutto "selvatico". Perfino i boschi selvaggi, quelli dove le bestie addomesticate non potevano pascolare e che non venivano curati dai boscaioli, erano soggetti a quel minimo di cura che consiste nel togliere via i rami e i tronchi secchi per arderli nei focolari (impedendo così che il corso delle acque nei torrenti tracimasse dagli alvei naturali e rovinasse a valle)
Tutta la natura, insomma, anche quella più selvatica, entrava nel ciclo economico della società. Tutta la natura era "casa dell'uomo", anzi, della comunità. E basta studiare gli usi civici[2], la loro minuziosa regolamentazione comunitaria volta in larghissima misura all'appropriazione dei prodotti dell'incolto, per comprendere quanto la società, nelle sue forme arcaiche ma non più elementari, fosse presente sull'insieme del territorio.
È chiaro che un territorio sottoposto a simili regole, finalizzate a simili stringenti necessità (riscaldarsi, ripararsi, nutrirsi), era anche un territorio custodito. Era un territorio sul quale si esercitava un controllo sociale. Era un territorio che veniva sentito e vissuto dall'uomo come un patrimonio, perché immediatamente ne traeva elementari ma indispensabili benefici.
Nell'ultimo secolo, e in modo particolarissimo negli ultimi cinquant'anni, la città si è estesa a macchia d'olio, e ancora più vaste sono proliferate le sue propaggini "rururbane": lo "svillettamento" delle campagne di pianura e dei colli, le lottizzazioni a nastro lungo le coste e le vie di comunicazione, la formazione di ampie “città diffuse” o “città spalmate” o “città esplose” (i francesi parlano appunto di ville étalée e di ville éclateé) nelle regioni attorno alle città più grandi. Se andate da Treviso a Padova, o da Milano a Cantù, o da Macerata a Civitanova, o da Napoli a Nocera, vedete un paesaggio formato da case, ville e villette, capannoni e discariche, depositi e parcheggi, tra i quali pochi brandelli di campagna vi ricordano l’antico paesaggio agrario.
La campagna coltivata si è enormemente ridotta, abbandonando tutti i terreni acclivi e gran parte delle zone interne dello nostra Italia. La pastorizia si è ridotta ad attività marginale e di risulta. Dalle montagne e dalle colline l'insediamento è "franato", la popolazione ha abbandonato i paesini ad alta quota e si è trasferita verso le grandi città, i fondi valle, le coste.
Non è stato solo uno spostamento di residenze e una trasformazione della produzione. Non è stato neppure solo un fenomeno quantitativo. Il possente salto di qualità è stato in ciò, che una parte molto ampia del territorio è uscita dall'economia e dalla società. L'extraurbano è diventato res nullius, terra di nessuno: luogo d'attesa per l'ingresso, tramite la speculazione fondiaria, nel regno infetto dell'urbano, luogo delle discariche, dell'esportazione "fuori" degli scarti urbani, residuo esso stesso. Territorio senza cittadinanza e senza diritti perché senza utilità: ridotto a luogo delle scorrerie dei vacanzieri del fine settimana, luogo di passaggio degli automobilisti serrati nella loro scatola di latta.
Per domandarci come si può, oggi, progettare una città e un territorio adeguati alle esigenze di oggi, e capaci di superare la crisi in atto, dobbiamo innanzitutto domandarci quali siano gli strumenti di cui disponiamo. Quello che conosco meglio, e che mi sembra si possa adoperare con una qualche efficacia, è la pianificazione territoriale e urbanistica, come componente e metodo guida di un’azione pubblica democratica di governo del territorio. Domandiamoci allora che cos’è questa cosa, la pianificazione.
La pianificazione nasce, nei tempi moderni, come tentativo di dare una risposta positiva alla crisi della città dell’Ottocento. Il prevalere dell’individualismo nell’organizzazione della città aveva dato luogo ad anarchia, disagio, inefficienza. Occorreva regolare lo sviluppo urbano con uno strumento che riuscisse a dare coerenza a cose che erano diventate incoerenti e contraddittorie. La pianificazione nasce così come insieme di regole, dettate dall’autorità pubblica, miranti a dare ordine alle trasformazioni della città e a fornire una cornice all’interno della quale potessero esplicarsi le attività di costruzione e utilizzazione poste in opera da operatori privati.
Forse il primo piano regolatore, nella storia dell’urbanistica moderna, è nato nel 1811, in quella città delle Americhe che da New Amsterdam (come l’aveva battezzata il primo nucleo d’emigranti arrivati dall’Olanda) era diventata New York. Aveva raggiunto 60mila abitanti, ed era in continua espansione. La dinamica delle trasformazioni faceva sì che, nel giro di pochi anni, le aree lottizzate per la residenza si riempivano di fabbriche e fabbrichette. Le strade erano percorse promiscuamente dai pedoni residenti e dai carri che dalle fabbriche di tessuti si dirigevano verso le terre colonizzate all’Ovest. I valori immobiliari erano fortemente instabili: l’intrusione delle fabbriche nelle zone originariamente residenziali ne abbassava il valore, provocava disastri agli investitori.
Così non andava bene, per il vispo mercato della nascente American Civilisation. Senza un po’ di regole certe il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili. È sulla base di queste esigenze, e di una vivissima pressione dal basso, che il governo cittadino decise di incaricare una commissione di redigere il Piano regolatore: quello che ancora oggi determina la forma della città. Il piano regolatore nasce insomma perché il mercato ne ha bisogno: negli USA, nel primo decennio del XIX secolo. Meno di mezzo secolo dopo si accorsero che la città non può essere fatta solo di edifici e strade, annullarono l’edificabilità di un’area corrispondente a circa centocinquanta isolati e progettarono e costruirono il Central Park.
L’economia liberista sapeva risolvere un sacco di problemi: sapeva produrre merci in grande abbondanza, sapeva promuovere lo sviluppo tecnologico in maniera mai prima sognata, sapeva dare lavoro a masse sterminate d’operai, e sapeva soddisfare (e sviluppare) le esigenze di consumo di masse altrettanto estese. Sapeva perciò ridurre le condizioni di miseria e carestia, rigettandole ai margini della società; sapeva risolvere le tensioni sociali, che incessantemente sviluppava, spostando verso i salari quote non rilevanti dei profitti e riducendo di quantità modeste le spinte espansive. Se la legge spietata della concorrenza gettava sul lastrico famiglie di produttori schiacciate dai prezzi decrescenti, altrettante famiglie erano premiate dall’arricchimento provocato dallo sviluppo.
Ma era un’economia basata su due principi. Il primo era la libertà individuale: più questa era priva di freni, più sapeva perseguire, attraverso il massimo benessere individuale, il massimo benessere per la società. Il secondo principio era la riduzione d’ogni bene a merce, d’ogni valore a valore di scambio. Una cosa non aveva valore di per sé, per l’uso che se ne poteva fare, per l’utilità o per il piacere che se ne poteva trarre, ma per il fatto di essere scambiata con altre merci: in particolare, con la merce che le vale tutte, la moneta. (Come conseguenza di ciò i beni che non possono essere ridotti a merce, come l’acqua, l’aria, la bellezza, sono scomparsi dall’attenzione dell’economia e della società: non valgono nulla, quindi possono essere sprecati, distrutti).
Questi due principi costituivano anche due limiti pericolosissimi per quel sistema economico-sociale. Il primo limite lo si scoprì prestissimo: appunto a New York, nel 1811. Il secondo limite lo si scoprì molto più tardi, quando nacque la questione ambientale; su questo torneremo più avanti.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento la pianificazione urbanistica divenne una procedura normale per regolare le trasformazioni e, soprattutto, l’espansione delle grandi città (nelle società industrializzate come nelle terre colonizzate dal capitalismo europeo). Poco più tardi leggi specifiche generalizzarono il metodo, le tecniche e le procedure della pianificazione a tutte le realtà territoriali nelle quali si manifestavano, o si prevedevano, trasformazioni significative dell’assetto fisico o dell’organizzazione funzionale. L’Italia arrivò con un certo ritardo. Dopo un dibattito durato oltre un decennio, solo nel 1942 venne approvata la legge urbanistica ancora oggi in vigore. Ma già prima, negli anni immediatamente successivi all’a costituzione dello stato unitario, le grandi città avevano deciso di adottare un piano urbanistico: a Torino nel 1864, Firenze (prima capitale del Regno d’Italia dopo Torino) nel 1865, Roma nel 1873, Milano nel 1885.
La struttura della città e dell’urbanizzazione è molto mutata da allora; soprattutto, in Italia, nei trent’anni del secondo dopoguerra. Abbiamo visto alcuni rilevanti aspetti del cambiamento: in particolare, l’estensione del processo di urbanizzazione all’intero territorio. Se è successo quello che è successo, se la città si è “impadronita” dell’intero territorio, allora oggi non basta più imprimere, attraverso la pianificazione, regole alle trasformazioni della città. Bisogna estendere la pianificazione all’intero territorio. Nasce così, come estensione e proiezione della pianificazione urbanistica, la pianificazione territoriale.
E cambiano gli obiettivi specifici della pianificazione territoriale e urbana. Fino a qualche decennio fa l’esigenza primaria era l’espansione: la pianificazione era lo strumento per governare la crescita. Si espandevano le città, e nuove aree dovevano essere sottratte alla natura e impegnate dalle costruzioni. Cresceva a dismisura la motorizzazione individuale, e occorreva costruire nuove strade, superstrade, autostrade.
Oggi si è preso atto che l’espansione non è più il problema centrale: la popolazione non aumenta, e c’è addirittura un eccesso di costruzioni sulle necessità della popolazione e delle attività. Il problema centrale è diventato quello della riqualificazione delle immense periferie costruite negli anni ’50, ‘60 e ’70 del secolo scorso. L’obiettivo è di renderle umane, civili, abitabili per tutte le donne e gli uomini, i bambini e i ragazzi, gli anziani e gli infermi.
E si è preso atto che l’espansione della motorizzazione individuale e su gomma pone più problemi di quanti ne risolva. Non occorre incentivarla con la costruzione di nuove strade, superstrade e autostrade. Occorre invece dirottare quote consistenti della domanda di mobilità urbana e interurbana delle persone dall’automobile alla metropolitana, al tram, al filobus, e quote rilevanti della domanda di trasporto delle merci dal camion al treno e alla nave. Occorre insomma allargare l’impiego di mezzi di trasporto meno costosi, meno inquinanti, meno consumatori di spazio e di energia di quelli oggi prevalenti.
Infine, è nata l’esigenza di porre al centro della pianificazione l’esigenza della tutela e della valorizzazione dell’ambiente naturale e storico. Come garanzia di un futuro possibile (una progrediente degradazione dell’ambiente minaccia di distruggere le stesse possibilità di vita delle generazioni future) e come risorsa per lo sviluppo economico (sappiamo che la qualità dell’ambiente diviene sempre più una delle carte vincenti nella concorrenza internazionale tra le città e le regioni).
Quest'ultima considerazione ci conduce a un tema che oggi mi sembra centrale: quello del rapporto tra questione urbana e questione ambientale. Progettare oggi una città e un territorio adeguati significa affrontare in modo soddisfacente entrambe le questioni. Significa avviare la costruzione di una città e un territorio nei quali sia superata l'antinomia tra sviluppo e tutela dell'ambiente: in cui anzi la tutela delle qualità dell'ambiente sia vissuta come la premessa, l'occasione e la materia stessa d'un nuovo sviluppo economico e sociale.
Mi ricollego qui a una concezione del rapporto tra ambiente e sviluppo che è ancora controcorrente, nel nostro paese. Oggi, in Italia, si continua infatti a sostenere che solo se si garantiscono certe condizioni, e certi ritmi, di sviluppo economico, solo se si realizzano e si mantengono determinati livelli di investimenti, di accumulazione, di occupazione, solo allora diviene possibile porsi l'obiettivo di determinare un sensibile miglioramento dell'ambiente. Lo sviluppo quantitativo delle grandezze economiche è insomma, per molti, la condizione preliminare per affrontare il tema della qualità dell'ambiente. Questa affermazione oggi è divenuta falsa. Va anzi rovesciata nel suo opposto: nell'affermazione, appunto, che, come afferma la Commissione europea[3], la qualità dell'ambiente è "una precondizione di base" per lo sviluppo economico.
Molte ragioni concorrono a formulare quest'ultima affermazione. Tutti gli studiosi concordano nel sostenere che la qualità della città é riconosciuta come un valore nella concorrenza internazionale, e che perciò l'ambiente e la qualità della vita devono diventare elementi essenziali della pianificazione e dell'amministrazione della città sia nei confronti degli abitanti che per promuovere lo sviluppo economico.
È insomma la maggiore o minore qualità urbana che consente alle città d'Europa di concorrere più o meno vittoriosamente con le altre. Di concorrere a una gara in cui è in gioco una posta molto concreta: la possibilità di vivere uno sviluppo dell'economia cittadina, una crescita della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti - oppure, al contrario, la penalità di un loro regresso, di una loro decadenza.
Il governo del territorio deve farsi pienamente carico di questa nuova realtà. È allora necessario impegnare risorse morali e materiali, attenzione politica e culturale e disponibilità finanziarie per raggiungere un ben determinato sistema di obiettivi: proteggere le qualità ambientali sia naturali che storiche: valorizzare le caratteristiche specifiche, peculiari, proprie di questa o di quella città e fondative della sua individualità; conservare la bellezza esistente e costruire bellezza nuova; rendere efficiente l'attrezzatura urbana.
Tentare di raggiungere questi obiettivi non è oggi un lusso, non è un possibile modo d'impiegare il superfluo: è una necessità assoluta per quelle città che non vogliano farsi tagliar fuori dalla concorrenza nazionale e internazionale.
Se al termine "sviluppo" vogliamo attribuire oggi un significato positivo, dobbiamo radicalmente separarlo dal termine "crescita". Dobbiamo anzi giungere ad affermare che in molte situazioni lo sviluppo comporta oggi che non vi sia crescita di alcune tradizionali grandezze del tradizionale discorso economico. O almeno, che non vi é necessariamente sviluppo se i valori assunti da tali grandezze sono crescenti.
In effetti, quanto parlo di sviluppo mi riferisco a una categoria che la Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell'ONU ha definito "sviluppo sostenibile". Per "sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto - "si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri" [4].
Bisogna provare ad applicare la definizione della Commissione dell'O.N.U. alla città, con una sola correzione: sostituendo cioè la parole "senza compromettere" con la parola "migliorare". Questa correzione mi sembra importante per due ragioni. In primo luogo perché ognuna delle civiltà del passato ha aggiunto qualcosa a quelle che l'hanno preceduta, e quindi anche noi dobbiamo rendere più qualità di quanta ne abbiamo ricevuta. In secondo luogo perché la condizione delle nostre città, e il trend della trasformazione che su di esse opera, è tale da indurci a operare con energia e con tempestività in assoluta controtendenza per evitare che dalla città scompaia ogni residua qualità ed essa si riduca a un mero agglomerato di oggetti e di persone.
L'obiettivo che dobbiamo proporci è allora quello di costruire una città (e un territorio) sostenibili, tali cioè da soddisfare i bisogni del presente accrescendo la capacità delle generazioni futura di soddisfare i propri.
Per fare questo occorre riconoscere che il territorio (la superficie del pianeta Terra che ci ospita) non è un semplice “contenitore” di ogni possibile trasformazione e manufatto, non è una pagina bianca sulla quale possiamo tracciare i disegni o gli scarabocchi che vogliamo. Esso è un soggetto, ha una sua individualità, è una risorsa vivente. Il territorio deve essere in primo luogo conosciuto e rispettato: nei beni naturali (l’acqua, la terra, la vegetazione, la flora e la fauna) che contiene, e in quelli storici (le antiche città, i casali e le masserie, i filari e i percorsi storici, i conventi e i castelli, i paesaggi agrari).
Il territorio, insomma, è un patrimonio per l’umanità. Un insieme di beni che vanno preservati, e migliorati nelle loro qualità, perché ne possano godere anche le generazioni future.
Quali sono, oggi, alcune cose concrete che si possono fare, nella progettazione della città e del territorio, per avvicinarsi all'obiettivo della città sostenibile? Vorrei proporne due.
Sulla prima mi sono già soffermato: si tratta della questione della mobilità[5]: È una questione che è indispensabile affrontare, se vogliamo restituire alla città un po’ di quelle qualità che hanno condotto l’umanità ad inventarla e a costruirla: la possibilità d’incontrarsi, di spostarsi agevolmente, di passeggiare in luoghi ameni e piacevoli, di evitare i rischi alla salute derivanti dalla congestione del traffico
Non è un’impresa impossibile, se si individuano bene le origini del problema. La congestione del traffico dipende da una serie di cause. La prima, è l’errata distribuzione delle funzioni nella città. Se, per esempio, i luoghi dove i cittadini vanno a lavorare sono tutti da una parte (le zone industriali, i centri direzionali), e i luoghi dove i cittadini abitano sono da un’altra parte (le zone residenziali), e se magari tra le une e le altre c’è la strada statale, la ferrovia, il centro storico[6], le relazioni si allungano e si concentrano lungo pochi assi che inevitabilmente diventano congestionati.
La seconda è nella coincidenza degli orari di apertura e chiusura delle fabbriche e dei servizi: tutti escono da casa, e vi rientrano, alle stesse ore (tra le 7 e le 8, le 12 e le 13, le 14 e le 15, le 18 e le 19), questo provoca le infernali “ore di punta”, che non ci sarebbero se gli orari fossero articolati diversamente. La terza ragione è che, nonostante i meritori sforzi di un certo numero di amministrazioni comunali, la grande maggioranza degli spostamenti avviene ancor oggi, in Italia, mediante il mezzo di trasporto più costoso, ingombrante e inquinante che sia stato inventato: l’automobile.
Ecco allora che cosa è necessario. In primo luogo, una buona politica urbanistica, che restituisca alle varie parti della città quell’intreccio e vicinanza di funzioni che le ha caratterizzate nei momenti più felici della loro storia. Poi una intelligente politica dei tempi della città che distribuisca maggiormente i viaggi nel corso della giornata. Infine (ma è un aspetto decisivo) una nuova organizzazione del sistema dei trasporti che consenta di spostare quote importanti dal trasporto individuale su gomma (automobile) ai modi collettivi (autobus, e soprattutto tram, metropolitana e ferrovia) ed a quelli in assoluto più sostenibili: i piedi e la bicicletta.
Tuttavia, così radicate sono le abitudini, così forti gli interessi, che non è facile sostituire alla prevalenza del trasporto individuale una efficace ed efficiente rete di trasporti collettivi. Ma è una strada che è indispensabile percorrere, se non si vuole che le città arrivino alla paralisi.
La seconda questione urgente e concretamente affrontabile oggi, è quella che definisco come la costruzione, nella città e nel territorio, di un "sistema delle qualità". Spiego subito che cosa intendo. Ciò che propongo è di rovesciare il modo di considerare la città. Propongo di guardarla e organizzarla a partire dal pubblico e dal pedonale e dal vuoto e dal verde, anziché dall'individuale e dall'automobilistico e dal costruito e dall'asfaltato. Di guardarla e organizzarla in funzione della cittadina e del cittadino che vogliano raggiungere, attraverso percorsi protetti e piacevoli, a piedi o con la carrozzina o in bicicletta, i luoghi dedicati alla ricreazione e alla ricostituzione psicofisica, quelli finalizzati al consumo comune (dell'istruzione, della cultura, dell'incontro e dello scambio, della sanità e del servizio sociale, del culto, dell'amministrazione e della giustizia e così via).
Propongo di costruire un "sistema" costituito dall'insieme delle aree qualificanti la città in termini naturalistici, storici, sociali (le aree e gli elementi a prevalente connotazione naturalistica, il centro antico e le altre testimonianze ed emergenze storiche, le attrezzature e gli altri luoghi destinati alla fruizione sociale), collegandole fra loro sia - dove possibile - attraverso la contiguità fisica sia attraverso una ridefinizione del sistema della mobilità: una ridefinizione che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli, realizzati, ove necessario, attraverso la formazione di infrastrutture complesse (strada carrabile più itinerario ciclo-pedonale alberato protetto) ottenute ristrutturando le strade esistenti, nonché, ove possibile, creando nuovi percorsi alternativi interamente dedicati alla mobilità ciclo-pedonale e indipendenti dalla mobilità meccanizzata.
Abbiamo detto che “la città è la casa della società”. Ma in che modo la società partecipa alla costruzione della sua casa? In che modo, insomma, i cittadini esprimono la loro volontà sulle esigenze, la priorità dei problemi, le soluzioni definite nei piano urbanistici? La questione è indubbiamente centrale e, a tutt’oggi, non risolta. Oggi, infatti, la legge prevede soltanto che il cittadino abbia la possibilità di esprimere il suo parere sul piano con una “osservazione”, nella quale può proporre soluzioni alternative su singole scelte del piano già “adottato” (cioè già fatto proprio dal consiglio comunale, sebbene non ancora definitivamente approvato). I limiti di questa impostazione fanno sì che generalmente le uniche osservazioni presentate sono quelle di proprietari che vogliono valorizzare il proprio terreno o il proprio edificio. Si fanno avanti, cioè quasi soltanto gli interessi individuali delle categorie più forti (i proprietari di terreni, appunto).
Varie strade sono state seguite per ottenere una “partecipazione dal basso”, e un intervento della cittadinanza già dalle fasi iniziali della formazione delle scelte. Ma, generalmente, con scarso successo. Il problema non è affatto semplice. Per comprenderne la portata, riflettiamo ancora sul significato di alcune parole.
In primo luogo, sulla parola “urbanistica”. L’urbanistica, in definitiva, è quella pratica di governo (quell’insieme di regole, strumenti e procedimenti) mediante la quale una comunità insediata in una parte del territorio regola le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio. Rientra quindi in quel complesso di compiti che costituisce il governo della società. Detto in altre parole, l’urbanistica è una parte della politica[7].
E che cos’è la “politica”? La politica è l’arte, la scienza, la tecnica del governo di una comunità. In un regime democratico parlamentare (quale quello nel quale fortunatamente viviamo) la politica è espressione dei cittadini, i quali, attraverso le elezioni, scelgono i loro rappresentanti e li delegano a governare per loro conto.
Chiediamoci allora il significato di una terza parola: “partecipazione”. Mi sembra che per “partecipazione” possiamo intendere “il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata”[8].
Chiarito così il significato di alcuni termini, è allora facile comprendere che le difficoltà della partecipazione nel campo dell’urbanistica sono il simmetrico (o forse il riflesso) delle difficoltà della partecipazione nel campo della politica. Non c’è allora da meravigliarsi se è così difficile coinvolgere ampiamente i cittadini di un quartiere o un comune o una provincia a discutere, fin dal principio della sua formazione, su un piano urbanistico o territoriale che riguardi il territorio nel quale vivono. Non c’è da meravigliarsi se le uniche voci che si fanno sentire sono quelle dei grossi proprietari di aree o edifici, oppure quelle della protesta di chi ha qualche ragione (giusta o sbagliata che sia) per opporsi a questa o quell’altra scelta del piano. Non c’è da meravigliarsi se spesso la partecipazione, quand’anche si manifesti, si riduce alla pratica della comunicazione “dall’alto” (da chi fa il piano), volta a conquistare un consenso abbastanza passivo.
Non c’è da meravigliarsi, ma c’è da lavorare, e molto, per sollecitare e aiutare le cittadine e i cittadini, gli abitanti della città, a partecipare alla progettazione del futuro del luogo dove vivono. Non limitandosi ad ascoltare passivamente il racconto del piano, pronunciato dai suoi autori, ma intervenendo attivamente fin dalle fasi iniziali: quella dell’individuazione degli obiettivi, dei problemi, della scelta tra le diverse soluzioni possibili. E proseguendo poi - con la consapevolezza, costanza e pazienza necessarie - fino alle fasi conclusive della traduzione in opere delle scelte definite, e della verifica degli effetti che esse comportano, sulla città e sulla comunità che vi ha stabilito la sua casa.
Edoardo Salzano
4 maggio 2002
Cerco qui di spiegare alcune parole che, nel testo che precede, vengono adoperate in modo non sempre conforme all’uso corrente. Spesso si tratta di termini che normalmente vengono impiegati come equivalenti (sinonimi), ma che invece, nel contesto, hanno significati diversi, che vanno perciò distinti.
A questo proposito è opportuno chiarire subito la differenza che c’è tra i termini distinguere e separare. Spiego facilmente ai miei studenti questa importante differenza facendoli riflettere sul fatto che per distinguere la testa dal corpo basta l’osservazione, o magari un manuale di anatomia, mentre per separarla è necessaria la ghigliottina.
Non inserisco i termini che nel testo ho cercato di spiegare in modo sufficiente, come ad esempio “urbanistica”, “pianificazione”, “piano regolatore”, “sviluppo”, “crescita”, “sostenibile”.
Ambiente, territorio, paesaggio sono termini usati spesso come se fossero equivalenti. È utile invece distinguerli, poiché si riferiscono ad aspetti differenti della medesima realtà.
In ecologia l’ ambiente è, secondo Di Fidio, “l’insieme dei fattori abiotici (fisici e chimici) e biotici (animali e vegetali) in cui vivono i diversi organismi ed in particolare l’uomo. Ma con riferimento specifico alla società umana l’ambiente ha assunto un significato più ampio: esso è tutto ciò che riguarda l’uomo, lo può influenzare e, viceversa, può esserne influenzato”. Nel testo ho attribuito al termine ambiente un significato più restrittivo, che comprenda tutte le entità naturali ed artificiali che circondano l’uomo, ma non le relazioni sociali ed economiche.
Per territorio si intende invece una porzione di ambiente delimitata da un confine. Sovente si tratta di un confine amministrativo a cui corrisponde, in genere, un ente definito, appunto, territoriale. Secondo P. Bevilacqua il territorio è la “natura degli storici: vale a dire l’ambito territoriale e spaziale, regionalmente delimitato, entro cui uomini e gruppi, formazioni sociali determinate, vengono svolgendo le proprie economie, in intensa correlazione e scambio con esso”.
Il termine paesaggio esprime la forma del territorio, il suo aspetto esterno, fisico . Esso è stato definito e interpretato a partire da considerazioni prevalentemente estetiche, oppure di tipo geografico, riferite ad una serie di variabili più estesa di quelle percepibili visivamente, come il clima, la morfologia, l’idrologia e la vegetazione, per arrivare ad abbracciare nuovamente il rapporto fra l’ambiente naturale e l’azione dell’uomo. Così, ad esempio, per E.Sereni è “quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale”.
Beni e merci sono termini che si riferiscono ai medesimi oggetti. Si tratta di punti di vista diversi. Se considero, ad esempio, una pagnotta o una casa o un paio di scarpe dal punto di vista dell’utilità che ne ritraggo, allora quell’oggetto è per me un bene; se invece lo considero come qualcosa da scambiare con qualche altra cosa (magari per guadagnarci sopra), allora è giusto parlarne come merce. Il bene è destinato a essere usato, la merce ad essere scambiata. In relazione a questa distinzione gli economisti classici parlavano di “valore d’uso” e “valore di scambio”, grosso modo coincidenti con il valore degli oggetti come beni o come merci.
Naturalmente, ci sono beni che non sono merci: l’aria, l’acqua, l’amicizia, la solidarietà, sono certamente beni, ma non sono merci.
In Occidente lo sviluppo delle città (e delle strutture elementari che la costituiscono: le case) non ha conosciuto grandissime trasformazioni fino all’epoca dello sviluppo dell’industria e del sistema capitalistico-borghese. Nel periodo compreso tra il XVIII e il XIX secolo (con differenze legate alle differenti regioni e aree) vi è stata invece una trasformazione radicale, che il testo sinteticamente illustra. Si chiama generalmente centro storico la parte della città precedente a tali trasformazioni: quella, cioè, dove sono ancora oggi riconoscibili le regole che sono rimaste pressoché immutate per secoli: regole espresse dalle dimensioni delle strade, dalla regolarità degli allineamenti stradali e delle strutture degli edifici normali, dalla presenza di spazi destinati agli incontri e alle funzioni comuni (le piazze), dalla maestosa centralità degli edifici rappresentativi della comunità.
Nel linguaggio corrente si tende a confondere privato con individuale , e comune (o collettivo) con pubblico. In realtà sono termini tra i quali è bene distinguere. Parlo di comune e individuale quando mi riferisco all’uso, parlo invece di privato e pubblico quando mi riferisco alla proprietà e alla gestione,
Così, per esempio, un servizio di trasporti collettivi, autobus o treni, può essere organizzato o gestito da un soggetto pubblico (il comune, o la provincia, o un’azienda appartenente a enti pubblici), ma può anche esserlo da un soggetto privato. E un mezzo di trasporto individuale, come ad esempio la bicicletta, può essere messo a disposizione dei cittadini da un soggetto pubblico, come avviene in molte città europee.
Ognuno di noi ha dei vicini, delle persone che incontra con maggior frequenza: parenti e amici, ma anche persone con le quali magari non scambi una parola, ma che sai chi sono (come loro sanno di te), perché gli incontri spesso al bar, e al mercato, e in piazza, e a scuola. Ci sono luoghi (il villaggio, il quartiere, la piccola città) dove questi rapporti di conoscenza sono molto intensi: dove moltissime sono, tra le persone che incontri, quelle di cui sai vita e miracoli. E ci sono invece posti (i grandi e affollati quartieri delle metropoli) dove, per il gran numero di persone, la scarsità dei luoghi e delle occasioni d’incontro, la frequenza dei cambiamenti di casa, ognuno è sconosciuto agli altri.
Il controllo sociale esprime la situazione nella quale la conoscenza reciproca è maggiore, ed è quindi, in qualche modo, il contrario dell’anonimato. Ma nel controllo sociale non c’è solo l’aspetto della conoscenza e della potenziale solidarietà, dell’aiuto reciproco, c’è anche quello del pettegolezzo e del conformismo. Come molti altri, è un concetto complesso, dove il bianco e il nero si mescolano.
Crisi significa, letteralmente, “rottura” (dal greco). Il termine esprime quindi un momento nel quale le cose cambiano, i valori, le abitudini, i rapporti che fino allora erano (o sembravano) stabili e consolidati, non contano più. Un momento drammatico, perciò, aperto all’incertezza. Ma è anche il momento nel quale, dalla rottura del vecchio, si prepara il nuovo: è il rinnovamento, ancora incerto nei suoi lineamenti. Nella storia (del mondo e delle persone) è nella crisi che la libertà di scelta è massima, e il futuro dipende da noi.
Si chiama generalmente legge urbanistica una legge che definisca i principi e le regole secondo le quali si governano le trasformazioni urbane. È la legge urbanistica che stabilisce quali sono i diritti dei proprietari e quelli della collettività, come e dove si edifica, come si pianifica e si programma, con quali soggetti, procedimenti, opere. Nei paesi europei le leggi urbanistiche sono state emanate nei primi decenni del secolo scorso. In Italia, la prima legge urbanistica generale è del 1942. Oggi, dal 1970, il potere di fare leggi urbanistiche è delle regioni, nell’ambito dei principi fissati dalla Repubblica.
La pianificazione della città e del territorio si articola in un gran numero di strumenti (piani) che, in Italia, hanno denominazioni diverse da regione a regione. Essi si distinguono di solito secondo il livello territoriale e amministrativo (cioè in riferimento all’ambito territoriale e all’ente pubblico elettivo che è il protagonista della sua formazione): si hanno così piani comunali, provinciali, regionali.
Altre distinzioni rilevanti riguardano il carattere più o meno operativo del piano e il suo specifico contenuto. Per il primo aspetto si distingue la pianificazione generale, che concerne l’insieme del territorio del comune (o della provincia, o della regione), e imprime una disciplina di carattere generale, e la pianificazione attuativa, che riguarda in genere limitate zone nelle quali, a causa delle profonde trasformazioni previste, è necessaria una disciplina più di dettaglio. Per il secondo aspetto si distingue la pianificazione ordinaria (che è quella di cui si parla nel testo) e la pianificazione specialistica, che concerne solo alcuni aspetti particolari del territorio e del suo governo (la difesa del suolo, il paesaggio, il traffico ecc.)
Nell’attività economica si distinguono due momenti principali: la produzione (che è l’attività di formazione di beni nuovi mediante l’impiego di beni esistenti, ivi compresi il lavoro e la cultura del produttore) e il consumo (che è l’impiego dei beni prodotti, o di altri beni esistenti in natura, da parte del produttore o del processo produttivo. Il produttore consuma abiti, cibo, aria e acqua, cultura e altri beni materiali o immateriali, il processo produttivo consuma materie prime naturali, o a loro volta prodotte da un altro processo produttivo, e lavoro.
È opportuno distinguere il consumo, che è destinato al proseguimento del processo produttivo, dalla fruizione, che è invece finalizzata alle esigenze dell’uomo. Riferendoci a una distinzione che abbiamo già esaminato, possiamo dire che si tratta della medesima attività, ma quando parliamo di consumo la riferiamo alla merce (e al valore di scambio), quando parliamo di fruizione ci riferiamo al bene (e al valor d’uso)
Il termine latino res nullius (letteralmente, cosa che non appartiene a nessuno) esprime, nel linguaggio giuridico, la condizione di quei beni che, appunto, non appartengono a nessuno e che, per questa loro condizione, possono essere usati da chiunque senza alcuna preoccupazione.
Si definisce sistema qualcosa che è composto da varie parti, ma nel quale le parti sono organicamente collegate tra loro, anche nel senso che la mancanza di una o più parti rende quel qualcosa incompleto o mal funzionante. Un mucchio di grano non costituisce sistema, una spiga di grano invece si.
Nel linguaggio economico si definisce sovrappiù ciò che resta alla fine del processo produttivo, quando l’insieme dei beni prodotti supera la quantità di beni impiegati, o che è necessario impiegare, per il consumo e per le scorte necessarie per proseguire il processo produttivo. Il sovrappiù può essere destinato a vari usi: può essere consumato, oppure può essere reinvestito nel processo produttivo: in questo caso si parla di accumulazione: questa è dunque (a differenza che nel linguaggio corrente) l’investimento del sovrappiù nel processo produttivo, di cui comporta perciò l’allargamento.
Quando parliamo di traffico ci riferiamo ai mezzi (automobili, vagoni, biciclette, navi, fluidi) che percorrono linee (strade, canali, binari, fiumi, condotti). Quando parliamo di mobilità ci riferiamo invece all’esigenza (spostarsi o spostare, accedere) che provoca il traffico.
Distinguere traffico e mobilità è quindi molto importante non solo concettualmente, ma anche ai fini pratici. Se parliamo di traffico i problemi che ci poniamo è di renderlo più veloce, o più sicuro, o più scorrevole (questi obiettivi sono spesso contrastanti tra loro). Se parliamo di mobilità ci viene subito in mente che, per risolvere i problemi dell’eccessivo traffico, uno degli strumenti impiegabili è la riduzione della mobilità (con una corrette collocazione delle funzioni sul territorio), o comunque il suo governo (per esempio, con una programmazione dei tempi: orari degli uffici, delle scuole, dell’apertura dei negozi ecc.).
Gli argomenti che ho trattato nel testo, e molti altri ad essi connessi, sono stati sviluppati in modo più ampio in: Edoardo Salzano, Fondamenti di urbanistica
La maggior parte di noi vive in città. Il più delle volte in modo passivo: come fosse una prigione dalla quale, una volta all’anno, in occasione delle ferie, si evade. Eppure è il luogo in cui viviamo la maggior parte della nostra vita. Come sarà la città del futuro? La città del futuro come metterà d’accordo l’esigenza di spazi verdi e di sempre più sofisticati sistemi di comunicazione?
Dal punto di vista dell’organizzazione dello spazio, queste esigenze non mi sembrano alternative. Un cavo può tranquillamente passare sotto un campo sportivo o il sagrato di una chiesa senza dare fastidio a nessuno. Un commento va fatto sull’impiego del tempo da parte degli uomini, anche se, da questo punto di vista, l’urbanista può fare ben poco, se non cercare di organizzare la città in modo che determinati problemi che gli uomini e le donne cercano di affrontare utilizzando gli strumenti dell’informatica siano risolti in modo più completo. Penso ad esempio al fatto che una parte del tempo che viene dedicato all’informatica è un rifugio rispetto all’assenza di luoghi di incontro e di comunicazione. Ma penso anche alle grandi possibilità che la Rete può offrire: attraverso la Rete posso consultare la biblioteca del Congresso, fare una ricerca bibliografica, sapere quali sono tutti i prodotti di una marca che mi interessa, scambiare messaggi in tempo reale con persone che stanno molto lontane. Tutte queste cose fanno guadagnare tempo e risorse, riducono le distanze e il tempo per cose che altrimenti richiederebbero molto più impegno. Una parte consistente del tempo che molti spendono davanti allo schermo del computer è dovuta al fatto che quello è diventato anche un luogo di incontro proprio perché la città non offre più spazi dove incontrarsi. Una delle mostruosità accadute nella storia recente delle nostre città, e di cui noi non ci siamo accorti, è che le piazze sono diventate parcheggi; come dire che l’accetta o la zappa sono diventate armi di criminali invece che strumenti per soddisfare un’esigenza fondamentale della gente. La piazza, nata come luogo di incontro tra le persone, è diventata un parcheggio, è pavimentata in funzione di questo, è arredata per questo, è resa accessibile pensando alle auto e non più alla sua funzione originaria. Nei nuovi quartieri ci si occupa del traffico, dei parcheggi, non ci si occupa degli spazi dove la gente può incontrarsi, parlare, mischiarsi tra generazioni diverse, imparare l’uno dall’altro.
La solitudine e l’individualismo non sono un rischio anche per la città tecnologica o, come si dice oggi, cablata? Si è partiti dalla piazza luogo di incontro, si è arrivati al parcheggio: la Rete informatica apre nuovi orizzonti e, al tempo stesso, ci isola in casa.
Non esattamente. I bambini e gli anziani sono stati cacciati dalle piazze mentre la Rete non caccia nessuno, tuttavia è difficile accedervi. È molto più facile andare a imbucare una lettera o a comprare il giornale o le sigarette o a prendere un caffè e così incontrare persone, di quanto non sia accendere il computer, collegarsi, cercare di mettersi in Rete. Soprattutto è più piacevole vedere le facce direttamente o sentire il profumo del sigaro.
Io non penso agli spazi verdi, ma alle piazze, che sono un’altra cosa. Penso a luoghi contenuti, pavimentati, arredati per gli incontri: non interessa che ci siano panchine, anche i bancali di pietra dei vecchi palazzi o i basamenti dei monumenti, o i tavolini dei caffè sono altrettanto utilizzabili, meglio delle panchine. Penso a luoghi nei quali c’è un controllo sociale, perché ci sono le case che ci si affacciano sopra, ci sono i commercianti che vendono. Anche gli spazi verdi sono necessari. Penso a parchi frequentati dalla gente, penso a impianti sportivi affollati da quelli che fanno lo sport. Penso a luoghi facilmente accessibili non con l’automobile ma con itinerari pedonali protetti in modo che le carrozzine non corrano il rischio di essere investite.
Questa può essere una visione dello sviluppo della città; cerchiamo di chiarire qual è la definizione di sviluppo e di progresso, in rapporto anche al “consumismo” che ogni tanto viene confuso con questi.
Fin qui ho parlato di progresso, non di sviluppo. Bisogna ragionare su tre termini: “sviluppo”, “progresso” e “crescita”. Io credo che sia possibile uno sviluppo senza crescita. Sviluppo significa che l’uomo ha raggiunto il soddisfacimento di determinate esigenze e quindi se ne pone di nuove, e si industria per trovare il modo per soddisfarle. L’importante è che le esigenze nuove nascano da un reale bisogno di sviluppo e non siano indotte dall’esterno: comprare un’automobile più veloce o comprare un detersivo che sbianca più del bianco non è un’esigenza endogena dell’uomo, non nasce da un bisogno, nasce semplicemente dal bisogno di un’industria di vendere di più e di sconfiggere la concorrenza, di sopravanzare qualcuno per diventare più grande. Questo non è sviluppo; non è lo sviluppo che aiuta l’uomo a progredire, non è né sviluppo né progresso. Quello a cui dobbiamo incominciare a pensare è che le cose possono crescere in modi diversi; le cose possono crescere come le piante, utilizzando l’energia del sole e la funzione clorofilliana, oppure possono crescere a detrimento delle altre. Io credo che, in una visione corretta di sviluppo che sia progresso, noi dobbiamo far crescere le cose che non vanno a detrimento di altre. Per estremizzare ed esemplificare, la crescita di un bosco mi interessa, mentre la crescita della rete stradale non mi interessa. Certo, se noi pensiamo alla “crescita della città” oggi in genere non la associamo a sviluppo e progresso. Non si deve neppure fare demagogia: se la popolazione in una città aumenta, se la condizione abitativa è tale da non poter soddisfare quantità crescenti di popolazione con un miglioramento delle abitazioni esistenti, e sono necessarie nuove aree per costruire, questa crescita non è di per sé negativa. A condizione che vi sia reale necessità e che le aree utilizzate siano poco utilizzabili per usi alternativi.
Non è facile distinguere sviluppo e crescita perché le mode condizionano pesantemente sia l’uno che l’altro. Nel discorso della piazza diventata parcheggio è fondamentale lo status symbol “automobile”, che è stato portato all’eccesso al punto che ogni singola persona sente la necessità di possedere una vettura che non sa poi dove parcheggiare.
Ripartiamo dall’automobile. Siamo passati in pochi anni da 10 a 23 milioni di automobili mentre siamo calati come popolazione. L’automobile è uno status symbol, ma ci hanno costretto ad assumerla anche come una necessità. Mi spiego. La scelta è stata fatta negli anni immediatamente successivi alla guerra, quando si è affidata la ricostruzione del Paese all’evoluzione spontanea dei centri imprenditoriali disponibili. Allora si è assegnata la prevalenza all’edilizia, ai lavori pubblici e quindi alle strade, all’automobile perché era l’impresa più forte in Italia e soprattutto si è lasciata la massima mano libera poiché sembrava la scelta più giusta per accelerare la ripresa economica, grazie allo spontaneismo e all’individualismo. C’è stata una fortissima spinta in questa direzione. Mentre gli altri Paesi hanno utilizzato la ricostruzione post bellica per rafforzare gli strumenti dell’intervento pubblico, da noi si è scelta una strada liberista; non a caso Einaudi è stato l’uomo della ricostruzione economica del Paese. Questo ha provocato un enorme sviluppo dell’edilizia - la più brada, la più sciatta, la più speculativa – mentre la legge urbanistica italiana (una buona legge) approvata nel 1942 quando, subito dopo la guerra, era il momento per utilizzarla, è stata accantonata. La pianificazione, secondo regole corrette, è stata ripresa nella seconda metà degli anni 60, quando il più era fatto, quando le vacche erano scappate. Abbiamo avuto uno sviluppo enorme, abbiamo investito in strade e autostrade, abbiamo sovvenzionato la FIAT fino all’inverosimile, e non abbiamo costruito tram, né tanto meno metropolitane, non abbiamo costruito ferrovie efficienti. Mentre per quanto riguarda l’organizzazione degli spazi abbiamo un’eredità storica, in cui ritroviamo le piazze e i centri storici, l’esigenza di organizzare collettivamente il trasporto di massa è una novità, è un campo in cui non abbiamo eredità storica alla quale riferirci e da cui imparare. Avremmo dovuto inventare noi il modo di soddisfare questa nuova esigenza di massa, ma non vivevamo più in una società nella quale i valori collettivi avessero il primato. Vivevamo in una società in cui avevano il primato i valori individuali, il “fai da te”, “l’arrangiati”, così l’individualismo ha portato a soluzioni individualistiche per risolvere un’esigenza di massa: abbiamo perduto il treno e abbiamo preso l’automobile. Questo è il nostro dramma e per questo dico che il problema del traffico è il problema più angoscioso e la contraddizione è la più forte che vediamo nella città vista come il luogo della preminenza dei valori collettivi. Se in questa costruzione in cui prevalgono i valori comunitari sovrapponiamo l’organizzazione di una esigenza fortissima che è quella della mobilità, dell’accessibilità, risolvendola con metodi individualistici di massa, questo contenitore si rompe e dire che la città scoppia dal traffico è un’osservazione assolutamente calzante. I marciapiedi sono fatti per i pedoni ma nelle grandi città sono diventati parcheggi, le piazze pure.
Siamo partiti dalla piazza, poi con l’automobile siamo arrivati alle reti delle strade risalendo verso orizzonti più ampi del comune o della regione. In una visione sempre più vasta è possibile parlare di qualcosa che possa definirsi “urbanistica del mondo” con enormi periferie e un centro ricco?
Non diamo troppa importanza all’urbanistica. Nel rapporto tra il nostro mondo industrializzato e il resto del mondo, io vedo un grande rischio. Il rischio che il nostro modello venga esportato, provocando un ulteriore indebolimento del resto del mondo. Per quanto importino il nostro modello non potranno mai utilizzarlo come abbiamo fatto noi, saranno sempre su un piano diverso non avendo vissuto la nostra storia; il nostro modello non avrebbe nessun legame reale e, senza radici, sarebbe una nuova forma di colonialismo. Mi ha colpito molto un’osservazione che ha fatto Piero Bevilacqua nel suo ultimo bellissimo libro “Utilità della storia” quando osserva che questi ragazzi senegalesi che vendono i poster con Charlie Chaplin o Marilyn Monroe, sono schiavi due volte. La prima volta perché fanno quel mestiere senza nessuna garanzia, la seconda perché sono distributori di cose che nel loro linguaggio non significano assolutamente niente. È una doppia alienazione. Esportare il nostro modello significa questo. Un lavoro estremamente difficile, che è in primo luogo culturale, è quello di capire le altre culture e comprendere in che modo possiamo mettere i nostri saperi a loro disposizione senza corromperle; il secondo aspetto del problema è che poiché inevitabilmente, almeno per ora, il nostro modello è quello che si impone - pensiamo a quello che sta succedendo in Cina – occorre come minimo insegnare a non ripetere i nostri stessi errori. Aiutiamoli almeno a fare in modo che non passino dall’avere 600 milioni di biciclette a 600 milioni di automobili, insegniamogli a fare fabbriche che non inquinano. Invece, purtroppo, vendiamo loro i nostri prodotti obsoleti e le cose che a noi puzzano.
L’unica volta che sono andato in Cina, diversi anni fa, ho chiesto come mai le loro biciclette non avevano i catarifrangenti. Mi hanno detto: si rende conto cosa significa costruire catarifrangenti per tutti i milioni di biciclette che abbiamo? dovremmo realizzare una serie di fabbriche, molte fabbriche ma non abbiamo le risorse per farlo. Quindi si erano posti il problema e l’avevano già risolto.
All’aprirsi del mercato cinese, qualche imprenditore italiano ha fatto sogni di gloria pensando di dare una lavatrice a tutte le famiglie cinesi, mentre c’è stato chi si è chiesto se esiste tanto acciaio nel mondo per fare una cosa del genere…
Potremmo approfittare proprio di questo per spiegar loro che il progresso significa fare scelte diverse. A New York, dove abita mia figlia, in un grosso palazzo universitario con alcune centinaia di persone, nel seminterrato ci sono tre lavatrici e tre essiccatori a gettone: sono comodissimi, non hai manutenzione, costano poco e sono velocissimi. Il messaggio potrebbe essere questo. Insegniamo loro quello che l’esperienza ci dice: evitare il consumismo perché il consumismo è spreco di risorse, è spreco di tempo, è spreco di energie. E tanti auguri.
Il dibattito è andato molto al di là dell'episodio fiorentino della Fiat-Fondiaria. Aveva ragione chi sosteneva che il gesto compiuto a Firenze dalla segreteria nazionale del Pci voleva essere un segnale così forte e chiaro da poter essere compreso ovunque. La critica del Pci era rivolta a un modo distorto, fuorviante e rischioso di concepire e praticare il rapporto tra pubblico e privato nelle trasformazioni del territorio. Un modo, però, che era ed è ancora molto diffuso. E' per questo che, a partire dall'episodio di Firenze ma andando molto al di là di esso, si sta di nuovo discutendo di urbanistica in molte città italiane, e innanzitutto nel Pci. L'argomento delle discussione è l'urbanistica contrattata: una pratica che il nuovo corso del Pci non ritiene corretta.
Ma che cos'è l'urbanistica contrattata? Quando un termine proprio del gergo d'una disciplina specialistica viene adoperato nel linguaggio politico, è facile che nell'uso si incorra in equivoci, errori, incomprensioni. Non è perciò ozioso domandarsi che cosa sia realmente l'urbanistica` contrattata e perché il Pci non sia d'accordo nell'utilizzarla.
L'urbanistica contrattata si manifesta ogni volta che l'iniziativa delle decisioni sull'assetto del territorio non viene presa per l'autonoma determinazione degli enti che istituzionalmente esprimono gli interessi della collettività, ma Ÿper la pressione diretta, o con il determinante condizionamento, di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari. Quando insomma comanda la proprietà, e non il Comune.
E poiché il potere di decidere sull'assetto del territorio spetta, almeno formalmente, ai Comuni, ecco che, quando i proprietari vogliono incidere in modo sostanziale sulle decisioni comunali, devono contrattare le scelte con i rappresentanti di quegli enti.
L'urbanistica contrattata é una prassi che nasce in anni lontani. Basta ricordare alcuni episodi degli anni '50 e '60, entrati ormai nella letteratura. Il sacco di Napoli, illustrato da Francesco Rosi nel suo film Le mani sulla città. Quello di Roma, denunciato dagli "Amici dell'Espresso" e in dagato da Italo Insolera e Piero Della Seta. E quello di Agrigento, che fornì a Mario Alicata l'argomento per il suo ultimo appassionato discorso parlamentare.
Da quegli anni, però, molte cose sono cambiate. Oggi non siamo di fronte a speculazioni selvagge, a rozze colate di cemento. Oggi i promotori delle operazioni di urbanistica contrattata avanzano proposte non prive di apparente dignità. Presentano prodotti accattivanti per la qualità formale degli oggetti (disegni e plastici) in cui si manifestano e per gli autori che li firmano. I loro collaboratori non sono anonimi geometri, ma architetti di fama e cattedratici di prestigio. Questo induce a esprimere giudizi positivi quanti dimenticano una verità non discutibile: che, cioè,la qualità della città non è la somma delle qualità delle sue architetture. E' qualcos'altro.
La qualità urbana è qualità d'insieme. Non si può quindi ambire di raggiungerla se non si tenta di governare insieme lediverse parti che compongono la città e ai suoi diversi aspetti: da quelli formali a quelli funzionali. E' per questo che la qualità é raggiungibile solo mediante quella tecnica che si chiama pianificazione urbanistica: una tecnica, un metodo, una procedura che considerano la città (il territorio urbanizzato) come un sistema, e che ne vogliono governare le trasformazioni valutando gli effetti che ogni intervento esercita sull'insieme. L'urbanistica contrattata non va bene perché è la fuga dalla pianificazione, la sua elusione. E la qualità delle architetture proposte (dei disegni esibiti) è solo l'orpello che nasconde la distruzione della possibile qualità urbanistica.
Anche sull'altro versante della contrattazione, quello degli amministratori, le cose sono cambiate dagli anni dei Lauro e dei Cioccetti. Allora, gli amministratori pubblici delle città guastate dalla speculazione erano strutturalmente subordinati agli interessi economici. Più che contrattare, i sindaci corrotti prendevano ordini dai veri padroni delle città.
Oggi i legami sono più complessi. Oggi, se gli amministratori cercano la scorciatoia dell'intesa sottobanco con la proprietà, è spesso perché non hanno fiducia nelle vigenti regole del governo del territorio, e neppure nella possibilità di sostituirle con regole nuove e più efficaci. Ed é anche perché l'impegno severo e costante, necessario per costruire
una politica della pianificazione, paga meno, e meno rapidamente, dell'accordo raggiunto con un potentato economico per realizzare un'opera vistosa. Si tratta comunque di un atteggiamento che non solo rende gli amministratori esposti al sospetto, e al rischio, della corruzione, ma è anche rinunciatario rispetto ai reali interessi collettivi di qualità e funzionalità urbana.
Non aiuterebbe però a comprendere, e quindi ad agire nella direzione giusta, limitarsi a denunciare un simile atteggiamento ogni volta che si manifesta. Occorre invece riflettere sulle sue cause. E allora appare evidente che esso è in primo luogo l'effetto di quella decennale campagna per la deregulation urbanistica, promossa dallo schieramento moderato ma tollerata dalla sinistra, che ha contrassegnato il decennio trascorso: una campagna che ha distrutto certezze senza costruire alternative, ha screditato strumenti invecchiati ma sperimentati senza ad essi sostituire strumenti nuovi, e ha perfino lasciato spegnere la tensione per una riforma legislativa.
E' un atteggiamento che, oggi, può essere superato solo con un forte impegno politico e culturale che sappia intrecciare la ripresa dell'iniziativa legislativa con le concrete ver- tenze ed esperienze locali. Sul primo terreno d'impegno, la forza del Pci pò essere determinante per sbloccare finalmente l'angosciosa vicenda degli espropri e dei vincoli urbanistici, e per dare all'Italiauna moderna legge sul regime degli immobili (aree od edifici). Ma è anche sul terreno delle mille realtà locali che si misurerà la capacità dei comunisti di fornire risposte adeguate alla crisi delle città: una crisi che è il prodotto di errori culturali e politici, di pigre miopie e di fughe impazienti dalla reale corposità dei problemi, e non di una perversa fatalità determinata da ingovernabili eventi.
Edoardo Salzano
Una premessa:
Quale strategia per il territorio?
La pianificazione è uno strumento, non un fine. Domandarsi in che modo la pianificazione possa aiutare il Mezzogiorno a valorizzare le proprie risorse richiede preliminarmente comprendere quale sia l’uso che si ritiene di fare del territorio, quale sia il rapporto desiderabile tra la società e il territorio nel quale essa vive: quel territorio la cui forma costituisce il paesaggio, espressione e testimonianza del modo in cui la storia ha operato con la natura, guidandola e assecondandola, oppure violentandola. Solo dopo aver fornito una risposta attendibile a questa domanda avrà senso interrogarsi sulle caratteristiche, sui contenuti, sulle modalità di una pianificazione idonea a raggiungere gli obiettivi definiti.
Il territorio
Del territorio si possono dare, e si sono date, interpretazioni diverse. Gli studiosi e gli operatori oscillano tra due differenti immagini, l’una tradizionale, l’altra emersa e divenuta egemone in tempi più recenti.
La prima interpretazione vede il territorio come una realtà omogenea e isotropa, priva di caratteristiche proprie, oppure dotata, in talune sue parti, di irregolarità che lo rendono ostile, o poco utilizzabile, e che quindi meritano rilevanza solo in quanto ostacoli che devono essere rimossi o aggirati. È la concezione del territorio molto diffusa nell’ambito delle scienze economiche e di quelle sociali, come nelle elaborazioni dell’economia territoriale e nelle pratiche dello Spatial Planning. Ed è l’impostazione sottesa a quella lunga stagione dell’urbanistica che ha visto, e ancora talvolta vede, il territorio come una tabula rasa utile unicamente a disporre, in modo più o meno ordinato, funzionale ed estetico, i mille prodotti delle trasformazioni desiderate dall’uomo: le residenze, le infrastrutture, le industrie, i servizi pubblici e privati, i depositi e così enumerando. Un territorio servile, insomma, la cui qualità maggiore sarebbe la propensione a divenire altro da sé.
Una seconda interpretazione è quella che si è sviluppata nei decenni più vicini a noi, sebbene abbia certamente anticipazioni in tempi e culture più distanti nel tempo. Per essa il territorio è una realtà viva, dotata di qualità e valori che la rendono caratterizzato da un’individualità espressa dalla stessa fisicità della sua struttura (sebbene sia il prodotto di una profonda interazione tra società e natura). È un’interpretazione alternativa rispetto a quella tradizionale, sebbene non la neghi ma la completi, considerando il territorio non solo un insieme di qualità (e di potenziali rischi), ma anche una gamma di potenzialità di trasformazione.
Questa seconda, e più evoluta, idea di territorio si è consolidata per effetto di due movimenti convergenti, entrambi orientati a riconoscere nel territorio (quello fatto di suolo stabile o soggetto a dinamismi, di vegetazione e di fauna allevata e brada e selvatica, di centri e manufatti e percorsi storici, di morfologie differenziate e di identità culturali diverse, di acque superficiali e profonde, correnti e ferme e stagnanti, e soprattutto di intricati intrecci tra queste diverse componenti dello spazio reale) un soggetto di diritti[1]. Da una parte, infatti, si è compreso che le dimensioni delle trasformazioni provocate dai benefici dello sviluppo capitalistico incontravano un limite non valicabile nella scarsità e nella irriproducibilità di talune risorse naturali, costitutive del territorio. Dall’altro lato, si è generalizzata (almeno in una parte del mondo) la consapevolezza del fatto che la forma del territorio (ciò che può essere sintetizzato nel termine “paesaggio”) esprime qualità e valori che costituiscono una risorsa di cui non si può fare a meno.
Consumare o conservare?
La questione centrale da porre (se si vuole parlare di fini prima che di strumenti) è allora questa: si vuole considerare il territorio come qualcosa da consumare in funzione della crescita di determinate qualità e attività, oppure come qualcosa da conservare perché costituisce un insieme di risorse, di valori, già presenti perché depositati dal lavoro congiunto della cultura e dal lavoro dell’uomo in feconda collaborazione con la natura?
A me sembra che la prima scelta è quella che di fatto si è compiuta e si continua a compiere, nel Mezzogiorno, o almeno in gran parte di esso. Non è necessario evocare particolari siti o coste o pianure per ricordare la distruzione che si è compiuta. Ciò che forse è utile ricordare è il particolare carattere che ha contrassegnato il consumo di territorio nel Mezzogiorno rispetto a ciò che è avvenuto in altre parti d’Italia.
Mentre altrove il territorio è stato occupato in gran parte da strutture fisiche in qualche modo collegate all’attività produttiva, e quindi si può dire che il consumo di suolo sia il prezzo che si è pagato per una crescita del benessere economico e un rafforzamento della base industriale del paese, nel Mezzogiorno il medesimo fenomeno è servito quasi esclusivamente ad alimentare la rendita immobiliare. E mentre altrove la “diffusione urbana” è stata in grandissima parte controllata dalle regole della pianificazione (adoperate con minore o maggiore intelligenza), nel Mezzogiorno essa è avvenuta in grande maggioranza per effetto di pratiche abusive, e si è perciò strettamente correlata all’espansione dell’illegalità e al suo rafforzamento. In sostanza, nel Mezzogiorno il consumo di territorio ha alimentato quele che probabilmente sono due delle principali cause del degrado sociale ed economico di sue rilevanti porzioni: il forte squilibrio che nell’economia meridionale ha la rendita rispetto al profitto (e quindi le attività sperperatrici di risorse rispetto a quelle proprie di un economia capitalistica), e la patologica presenza di un’illegalità diffusa, a sua volta portatrice di sottosviluppo.
Mi sembra perciò evidente che la conservazione dei valori già presenti nel territorio sia nel Mezzogiorno un obiettivo ancora più rilevante che altrove, poiché non ha neppure quegli alibi (divenuti ormai del tutto falsi) che può avere altrove: la crescita, lo sviluppo, il benessere economico. Ma conviene precisare adesso che cosa sia la pianificazione territoriale e urbana.
La pianificazione:
una pratica obsoleta?
Oggi la pianificazione territoriale e urbana è in disgrazia. Questo dimostra, paradossalmente, la verità del titolo, e dell’ispirazione, del bellissimo libro di Piero Bevilacqua, sulla utilità della storia[2]. Se la memoria non si fosse smarrita tutti (o almeno chi è scelto per governare il paese e i suoi paesi) ricorderebbe che la pianificazione è nata per risolvere quei problemi che, come si comprese fin dagli albori del XIX secolo, il mercato non era in grado di risolvere: quei problemi –come la localizzazione sul territorio delle diverse attività, la connessione tra loro, la tutela dei beni comuni – che la somma delle convenienze dei singoli centri di decisione del sistema economico non riusciva a risolvere[3]. Se i nostri contemporanei avessero cognizione e memoria di ciò che è avvenuto, della ragione che ha prodotto molte delle cose di cui ci gioviamo (tecniche, metodi, utensili, istituti) la pianificazione non sarebbe stata gettata alle ortiche, slogan come “privato è bello”, “meno Stato e più mercato”, “via i lacci e laccioli che frenano la libera iniziativa”, non sarebbero stati pronunciati, o avrebbero avuto enfasi e modulazioni ben differenti da quelle che hanno avuto nella pubblicistica e nelle dichiarazioni politiche dell’ultimo ventennio.
Che cos’è dunque la pianificazione? Intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.
Per completare questa definizione, devo precisare ancora il suo oggetto. C’è un consenso abbastanza ampio nel ritenere che sono oggetto della pianificazione territoriale ed urbanistica le trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell’assetto dell’ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono[4].
Obiettivi, coerenza nello spazio e nel tempo, flessibilità, trasparenza: sono tutti termini sui quali si dovrebbe ragionare e argomentare, chiarire e definire. Vorrei limitarmi in questa sede ad affrontare un solo tema, che è peraltro uno di quelli sui quali c’è oggi maggiore discussione e si registrano più devastanti differenze: chi è il soggetto della pianificazione.
Il soggetto della pianificazione e
la questione della democrazia
Per quanti ritengono che obiettivo della pianificazione non è l’arricchimento di una determinata categoria di proprietari, esso non può consistere che nell’assicurare, in una prospettiva di medio e lungo termine, le migliori condizioni di vita agli abitanti residenti o frequentanti una determinata area, le più efficienti condizioni di esercizio delle attività insediate nonché il più ragionevole e parsimonioso impiego delle risorse territoriali disponibili. Se è così, allora trova un fondamento l’espressione corrente secondo la quale il piano urbanistico costituisce il disegno della città futura (e del futuro assetto del territorio).
Ma allora è del tutto evidente che il soggetto della pianificazione si identifica col soggetto cui le regole costitutive di quella determinata società attribuiscono il potere. In un sistema democratico rappresentativo, quale quello nel quale per ora viviamo, gli elettori e gli uomini e i gruppi che essi scelgono secondo le istituzioni che hanno definito.
È aperta da tempo una discussione sui limiti e sulle insufficienze di tale sistema. Le critiche ne mettono in luce: la scarsa rappresentatività effettiva dei gruppi al potere, grazie alle pesanti differenze che la maggiore o minore possibilità di mezzi stabilisce tra i diversi concorrenti all’esercizio del governo; la modesta propensione a farsi carico di esigenze e interessi che non diano tangibili risultati di consenso a breve termine, quali quelli dei gruppi sociali minoritari e quelli delle “generazioni future”[5] . In attesa che la ricerca e la sperimentazione (e l’inesauribile creatività della storia) rivelino nuove superiori forme di governo, ci si accontenta dell’aforisma di Winston Churchill, il quale affermava che, certo, la democrazia è un sistema pieno di difetti, ma tra tutti i sistemi che gli uomini hanno inventato è quello che ne possiede di meno.
Quali istituzioni?
Il “principio di pianificazione”
In Italia, il soggetto principale del sistema democratico rappresentativo, ed il primo livello di rappresentanza generale del cittadino, è il Comune, e in effetti storicamente la prima forma di pianificazione che si è manifestata è quella comunale.
Per molti anni, raggiunta l’unità statuale della nazione italiana, i piani regolavano l’espansione e il risanamento delle città. Ci si cominciò ad occupare del territorio extraurbano quando anche questo divenne oggetto di trasformazioni consistenti, estranee ai ritmi dominati dalla natura. In Italia, il primo episodio che richiese una pianificazione territoriale (alla scala di “area vasta”) fu la bonifica e l’urbanizzazione delle Paludi Pontine, nella seconda metà degli anni Trenta[6]. E la legge urbanistica inserì il “piano territoriale di coordinamento” nella scarna panoplia dei documenti di pianificazione[7].
Nell’immediato dopoguerra la legge urbanistica fu, di fatto, lasciata inoperosa: “lacci e laccioli” non dovevano disturbare una ricostruzione affidata alla spontaneità delle forze selvagge del mercato, e in gran parte al settore dell’edilizia. Il raggiungimento della concorrenzialità con i paesi dell’Occidente fu ottenuto pagando il prezzo di devastazioni dell’ambiente e di degradazione degli insediamenti che, oltre a distruggere parte consistente del patrimonio comune, ancora pesano sulla vita della società italiana e ne impoveriscono il futuro. Negli anni Sessanta i guasti cominciarono a pesare, e si cercarono strade diverse. Si riprese l’utilizzazione della legge urbanistica, introducendovi modifiche di portata più modesta di quelle richieste dalle componenti riformatrici della politica e della cultura[8]. A partire dal decennio successivo si costituirono le regioni e si mise a punto un sistema di pianificazione nel quale, accanto al Comune, assunsero il ruolo di soggetti della pianificazione la Regione e la Provincia[9].
Da allora la situazione si è ulteriormente complicata. La potestà legislativa in materia di urbanistica era attribuita dall’articolo 117 della costituzione (prima delle recenti modifiche) alle regioni. Queste però, mentre in una prima fase si sono limitate a chiosare e arricchire la legge del 1942, a partire dalla metà degli anni Novanta hanno lavorato con maggiore ampiezza sul sistema di pianificazione: senza mai sconvolgerlo nella sua struttura (così come questa si era venuta a definire sulla base della legge del 1942), ma attribuendo pesi, contenuti ed efficacia diversi ai tre livelli su statuali del comune, della provincia e della regione[10].
Quando il Parlamento, nel corso della XIII legislatura, provò a ragionare seriamente sull’argomento, si coniò una formula che sintetizzava un punto di arrivo della riflessione su questo tema, costituiva comunque un principio di approccio razionale al governo del territorio e apriva la strada a una corretta definizione dei poteri dei diversi livelli di governo ne campo della pianificazione. Si tratta del “principio di pianificazione”, il quale potrebbe essere enunciato così: ogni ente territoriale elettivo di primo grado, responsabile di scelte sul territorio, assume le decisioni sulla base di un “piano”, ossia di un documento riferito al territorio, nel quale sia possibile verificare la coerenza tra le scelte relative ai diversi aspetti, formato con procedure che garantiscano la trasparenza[11].
Ogni ente, insomma, esprime le sue scelte sul territorio mediante un piano. Ma come si fa a distinguere di ciò che è competenza di un piano anziché di un altro?
Esistono molti modi di ripartire le competenze tra soggetti di diverso livello. Un tempo si praticava una ripartizione basata sulle “materie” (gli acquedotti spettano a Tizio, i trasporti a Caio, l’ambiente a Sempronio). Si può dire che questa concezione ha prevalso nel nostro paese grosso modo fino ai decreti di trasferimento delle competenze alle regioni, nel 1977. Oggi si è affermato un nuovo principio: quello di sussidiarietà. Esso ha però declinazioni molto diverse tra loro. A un estremo vi è quella assunta dalla Lega del nord, e in qualche modo subita nella “legge Bassanini” del 1997 e nelle modifiche al Titolo V della Costituzione fortunosamente varate dal governo D’Alema nel 2001. Esso consiste nel dire che tutto deve essere tendenzialmente devoluto al livello di governo più vicino al popolo, salvo quello che a quel livello non è proprio possibile governare, e nel prevedere l’affidamento di funzioni amministrative a privati[12].
Una formulazione più seria, che non stabilisce gerarchie, è quella adottato dagli organismi europei per distinguere le competenze tra la responsabilità comunitaria e quella dei singoli stati. Esso è formalizzato nel Trattato dell’Unione Europea, sottoscritto a Maastricht dai rappresentanti di dodici governi il 7 febbraio 1992. L’articolo 3b afferma:
"La Comunità interviene entro i limiti dei poteri ad essa conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ad essa assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità".[13]
Il principio di sussidiarietà significa perciò che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (lo Stato nei confronti della Regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.
La pratica della concertazione
tra gli interessi generali
Accanto al principio della sussidiarietà, gli orientamenti legislativi recenti concordano nell’introduzione di qualcosa che difficilmente potrebbe definirsi un principio, ma certo trae le sue ragioni dai principi che governano la buona amministrazione: quello, ad esempio, della necessaria collaborazione tra istituti che aspirano tutti al raggiungimento di obiettivi nell’interesse generale. Mi riferisco alla pratica della concertazione. Si tratta, per la verità, di una pratica presente da decenni nella tradizione delle amministrazioni centrali dello Stato.
Le leggi regionali nuove (o, almeno, la maggior parte di esse) definisce questa pratica inventando un nuovo istituto (prevalentemente denominato “Conferenza di pianificazione”), e attribuendogli un ruolo di consultazione obbligatoria del corso del procedimento formativo degli atti di pianificazione. È interessante osservare che le regioni tendono, giustamente, a distinguere il ruolo degli enti pubblici da quello dei privati, riservando le conferenze di pianificazione (o simili) ai rappresentanti dei primi. Alcune, poi, distinguono il ruolo di partecipazione consultiva dei privati privilegiando (o riservando la partecipazione) alle associazioni che esprimono interessi diffusi.
Altrettanto rilevante è che le leggi regionali tendano a chiudere i troppi varchi che la legislazione statale ha aperto, con i numerosissimi “strumenti urbanistici anomali”, alla deroga generalizzata al sistema di garanzie che le procedure della formazione dei piani vuole assicurare. Anche nel caso di “accordi di programma” o di altre intese potenzialmente derogatorie, la maggior parte delle leggi regionali ribadiscono la necessità dell’approvazione esplicita da parte degli organi collegiali delle amministrazioni elettive interessate, e quella della sostanziale conformità alle regole, oltre che alle finalità, degli strumenti urbanistici ordinari.
Questi strumenti nuovi (o “innovativi”, come li definiscono i loro laudatori) hanno avuto una fortuna discreta ne mondo accademico e in una parte del mondo amministrativo. Corrono il rischio di far breccia nel Mezzogiorno, dove sono stati rari i tentativi di utilizzare l’intervento “straordinario” per dare gambe e fiato al governo ordinario del territorio. Conviene perciò farne cenno.
Nel periodo del governo di Craxi si era cominciato a coinvolgere pesantemente gli interessi immobiliari nelle scelte sulla città, contrattando con essi le modifiche agli strumenti urbanistici e cogliendo ogni occasione[14] per introdurre deroghe ai piani. Nel periodo successivo si introdussero ope legis una serie di “strumenti urbanistici anomali”[15], nei quali si saldavano tre elementi: il sostegno del finanziamento pubblico, il coinvolgimento degli interessi immobiliari, la deroga alla strumentazione urbanistica ordinaria.
Si cominciò con i Programmi integrati (1992), i Programmi di recupero urbano (1993), i Programmi di riqualificazione urbana (1994); tutti dispositivi analoghi ai piani particolareggiati della legge del 1942, ma caratterizzati dal fatto di utilizzare finanziamenti pubblici per stimolare interventi immobiliari privati e, a questo fine, di consentire di derogare alle prescrizioni della disciplina urbanistica con procedure snelle (e poco garantiste dell’interesse pubblico). Altri strumenti successivi, come i Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio (PRUSST, 1997) non prevedevano esplicitamente la possibilità di modificare le prescrizioni urbanistiche, ma si appoggiavano – per farlo – agli Accordi di programma, introdotti nel 1990 nell’ambito della legge 142/1980. Questi ultimi, richiamati anche da altri successivi strumenti di negoziazione, come i Patti territoriali (1995) e i Contratti d’area (1997), consentono di derogare sia alla logica che alla procedura della pianificazione ordinaria, ma seguendo iter che garantiscono almeno la formalità dell’approvazione degli enti istituzionali.
Non risulta che questi strumenti “innovativi” abbiano mobilitato rilevanti risorse, né che abbiano provocato, come ci si proponeva, accelerazione nelle realizzazioni. E’ invece dimostrato[16] che essi hanno comportato peggioramenti ai progetti delle città, sottraendo aree destinate a spazi pubblici (o addirittura già utilizzate a questo fine) e realizzando pezzi di città ancora più sgraziati dei precedenti.
Chiuso il rubinetto dei finanziamenti pubblici gli strumenti “innovativi” sono spariti dalla scena. E’ restata però la loro logica: ancora spesso gli amministratori si affidano, per definire il progetto della città, non a un disegno generale costruito a partire dagli interessi dei cittadini, ma alla mobilitazione degli interessi immobiliari e alla maggiore o minore prontezza degli appetiti dei proprietari delle aree[17].
Mezzogiorno: superare la pianificazione?
Si sente dire spesso che la pianificazione è un metodo, e comporta l’impiego di una serie di strumenti, troppo complicati e “distanti” dal Mezzogiorno per essere adoperata nelle sue regioni. E’ un ragionamento che ho sentito fare molte volte[18].
Sono invece convinto che sia vero il contrario, e che anzi proprio le particolari condizioni del Mezzogiorno costituiscano una ragione in più per praticare la pianificazione. In primo luogo, quel particolare rapporto che lega, nel Mezzogiorno, le prospettive di sviluppo e l’ambiente, sul quale mi sono già soffermato all’inizio di questo scritto e sul quale vorrei adesso conclusivamente ritornare.
Il ruolo che l’ambiente fisico ha avuto nel condizionare lo sviluppo dell’economia, della società e delle istituzioni è stato analizzato con intelligenza, soprattutto (negli ultimi decenni) da Piero Bevilacqua e dai suoi allievi. Leggere alcune delle monografie del suo libro Tra natura e storia[19] aiuta a comprendere qualcosa, che del resto non sfugge a un’analisi anche empirica, ma non viziata dagli idola dell’industrialismo. Il destino economico, sociale e istituzionale del Mezzogiorno è legato alla capacità dei gruppi dirigenti di comprendere che, lì più ancora che altrove, l’ambiente (la sua ricchezza, la sua storicità, la sua bellezza espressa e quella esprimibile) sono, insieme all’intelligenza umana, l’unica base materiale dello sviluppo. E di comprenderlo non in termini meramente accademici, per poi agire in modo opposto a ciò che una comprensione finalizzata all’agire comporterebbe.
A me sembra indubbio che la situazione attuale e le sue prospettive rendano imperativa (ovunque, ma in particolare nel Mezzogiorno) l’attenzione all’ambiente fisico come base del possibile sviluppo. La produzione manifatturiera generica è in evidente declino, non solo per l’imperizia e la rapacità degli attori determinanti ma per ragioni più di fondo, ad alcune delle quali ho provato a riferirmi nella prima parte di questo scritto. L’agricoltura generica (quella che produce beni fungibili) non ha alcun futuro, come comincia a diventar palese in modo dirompente con il venir meno dei sussidi europei. A che cos’altro dunque può essere affidata una speranza di sviluppo nelle regioni del Mezzogiorno se non a un’intelligente applicazione della cultura e del lavoro dell’uomo ai dati della natura, nel rispetto e nella sapiente utilizzazione di ciò che l’innesto tra queste due risorse ha prodotto nel passato?
Molti segni in direzione di uno sviluppo simile già si vedono. Essi tralucono però negli interstizi delle politiche ufficiali (della destra come della sinistra), le quali, nel loro complesso, appaiono mosse da ispirazioni di segno opposto, obsolete, perdenti e distruttive. L’utilizzazione rapace di ciò che lavoro e natura hanno prodotto nei millenni trascorsi, la sostituzione dei paesaggi di consolidata bellezza con panorami dominati dal cemento e dall’asfalto, la utilizzazione idiota di terreni resi fertili da eventi geologici milionari per la localizzazione di gigantesche aree industriali (destinate a restar deserte di uomini e di attività) o addirittura per impianti di smaltimento dei rifiuti: questi sono gli eventi che ancor oggi si registrano.
Un siffatto modo di procedere non è solo in contrasto con ogni elementare responsabilità civile e culturale nei confronti del mondo attuale e delle generazioni future, ma è insano anche da un punto di vista esclusivamente economico. È infatti evidente a tutti che le attività legare alla visita, all’impiego intelligente e sano del tempo libero, al godimento della natura e dei beni culturali, tutto ciò (che sarebbe riduttivo racchiudere nella categoria del “turismo”) ha nel Mezzogiorno una enorme potenzialità di sviluppo proprio grazie alla possibilità di utilizzare il vastissimo patrimonio di natura, paesaggio, storia, arte, costumi, prodotti, intimamente legati al territorio e alla suo millenario processo di formazione.
È utilizzando in modo durevole questo patrimonio immenso (ma quindi, in primo luogo, tutelandolo attraverso la conoscenza e la salvaguardia) che il Mezzogiorno può trovare una ragione di sviluppo alternativa rispetto alle produzioni manifatturiere ormai obsolete, o alle produzioni agricole generiche ormai indifendibili in territori come i nostri, oppure rispetto a quelle di un “turismo di quantità” dissipatore della sua stessa materia prima.
Rendere “industria” l’insieme del territorio
In una recente discussione sul rapporto tra industrializzazione e ambiente nel Mezzogiorno[20] ho rilevato che l’eredità lasciata dai tentativi di industrializzazione nel Mezzogiorno hanno lasciato più problemi che benefici, e ho sostenuto che comunque non era sufficiente proporsi gli obiettivi, certamente urgenti, di riorganizzare in modo più decente i siti degradati, di diversificare e legare al territorio le aree per quella quota di produzione manifatturiera che è necessaria in relazione alle specifiche potenzialità dei siti, alle produzioni “di eccellenza” o “di nicchia” legate alle risorse locali, di adeguare l’infrastruttura del territorio, i “sistemi territoriali”, alle esigenze di una industria moderna.
Tutto questo è certamente necessario, ma – come ho appena argomentato - non garantisce uno sviluppo, soprattutto nella prospettiva. Credo che si debba invece preparare un futuro diverso applicando l’intelligenza, la creatività, l’innovazione, l’interesse – che nei secoli trascorsi di è applicato alla produzione industriale di merci – a una realtà diversa. Con una frase forse ardita, si tratta, insomma, di rendere “industria” l’insieme del territorio: di utilizzare gli elementi, fisici e sociali, ai quali è attribuibile valore e qualità, in esso disseminati, organizzandoli nel loro insieme, rendendoli fruibili mediante la conoscenza e l’uso, attivando le attività necessarie per valorizzarli[21] , per curarne la manutenzione e il miglioramento, per implementarne la qualità.
Se si pensa alla quantità di valori presenti nei nostri territori – in particolare nel Mezzogiorno –sembra addirittura stravagante che nessuno sforzo serio sia stato compiuto in passato in questa direzione. Ciò dipende forse da due circostanze.
La prima, che le stesse attività economiche legate a questo tipo di risorsa (il paesaggio, i beni culturali, la natura) hanno risentito delle logiche quantitative prevalenti nell’ideologia corrente. Si è sviluppato quindi un “turismo di quantità”, che ha provocato danni analoghi a quelli prodotti dall’industria. Che questo sia l’unico tipo di turismo possibile è un errore di immaginazione che spesso viene compiuto.
La seconda circostanza è che una “domanda” di quel tipo di bene di una certa consistenza si sta manifestando ora, ma nel passato era del tutto marginale. Ciò induce a pensare quanto potrebbe aumentare quella domanda di beni territoriali se una vertenza per la promozione della “industria del territorio”, nei termini in cui l’ho proposta, si legasse a una vertenza per una riduzione del tempo di lavoro, che le immani quantità della produzione di merci e la rivoluzione informatica avrebbero da tempo consentito.
Ora, in che modo si può pensare di affrontare un percorso che conduca alla formazione di un’evoluta “industria del territorio”, a un’organizzazione di quest’ultimo che recuperi, tuteli e valorizzi le qualità in esso disseminate, che le metta in rete con le risorse insediative (le città e i paesi, le infrastrutture, le attrezzature sociali ed economiche), che promuova la restituzione di bellezza e funzionalità ai luoghi deturpati dallo sviluppo selvaggio, se non ricorrendo alla logica e agli strumenti della pianificazione? La domanda è, palesemente, retorica.
Pubblica amministrazione e legalità
Il ricorso alla pianificazione è ostacolato da molte cose, presenti nel Mezzogiorno in modo forse più marcato che altrove., In primo luogo, il rapporto distorto tra pubblico e privato che si è manifestato tra i decisori (e anche nella cultura corrente) negli ultimi decenni: più precisamente, dall’epoca del governo di Craxi.
Per la verità, oggi in Italia l’ubriacatura del “privato e bello”, l’apoteosi del “meno Stato e più mercato”, sembra stiano passando di moda. I risultati che si volevano ottenere si sono rivelati illusori. Il mercato ha confermato la sua insufficienza a svolgere anche solo le funzioni regolatrici del valore di scambio senza una forte presenza pubblica, figuriamoci se poteva tener conto della sempre più estesa domanda sociale di accrescere i valori d’uso. Tuttavia il danno che la fortuna di quegli slogan ha provocato sono consistenti, soprattutto là dove – come nel Mezzogiorno – la debolezza dello Stato era diventata cronica ed era stata surrogata da un individualismo distruttore e da un familismo spesso criminoso.
La questione alla quale generazioni di meridionalisti si erano dedicati (la costruzione nel Mezzogiorno di strumenti di una statualità moderna) è quindi oggi più centrale che mai. Il rafforzamento delle strutture pubbliche è quindi, oggi, problema prioritario. Senza un potere politico dotato di strumenti efficaci diventa impossibile guidare le forze dell’economia verso orizzonti coerenti con gli interessi generali; diventa impossibile scegliere tra impieghi produttivi e strategici delle risorse disponibili e impegni parassitari e miopi; diventa impossibile scegliere a quali risorse attribuire priorità, per quali loro utilizzazioni, in vista di quali interessi.
In questo quadro mi sembra particolarmente rilevante la questione della legalità, sempre all’ordine del giorno in molte parti del Mezzogiorno. E’ una questione direttamente legata al modo di funzionare della pubblica amministrazione.
Perché un’amministrazione pubblica sia efficace, e perciò capace di incidere sulla realtà, essa deve essere rispettata. Può esserlo in due modi: può imporsi col ricatto del terrore (ed è il modo praticato dalla criminalità organizzata: da noi, mafia, camorra, ndrangheta); oppure può guadagnare il consenso dei cittadini. Quest’ultima strada richiede però alcune condizioni che l’amministrazione deve assicurare al cittadino.
La prima condizione è che al cittadino sia chiara la ragione di ciascuna delle regole che l’amministrazione lo impegna a rispettare. La seconda è che le regole siano rispettate da tutti, ugualmente rigorose per chi può violarle e per chi deve rispettarle. Perciò mi sembra che combattere il burocratismo (imperante in molta parte dell’amministrazione pubblica) sia un impegno civile, e che pratiche come la co-pianificazione e l’intesa interistituzionale siano da praticare largamente. Perciò, soprattutto, mi sembra che il rispetto della legalità sia nel Mezzogiorno un impegno d’onore ancor più necessario che in altre regioni d’Italia e d’Europa. Perciò mi preoccupano le lesioni alla legalità che vengono compiute, anche se per nobili motivi, di chi ha le maggiori responsabilità pubbliche[22].
Questa considerazioni sono una conferma della tesi che ho iniziato ad argomentare: che cioè la pianificazione sia uno metodo (più ancora che un insieme di strumenti) essenziale soprattutto nel Mezzogiorno. Non solo perché, come ho sostenuto, essa potrebbe svolgere un ruolo decisivo come strumento di uno sviluppo basato – come non può non essere nelle regioni meridionali - su un’attenta considerazione delle risorse dell’ambiente. Ma anche perché la certezza delle procedure e la trasparenza delle decisioni (caratteristiche esenziali della buona pianificazione) sono connotati rilevanti di un’azione amministrativa tesa al ripristino della legalità.
Per meritare l’attributo di “buona pianificazione”, essa dovrebbe essere il luogo nel quale tutte le scelte degli enti pubblici suscettibili di indurre trasformazioni territoriali (da quelle dello “sviluppo” a quelle della “tutela”) trovino la loro sintesi. Tanto per fare un esempio, i contenuti dei “piani operativi regionali” (POR), i programmi e i progetti di infrastrutture d’interesse regionale, le politiche regionali per l’abitazione, il turismo, l’agricoltura, quelle per la riduzione e lo smaltimento dei rifiuti, dovrebbero tutte trovare la loro coerenza – e la coerenza con le regole per il corretto impiego delle risorse culturali, paesaggistiche, naturali e con i relativi vincoli – in un atto di pianificazione unitario, sottoposto al vaglio del confronto pubblico, impegnativo nei suoi esiti prima di dar luogo a decisioni operative. È così che succede nel Mezzogiorno? Non mi sembra.
Una “buona pianificazione”, perciò utile ad affrontare i problemi del Mezzogiorno in coerenza con le tesi ora sostenute, dovrebbe avere nella lettura attenta (e sistematicamente aggiornata) delle risorse territoriali la base conoscitiva d’ogni decisione. Da tale lettura dovrebbe discendere un sistema non di “vincoli”, ma di definizione delle opportunità e delle condizioni che l’esigenza di non dissipare o degradare il valore delle risorse territoriali, pongono a ogni ipotizzabile trasformazione. Quante e quali sono le banche di dati sistematicamente aggiornate disponibili nelle regioni, nelle province (e nei comuni) del Mezzogiorno? Quanti sono i sistemi informativi territoriali vivi (cioè sistematicamente aggiornati) che possano sorreggere le scelte di localizzazione sistematiche (della pianificazione) o episodiche (dell’emergenza)? Non mi sembra che ci sia da rallegrarsi del bilancio.
Anche nel Mezzogiorno ha preso piede l’impiego di quei nuovi “strumenti innovativi” cui mi sono riferito. Non più piani regolatori generali o piani territoriali di coordinamento, ma patti territoriali, programmi di recupero urbano, programmi di riqualificazione urbana, i programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio e così enumerando. E negli ultimi tempi, i piani strategici. Non più strumenti di “governo”, ma di “governance”[23].
Tutti quegli strumenti (con una sola eccezione) premiano le esigenze, le opportunità, le disponibilità del breve periodo, e offrono spazi consistenti agli interessi privati, in particolare a quelli più forti. Sono quindi utilmente impiegabili a due sole condizioni: che vi sia un rigoroso sistema di regole certe e forti sul territorio, mediante le quali siano garantite le prospettive di una utilizzazione durevole delle risorse disponibili, e quindi un efficace sistema di pianificazione; che il potere pubblico sia autorevole, qualificato, decisamente orientato a favorire la prevalenza degli interessi generali e la tutela degli interessi “deboli”.
Queste due condizioni non sono certo diffusamente presenti nel Mezzogiorno. Se è così (e dove è così, e finché è così), sostituire governance a government, come del resto affannarsi nella formazione di strumenti urbanistici “innovativi” invece di quelli tradizionali, significa premiare, una volta ancora, gli interessi forti e le opportunità di breve periodo rispetto a ogni altro interesse e opportunità. Nel concreto, nelle regioni del Mezzogiorno questo quindi significa privilegiare, una volta ancora, le utilizzazioni edilizie dei suoli e la valorizzazione della rendita fondiaria rispetto alle utilizzazioni coerenti con l’esigenza di uno sviluppo durevole e con l’opportunità di un pieno impiego delle risorse territoriali. Significa premiare e promuovere il consolidamento delle attività economiche parassitarie anziché lo sviluppo di quelle innovative e produttive nei settori dell’agricoltura di qualità e di sito, dei servizi alle persone e alle imprese, del turismo di conoscenza e di fruizione evoluta del territorio, delle produzioni avanzate ad alta intensità di intelligenza e a bassa intensità di consumo di territorio e di energia.
Diverso è il ragionamento per quanto riguarda la pianificazione strategica. Per la verità con questo termine si indicano cose molto diverse tra loro, e anzi opposte. Da un lato (e così vorrebbe un impiego corretto del termine “strategia”) si allude alla definizione di una prospettiva di lungo periodo che, per avere qualche speranza di tradursi in prassi, deve necessariamente essere fondata su una larga condivisione. Ma dall’altra parte (e molto spesso nella pratica italiana) pianificazione strategica significa esattamente il contrario: significa invitare attorno al “tavolo” tutti gli attori disponibili e costruire con loro una sorta di elenco delle cose che si vorrebbero o potrebbero fare. Nulla di strategico, quindi, ma una mera raccolta tattica di opportunità di breve periodo. Nessun aiuto alla costruzione di una vera strategia, capace di dare prospettiva alla pianificazione ordinaria e alla sua attuazione, ma rinuncia a qualsiasi capacità di governo delle trasformazioni
Eppure, se correttamente adoperata la pianificazione strategica potrebbe dare un sostegno serio a un governo del territorio che volesse (appunto) essere strategico: impegnare cioè in una visione e in un progetto di lungo periodo l’insieme delle realtà sociali presenti sul territorio. Se così volesse essere, un piano strategico dovrebbe allora avere tra i suoi contenuti proprio la traduzione della strategia (del progetto di società) in un efficace sistema di regole, coerenti con quella strategia, trasparentemente definite, capaci di costituire le premesse e i binari di una conseguente successione di azioni volte alle concrete trasformazioni del territorio. Allora si potrebbe sottrarre la pianificazione ordinaria ai suoi limiti e adoperarla come sempre avrebbe dovuto essere: come lo strumento (uno degli strumenti) di una volontà politica determinata e lungimirante. E si potrebbe, insieme a quelli della pianificazione ordinaria, adoperare altri strumenti capaci di rendere operativa la strategia, nell’ambito delle regole definite: magari non più quelli “innovativi”, ma altri già presenti nella panoplia delle pratiche amministrative ordinarie e negli impegni dei bilanci pubblici e privati.
Una simile prospettiva è praticabile. Ma per concretarla occorrere, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesti una nuova capacità dei cittadini di organizzare la propria partecipazione alla vita istituzionale. Bisogna che i cittadini comprendano che lo stato (la regione, i comuni) non sono né una maledizione esterna né un dio a cui rivolgersi in preghiera, ma il prodotto di una costruzione collettiva. Bisogna ricordarlo nell’agire politico quotidiano, che troppo spesso oscilla tra la tolleranza per i comportamenti deviati dei politici, e dall’attesa di soluzioni salvifiche, a mere manifestazioni di protesta. Forse solo alla capacità di agire “dal basso”, come cittadini e non più come sudditi, che è legata la possibilità della formazione di un ceto politico all’altezza dei problemi e delle potenzialità: poiché non è solo agli strumenti, ma anche alla mano che li adopera che occorre in primo luogo guardare.
[1] Molti anni fa intitolai un editoriale di Urbanistica informazioni (n. 67, gennaio-febbraio 1983), che allora dirigevo, “I diritti del territorio”.
[2] P. Bevilacqua, Utilità della storia, Donzelli, Roma 19..
[3]Il primo piano regolatore moderno è considerato quello che New York si diede nel 1811. Esso fu imposto dagli operatori economici e dalla popolazione per risolvere problemi che il mercato, di per sé, non riusciva a risolvere: la promiscuità tra fabbriche e abitazioni, la congestione del traffico, l’instabilità dei valori immobiliari. Senza un intervento pubblico di regolazione il mercato sarebbe impazzito, la vita economica e quella sociale sarebbero diventate insostenibili.
[4] Ho sviluppato alquanto questo argomento nel libro Fondamenti di urbanistica – La storia e la norma, Laterza Editori, Bari-Roma 20045.
[5] Se considerassimo la democrazia rappresentativa (o meglio, l’attuale sistema politico) come un dato permanente ci sfuggirebbe il rischio immanente della sua degenerazione verso forme innovative di dominio. Cfr. L. Canfora, La democrazia, storia d’una ideologia, Laterza Editori, Roma-Bari 2004.
[6] Tra il 1926 e la fine degli anni Trenta si sviluppa in Italia la grande impresa della bonifica della Pianura Pontina. 60 mila ettari di terreno paludoso sono bonificati e messi a coltura, mediante un razionale sistema di appoderamento, la realizzazione di 2 mila km di canali e 900 km di strade, e la costruzione di numerose città. Nello stesso periodo in USA si sviluppa la gigantesca impresa della Tennassee Valley Authority e delle altre misure keynesiane anticrisi promosse da Roosvelt.
[7]Legge 17 agosto 1942, n. 1150, “Legge urbanistica”.
[8] Allora le riforme per le quali ci si batteva non erano, come in questi anni, quelle del sistema istituzionale e dell’asservimento della giustizia al potere politico, ma quelle della struttura economica, quindi dell’energia elettrica, dell’agricoltura, del regime dei suoli urbani. Le forze che si battevano per questi obiettivi si chiamavano “riformatrici”, non “riformiste”.
[9]Legge 8 Giugno 1990, n. 142, “Ordinamento delle province e dei comuni”, modificata con legge 3 agosto 1999 n. 265.
[10] Anche nomenclature diverse. Sicché, mentre in Europa si tende ad avvicinare i linguaggi delle varie nazioni, in Italia si tende a differenziare quelle delle sue varie regioni. Del resto Arlecchino è una maschera tipicamente italiana.
[11] Proposta di legge d’iniziativa Mussi, Zagatti, Bandoli e altri, Legge quadro per il governo del territorio, XIII Legislatura, Atti parlamentari Camera dei Deputati, n. 3206.
[12]La sussidiarietà è definita come “l’attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati”. Legge 15 marzo 1997, n. 59, "Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa".
[13] Il testo dell’articolo è stato confermato nel Trattato di Amsterdam il 2 ottobre 1997, ed è divenuto l’articolo 5 del Trattato istitutivo della Unione europea.
[14] Iniziò la serie delle leggi derogatorie la legge n.1 del 3 gennaio 1978, Accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali. Seguirono leggi nel 1980 (legge Andreatta, Legge n 25 del 15 febbraio 1980), 1982 (legge Nicolazzi, n. 94 del 23 gennaio 1982), e poi le leggi per le “emergenze” dei campionati di calcio, per le mucillagini in Adriatico, per i poliziotti, per i terremoti. Si veda anche P. Della Seta-E. Salzano, L’Italia a sacco, Editori riuniti, Roma 1993; anche in http://eddyburg.it
[15]Imma Apreda, Analisi degli strumenti anomali, rispetto alla strumentazione tradizionale, che sono stati introdotti nel recente passato, sia attraverso la legislazione che per iniziativa amministrativa, in: «Nuove forme di governo del territorio», a cura di M. Savino, Franco Angeli, Milano 2003.
[16] Compagnia dei Celestini, Dal Piano RegOlatore al Piano RegAlatore, Bologna 2002. Anche in http://www.celestini.it
[17] Per esempio a Bologna sia la giunta Vitali (odg 70 dell’aprile 1997) che la giunta Guazzaloca (odg 136 del gennaio 2001) emanarono bandi nei quali chiedevano ai proprietari immobiliari di presentare proposte di interventi anche in variante al PRG.
[18] Ho il ricordo vivido di una riunione nazionale convocata dalla direzione del PCI in una sala di Palermo, nel tentativo di risolvere il forte dissidio tra chi, in quel partito, sosteneva che l’abusivismo doveva essere oggetto di una sanatoria e chi, viceversa, difendeva la legalità e la pianificazione (e il territorio). Ebbene, allora i “condonisti” sostenevano che la legge urbanistica del 1942 era una legge “nordica”, e che nel Sud erano necessari strumenti diversi.
[19]Piero Bevilacqua, Tra natura e storia, Donzelli, Roma 1966.
[20] Convegno sul tema "Manfredonia e il Gargano: economia e ambiente", organizzato dall’Università di Foggia, 24-26 settembre 2004.
[21] Intendo per “valorizzazione” l’esaltazione del valor d’uso, non del valore di scambio: degli oggetti in quanto beni, non in quanto merci. In un’economia che ha dimenticato i valori d’uso e ha ridotto ogni bene a merce, una simile affermazione equivale a dire che la valorizzazione deve essere misurata secondo parametri non economici.
[22] Per questa ragione mi è sembrata una scelta scandalosamente sbagliata quella dei governanti della Regione Campania, della Provincia di Salerno, del Comune di Ravello e della Sovrintendenza ai beni architettonici, culturali, paesistici e ambientali di promuovere una pesante forzatura della legge per poter realizzare il cosiddetto Auditorium di Niemeyer, a Ravello. L’illeggittimità è stata rilevata dai due tribunali amministrativi che si sono pronunciati nel merito mentre l’ultima sentenza (quella del Consiglio di Stato) ha eluso il merito arrestandosi a un ... errore d’indirizzo nella notifica!
[23] Un equilibrato concorso della governance (ricerca del consenso negoziale) con il government (esercizio del principio di autorità) è a mio parere molto utile se si tiene sempre presente che gli interessi in gioco non sono tutti uguali, e non hanno tutti il diritto di partecipare in ugual modo alle scelte di governo. Altro è il consenso tra le istituzioni (a condizione che sia chiaro chi, in ultima istanza, ha la responsabilità di decidere), altro è quello con i cittadini, i lavoratori e le loro associazioni, altro ancora quello con i portatori di interessi industriali o comunque legati alla produzione, altro infine (last and least) quello con i portatori di interessi immobiliari.
| Copertina "Fondamenti di Urbanistica" |
Nel giugno del 2003 ho aggiornato il libro con la presente quinta edizione. Non ho modificato i primi nove capitoli della precedente edizione. Ho sviluppato invece l’ultima parte. I tre ultimi capitoli di questa edizione ampliano considerevolmente il contenuto delle precedenti, integrandolo soprattutto con informazioni e valutazioni a proposito della legislazione urbanistica delle regioni, e con qualche riflessione su argomenti all’ordine del giorno del dibattito urbanistico (come la governance e, più in generale, i rapporti tra pubblico e privato), oppure riproposti nelle pratiche di pianificazione degli ultimi anni (come la questione dei “vincoli urbanistici”). Infine, qualche ulteriore riflessione sulla figura e il ruolo dell’urbanista è stata provocata da ricerche che ho avuto modo di seguire nell’ambito della facoltà di Pianificazione del territorio e del dipartimento di Pianificazione dell’IUAV.
Per non aumentare il costo dell’edizione (e quindi non costringere l’Editore ad aumentare il prezzo) non ho modificato i primi capitoli. Ciò non mi ha consentito di seguire i consigli, peraltro sensati, di ampliare alcuni momenti del percorso storico o introdurvi altri argomenti.
Mauro Baioni, Ada Becchi, Fabrizio Bottini, Alessandro Dal Piaz, Vezio De Lucia, Marco Guerzoni, Luigi Scano hanno avuto la pazienza di leggere e correggere la nuova edizione e la bontà di darmi utili consigli per le novità introdotte. Li ringrazio (assumendo naturalmente l’intera responsabilità del testo), come ringrazio i colleghi che hanno ritenuto utile questo libro per la didattica universitaria.
X. Un nuovo contesto
La pianificazione all'inizio del nuovo secolo, p. 239
Cambiamenti della società, trasformazioni del territorio, p. 239 - La città: la scimmiotto e la svuoto, p. 240 - La risposta delle istituzioni, p. 242 - Liquidata la politica della casa, p. 244 - Italia S.p.A., p. 245 - Serve ancora la pianificazione?, p. 246
Valori e obiettivi per la pianificazione, p. 248
I valori della collettività, p. 248 –L’uovo o la gallina, p. 249 - La democrazía è sostenibile?, p. 251 - La storia e la natura, p. 252 - Pianificare la conservazione, p. 253 - Il «sistema delle qualità», p. 254
I limiti della pianificazione tradizionale, p. 256
Il piano criticato, p. 256 - Tre versanti critici, p. 256 - Il modello milanese, p. 257 - Un'altra «terza via», p. 260
XI. Una nuova pianificazione: dai principi alle leggi regionali
Dal «piano» alla pianificazione, p. 265
Una definizione della pianificazione, p. 265 - Gli obiettivi della pianificazione, p. 266 - La coerenza nello spazio e nel tempo, p. 267 - Una sintesi tra flessibilità e coerenza, p. 267
Un nuovo meccanismo di pianificazione, p. 268
Scelte strutturali e scelte programmatiche, p. 268 - Un nuovo rapporto tra «piano» e tempo, p. 269 - Due condizioni irrinunciabili, p. 270 - Il nuovo meccanismo nelle legislazioni regionali, p. 270
I livelli della pianificazione, p. 274
Il «principio di pianificazione», p. 274 - Il principio di sussidiarietà, p. 275 - Dall'approvazione alla verifica di conformità, p. 277
Pianificazione ordinaria e pianificazione specialistica, p. 278
Troppi piani?, p. 278 - Piani diversi, per esigenze diverse, p. 278 - I piani per il paesaggio, la difesa del suolo, le aree protette, p. 279
L'ambiente nella pianificazione: qualche passo avanti, p. 281
Le condizioni alle trasformazioni, p. 281 - L'ambiente nelle legislazioni regionali, p. 282 - Le azioni per la tutela e la valorizzazione, p. 285
«Governance»: significato e limiti d'un termine nuovo, p. 286
La «governance», come nasce, p. 286 - Non è vero che tutti gli attori sono uguali, p. 287 - Gli interessi privati, p. 288 - Governare la «governance», p. 289 - E la partecipazione?, p. 290
XII. Requiem per la «riforma urbanistica»?
Tentativi a Roma, nuove leggi altrove, p. 293
Le proposte ci sono, p. 293 - La 1150 era una buona legge, p. 294 - La «mannaia» della Corte costituzionale, p. 295
La questione dei «vincoli urbanistici», p. 296
Una distinzione preliminare, p. 296 - Le sentenze costituzionali, p. 297 - Chi pone i vincoli ricognitivi?, p. 299 - I vincoli «urbanistici»: è incostituzionale non indennizzarli se sono «espropriativi», p. 301 - Ma non è sempre illegittimo reiterare i vincoli urbanistici, p. 301 - Può il prg eliminare senza danni l'edificabilità di un'area?, p. 303 - Il diritto non richiede di «compensare» o «perequare», p. 305
Per concludere, p. 306
Pianificare si può, p. 306 - La questione del consenso, p. 307 - La politica, p. 307 - Gli urbanisti, p. 309 - La stella polare, p. 310
L’urbanista si occupa della città: lo dice la parola stessa. E le città sorgono sulle pianure, nei fondi valle, dove più vie, di terra o d’acqua, s’incrociavano; dove era più facile incontrarsi, scambiare prodotti e conoscenze, irrigare la terra e coltivarla, far nascere le fabbriche. Che cosa ha da dire un urbanista della montagna? La montagna è, quasi per definizione, la “non città”. È, rispetto alla città, l’altro estremo del territorio: tra l’una e l’altra c’è la vasta gamma delle campagne via via più lontane dalla città, delle colline oggi combattute tra la coltura e l’inselvatichimento.
Città e montagna, i due estremi: ma quanto strettamente, intrinsecamente legati! Basta ripercorrere la storia dei loro rapporti per comprenderlo. Storicamente la città è nata in opposizione al territorio. La città era il chiuso, il difeso, l’artificiale, il costruito, il denso, il dinamico, mentre il territorio (il resto del territorio, le pianure e i boschi, le colline e le montagne) era il luogo aperto, dove si poteva essere attaccati, dove dominava esclusiva la natura, dove la presenza dell’uomo era rada e discontinua, dove le trasformazioni erano lente: avevano la lentezza e la sicurezza dei ritmi della natura.Il “territorio urbanizzato”
Nel corso del processo di espansione della civiltà urbana il rapporto con il territorio si è progressivamente trasformato. La città ha cominciato ad “esportare” parti scomode della sua struttura: le prime sono state le fabbriche, allontanate a causa dell’inquinamento e collocate nelle nuove “zone industriali” in periferia. Si è enormemente accresciuta l’importanza dei trasporti, e il territorio ha cominciato a essere segnato da infrastrutture come le strade, le ferrovie, i canali navigabili.
La mobilità sul territorio è aumentata in misura parossistica: è aumentata la rete delle infrastrutture del trasporto, ed è aumentata la loro utilizzazione. E le infrastrutture hanno creato a loro volta nuove convenienze per l’insediamento di funzioni specializzate: ospedali e caserme, carceri e strutture commerciali, stadi e discoteche sono stati localizzate sempre più frequentemente fuori dalle città, in prossimità dei caselli autostradali o delle superstrade. Hanno consentito di raggiungere luoghi via via più lontani, siti sempre più impervi, resi raggiungibili con le nuove tecnologie.
Contemporaneamente sono aumentate le ragioni per uscire dalla città e percorrere e usare il territorio. Oltre alle ragioni derivanti dal fatto che determinate funzioni (quelle di cui ho parlato or ora) sono state localizzate fuori, oltre alle ragioni derivanti dal fatto che è più conveniente che in passato accedere a servizi localizzati in città diverse dalla nostra (per l’ospedale specializzato, per l’università, per l’acquisto di merci rare o specializzate, per il concerto o la mostra o lo spettacolo), nuove ragioni sono nate da nuove esigenze: di contatto con la natura, con ambienti incontaminati: esigenze di rigenerazione psicofisica, di sport attivo, di ricreazione all’aria aperta. La villeggiatura, le gite di fine settimana in collina o nel bosco o al mare, le settimane bianche sulla neve, lo sci e l’alpinismo: tutte queste pratiche della vita di ciascuno di noi, inesistenti o del tutto marginali fino a qualche decennio fa, ci hanno condotto a usare il territorio in modo sempre più ampio e frequente.
Oggi possiamo dire (e io lo ripeto spesso) che il territorio non è più in opposizione alla città: non è l’altro, non è il fuori. Oggi, la città comprende il territorio. Oggi non è più il caso di parlare di città e territorio come di due realtà antitetiche. Oggi è più esatto parlare di territorio urbanizzato come una realtà che comprende insieme le città e il territorio. Solo che questa unificazione tra città e territorio è avvenuta nelle forme di una “colonizzazione” dell’extraurbano da parte dell’urbano: la città si è impadronita delle campagne e delle colline, dei boschi e dei monti, ha tentato di cancellare le “loro” regole per imporre le proprie.
Oggi, quello che ho definito “territorio urbanizzato” è formato da realtà tra loro molto diverse. In alcune parti l’urbanizzazione è più densa, la presenza umana è più forte, i flussi di relazione che legano tra loro le diverse persone e attività sono più intensi, la presenza della natura è più debole. In altre parti invece succede il contrario: la presenza della natura è più marcata e più debole è invece la presenza dell’uomo, minore la densità dell’urbanizzazione, l’intensità dei flussi. La montagna è proprio la parte dove l’insediamento è più debole e la natura è sovrana. L’antica diversità si è modificata, ma non è scomparsa. Come si è modificata?
Trecento o duecento o cent’anni fa il territorio extraurbano non era, in Italia e in Europa, un luogo selvaggio e aspro. Fino a cento anni fa il territorio extraurbano era tutto curato, amministrato, gestito. Non solo quello agricolo, che occupava un’area enormemente più estesa di quella odierna, ma anche quello utilizzato per la pastorizia e la silvicoltura, e perfino quello del tutto “selvatico”. Perfino i monti più impervi e i boschi selvaggi, quelli dove le bestie addomesticate non potevano pascolare e che non venivano curati dai boscaioli, erano soggetti a quel minimo di cura che consiste nel togliere via i rami e i tronchi secchi per arderli nei focolari (impedendo così che il corso delle acque nei torrenti tracimasse dagli alvei naturali e rovinasse a valle).
Tutta la natura, insomma, anche quella più selvatica, entrava nel ciclo economico della società. Tutta la natura era “casa della comunità”. E basta studiare gli usi civici, la loro minuziosa regolamentazione comunitaria volta in larghissima misura all’appropriazione dei prodotti dell’incolto, per comprendere quanto la società, nelle sue forme arcaiche ma non più elementari, fosse presente sull’insieme del territorio. Un territorio sottoposto a simili regole, finalizzate a simili necessità (riscaldarsi, ripararsi, nutrirsi), era anche un territorio custodito. Era un territorio sul quale si esercitava un controllo sociale. Era un territorio che veniva sentito e vissuto dall’uomo come un patrimonio, perché immediatamente ne traeva elementari ma indispensabili benefici. Era un territorio in qualche modo integrato a quello urbanizzato.
Nell’ultimo secolo, e in modo particolarissimo negli ultimi cinquant’anni, la città si è estesa a macchia d’olio, e ancora più vaste sono proliferate le sue propaggini “rururbane”. La campagna coltivata si è enormemente ridotta, abbandonando tutti i terreni acclivi e gran parte delle zone interne. La pastorizia si è ridotta ad attività marginale e di risulta. Dalle montagne e dalle colline l’insediamento è “franato”, la popolazione ha abbandonato i borghi ad alta quota e si è trasferita verso le grandi città, i fondi valle, le coste.
Non è stato solo uno spostamento di residenze e una trasformazione della produzione. E neppure è stato solo un fenomeno quantitativo. Il salto di qualità è stato in ciò, che una parte molto ampia del territorio è uscita dall’economia e dalla società. L’extraurbano è diventato res nullius, terra di nessuno: luogo d’attesa per l’ingresso, tramite la speculazione fondiaria, nel regno infetto dell’urbano, luogo delle discariche, dell’esportazione “fuori” degli scarti urbani, residuo esso stesso. Territorio senza cittadinanza e senza diritti perché senza utilità: ridotto a luogo delle scorrerie dei vacanzieri del fine settimana, luogo di passaggio degli automobilisti.
Ora lo sappiamo. L’aver considerato il “non urbano”, e particolarmente la montagna, come un territorio da abbandonare od occupare volta per volta per i propri comodi non è stato privo di effetti, per le stesse città. Non più mantenuta né custodita, dall’uomo o dalla natura, malamente occupata da persone e attività che non ne volevano conoscere le regole (lottizzazioni turistiche, strade a mezza costa, incendi dolosi o colposi, dighe e condotte forzate ecc.), la montagna si è vendicata. Le acque, non più trattenute dalla vegetazione, incanalate nei tratti verso valle nelle guaine cementizie dei canali, hanno provocato alluvioni distruggitrici. Le pendici montuose, non più ricoperte dalla coltre di vegetazione, hanno franato minacciando (e a volte distruggendo) i paesi di cresta e quelli di valle. L’erosione ha scavato i fianchi, ha indebolito le strutture geologiche, ha provocato dissesti nelle infrastrutture.
Occorre intervenire sul “non urbano” in modo nuovo: come, però?
Un primo punto è chiaro: il territorio, tutto il territorio, deve essere governato da una volontà intelligente e unitaria, espressione di tutta la società. La spontaneità, la casualità, l’affidamento esclusiva all’intervento del singolo producono effetti devastanti in una società complessa, quale indubbiamente è quella contemporanea. Il governo del territorio deve manifestarsi attraverso la pianificazioneterritoriale: attraverso un insieme di strumenti che diano coerenza, nello spazio e nel tempo, all’insieme delle trasformazioni fisiche e funzionali che modificano l’assetto del suolo.
La pianificazione non può consistere solo nel fare piani, ma deve tramutarsi in un’attività continua e costante, sistematica, nella quale la formazione del piano si prolunghi nella sua attuazione, nel monitoraggio dei suoi effetti, nel suo sistematico aggiornamento. La pianificazione deve essere gestita dai rappresentanti delle popolazioni interessate, da queste liberamente eletti.
La pianificazione deve essere un processo unitario, che leghi insieme, in un unico disegno e un’unica strategia, città e campagna, pianura e montagna; che dia coerenza e garantisca cooperazione tra gli enti elettivi che hanno competenze territoriali: il comune, la provincia, la regione, lo stato. Tutti devono cooperare, ma su ciascuna questione deve esser chiaro chi è quello cui fa capo, in caso di dissenso o disparità di vedute, la responsabilità di decidere. Il principio cui far riferimento è quello della sussidiarietà, secondo il quale ad ogni ente elettivo territoriale spettano tutte, e solo, le competenze relative a oggetti e aspetti che sono efficacemente dominabili al suoi livello: talché non potrà spettare, per esempio, al singolo comune la decisione sull’opportunità o meno di localizzare un aeroporto o una strada di grande comunicazione, e non potrà essere la regione o la provincia arbitra della localizzazione di un asilo nido in un quartiere.
In che modo la pianificazione deve farsi carico dei problemi, e delle potenzialità, della montagna? Credo che si debba in primo luogo evitare di cadere negli errori che sono già stato compiuti. La montagna non deve essere vista in opposizione alla città, né deve essere da questa occupata. Imporre alla montagna le stesse regole nelle lottizzazioni a fini edificatori, nell’apertura di strade per ogni dove, nella progressiva sottrazione di elementi di naturalità, sarebbe un errore altrettanto grave che quello di abbandonare la montagna al degrado.
Nella montagna occorre soprattutto riscoprire, tutelare e valorizzare gli elementi di qualità presenti, essenziali per l’uomo di oggi e per quello di domani. Essi consistono in primo luogo nella biodiversità, nella presenza di specie vegetali e animali diverse, a volte rare, sempre preziose nella loro associazione oltre che nella loro singolarità: nelle caratteristiche degli ecosistemi che determinano oltre che in quelle specifiche delle singole specie e individui. Consistono poi nell’enorme potenziale di biorigenerazione che le grandi riserve di naturalità conservate nella montagna costituiscono: un potenziale decisivo per la sopravvivenza del genere umano, minacciato dalla progredente artificializzazione dell’habitat che esso stesso ha prodotto.
Ma gli elementi di qualità dell’ambiente montano stanno anche in una serie differenziata di realtà che la plurimillenaria fatica di addomesticamento della natura ha prodotto. Mi riferisco al paesaggio, in tante parti della montagna eccezionale espressione di un rapporto fecondo tra l’uomo (le sue necessità, il suo lavoro e la sua cultura), e la natura (le sue leggi e i suoi ritmi, le sue potenzialità e le sue minacce). Mi riferisco a piccole produzioni dell’economia agro-silvo-pastorale, ricche di differenziate qualità così distanti dai sapori e odori omologati dei prodotti di un’industria sempre più lontana dalla natura e dalle sue diversità (chi ci darà più il sapore delle bruttissime mele annurche?).
Si tratta di qualità (quelle prodotte dalle varie forme di simbiosi tra uomo e natura) che già oggi trovano l’interesse di numerose “nicchie” di mercato, e che sempre più incontreranno la crescente domanda di qualità.
È insomma nella direzione della riscoperta, della tutela e della valorizzazione delle qualità specifiche e tipiche dei differenziati ambienti montani che occorre lavorare, con gli strumenti adeguati, per ritrovare un ruolo specifico e autonomo della montagna, non in opposizione alla città né subendone l’assimilazione omologante, ma fornendo alla società dell’uomo nel suo complesso il contributo “diverso”, e perciò prezioso, delle qualità che la storia ha sedimentato nelle aree più difficili dell’habitat umano.
La montagna pone problemi specifici anche dal punto di vista degli istituti e strumenti della pianificazione In Italia, lo strumento più consolidato della pianificazione ‘ il piano regolatore comunale (PRG). Ma il PRG è pensato e costruito per dominare i problemi delle città, e in particolare delle grandi città. Esso è di per se poco adatto (e comunque insufficiente) di fronte ai problemi di un insediamento molto rado e disperso, qual è quello montano. Ed è d’altra parte uno strumento foggiato per affrontare i problemi del sistema insediativo, non quelli dell’ambiente naturale, così dominanti in ambito montano.
La legge, d’altra parte, non ha avuto il coraggio di attribuire alle Comunità montane la pienezza di poteri che sarebbe stata essenziale per dotarle di competenze di pianificazione territoriale e urbanistica (questa infatti è riservata, giustamente, agli enti elettivi territoriali a rappresentanza generale).
Il nuovo ordinamento dei poteri locali, definito nel 1990, attribuisce alle province la competenza in merito alla pianificazione territoriale di livello intermedio tra regione e comune, concludendo così (a mio parere positivamente) un dibattito e una ricerca iniziati alla fine degli anni Cinquanta. Ma le province amministrano spesso territori troppo vasti per poter efficacemente cogliere, interpretare e portare a soluzione problemi molto differenziati di singole parti del territorio.
Il comune, in altri termini, è troppo piccolo, la provincia troppo grande e la comunità montana povera di poteri. La soluzione può allora essere ricercata in una collaborazione tra questi tre livelli di governo. In questo quadro alla provincia (e alla sua pianificazione) potrebbe spettare l’individuazione delle direttive generali per l’assetto del territorio, l’individuazione degli ambiti intercomunali, tendenzialmente coincidenti con le comunità montane, all’interno dei quali approfondire (con una sorta di “zoomata”) le determinazione della pianificazione provinciale. Alle comunità montane e ai comuni, opportunamente associati anche in forme volontaristiche, potrebbe essere affidato il compito di definire la pianificazione nei suoi aspetti più specifici, coordinando (o, al limite, sostituendo) la pianificazione generale a scala comunale.
Lungo questa direzione vale forse la pena di lavorare, integrando in un processo di pianificazione cooperativo e flessibile anche la pianificazione “specialistica” più rilevante per la montagna: da quella dei piani di bacino, cui è affidata l’individuazione delle condizioni e delle opere necessarie per la salvaguardia delle acque e dalle acque, dai piani delle zone protette, cui penso debba essere affidata soprattutto la gestione naturalistica e la sperimentazione scientifica della aree di maggiore valore naturalistico, a quella del paesaggio, che dovrebbe essere ricompresa in una pianificazione regionale, provinciale e comunale “con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali”, per adoperare i termini (e l’intenzione) della Legge Galasso.
Naturalmente, un processo di pianificazione così delineato dovrebbe poggiarsi su due presupposti: la verifica, nella primissima fase di lavoro, dell’esistenza di adeguati strumenti di salvaguardia delle qualità esistenti; la formazione di strutture tecniche e amministrative capaci di gestire il processo di pianificazione, con l’autorevolezza, la competenza e l’attrezzatura indispensabili. In assenza di queste due condizioni (e di una determinata volontà politica da parte degli amministratori) ogni speranza di rinascita delle aree montane resterebbe delusa.
Edoardo Salzano
Venezia, Pasquetta 1999
LA CACCIATA DI VEZIO DE LUCIA
Il Ministro per i Llpp, Giovanni Prandini, sta procedendo a un'energica azione di "pulizia" nel dicastero che gli é stato temporaneamente affidato. Nel quadro di questa più ampia operazione Vezio De Lucia é stato rimosso dal suo incarico di Direttore generale al coordinamento territoriale. La motivazione ufficiosa é costituita dal fatto che le "opi nioni" di De Lucia sarebbero "contrastanti con quelle del Governo", cioé del Ministro.
La notizia é molto preoccupante, per l'urbanistica italiana ma anche per ragioni più complessive.
De Lucia é indubbiamente uno dei più preparati e autore voli urbanisti italiani: non lo diciamo tenendo presenti gli incarichi di rilievo che ha svolto nell'Inu, ma soprattutto ricordando la sua energica azione svolta sia all'interno del Ministero (dai tempi di Giacomo Mancini, Michele Martuscelli, Fabrizio Giovenale e Marcello Vittorini, fino a oggi), che al servizio di altre amministrazioni (come il Commissariato per la ricostruzione di Napoli e il Comprenso rio di Venezia). Che a De Lucia fosse affidata l'unica dire zione generale che si occupa di pianificazione territoriale e urbanistica, l'unico punto di riferimento per le politiche territoriali delle regioni e per le politiche di settore delle amministrazioni centrali, era un elemento di fiducia per molti: certamente, per chi ha a cuore le sorti del territorio italiano.
Ma De Lucia é anche un uomo che crede nello Stato e nel l'amministrazione pubblica come agli unici "padroni" che, in una società moderna, meritino di essere "serviti" da chi fa l'urbanista. E' proprio questa convinzione profonda che lo spinse ormai molti anni sono trascorsi ad abbandonare una lucrosa carriera in un'azienda privata per arruolarsi negli scomodi ranghi della pubblica amministrazione.
Davvero suicida, e per più d'una ragione, merita d'esser definito un governo che decide di privare lo Stato d'un simile qualificato, efficace e fedele servitore. Chi percorre simili strade porta un contributo rilevante alla degradazio ne dello Stato e delle sue strutture. Sono strade, sono ten denze (vogliamo annotarlo in questi giorni in cui così facilmente ci si riempie la bocca di richiami all'Europa) di segno opposto a quella perseguita dalle grandi democrazie europee, le quali si adoperano per reclutare funzionari qua lificati contendendoli all'industria privata, e chiedendo ad essi fedeltà alle istituzioni, e non a questo o a quell' altro padrino politico. Episodi come quello cui ci riferiamo ci confermano che a quelle democrazie riusciamo a fingere d'esser vicini solo arrampicandoci sulle statistiche dei dati più materiali.
Ma all'episodio di cui ci stiamo occupando é sottesa un' altra questione che travalica la persona di Vezio De Lucia. Crediamo che sia la prima volta che un alto funzionario dello Stato, cui é stata attribuita una funzione non di generica amministrazione, ma strettamente coerente con la sua specifica professionalità, sia rimosso dal suo incarico sen za che gli sia addebitato, né addebitabile, alcuno specifico errore di valutazione o di comportamento. E ci sembra si gnificativo che l'unica ragione per la rimozione sia la "di vergenza d'opinioni" con il Governo.
Questo é il punto. Questo governo (stavamo per scrivere "questo regime") non tollera che al servizio dello Stato vi sia chi ha autonomia di giudizio e di valutazione, chi non é uno yesman. Nei confronti di costoro non é necessario neppure un pretesto. Bisogna toglierli di mezzo, semplicemente
"Il caso di Milano scrive Campos Venuti nell'introdurre il dossier di questo numero é quello più rappresentativo della deregulation urbanistica italiana". Nella metropoli lombarda "la deregulation urbanistica e l'urbanistica contrattata si sono manifestate più esplicite che altrove", e "il 'non piano' é stato apertamente teorizzato". L'esempio é stato presto seguito; la teoria é divenuta prassi in molte città, é quasi diventata un costume. Ricordiamo i casi più significativi, come promemoria per i nostri lettori. Firenze. Una società privata compra un complesso di aree nella piana a nord-ovest di Firenze: una zona che da decenni é considerata strategica non solo per lo sviluppo della città e per il decongestionamento del centro, ma anche per la riorganizzazione dell'intero comprensorio Firenze-PratoPistoia. Il Comune con una mano sta elaborando una variante generale del Prg, ma con l'altra mano dà il via libera a un progetto di valorizzazione immobiliare del l'area nord-ovest presentato dalla società proprietaria, la Fondiaria (a cui si aggiunge un progetto di valorizzazione immobiliare della Fiat). Insomma, mentre si sta definendo il progetto complessivo dell'assetto della citta, si approva un piano (formalmente, una variante di Prg) redatto in funzione e su misura delle esigenze di valorizzazione immobiliare (una volta si diceva speculazione) di due società private
Napoli. Grandi interessi economici raggruppati sottola sigla del "Regno del possibile" propongono al Comune di delegare ad una società per azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione del recupero di quasi 70mila alloggi nel centro storico, inclusi gli oltre 5mila di proprietà dello stesso Comune, da conferire in pro prietà alla s.p.a. Le forme sono certamente ammodernate rispetto a quelle descritte da Francesco Rosi nel film "Le mani sulla città", ma il contenuto sostanziale é identico. Roma. L'Italstat acquisisce il possesso di una parte con sistente delle aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale. Su questa base, si propone come capofila di un pool di imprese (a capitale privato,pubblico e cooperativo) che vorrebbe sostituirsi al Comune nella pianificazione, progettazione e realizzazione di un sistema strategico per la trasformazione della città.
Trieste. Il Consiglio comunale di Duino Aurisina, un comune limitrofo al capoluogo giuliano,adotta (e la Regione rapidamente approva) una variante di Prg elaborata direttamente dai privati interessati: cioé da quella società Finsepol che come la Fondiaria a Firenze, come l'Italstat a Roma, come Berlusconi e Ligresti a Milano aveva previamen te acquistato le aree non per esercitarvi un'attività produttiva, ma proprio per compiere una operazione di "valorizzazione immobiliare" (come oggi pudicamente si dice). Un'operazione che, naturalmente, aumenta le cubature rispetto a quelle già consentite dal permissivo Prg vigente, e privatizza uno dai rarissimi lembi non asfaltatì né cementificati della costa giuliana, la splendida Baia di Sistiana.
L'elencazione potrebbe proseguire a lungo. Invitiamo anzi i lettori a segnalarci i casi analoghi, perché la documentazione possa arricchirsi. E invitiamo a intervenire nel dibattito sull'"urbanistica contrattata" anche chi non é d' accordo con la nostra tesi, che vogliamo qui sinteticamente ricordare.
Noi riteniamo che l'"urbanistica contrattata" sia un dan no grave almeno per tre ordini di ragioni. In primo luogo, perché trasforma l'assetto urbano e territoriale per singoli pezzi, impedendo qualsiasi controllo d'insieme sulle con seguenze delle singole trasformazioni e sugli effetti che esse inducono. In secondo luogo, perché distorce profondamente il rapporto tra gli interessi generali espressi dalla pianificazione, e specifici interessi economici di specifi ci operatori, rendendo questi ultimi leader anziché strumen ti attuatori del processo di trasformazione territoriale. In terzo luogo, perché riduce fortemente la trasparenza del processo delle decisioni e aumenta la discrezionalità dei singoli amministratori e delle segreterie dei partiti a discapito del potere delle istituzioni elettive.
DI NUOVO IL GOVERNO
CONTRO LA PIANIFICAZEIONE
Come in Emilia-Romagna (dove fortunatamente il Tar ha accordato la sospensiva alla "bocciatura" governativa del Piano paesistico), come in Sardegna (dove il Consiglio regionale ha riapprovato la legge "bocciata") così in Calabria: anche in questa Regione il Commissario di Governo ha respinto una legge regionale che, nelle more della formazione dei piani paesistici, definisce i contenuti della pianificazione regionale in coerenza con la legge 431/1895 e introduce alcune salvaguardie su determinate, e calibrate, componenti ter ritoriali.
Nel prossimo numero informeremo con ampiezza del contenuto della legge, di quello della pronuncia governativa e degli atti che la Regione avrà compiuto in merito. Qui vogliamo osservare soltanto che la posizione del governo é così contraddittoria, così contrastante con tutta la legislazione e la giurisprudenza vigenti, eppure così devastante nei suoi effetti, che se ne può trarre una sola conclusione. Il Governo é il più tenace e rozzo avversario della pianificazio ne regionale, dell'attuazione della legge 431/1985, e di ogni tentativo di tutelare l'ambiente attraverso la pianificazione e l'esercizio delle competenze costituzionali delle regioni.
Le immotivate bocciature delle leggi urbanistiche di tutela dell'Emilia-Romagna, della Sardegna, e oggi della Calabria appaiono così atti separati posti in essere dai diversi Commissari di Governo competenti (solo territorialmente, beninteso), ma collegati da un unico disegno, che non esitiamo a definire criminoso. A questo disegno la Regione Calabria può contrapporsi in un unico modo: riapprovando la legge così com'é.
Entusiasmo e coraggio senza precedenti, quello di cui Flavia Schiavo dà prova in questo libro. Sono indubbiamente qualità necessarie per chi si proponga di sottoporre a un’analisi linguistica una realtà così complessa e complicata, un testo (un «tessuto») così ricco e composito, come quello costituito da un piano urbanistico.
Un piano urbanistico è già di per sé un testo assai complesso: norme, disegni, analisi in svariati settori, relazioni illustrative o argomentative o giustificative, deliberazioni e atti specificamente amministrativi. È un testo scaturito non dalla mente di un unico soggetto pensante, ma dalla dialettica di una molteplicità di soggetti, dai pensieri spesso conflittuali e non sempre emergenti dalle “carte”, di attori che parlano linguaggi spesso diversi e rispondono a diverse fedeltà disciplinari e culturali. Ma Schiavo non è contenta di questa difficoltà e l’aumenta dando al termine “piano” un significato più largo, e comprendendo in esso tutto ciò che ne connota il contesto: dagli articoli di giornale alle conferenze, dalle leggi, al quadro politico e amministrativo.
Un’operazione, quindi, davvero piena di rischi. Per cercar di evitarli, o almeno per avere qualche speranza di ridurne l’impatto, Schiavo costruisce un ricchissimo deposito di letture derivate da una congerie ampia di saperi. Dà prova, in tal modo, di saper percorrere e utilizzare una panoplia assai vasta di discipline: è un modo di dimostrare che un urbanista è in primo luogo un esploratore attento dei campi vicini ai suoi. Molto al di là della formazione canonica di un urbanista è però la forte capacità, che Schiavo dimostra, di teorizzare e di creare interazioni suggestive tra concetti e strumenti appartenenti a sfere disciplinari diverse dall’urbanistica ma con essa relazionabili.
In modo spesso spericolato e, per così dire, senza rete: invece di cimentarsi nella «redazione di un elenco, o un lessico su cui operare, per esempio un’analisi semantica, categorizzazioni tematiche o attribuzioni temporali», l’autrice preferisce «l’avvitamento dentro il testo, l’approfondimento a volte ossessivo e insistente che ha portato ad addentrarsi sempre dentro nuove stanze, alcune irrimediabilmente prive di uscita diretta, attraverso la ricerca di una qualche possibile origine dei termini chiave, pienamente consapevoli dell’impossibilità di raggiungere la vera o l’unica origine, attraverso la scoperta delle infinite fluttuazioni di espressione e di contenuto che le parole sanno veicolare» (p. 58).
L’amuleto che, a somiglianza del topolino bianco d’avorio di Dora Markus, le impedisce di cadere nel vuoto è l’inesauribile capacità di aggrapparsi a una sconfinata serie di riferimenti e citazioni, analogie e riscontri, raccolti percorrendo praticamente tutti i campi dei moderni saperi. Giovandosi di una ricca sequela di argomenti e deduzioni, Schiavo costruisce un suo metodo interpretativo: più precisamente, un sistema di coordinate nel quale ordinare gli elementi del linguaggio urbanistico.
Delle ipotesi che orientano il suo lavoro vorrei sottolinearne due, anche per esprimere su di esse alcune osservazioni.
La prima riguarda la centralità che nel libro assume il piano regolatore comunale (quale che sia la sua denominazione). Questo è presentato come un ipertesto, come un documento che di fatto non solo è un atto suscettibile di regolare le trasformazioni fisiche e funzionali della città, ma è anche un «testo formalizzato» nel quale «si coagulano e prendono visibilmente forma le frammentazioni e le ricostituzioni del sapere disciplinare, strutturate (e successivamente osservate) in relazione alle capacità di riconoscere, interpretare ed eventualmente modificare la realtà esterna» (p. 67). Un testo, insomma, capace non solo di esprimere la cultura dell’epoca, ma di formarla ben al di là della cerchia degli esperti, contribuendo poderosamente a foggiare l’immagine collettiva dell’oggetto al quale si riferisce (la città).
Il rischio che vedo allora è quello di una ipostatizzazione del piano che, caricandolo di troppi significati, e in qualche modo idealizzandolo, gli faccia smarrire le caratteristiche di strumento: utile e, allo stato, insostituibile, ma certo limitato, parziale, suscettibile di mille integrazioni con altri strumenti ugualmente finalizzati.
La seconda riguarda l’attenzione al rapporto tra città e spazio extraurbano. Il «rapporto tra città e territorio esterno» viene assunto come «elemento centrale» per la «rifondazione» del contesto territoriale, cioè per lo svolgimento di «un atto – culturale e materiale – che, in quanto pretende di ripartire dal fundus cioè dal residuo più intimo e nascosto, intrattiene dialettici e spesso difficili e conflittuali rapporti con l’idea di Città preesistente» (p. 62). E il modo in cui, nella successione dei piani regolatori di Barcellona, quel rapporto sia stato nominato (pensato, teorizzato, risolto, definito, regolato nelle procedure e negli istituti, suggerito nelle immagini e nelle fantasie) è uno dei fili conduttori del ragionamento. Ma su questo punto occorrerà tornare.
Schiavo prende in esame praticamente tutti piani che hanno caratterizzato la ricca vicenda urbanistica della capitale catalana a partire dalla metà dell’800. Ed è ovvio che dia un rilievo particolare al piano dominato dalla presenza di quel personaggio, decisivo per la formazione della cultura urbanistica moderna, che fu Ildefons Cerdá. Sceglierlo come punto di partenza del suo lavoro (e in qualche modo suo protagonista) è del tutto ragionevole dato l’obiettivo della tesi. Cerdáinfatti è autore, quasi contemporaneamente, del Plan de Reforma y Ensanche de Barcelona del 1859, e della Teoría General de la Urbanización (pubblicata nel 1867), uno dei testi principali della nascente cultura urbanistica.
Per Cerdá, come per Schiavo, le parole sono decisive. Lo rivela questo brano, che nel libro si riporta con evidenza:
«[…] si comprende che le parole rappresentano idee, e che a ciascuna parola corrisponde un’idea determinata, idea che può non esser stata sempre la stessa, che può essersi modificata col trascorrere del tempo, e aver perso tanto della sua forza originaria o averne acquisita in maggior misura; oppure aver subito con l’uso variazioni analoghe, è chiaro che nel ricercare, con le nostre esplorazioni, la fonte o l’origine di una parola, non cerchiamo le precise varianti che hanno subito le lettere o le sillabe, bensì l’idea a cui quella parola fu in origine applicata e la storia, per così dire, dell’idea nelle sue diverse fasi, storia che non poche volte e con piacere indefinibile trova il filosofo indicata, rivelata dalle sue varianti che le generazioni e i secoli hanno introdotto lentamente ed impercettibilmente in quella parola» (Cerdá, p. 75).
La durezza delle parole, la loro forza, e insieme la variabilità dei loro significati, il percorso dialettico che la loro storia esprime: questo è quello che Cerdá sottolinea, e che a Schiavo soprattutto interessa.
Ma innanzitutto, l’impiego corretto delle parole. Citiamo ancora i suggerimenti che Schiavo raccoglie da Cerdá:
«che non si utilizzi una sola parola di cui non si conosca la genuina origine etimologica […] che non si costruisca una frase che non abbia una struttura grammaticale; che non si faccia nessun discorso che non sia frutto di un adeguato ragionamento» (Cerdá, p. 85-86).
Ammonimento validissimo oggi più che ieri; insegnamento che dovrebbero raccogliere, ad esempio, i moltissimi che impiegano il termine “federalismo”, inventato per unire realtà diverse, per indicare invece la divisione di ciò che è uno; oppure quanti, anch’essi numerosi, impiegano il termine “strategico”, coniato per definire la visione generale e la lunga gittata, per elencare invece le cose concretamente fattibili nell’immediato.
Nel racconto di Schiavo, nella sua interpretazione del lascito di Cerdá e del suo contributo all’urbanistica moderna emerge con chiarezza (a partire dalle parole adoperate e dai loro significati) la forza di quella concezione della città e del territorio che ha saputo trasformarli costruendo nuovi valori – e anche la carica distruttiva dei valori preesistenti implicita delle parole stesse della sua missione.
Afferma Schiavo: «I due termini Reforma (riforma) ed Ensanche (espansione) esprimono chiaramente il rapporto con la storia e con le preesistenze. “Riforma” è riferito alla città storica, da modificare, adeguare e riformare ma che viene comunque riconosciuta come preesistenza con la quale misurarsi. Il termine “espansione” è significativo del rapporto con l’intorno agrario; questo non viene né riconosciuto, né identificato come elemento da tutelare o salvaguardare» (p. 93).
La città storica viene trasformata, le preesistenze vengono assorbite, il territorio fino ad allora extraurbano viene conquistato in un nuovo disegno, in un “progetto”, in una nuova “forma urbis” (la scacchiera minuziosamente definita in tutti i suoi elementi e le sue quantità) che si sovrappone a ciò che v’era prima, cancellandolo. «Nella visione di Cerdá non esistono tracce storiche che possiedono un valore particolarmente elevato, e non esiste città ideale se non quella futura» (p. 95) e, come nel piano di Barcellona, così nella Teoría General, continua l’autrice, «muta radicalmente l’idea di città che viene vista […] come sistema territoriale indefinito e in espansione. L’antica reciprocità città/campagna si trasforma passando da un rapporto di dipendenza proprio dell’età feudale […] ad un rapporto di sfruttamento/rimozione, appartenente al modello urbano capitalista: contemporaneamente si dissolve l’antica dicotomia verbale e concettuale, di matrice medievale, tra “extra muros” e “intra muros”» (p. 111).
Come Schiavo ancora annota, inseguendo nei loro significati molteplici parole pronunciate in contesti differenti, la proposta operativa di Cerdá è espressione matura di un’ideologia nella quale il termine “civiltà” viene pressoché interamente ridotto al termine “sviluppo”, e quest’ultimo è a sua volta riconducibile al termine “espansione”. L’urbanista è l’attore che, adoperando gli svariati saperi che le numerose discipline utilizzabili mettono al suo servizio, inventa, propone e rende concreta una “forma urbis” capace di assicurare, attraverso una ben orientata e organizzata “espansione”, l’ulteriore “sviluppo” e quindi il progredire della “civiltà”.
Emblematico di questa ideologia è la rottura fisica delle mura della città. A Barcellona questa era avvenuta, ricorda Schiavo, qualche decennio prima di Cerdá. Ma lui prosegue lucidamente nell’operazione e, in un brano sottolineato dall’autrice descrive l’area limitrofa alle mura storiche come una «zona incolta dove è impossibile costruire», affermando:
«l’azione delle mura è così potente e funesta […] che, dopo aver costretto e compresso le forze di urbanizzazione, naturalmente tendenti all’espansione di un nucleo urbano, trasforma in deserto una grandissima estensione di terreno che avrebbe potuto essere vantaggiosamente urbanizzato» (Cerdá, p. 114).
“Rompere le mura” è un atto che ha avuto un significato simbolico e pratico fino ai giorni nostri. La citazione di Cerdá mi ha fatto venire in mente un altro personaggio, Enzo Miglietta. Era un pittore e poeta naif, di un paese del Leccese, di cui mi capitò anni fa di presentare una raccolta di singolari disegni commentati da poesie. Gli chiesi come mai le sue opere raccontassero la costruzione di strade e case, e insieme di muretti a secco e ridenti campagne. Mi raccontò che il suo lavoro di geometra e imprenditore consisteva nel comprare campi (i bellissimi campi cintati da grigi muretti a secco, rossi di terra e verdi di olivi, che circondano Lecce), buttare giù i muretti, costruire strade e vendere i lotti. Il momento più gioioso – mi disse – era «rompere il muro ed entrare nel campo con la ruspa». Miglietta aveva smesso di portare il suo contributo alla distruzione del paesaggio, ed era diventato pittore e poeta, quando la “legge ponte” del 1967 diede all’urbanistica italiana qualche regola nuova, orientata a una maggior tutela dei valori del territorio. Per proteggere un po’ meglio le campagne italiane bastò la “legge ponte”; per superare l’ideologia civiltà-sviluppo-espansione il cammino è ancora lungo, così radicati sono ancora nella cultura italiana i miti dell’800, che Cerdá limpidamente esprimeva.
Seguire Schiavo nel percorso che la conduce attraverso i piani di Barcellona (da quello di Cerdá del 1859 al Plan de Ordenación de Bercelona y su zona de influencia del 1953, al Plan Director del Área Metropolitana del 1966, al Plan General de Ordenación Urbana y Territorial de la Comarca de Barcelona del 1974) significa viaggiare in molte dimensioni. Significa attraversare le diverse fasi dello sviluppo della città e del suo territorio, il succedersi dei problemi economici e sociali e delle proposte politiche. Significa seguire le trasformazioni e deformazioni e ri-significazioni dei termini consueti, e l’invenzione di termini nuovi: strumenti della volontà di trasformare la realtà fisica e quella sociale mediante il piano. E significa incontrare la parallela evoluzione della cultura urbanistica europea e ragionare sulla formazione di quella disciplina inquietante ed inquieta, di quella «scienza di sintesi» (come giustamente la definisce l’autrice) tra saperi e tecniche mutevoli: appunto l’urbanistica.
Nell’arazzo tessuto da Schiavo, in cui la trama è costituita dalle vicende urbanistiche della città catalana, l’ordito è costituito dalle parole che esprimono i diversi momenti, strumenti, acquisizioni, velleità e illusioni della teoria e della tecnica della pianificazione. Confine, limite, margine, delimitazione, frontiera, interfaccia; città, territorio, spazio, espansione, macchia d’olio, città compatta, dispersione urbana, organico, struttura, città-regione, città-territorio, comarca, area metropolitana, hinterland, area vasta; forma urbis, densità, coefficiente di edificabilità, standard, congestione, riequilibrio, zonizzazione, maglia urbana, maglia isotropa, maglia viaria, rete di connessione; centro, centro storico, suburbio, periferia, centro direzionale.
Le parole dell’urbanistica (o le parole dell’urbanista) sono ovviamente le regine del testo. A volte l’analisi della vicenda catalana, più che l’oggetto proprio del lavoro, sembra un pretesto: l’occasione per parlare delle discussioni di oggi tra gli urbanisti italiani.
Ed è proprio in relazione alle discussioni di oggi che vorrei formulare un’ultima osservazione. Nel lavoro di Schiavo l’analisi si esercita – come ho più volte affermato – sulle parole. Dietro le parole, ci sono le idee e le pratiche: nella fattispecie, c’è il concreto del lavoro dell’urbanista.
Ora, a proposito del “linguaggio urbanistico”, Schiavo osserva che esso “non è una forma espressiva dotata, al di là di pulsioni teoriche tendenti verso monodromia e stabilizzazione, di elevato regime di univocità” (p. 256). Benché siano legittime le ragioni della “tensione disciplinare verso la stabilità, l’unicità dei linguaggi”, benché sia comprensibile l’aspirazione alla “formazione di un linguaggio non arbitrario, normativo, e di codici condivisi”, esse non sembrano convincere l’autrice. Essa sottolinea infatti che “le variazioni dell’objectum (la città e/o il territorio), dei paradigmi e dei riferimenti esterni e interni, e la stessa indeterminatezza di quella scienza vaga, sfuggente e in fieri che è l’urbanistica collocano il ‘linguaggio’ disciplinare in un campo di estrema e feconda instabilità e mobilità”.
Questo atteggiamento mi sembra sensato. Vi è tuttavia il rischio che la “instabilità e mobilità” si riflettano dal linguaggio alla pratica: se panta rei, se tutto scorre, dove poggerò i piedi per rendere migliore l’ordinamento della città e del territorio oggi? Con quali parole esprimerò le certezze, che pur devo esprimere, se voglio che le mie proposte siano convincenti e si traducano in fatti?
A me sembra che la risposta possa essere fornita da un atteggiamento empirico, che si traduca in una chiara enunciazione della interpretazione della realtà che ci si propone di trasformare, degli obiettivi che ci si propone di raggiungere, del percorso che si intende seguire per raggiungerli, degli strumenti che si intende adoperare o foggiare, delle verifiche che si intende compiere lungo il percorso. Ma avendo, come suggerisce Schiavo, “la consapevolezza della provvisorietà dei termini”. Precisando quindi con quale esatto significato si intenda adoperare i termini ambigui, o quelli cui si intende conferire un senso nuovo, o quelli che si coniano ad hoc. Non fece così, del resto, Ildefonso Cerdà?
Two threats hang over Venice. The first comes from inside: the city’s crawling transformation into a chaotic “Disneyland”. The second comes from outside: it is represented by the “MoSE”, a huge dam project whose foundation stone was laid by Mr. Berlusconi (who else?) some weeks ago.
The MoSE (from Experimental Electromechanical Module) is a very “hard” and gigantic system of mobile barrages (they entail huge permanent installations) to block water at the three outlets between the Lagoon of Venice and the sea (the bocche di porto). The Lagoon’s environmental equilibrium depends on the exchange of sea and brackish water through these outlets. This includes the equilibrium of the waters, of vegetation, and of fauna in this precious natural environment. The MoSE would automatically block the access of seawater when tidal surges threaten to flood some of the city’s inhabited areas.
Why is this system judged by many to be of uncertain utility, harmful for the activity of Venice’s port (one of the main economic resources of the city) and devastating for the ecological equilibrium of the lagoon? In short, why do many consider the “MoSE” to be a “Mo(n)S(t)E(r)”. We will try to explain.
Venice was built on low islands and sandbanks in the middle of a rich coastal lagoon. For over 1,000 years storm surges have washed exceptional high tides into Venice’s squares and alleys. Venetians call them acque alte – high waters – and, typically, they last two to three hours at a time.
In November 1966 pounding rain and an exceptional wind-swept tide flooded nearly all the city streets for 24 hours. The storm focused world attention on Venice. The reason? Venice had “sunk”.
Since the early 1920s mainland factories have tapped underground freshwater, depressing the land under Venice in the process. By the time pumping was finally stopped in the 1970s, Venice had sunk by about 12 centimeters (almost five inches) – a small but important altitude change for a sea-level city.
In addition, deep shipping channels were dredged through the lagoon’s three inlets to transport raw materials – including crude oil for a neighboring petrochemical complex. The deeper channels brought stronger currents, speeding the Adriatic’s high tides towards Venice, exacerbating flooding and eroding the lagoon’s salt marshes.
And, the final nail, the northern Adriatic has risen by about 10 centimeters over the past century.
Today waters wash across St Mark’s Square – Venice’s lowest point – 50 or more times a year. Heavier storm surges now flood higher sections of Venice, too, forcing residents to don waterproof boots to reach their offices and schools.
The November 1966 event led to a far-sighted 1973 law to protect Venice, much discussion, and limited action. In the early 1980s, a new organization was created: the Consorzio Venezia Nuova (the New Venice Consortium), uniting private and state-owned companies vying for what promised to be fat public works contracts to protect the city.
The Italian government soon named the New Venice Consortium its ‘exclusive concessionaire’ for public works to safeguard Venice. This means that the consortium essentially holds a monopoly on state-funded work to ‘save’ Venice and protect its lagoon, for everything from strategic planning to research, project design and construction. And since 1984 the Italian government has provided the consortium with over two billion Euros to study the lagoon’s ecology and hydrology, rebuild sea walls along the lagoon’s barrier islands, restore salt marshes and much more. All without any competitive bidding.
Of course, the great prize is the “MoSE”, the system of dams that the Consortium designed and now wants to build. To stop the flooding, Consorzio Venezia Nuova (the New Venice Consortium) has proposed a gigantic dam system: a line of 78 huge metal containers – each at least 20 by 20 metres in size – nestled in underwater foundations stretching across the three inlets between the Adriatic and the lagoon (each inlet is up to half a kilometre wide). For most of the time the hollow containers would be filled with water. To stop a storm surge from the Adriatic, air would be pumped into the containers – causing them to rise like enormous teeth across the inlets.
Look here to understand better what Mo.S.E. is Ú
Behind the Consortium (holding 40 per cent of its shares), is Impregilo – a Milan-based construction giant that builds dams, highways and power plants in over 40 countries.
The supervision of the concessionaire provided by the national government’s office in Venice (the Magistrato alle Acque), has been weak at best. The Consortium rather than the Magistrato holds nearly all the technical capacity and knowledge. Indeed, the Magistrato has hardly ever made a public proposal that differs from the Consortium’s position.
The Consortium and its allies are masters at PR. One little event can help to understand how they are able to employ the resources provided by the Italian Government to overcome all, even official, opposition to their “MoSE” project. In December 1998, Italy’s national Environmental Impact Assessment Commission failed the “MoSE” project. The next month, four professors from the Massachusetts Institute of Technology (MIT) flew to Rome and held a press conference criticizing the decision. The dams, they said, were the best solution for Venice. They spoke, the Italian press reported, for MIT and for the ‘international scientific community’. Few papers noted that they were paid consultants to the consortium.
With its powerful, legally sanctioned role and its combination of PR savvy, technical expertise and political connections, the consortium has pushed its dam project steadily – like a steamroller.
Attempts to reform the state’s curious institutional structure in Venice have come to naught. For example, a 1995 law ended the system of exclusive concessionaire. The Italian Senate the next year passed a resolution calling on the government to carry out this law immediately. Nothing happened. Nor has Italy’s government created an independent strategic planning office for Venice and its lagoon, despite official decisions to do so.
Even European law has been interpreted in unexpected ways. Responding to the Green Party and Italy’s leading environmental group Italia Nostra in 1999, the European Commission opened an investigation into whether EU directives requiring competitive bidding for government contracts had been violated. Brussels initially took a hard line. But two years later the commission closed the case, accepting a proposal from the Italian government: components of the dam project (perhaps worth half its total value) would be open for bidding, but the bidding would be organized not by the government but the Consortium. Thus, the concessionaire was given even more power.
To understand why we call the Mo.S.E. “A Dangerous Monster”, we must note that the equilibrium of the lagoon has depended for centuries on daily work to manage its numerous elements (the length and depth of the thousands of canals, characteristics of the vegetation, defence of the coastline, extension of the brackish basin, level of sediment supplied by the rivers).
This human intervention has for centuries protected and maintained a precious natural environment. Only thanks to this control has it been possible to defend the lagoon from the two natural destinies it could face: to become a swamp and eventually mainland, if the sediment flows were to prevail, or to become an open bay, if the force of the sea was to prevail.
Only a modern systemic vision allows us to preserve that equilibrium today. The solution to the exceptionally high tides (acque alte) is closely connected. As noted above, these acque alte have become steadily more aggressive as a consequence of several factors:
- the (now ceased) extraction of underground waters for industrial purposes in the Marghera industrial plants;
the reduction of the area where the tide can expand (caused by filling in parts of the Lagoon and the closure of fishing areas to the tides);
- the gigantic increase in the cross-section of shipping channels, allowing high tides to rush towards the city (in particular through the oil tanker); and finally
- a rise in the sea level (due to the global climatic events).
In the debate over the “MoSE”, local political forces concerned about the environment and interested in a sustainable development are opposed to those interests seeking economic opportunities linked to the public works. This debate can be summarized in the contrast between two projects: the MoSE and a low-impact alternative that has never been considered at official level.
Very schematically, the alternative approach has as its primary aim re-balancing the complex system of the lagoon, by acting on the whole set of elements that compose it. In a recent document (see in Annex) the main lines of the project include:
1. Reducing the depth, width and wind exposure of the Lagoon's three outlets to the sea. These measures can be compatible with current port traffic, and they would be experimental, gradual and reversible.
2 Completing work to raise the lowest parts of the city. The Venice City Administration is now systematically raising low points of the city as it undertakes urban maintenance, By raising and protecting low areas such as St. Mark’s Square, high-water flooding events could occur an average of less than 4 times a year, in most cases for only a limited duration and for only a small part of the city.
Together, these two first types of actions would reduce current flooding events to an average of only once every five years.
3 Removing oil tanker traffic from the Lagoon - as specified under Italy's 1973 special law for Venice - and building a dock along the Lido, outside the Lagoon, for the largest cruise ships that visit Venice would allow a further reduction in the depth of outlets and of shipping channels, eliminate additional flooding events, and help restore the Lagoon's environmental equilibrium.
Other vital actions are needed to protect this World Heritage Site: the Lagoon's morphology and its hydrodynamics need to be restored, water pollution in the Lagoon and its water basin should be reduced, and the production and movement of dangerous goods in the Lagoon should be stopped. (from the Appeal to UNESCO by the Committee to Save Venice with its Lagoon – see Annex.)
The official project (Mo.S.E.) proposes a heavy engineering approach that is pharaonically expensive, of uncertain effectiveness, potentially very harmful for the relevant elements of the ecosystem of the lagoon (and for its whole equilibrium) and irreversible.
But let us look a little closer at this “Mo(n)S(t)E(r)”.
The political and PR power of the New Venice Consortium has heavily conditioned all the information about the Mo.S.E.. A propaganda campaign has convinced Italian and international public opinion that the Mo.S.E. is necessary to save Venice. But the Consortium’s propaganda omits some basic information.
1 The proposed dams failed their official environmental impact review in 1998.
2 The consortium wants to dredge about five million cubic meters of the Lagoon’s bed and dump almost eight million tons of rock and 700,000 tons of concrete in its place: altogether, enough material to build the three great Egyptian pyramids at Giza! At the Lido inlet, the consortium wants to build a new, artificial island. Over 50,000 tons of sheet metal would be submerged in the form of the container-shaped gates.
3 During long closures the dams could bottle up industrial and agricultural pollution in the lagoon, which is now flushed by the regular tides. The city also lacks modern sewage treatment. The 1998 review noted that predicting exceptional high tides is an uncertain business. The dams may need to be raised following many false alarms, thus increasing pollution risks.
4 Anodes to protect the metal gates from sea-water corrosion would release over 10 tons of zinc into the lagoon a year. The toxic metal could accumulate in the food chain.
5 The consortium’s project ignores a fundamental cause of flooding in Venice – the deep shipping channels through the lagoon’s inlets. The consortium wants to open them even further, replacing their current V shapes with straight cuts across the full width of each inlet. This, warns Paolo Perlasca of WWF/Italy’s Venice office, risks accelerating erosion in the lagoon and endangering its remaining salt marshes and mud flats, which are protected (at least on paper) by the European Union’s Habitats Directive.
6 The dams would be expensive to build. The consortium estimates total costs at over three billion Euros, but critics warn that the never-before-built system could cost far more.
7 After construction, the Consortium could then reap millions of dollars a year for their operation and maintenance. These costs are also extremely difficult to estimate, as the underwater structure would face ongoing corrosion and encrustation and would require extensive maintenance.
8 The dams may not even protect Venice from flooding. Global warming and sea-level rise could make them obsolete within a few decades. Renowned Venetian climate change scientist Paolo Antonio Pirazzoli writes that the dams ‘could hardly cope with a relative sea-level rise much greater than about 0.3 meters’. In its 2001 report, the UN’s Intergovernmental Panel on Climate Change gives as its most likely estimate for 2100 a 0.48-metre sea rise. The UN’s worst-case scenario forecasts this rise occurring within a few decades. Pirazzoli also predicts that water would pass between the dams’ containers, which would be an important factor during long closures. Also, in Venice’s worst flooding (as in 1966) torrential rains and swollen rivers add to the rising tides.
Business and politics in Italy have become in the last years two faces of the same coin. The prime minister is the country’s richest man and owner of a sprawling media empire that includes three national TV networks. Berlusconi’s government has shown little interest in the environment: last October, his environment minister sacked 23 of the 40 members of the national environmental impact commission. The government appears to have wiped negative impact assessment of the “MoSE” from its memory.
Last year the new government allocated 450 million Euros for the first tranche of the dam project: a series of ‘complementary works’, including shipping locks to appease the Port of Venice (the only major economic interest with reservations about the scheme). Berlusconi has cut all other national money for Venice: all its funds for architectural restoration, for the city’s unique maintenance needs, and more.
Flooding is not Venice’s only environmental crisis. The nearby petrochemical complex is a highly polluting time bomb. In November, a toxic fire there nearly engulfed storage tanks containing deadly phosgene gas. In addition, mechanical clam-fishing techniques are destroying the ecology of the lagoon’s shallows. And motorboats bringing tourists and cargo through the city erode the canal walls – the foundations of Venice’s palaces. All these problems need public funds to help find solutions.
In Venice opposition to the dams continues. In September 2002 both the city and the provincial councils voted against the ‘complementary works’. In December an environmental alliance called Salvare Venezia con la Laguna (Save Venice with its Lagoon) presented its strategy to restore the lagoon’s equilibrium. Unlike the consortium’s risky surgery, the environmental proposal targeted Venice’s underlying illness. And in January 2003, political parties in the city sponsored public debates on the dams and possible alternatives – alternatives that the national government ignored when it approved the “MoSE” later this year.
What Venice needs, wrote US scientists Albert Ammerman and Charles McClennan in the journal Science two years ago, is ‘fresh thinking in the search for new, alternative solutions’. In Rome’s halls of power, however, there’s only one official project.
But time is running out: in April 2003, Italy’s national government gavea final go-ahead to the dams, and Berlusconi himself went in Venice to inaugurate what he called the beginning ofconstruction. Must we conclude that “ tout les jeux sont faits ”? I don’t think so. The Consortium will be busy for a couple of years building preliminary works – not the dams themselves.
If all those who oppose the Mo. S. E. and all those that have doubts about its utility couldexplain to international public opinion the real dimensions of the problem, perhaps we could stop this project that threatens to cancel the Lagoon of Venice and its environment, not less precious than the city’s stones, palaces and campi. This is our hope.
(This paper is based on an earlier article, “Death of Venice”,
by Anthony Zamparutti, The Ecologist, London, March 2003.)
This Appeal to Unesco was promoted from the “Committee to Save Venezia with its Lagoon”. The following groups support the Committee: Wwf-Italia, Italia Nostra, Verdi Ambiente Società, Sinistra Ecologista, Medicina Democratica, Camera del Lavoro Metropolitana di Venezia-Cgil, Associazione Airis, Associazione Bortolozzo, Associazione Batteria Rochetta e Dintorni, Associazione per la Difesa dei Murazzi Circolo Margaret Thatcher, Comitato Certosa-Sant'andrea Ecoistituto "Alex Langer" Del Veneto Estuario Nostro; Gruppo per la Difesa del Litorale – Cavallino, Gruppo Salvaguardia Ambiente "La Salsola".
We present this appeal about the grave risk facing Venice and its Lagoon to the leaders gathered here in Venice on the 30'` anniversary of UNESCO's World Heritage Convention.
Italian special laws protect this World Heritage Site, comprised of Venice jointly with its Lagoon.
Over nearly 20 years, however, the capacity of the Italian State to manage and protect Venice and its Lagoon has been steadily weakened. Since 1984, the Italian government has delegated all state actions - from studies and research to project design and construction - to a single, exclusive, private concessionaire, the Consorzio Venezia Nuova. Thus far, this Consortium has received 2.5 billion Euros of public money for such works. The Consortium has proposed a colossal system, commonly called "MoSE": three mobile dams across the Lagoon's three outlets to the sea to counter high-water flooding in Venice.
Italy's National Environmental Impact Assessment Commission, whose review was required under law, gave the dams a negative judgement. The entire project is unsustainable and obsolete:
• Both its construction and maintenance would have heavy and permanent impacts on the Lagoon.
• It is neither experimental, nor gradual, nor reversible - key requirements under Italy's special' laws for Venice - and thus does not respect the precautionary principle.
• The project is not able to respond to fast-rising high waters (unless there are frequent "false closures" - i.e., the mobiles dams are often shut for false alarms).
• The project will not defend Venice from flooding in the event of worst-case scenarios for sealevel rise caused by global climate change.
The "MoSE" is presented as a project that will "save" the city from high water flooding, a message broadcast at international level with expensive public relations. The Italian government appears ready to build this obsolete design, whose negative impacts have been increased by the recent addition of "complementary structures", including shipping locks. The national government, in its 2003 budget, proposes 600 million Euros for the first phase of the "MoSE" project, but earmarked nothing for other essential protection measures in Venice - such as the architectural restoration of the city, pollution control and environmental re-equilibrium of the Lagoon, and alternative measures to reduce flooding.
In September of this year, the Venice City Council and the Venice Provincial Council both voted a negative assessment on the initial, "complementary structures" of the MoSE, specifically the shipping locks. Both Councils called for the design and construction of alternative works, independent of the "MoSE", to increase effectively the "dissipative capacity" of the Lagoon's three outlets and thus to reduce high tide peaks.
Indeed, effective and sustainable alternatives exist to defend the city now from most flooding and help return the Lagoon to environmental equilibrium. Among actions to be taken immediately:
1. Reducing the depth, width and wind exposure of the Lagoon's three outlets to the sea. By eliminating the majority of flooding events. These measures can be compatible with current port traffic, and they would be experimental, gradual and reversible.
2 Complete work to raise the lowest parts of the city. Venice lies between +80 and +200 cm above the mean sea lever mark. The Venice City Administration is now systematically raising low points of the city as it undertakes urban maintenance.
Protecting St. Mark's Square, the lowest part of the city and thus the most exposed to flooding, is slightly more complicated. Now at last, the separate work to raise the borders of the St. Mark's area will begin.
By raising and protecting low areas to +110 cm above the mean sea level mark, high-water flooding events would occur an average of less than 4 times a year, in most cases for only a small part of the city. Raising and protecting them to +120 cm will cut flooding to an average of only 1.5 times a year, for a total duration of little more than 2 hours a year.
Together, these two types of actions would reduce current flooding events to an average of only once every five years.
3 Removing oil tanker traffic from the Lagoon - as specified under Italy's 1973 special law for Venice - and building a dock along the Lido, outside the Lagoon, for the largest cruise ships that visit Venice would allow a further reduction in the depth of outlets and of shipping channels, eliminate additional flooding events, and help restore the Lagoon's environmental equilibrium.
Other vital actions are needed to protect this World Heritage Site: the Lagoon's morphology and its hydrodynamics need to be restored, water pollution in the Lagoon and its water basin should be reduced, and the production and movement of dangerous goods in the Lagoon should be stopped.
Once all these actions are taken to protect the city and its Lagoon, together with the sea defense system already built along the Lagoon's outer coast, an effective, environmentally compatible, and affordable system to protect Venice will be in place. Following- this, an appropriate project to protect against sea-level rise could be realized.
Venice jointly with its Lagoon is a unique part of the world's common heritage. They deserve the most sustainable strategies for protection and restoration.
Comitato "Salvare Venezia con la Laguna"
La legge urbanistica del 1942
Una buona legge urbanistica, quella che la Camera dei Fasci e delle Corporazioni approvò nel luglio del 1942, nel pieno della seconda guerra mondiale [1]. A rileggerla oggi così come allora fu approvata, sfrondata cioè dalle integrazioni e superfetazioni che la imbarocchirono, essa appare singolarmente snella e chiara, ragionevolmente aperta all’efficacia; certamente datata in certe formulazioni ma interpretabile e implementabile dall’azione amministrativa e da quella culturale in altre parti: come del resto è necessario che una buona legge sia.
E’ questa legge che costituisce il riferimento per tutta l’attività di pianificazione urbana e territoriale e di programmazione dell’intervento nell’edilizia. Le leggi intervenute successivamente (sia quelle nazionali fino al 1970, sia quelle emanate dalle regioni dopo la loro istituzione) hanno aggiunto nuovi elementi, spesso hanno complicato, a volte (soprattutto nell’immediato dopoguerra e nel corso degli anni ‘80) hanno contraddetto, ma non hanno sostanzialmente mutato l’impianto originario e, in particolare, il meccanismo di pianificazione allora previsto. Conviene perciò ricordare gli elementi essenziali della “legge madre” dell’urbanistica italiana.
Il centro della legge è il Piano regolatore generale comunale (PRG). E’ esteso a tutto il territorio del comune (prima i piani riguardavano, in Italia, o “l’ampliamento”, cioè le zone d’espansione, o il “risanamento”, cioè la città esistente). Ogni comune ha la facoltà di formarlo ma il Ministero dei lavori pubblici stabilisce periodicamente quali comuni sono obbligati a farlo: il primo elenco comprende tutti i capoluoghi di provincia e i comuni con oltre 20 mila abitanti. I comuni non dotati di PRG sono comunque tenuti a disporre di un Regolamento edilizio, corredato da un Programma di fabbricazione, che costituisce lo strumento minimo di disciplina delle trasformazioni edilizie.
Il PRG ha un carattere “generale”: definisce le grandi linee dell’assetto fisico e funzionale del territorio (le reti infrastrutturali, l’articolazione del territorio in “zone” diversamente caratterizzate, gli spazi pubblici e le attrezzature collettive). La specificazione delle scelte del PRG è affidato al Piano particolareggiato d’esecuzione (PPE), il quale determina la composizione urbanistica delle parti di città cui si riferisce. Mentre il PRG ha validità a tempo indeterminato, il PPE ha validità definita per un tempo non superiore al decennio. A ben vedere, il rapporto tra PRG e PPE prefigura la distinzione tra due componenti della pianificazione, quella “strutturale” valida a tempo indeterminato, e quella “programmatica” riferita al tempo del mandato amministrativo, che è da qualche anno al centro del dibattito sull’urbanistica [2].
.La legge del 1942 pone particolare attenzione all’attuazione delle scelte della pianificazione. Essa prevede in particolare la possibilità dei comuni di espropriare,”entro le zone d’espansione dell’aggregato urbano” definite dal PRG, “le aree inedificate e quelle su cui insistano costruzioni che siano in contrasto con le destinazioni di zona ovvero abbiano carattere provvisorio”. Una norma che avrebbe consentito di costituire rilevanti demani di aree e di governare davvero l’espansione delle città, ma che in pratica fu adoperata, nell’immediato dopoguerra, dal Comune di Grosseto e da un piccolo comune in provincia di Roma, Vicovaro [3].
Se il centro della legge è, come si è detto, il piano comunale, essa non trascura la necessità di affrontare anche problemi di “area vasta”. Nel prevedere il Piano territoriale di coordinamento e il Piano regolatore intercomunale il legislatore, e i suoi consiglieri, hanno certamente avuto presente l’esperienza dell’urbanizzazione programmata della Pianura pontina e la necessità di governare unitariamente le trasformazioni del territorio di più comuni limitrofi. Il primo, formato “allo scopo di orientare o coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale”, può essere redatto dal Ministero dei lavori pubblici, il quale determina l’ambito al quale deve essere esteso. Il Piano regolatore intercomunale è previsto nelle situazioni in cui “per le caratteristiche di sviluppo degli aggregati edilizi di due o più comuni contermini si riconosca opportuno il coordinamento delle direttive riguardanti l’assetto urbanistico dei comuni stessi”.
Una buona legge quindi, quella del 1942, una legge moderna. Afferma l’urbanista Vezio De Lucia,
La nuova legge era stata preceduta da lunghi studi e non può essere liquidata tout court come una legge fascista. Nelle commissioni legislative del Senato e della Camera dei fasci e delle corporazioni si scontrarono i difensori ad oltranza della proprietà privata con quelli che alla proprietà intendevano porre dei limiti. Intervenne anche l’Inu (Istituto nazionale di urbanistica) che aveva elaborato una proposta basata sull'esproprio preventivo delle aree urbane. Alla conclusione del dibattito, il ministro dei lavori pubblici Giuseppe Gorla poteva comunque dichiarare che la legge approvata “non può far timore ai galantuomini, ma solo a coloro che, attraverso il diritto di proprietà, vogliono difendere la speculazione”[4].
E il giurista Gianni Lanzinger:
La legge urbanistica approvata nell’agosto 1942 confermava e sistemava definitivamente non solo la destinazione delle aree ad opera dei pubblici poteri, ma conteneva anche una nuova conformazione della proprietà edilizia tale da superarne la concezione antistorica di inviolabilità. Ne veniva cioè cambiato regime e struttura senza cambiarne l’appartenenza. (...) La legge 1150/1942 è dunque un momento alto della cultura giuridica in quanto, funzionalizzando la proprietà a fini d’interesse collettivo, assegnava all’urbanistica (come governo del territorio) il compito non soltanto di disciplinare “l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati”, ma anche “lo sviliuppo urbanistico in genere del territorio”[5]
La legge urbanistica del 1942 aveva posto le premesse per un possibile razionale governo del territorio e dell’attività edilizia. Come mai i suoi esiti sono stati così deludenti? La risposta è negli avvenimenti della guerra e del dopoguerra. Negli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione, fino al 1945, gli eventi bellici non permisero di applicarla, e - più sostanzialmente - provocarono distruzioni ingenti e diffuse. E’ poi nell’immediato dopoguerra che si gettano le basi di quella “filosofia” dell’intervento pubblico nel settore che prevarrà (a volte contraddetto e contrastato, a volte sviluppando una piena e dispiegata egemonia) nella seconda metà del secolo: la filosofia della rincorsa dell’emergenza e del privilegio dei meccanismi “spontanei” del mercato.
I danni provocati dalla guerra sono enormi, sebbene meno gravi che in altri paesi europei. È colpito il patrimonio abitativo, le infrastrutture: sono distrutti più di tre milioni di vani, un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono accentuati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Drammatico il problema della casa; già prima della guerra la siduazione era pesante: nel censimento del 1931 erano stati rilevati 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze.
In molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale. In Italia è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva. Con l’alibi di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso “dispositivi agili e di emergenza”, fu accantonata la legge urbanistica e fu varata la legge sui piani di ricostruzione[6]: uno strumento semplificato, rozzo, privo di basi analitiche, finalizzato a far presto: qualche macchia di colore su di una carta per indicare le zone d’espansione, qualche segno nella città edificata per indicare i nuovi allineamenti.
Finalità dei piani di ricostruzione doveva essere di “contemperare le esigenze inerenti ai più urgenti lavori edilizi con la necessità di non compromettere il razionale futuro sviluppo degli abitati, e ciò attraverso soprattutto una procedura più semplice di quella prevista per i piani regolatori”[7]. In realtà la logica dei Prg fu abbandonata, e sostituita con la grossolana individuazione delle aree da rendere edificabili, con grande larghezza e senza nessuna preliminare analisi.
La legislazione speciale per l’”emergenza” della ricostruzione fu impiegata per molti anni, ben al di là del cessare dell’esigenza che l’aveva giustificata: i piani particolareggiati del centro storico di Venezia adottati nel 1974, trent’anni dopo la fine della guerra, furono formati sulla base di quelle semplificate disposizioni. In realtà la scelta che fu compiuta in Italia in quegli anni (a differenza che in altri paesi europei) fu quella di assegnare un ruolo determinante per la ripresa economica a un’attività edilizia interamente abbandonata alle leggi del più sfrenato spontaneismo.
Negli anni del centrismo di De Gasperi ed Einaudi (nell’arco di tempo che va dalla rottura dell’alleanza antifascista, nel 1948, fino al primo governo di centro-sinistra, nel 1962) ciò che soprattutto doveva sembrare irresistibile era il ruolo insieme economico, sociale e ideologico che poteva essere svolto da un’attività edilizia finalizzata alla costruzione di alloggi in prevalenza assegnati in proprietà.
Da una parte, su terreno strettamente economico, a differenza dell’industria, “iI settore edilizio si prestava ottimamente al ruolo trainante, o quanto meno di collaborazione” alla ripresa economica, “sia perché non richiedeva in partenza né impianti costosi, né imprenditori particolarmente esperti, né mano d'opera qualificata, né materiali di importazione. sia perché rispondeva ad una esigenza sociale sentitissima che era quella della ricostruzione fisica delle città e della dotazione individuale di una dimora sicura come bisogno primordiale”[8]. E del resto, in una fase in cui l’ingresso dell’economia italiana nel mercato internazionale cominciava a svelare la marginalità di parti consistenti del settore agricolo (artificiosamente gonfiato dalla politica fascista dell’autarchia), e si manifestavano i primi segni di quel drammatico esodo dalle campagne che caratterizzò gli anni ‘50 e ‘60, il settore delle costruzioni si dimostrava particolarmente idoneo a svolgere una funzione di volano nel passaggio della mano d’opera dall’agricoltura all’industria. Per un contadino, il passaggio a manovale e poi a muratore era l’inizio di un’apprendistato che lo avrebbe reso idoneo alla “moderna” catena di montaggio dell’industria.
Dall’altra parte, il ruolo socialmente stabilizzatore della proprietà della casa contribuiva a rinsaldare ed estendere il consenso attorno al blocco politico aggregato attorno alla Democrazia cristiana. Era un ruolo, insomma, in piena sintonia con le politiche di consolidamento ed espansione della piccola proprietà contadina, e di forte sostegno allo sviluppo della motorizzazione individuale di cui in quei medesimi anni si ponevano le basi.
Ma proprio per quel complesso di “utilità” economiche, sociali e politiche cui era finalizzato, lo sviluppo dell’industria delle costruzioni era affidato a una particolare “formato” del settore. Un formato caratterizzato da una grande molteplicità di centri imprenditoriali, da un basso livello di attrezzatura e di qualificazione tecnica (di capitale sociale), da un intreccio - nell’ambito del medesimo soggetto, o della medesima famiglia - di rendita fondiaria, profitto capitalistico e salario: spesso era lo stesso fondo della famiglia contadina, “in transizione” verso l’industria, a costituire la prima risorsa, e gli attrezzi agricoli i primi strumenti di lavoro per avviare la formazione di una impresa edilizia.
Evidentemente, lo sviluppo di una siffatta edilizia, come osserva AlessandroTutino
richiede che non si pianifichi: per molto tempo infatti, dal dopoguerra fino praticamente agli anni '60, la pianificazione viene sistematicamente trascurata o apertamente boicottata dagli organi più politicizzati del governo, cioè soprattutto dal ministero dell'interno tramite le prefetture. Per questo preciso scopo dunque dal 1945 al 1964 circa i comuni sono stati assiduamente educati a non pianificare: quelli che, ribelli all'autorità educatrice, hanno voluto farlo a tutti i costi, si sono trovati in pratica a operare come isole di difficile penetrazione dell'iniziativa privata in un mare aperto dove viceversa tutto era possibile, e si sono trovati perciò rapidamente in oggettiva difficoltà di fronte ai loro stessi elettori [9].
E mentre su un versante si ostacola l’impiego degli strumenti della legge urbanistica del 1942, dall’altro lato si avvia un’azione di smantellamento del patrimonio abitativo pubblico. Come affermavano allora i governanti, bisognava sostenere la proprietà privata a spese del denaro pubblico: occorreva dare “a riscatto” agli assegnatari le case costruite dallo Stato:
l'assegnazione di case a riscatto non soltanto fa fare notevoli economie sulle spese di manutenzione e di amministrazione, ma influisce moltissimo sulla psicologia morale e politica dell'assegnatario (...). Sul piano sociale, su quello politico, su quello morale ritengo che accrescere le garanzie delle libertà degli italiani, costituendo per ciascuno di essi un patrimonio (mobiliare o immobiliare), sia una buona cosa [10].
Con quest’obiettivo, poco prima delle elezioni politiche del 1958 [11], il Parlamento approva una legge-delega, che demanda al governo la formulazione di norme per la “cessione in proprietà a favore degli assegnatari degli alloggi di tipo popolare ed economico costruiti o da costruire a totale carico dello stato, ovvero con il suo concorso o contributo”; di tutte le abitazioni, cioè, di proprietà pubblica. Carlo Melograni, Aldo Natoli e Franco Berlanda furono tra i pochissimi che presero una posizione decisamente contraria.
Così, a conclusione di un dibattito evidentemente troppo affrettato, si e deciso di liquidare un grande patrimonio pubblico, risultato di un’attività di più di cinquant'anni (...). La nuova legge segue un indirizzo, oggi in voga, da combattere: quello di rifiutare le soluzioni di fondo ricorrendo ad accomodamenti caso per caso; di far tacere una parte di coloro che reclamano un giusto diritto, come quello di avere un alloggio con una pigione non alta, dando loro un singolare vantaggio: quello di poter acquistare un alloggio a condizioni speciali [12].
Ma le grandi trasformazioni che erano avvenute nelle condizioni concrete dell’assetto del territorio e dell’economia cominciavano a provocare contraddizioni ed esigenze di cambiamento.
All’indomani della guerra l’Italia ha una economia essenzialmente agricola. Nel 1951 l'agricoltura assorbe il 42,2% degli occupati, contro il 22% delle attività industriali. Nel 1961 la percentuale di occupati in agricoltura scende al 30%; quella per i settori industriali tocca il 28%; il settore delle costruzioni raddoppia i propri addetti. Nel decennio 1961-1971 il processo continua: malgrado il raddoppio degli investimenti industriali nel sud, gli addetti all'industria crescono solo di 80 mila unità mentre al nord salgono di 350 mila unità. Contemporaneamente il meridione perde altri 900 mila addetti al settore agricolo. Nel 1971 il peso dell’agricoltura, in termini di occupati, è sceso a 18,8%, quello dell’industria è salito al 43,6% [13].
Accanto a questa trasformazione, un’altra se ne registra: un vistosissimo processo di spostamento della popolazione dal Sud al Nord del paese, dalle montagne e colline verso le pianure e le coste, dalle campagne alle città. Come afferma lo storico Paul Ginsborg
nel ventennio 1951-1971 la distribuzione geografica della popolazione italiana subì uno sconvolgimento. L’emigrazione più massiccia ebbe luogo tra il 1955 e il 1963 (...).In tutto, fra il 1955 e il 1971, 9.140.000 italiani sono coinvolti in migrazioni interregionali[14]
La coesistenza di un accentuato processo di urbanizzazione e di un forte esodo, soprattutto nelle regioni meridionali del Paese. determinano due fondamentali ordini di problemi. Nelle zone di esodo, la scarsità di popolazione in ampie zone del territorio nazionale da luogo a gravissimi danni economici e compromette l’equilibrio ecologico e ambientale (mancanza di presidio fisico del territorio, sottoutilizzazione del “patrimonio fisso sociale” rappresentato dai centri urbani. dalle infrastrutture ecc.). Nelle zone di concentrazione, all'opposto. l’eccessiva “presenza” di abitanti negli spazi urbani genera notevoli inconvenienti che si ripercuotono sulle condizioni di vita nelle grandi città (carenza di alloggi a basso costo, di servizi, di trasporti pubblici, alto costo della vita, inquinamento, ecc.). Questi inconvenienti non dipendono tanto dalle dimensioni assolute delle maggiori città italiane (dimensioni che potrebbero apparire relativamente modeste se confrontate con quelle delle maggiori metropoli mondiali), quanto piuttosto dal modo disordinato con cui tali dimensioni sono state raggiunte.
Quello che comincia a delinearsi nella prima metà degli anni ‘60 è una crisi del modello di sviluppo economico-sociale che aveva prevalso negli anni precedenti. In effetti, all'inizio degli anni '60 lo sviluppo industriale del paese si consolida. I settori produttivi più avanzati raggiungono soddisfacenti livelli di concorrenzialità sul piano internazionale e si svincolano dalla subordinazione al meccanismo di accumulazione, assicurato dalla speculazione fondiaria. Viene alla luce, sia pure timidamente, la contraddizione fra il settore dell'edilizia speculativa e quelli industriali più avanzati. Questi ultimi avvertono l'esigenza di un più razionale uso del territorio che consenta di realizzare economie di scala a livelli più elevati. È per questo che, a partire dal 1960, si assiste - specialmente al Nord - alla fioritura di innumerevoli iniziative di pianificazione; ed è databile al 1960 l'apertura della battaglia per la riforma urbanistica.
È l’Inu [15] a rompere il ghiaccio. All'VIII congresso, nel dicembre del 1960, viene presentata una proposta di riforma: è il cosiddetto Codice dell'urbanistica. L’Inu auspica l'istituzione delle Regioni e tenta di integrare la pianificazione urbanistica con la programmazione economica (di cui si comincia a parlare), attraverso l'istituzione di un Comitato nazionale di pianificazione (formato da ministri e presidenti delle regioni) e di un Consiglio tecnico centrale (a livello di alta burocrazia e di esperti urbanisti ) .
Il “codice” dell’Inu del 1960, a differenza delle proposte formulate nel corso della formazione della legge urbanistica del 1942, non prevede l'esproprio generalizzato dei suoli destinati all'edificazione, se non in casi eccezionali e territorialmente limitati. Per pubblicizzare, sia pure parzialmente, gli incrementi di valore delle aree urbane, e per stabilire, entro certi limiti, una perequazione di trattamento tra i diversi proprietari, viene proposto il meccanismo del comparto [16], oppure l’obbligo ai proprietari di cedere gratuitamente al comune, nelle zone di espansione, una quota del 30 per cento dell'area totale da destinare ad attrezzature pubbliche e di sostenere le spese di urbanizzazione primaria. Per incidere sulla rendita fondiaria è previsto anche un più deciso ricorso agli strumenti fiscali.
La proposta dell’Inu si inquadra nel cambiamento politico in corso, che vede spostarsi la DC, dall’alleanza con i partiti “minori” del centro (repubblicani, liberali e socialdemocratici), spesso aperta verso le formazioni della destra, all’alleanza con il Partito socialista italiano (PSI), in quegli anni ancora solidamente legato al PCI. La programmazione economica, la riforma urbanistica, la nazionalizzazione dell'energia elettrica sono alcuni dei temi sui quali si polarizza il dibattito politico in vista della partecipazione dei socialisti al governo. Di riforma urbanistica si comincia a parlare concretamente anche in sede ministeriale. Ministro dei Lavori Pubblici del governo Fanfani è Benigno Zaccagnini, che insedia nel 1961 una commissione per la riforma urbanistica [17]. La proposta è resa pubblica nel settembre del 1961: resta sostanzialmente nel solco dei princìpi della legge del 1942, pur contenendo perfezionamenti di carattere tecnico e procedurale. Anche questa proposta non risolve il problema dell'acquisizione, a favore della collettività, della plusvalenza delle aree e della disparità di trattamento fra i proprietari immobiliari in relazione alle destinazioni d'uso stabilite dai piani.
Autore della proposta più innovativa e coraggiosa è Fiorentino Sullo ministro dei Lavori pubblici dal febbraio del 1962, esponente dell’ala riformista della DC. Preso atto che “la stragrande maggioranza degli urbanisti non si dichiarava d'accordo” con lo schema elaborato dalla commissione insediata da Zaccagnini, ricostituisce la stessa commissione, integrandola con giuristi, economisti, sociologi[18].
La riforma è impostata su basi completamente nuove. Il progetto stabilisce che l'indirizzo e il coordinamento della pianificazione urbanistica debbono attuarsi nel quadro della programmazione economica nazionale ed in riferimento agli obiettivi fissati da questa. La pianificazione urbanistica si articola, sia nella fase regionale che statale, agli stessi livelli previsti dal progetto Zaccagnini: piano regionale, piano comprensoriale, piano regolatore comunale e piano particolareggiato.
Il piano regolatore generale e quello comprensoriale sono obbligatoriamente attuati per mezzo di piani particolareggiati, nel cui ambito il comune promuove l'espropriazione di tutte le aree inedificate e delle aree già utilizzate per costruzioni se l'utilizzazione in atto sia difforme rispetto a quella prevista dal piano particolareggiato, nonché delle aree che successivamente all'approvazione del piano particolareggiato vengano a rendersi edificabili per qualsiasi causa. E’, in sostanza, una ripresa e, soprattutto, una generalizzazione della facoltà ammessa dall’articolo 18 della legge urbanistica del 1942.
Acquisite le aree, il comune provvede alle opere di urbanizzazione primaria e cede, con il mezzo dell'asta pubblica, il diritto di superficie sulle aree destinate ad edilizia residenziale, che restano di proprietà del comune. A base d'asta viene assunto un prezzo pari all'indennità di esproprio maggiorata del costo delle opere di urbanizzazione e di una quota per spese generali. L'indennità di espropriazione è determinata, per i terreni non edificati e non aventi destinazione urbana prima dell'approvazione del piano, in base al prezzo agricolo; per i terreni non edificati, ma aventi già destinazione urbana, in base al prezzo dei più vicini terreni di nuova urbanizzazione, aumentato della rendita differenziale di posizione in misura non superiore ad un coefficiente massimo fissato da un comitato di ministri, e infine, per i terreni edificati, in base al valore di mercato della costruzione.
Lo schema Sullo modifica profondamente il regime proprietario delle aree: di proprietà privata resta soltanto una parte delle aree edificate, le altre aree - edificate o edificabili - passano gradualmente in proprietà dei comuni, che cedono ai privati il diritto di superficie per le utilizzazioni previste dai piani. In un primo momento sembra che la proposta sia destinata a passare. Ma nell’aprile 1963 (le elezioni sono fissate per il 28 aprile) si scatena “lo scandalo urbanistico”: una furibonda campagna di stampa contro il Ministro dei lavori pubblici accusato di voler togliere la casa agli italiani. È lo stesso Sullo che racconta:
A casa mia, con un senso di sgomento e di smarrimento più che di curiosità, miei parenti stretti mi chiesero, anche essi, se volessi togliere loro davvero la casa. (...) Ed io, confesso, non sapevo più come difendermi da una allucinazione generale: non bastava a difendermi il tentativo di spiegare gli errori giuridici degli oppositori, né il rammentare che in Parlamento, nell'ottobre 1962, avevo dichiarato che del diritto di superficie si sarebbe potuto fare a meno. Non c'era che una strada: spiegare al video a milioni di telespettatori la realtà e la fantasia. Ma questo non mi fu permesso. Invece, senza affatto consultarmi, mentre ero assente dalla capitale e con una comunicazione postuma alla mia segreteria di Roma, venne una doccia fredda; la dissociazione delle responsabilità del mio partito dalle mie. Fui sbalordito per l'oggettiva ingiustizia morale verso di me [19].
Con una “dolorosa nota” del 13 aprile Il Popolo comunica che la DC dissocia la propria responsabilità dall'operato del suo ministro. “Sullo era stato piantato in asso, e così ogni prospettiva di una reale pianificazione urbanistica in Italia”, commenta Paul Ginsborg[20].
Sullo resta ministro dei Lavori pubblici nel “governo ponte” presieduto da Leone nell'estate del 1963, ma alla costituzione del primo governo organico di centro sinistra, nel dicembre 1963, viene sostituito dal socialista Pieraccini.. Negli accordi interpartitici per la formazione del governo Moro, viene concordato che la riforma urbanistica deve assicurare la preminenza dell'interesse pubblico, attraverso l'acquisizione alla collettività delle plusvalenze fondiarie e la posizione di “indifferenza” dei proprietari rispetto alle scelte di piano. Su queste basi viene elaborato il disegno di legge Pieraccini: si conserva il principio dell'esproprio generalizzato, l'indennizzo però non è pari al prezzo agricolo ma è rapportato al valore di mercato del 1958. Il diritto di superficie è abolito e sono esonerati dall'esproprio le aree interessate da progetti presentati prima del 12 dicembre 1963. Mentre la proposta di legge cade insieme al governo, in tutta Italia vengono rilasciate una valanga di licenze edilizie.
Nella vicenda della riforma urbanistica aveva vinto in definitiva quello che Valentino Parlato, qualche anno dopo, definirà “il blocco edilizio”: un blocco sociale ed economico nel quale, attorno agli stati maggiori della proprietà fondiaria urbana, della grande proprietà immobiliare e del capitale imprenditoriale e finanziario (volta a volta alleati alle forze della rendita o in timido conflitto con loro), si aggregano le “fanterie” dei piccoli proprietari di case o aspiranti tali, dei risparmiatori, degli artigiani e dei lavoratori legati alla produzione edilizia[21]. L’asprezza dello scontro, e quindi il peso politico del “blocco edilizio”, è rivelato pienamente da un retroscena che emerse alcuni anni dopo, quando si scoprì che parte determinante nel convincere i leader del centro-sinistra ad abbandonare ogni ipotesi di riforma urbanistica ebbero le voci, rivelatesi fondate, di una minaccia di colpo di Stato guidata dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo[22]
A Sullo Ministro dei lavori pubblici si deve l'approvazione della legge n. 167 del 1962 “per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare”, i cui studi preparatori erano stati avviati fin dal 1951[23].
La “167” è una legge di settore. Essa si propone in primo luogo di porre fine alla prassi seguita fino ad allora nella localizzazione degli insediamenti di edilizia economica e popolare da parte dei comuni, degli Istituti autonomi per le case popolari e dalla miriade di enti che erano stati via via beneficiari di provvedimenti per la costruzione di edilizia a basso costo. Le aree venivano scelte infatti là dove il loro costo era più basso, o magari dove apparenti benefattori le cedevano sottocosto per ottenere la valorizzazione dei terreni circostanti[24]. Ciò provocava effetti distorcenti sull’assetto urbano, ed era una delle cause della vanificazione dei piani regolatori. La legge prescrive preciò che le aree per l’edilizia economica e popolare siano scelte all’interno di quelle destinate dai piani all’espansione.
I quartieri di edilizia economica e popolare avevano dato luogo, negli anni del dopoguerra, alla formazione di quartieri caratterizzati da una forte segregazione sociale. Ciò dipendeva dal fatto che ciascun ente operava in modo del tutto separato dagli altri, ogni intervento era un episodio a se stante. E poiché ogni intervento era finalizzato e riservato a una determinata categoria di cittadini (impiegati dello Stato, o sfrattati, o cittadini appartenenti a categorie particolarmente disagiate e così via), ecco che ogni quartiere era abitato da una sola categoria di inquilini, e generalmente del tutto privo di servizi sociali. La legge prescrive invece che nelle aree individuate dai piani per l’edilizia economica e popolare (PEEP) si inseriscano non solo tutti gli interventi programmati dai vari enti ma anche (per assicurare una composizione sociale più ricca e complessa) una quota significativa di interventi privati non finanziati, diretti cioè al “mercato libero”.
Ma la finalità primaria della legge è l’agevolazione dell’acquisizione, da parte dei comuni, delle aree da destinare all’edilizia economica e popolare, soprattutto al fine di renderne più agevole l’acquisizione e di ridurre l’incidenza della rendita fondiaria sul costo finale dell’alloggio. La legge stimola perciò i comuni a costituirsi patrimoni di aree da urbanizzare e rivendere ai privati per lo svolgimento di attività edilizia di tipo economico e popolare. Ai comuni viene data la possibilità di acquisire le aree mediante esproprio attraverso un meccanismo che avrebbe dovuto assicurare una consistente riduzione delle plusvalenze formatesi in dipendenza dell'espansione delle città ed un'azione calmieratrice sul mercato dei suoli: l’indennità veniva infatti commisurata non al valore delle aree nel momento dell’espropriazione, ma a quello che esse avevano due anni prima della formazione del piano.
Il meccanismo previsto per l'acquisizione delle aree veniva però dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale (sentenza n. 22 del 1965) in quanto la dissociazione del momento in cui viene determinata la indennità da quello dell'espropriazione, può condurre ad una liquidazione dell'indennità in misura solo simbolica; ad avviso della Corte l'indennità deve costituire invece un “serio ristoro” del danno patrimoniale subìto dall'espropriato. In sostituzione degli articoli dichiarati illegittimi fu promulgata la legge n. 904 del luglio 1965 con la quale, per la determinazione dell'indennità di espropriazione, si fa ricorso alla legge di Napoli del 1885, cioè, sostanzialmente, alla media tra il valore venale e la capitalizzazione del reddito catastale.
Nel 1964 la crisi edilizia, che ciclicamente riaffiora, è decisiva. La parola d'ordine prevalente è che prima di porre mano alla riforma bisogna tornare alla “normalità”. La riforma urbanistica esce di scena.
Il suolo italiano, intanto, viene riempito di lottizzazioni edilizie. Da una inchiesta del Ministero dei lavori pubblici si desume che solo in un quarto dei Comuni italiani (poco più di 2 mila) sono state autorizzate lottizzazioni per circa 115 mila ettari, per oltre 18 milioni di vani, quanti sarebbero sufficienti a colmare l'intero fabbisogno nazionale di alloggi fino al 1980[25]. Le zone investite dalle lottizzazioni sono il triangolo industriale, la pianura veneta, l'area romana e napoletana, nonché quelle di maggior pregio paesaggistico, come le coste. La localizzazione degli insediamenti e l'utilizzazione del suolo ubbidiscono esclusivamente alla convenienza dei proprietari, i quali accollano alle finanze comunali le spese per le opere di urbanizzazione. “Il lottizzatore italiano - scrive Michele Martuscelli, che ha diretto l'inchiesta - non è nemmeno un imprenditore, ma un semplice mercante dei terreni; il suo interesse per il completamento dell'iniziativa cade non appena la maggior parte dei lotti è stata venduta ed è stata intascata la differenza fra il valore dei terreni divenuti edificabili e quello agricolo originario”[26].
L’episodio che riapre il dibattito sulla legislazione urbanistica, riportando al centro dell’attenzione il modo in cui avviene l’urbanizzazione del territorio, è la frana di Agrigento, che il 19 luglio 1966 fa crollare centinaia di alloggi e getta sulla strada migliaia di persone, miiracolosamente senza provocare vittime. La frana è stata causata dall'enorme sovraccarico edilizio: ben 8.500 vani costruiti negli ultimi anni, in contrasto con tutte le norme esistenti. Mancini, Ministro dei lavori pubblici, nomina una commissione d'inchiesta, presieduta da Michele Martuscelli. Nel settembre la “relazione Martuscelli” è resa pubblica. Un passo della relazione (che fu stesa da Giovanni Astengo) merita di essere ricordata:
Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l'aspetto sociale, civile ed umano [27].
L'impressione nel paese è enorme. Si apre un’aspro dibattito politico. Mentre una parte della stampa propaganda la tesi dell’imprevedibilità e della “naturalità” dell’evento, l’opinione prevalente è quella che viene efficacemente espressa nella lettera di trasmissione della Relazione Martuscelli, nella quale si sottolinea “la gravità della situazione urbanistico-edilizia del paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite”, e si esprime l’augurio “che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto - deciso ed irreversibile - al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico”. Il problema, conclude la Commissione Martuscelli,
non può ovviamente, essere risolto che con una nuova legge urbanistica - la cui emanazione non dovrebbe essere ulteriormente rinviata - ; ma in attesa che tale legge entri in vigore e dispieghi i suoi effetti positivi e rinnovatori, appare indispensabile ed urgente l'adozione - eventualmente anche nella forma del decreto-legge - di alcune essenziali ed incisive norme di immediata operatività atte ad affrettare la formazione dei piani, ad eliminare nei piani e nei regolamenti le più gravi storture relative ad indici aberranti e a troppo estese facoltà di deroga e ad impedire i più vistosi fenomeni di evasione e di speculazione [28].
Pochi mesi dopo, viene presentata al Parlamento la “legge ponte”: un simbolico ponte tra la situazione attuale (i guasti provocati dall’assenza di un ragionevole governo del territorio erano stati svelati all’opinione pubblica, oltre che dalla frana di Agrigento, anche dalle quasi contemporanee alluvioni di Firenze e acqua alta eccezionale di Venezia) e la riforma urbanistica, di nuovo desiderata e attesa.
Il 1° settembre 1967 viene emanata la “legge ponte”[29]. Essa limita le possibilità di edificazione nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici (che sono la grande maggioranza) e cerca di incentivare la formazione dei piani, anche con la previsione dell'intervento sostitutivo degli organi dello Stato in caso di inerzia dei comuni. L'intervento sostitutivo dello Stato e più rigide sanzioni sono previste anche per punire le illegittimità e gli abusi edilizi.
Uno dei punti centrali della legge è la disciplina delle lottizzazioni edilizie. La legge stabilisce che sono proibite le lottizzazioni nei comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione ed accolla ai privati le spese per le opere di urbanizzazione primaria (strade, fognature, acqua, luce, verde di vicinato, ecc.), e per parte di quella secondaria (scuole, ambulatori, parchi, centri sociali, ecc.).
Ma l'innovazione fondamentale della legge riguarda i cosiddetti standard urbanistici, cioè le quantità minime di spazio che ogni piano deve inderogabilmente riservare all'uso pubblico.
Si intende per “standard urbanistici” la determinazione delle quantità minime di spazi pubblici o di uso pubblico, espresse in metri quadrati per abitante, che devono essere riservati nei piani, sia generali che attuativi.
Il concetto di standard urbanistici è, per la verità, più ampio. Luigi Falco, ad esempio, ricorda che
la parola standard, parola inglese che aveva originariamente il significato di bandiera, di segno di riconoscimento dei cavalieri, si usa oggi nella lingua originaria per indicare qualcosa di noto, di non discutibile e che può essere usato come elemento di paragone in numerosi campi delle tecnologie e delle scienze. La caratteristica dello standard, di essere legato a una prestazione, ad un livello di funzionamento raggiunto e sperimentato, è evidente in numerosi ambiti disciplinari, nei quali il termine è appunto usato in questo significato [30].
E un significato ancora diverso del termine - non contraddittorio con i precedenti - è quello sottolineato da Alessandro Tutino:
lo standard deve essere una bandiera (stendardo, simbolo) ed una bandiera che ad ogni traguardo va rinnovata perchè mantenga il suo valore[31]
La storia dell’introduzione degli standard urbanistici in Italia dà ragione di entrambe queste interpretazioni: quella quantitativa e normativa, e quella dinamica. In Italia gli standard urbanistici erano noti (negli anni ‘50) alla cultura specializzata. Ad essi faceva riferimento Il Manuale dell'architetto, mitico strumento di lavoro razionalista di generazioni di architetti, urbanisti e ingegneri, prodotto per la prima volta da un ufficio di promozione culturale statunitense (l’Usis, nel 1945), poi aggiornato a cura del Consiglio nazionale delle ricerche nel 1953 e nel 1962.
Si cominciò ad applicare gli standard urbanistici (cioè a riservare, nei piani per le città e in quelle per i quartieri, determinate quantità di aree per spazi pubblici in proporzione agli abitanti previsti) all’inizio degli anni 60. I quartieri popolari dell'Ina-casa e della Gescal, i piani regolatori di Roma, di Torino, di Modena costituiscono in quegli anni le prime esperienze di definizione concreta delle quantità di aree da riservare agli spazi pubblici.
Ma è più tardi, è appunto con la “legge ponte”, che in Italia si vara una normativa nazionale sugli standard urbanistici. Questa normativa, prescritta dalla legge, viene definita tecnicamente in un decreto ministeriale emanato un anno dopo: il decreto n. 1444 del 4 aprile 1968. Il decreto prevedeva standard riferiti a diversi tipi di attrezzature: alcune “d’interesse locale”, cioé tali da dover essere direttamente accessibili dagli utenti con percorsi pedonali o comunque superabili in archi di tempo brevi (non superiori ai 20-25 minuti primi); altre “d’interesse generale”, o “territoriale”, le quali, per la loro natura o per la dimensione funzionale richiesta, dovevano essere localizzate in relazione a bacini d’utenza più vasti.
Il decreto sugli standard è stato successivamente accusato di una certa rozzezza. e in effetti, esso è molto più schematico di quelli adoperati negli stessi anni in altri paesi europei. Non tiene conto dei tempi e dei modi dell’accessibilità, del rapporto tra attrezzatura e sito, delle dimensioni conformi di ogni attrezzatura, delle opportunità di integrazione tra attrezzature diverse ma complementari, della opportunità di diversificare le stesse dotazioni ad abitante in relazione a diverse situazioni demografiche e sociali. Ciò nonostante, come vedremo al prossimo capitolo, esso ebbe un effetto sconvolgente: per la prima volta nella redazione dei piani, e quindi poi nelle politiche di governo del territorio, si doveva destinare agli usi collettivi una consistente e non eludibile quantità di aree.
Ma più che la rozzezza del testo normativo, si deve criticare la superficialità della sua applicazione nella maggior parte della pratica professionale, e nella stessa successiva legislazione regionale di recepimento di quel decreto. Un caso esemplare di questa superficialità è costituito dal modo in cui sono state utilizzate le “zone omogenee” previste dal decreto. Il decreto prevede diverse zone, e per ciascuna di queste prevede norme diverse in relazione al conteggio degli standard e ad altre prescrizioni della legge. Nella volontà del legislatore, insomma, le zone omogenee sono sostanzialmente uno strumento di verifica dell’applicazione degli standard. Nella prassi corrente, invece, sono diventate una tecnica di progettazione della città, consolidando una concezione del disegno urbano basato sulla rigida monofunzionalità delle diverse parti e sulla negazione del carattere complesso tipico e caratterizzante dell’organismo urbano.
C’é da aggiungere, comunque, che la legislazione regionale, che subentrerà negli anni 70, si limiterà a ritoccare (generalmente in aumento) le quantità degli standard fissati nel 1968, ma non modificherà nella sostanza l’impostazione del legislatore nazionale: non ne supererà quindi neppure i limiti culturali. Ciò avviene in molti altri campi. Benché la Costituzione attribuisca alle regioni piena potestà in materia di legislazione urbanistica, nell’ambito dei soli “principi” fissati dalla legislazione nazionale o da essa desumibili, nella realtà le regioni si sono limitate a precisare, commentare, ulteriormente articolare la legislazione nazionale, nell’alveo della “vecchia” legge urbanistica del 1942.
Il decreto sugli standard ha una immediata ripercussione al livello della suprema magistratura. Meno di un mese dopo il decreto, meno di un anno dopo la legge ponte, la Corte costituzionale dichiara illegittimi parte dell'articolo 7 e l'articolo 40 della legge urbanistica del 1942[32].
La tesi della Corte è la seguente. Il piano regolatore generale, una volta approvato, ha vigore a tempo indeterminato; anche i vincoli che destinano determinate aree ad usi pubblici (strade, scuole, verde ecc.) sono validi a tempo indeterminato e sono immediatamente operativi. Ma questo vero e proprio vincolo non viene indennizzato: l’indennità sarà corrisposta al proprietario solo se e quando l’esproprio avverrà. Questa situazione, sostiene la Corte, è in contrasto con la costituzione, perché
un vincolo immediatamente operativo, ma il cui indennizzo è rinviato nel tempo, deve ritenersi di carattere espropriativo [33].
Sviluppando il suo ragionamento la Corte (e le successive interpretazioni della sentenza, in particolare ad opera del suo Presidente Aldo Sandulli[34]) sostiene la seguente tesi. Il legislatore ha la facoltà di stabilire che determinati beni (per esempio l’edificabilità) non appartengono al proprietario fondiario. Ma nell’attuale sistema giuridico italiano ciò non è stabilito. Non è allora oggi costituzionalmente legittimo comprimere lo jus aedificandi al di là di un limite ragionevole senza indennizzarlo, o senza almeno stabilire una data certa e vicina nella quale certamente l’indennità verrà pagata.
Se la sentenza per un verso suonava come una campana a morto per quanti erano impegnati nel tentativo di razionalizzazione dell’uso del suolo, per un altro verso indicava una possibile soluzione del problema del regime immobiliare. Nel dibattito che allora si aprì, mentre da una parte venivano proposte soluzioni volte a riconoscere per legge a tutte le proprietà fondiarie un valore minimo (“plafond”) di edificabilità, si avanzava dall’altra parte la proposta di stabilire, sulla base dell’indicazione di Sandulli, che l’edificabilità non apparteneva alla proprietà, ma era il prodotto di una concessione dell’ente pubblico attribuita ai proprietari sulla base dei piani urbanistici.
Si sceglie la soluzione più semplice ed indolore: quella del rinvio. Viene cosi approvata la legge 13 novembre 1968, n. 1187 (subito definita “legge tappo”), con la quale si stabilisce che le previsioni di piano regolatore generale, che comportano vincoli nei confronti dei diritti reali, aventi contenuto espropriativo, cessano di avere vigore qualora entro cinque anni dall'approvazione del piano regolatore medesimo, non siano approvati i relativi piani particolareggiati od autorizzati i piani di lottizzazione convenzionata.
Gli anni ‘60 si erano aperti con la speranza di una riforma profonda dei modi in cui si esercitava il governo pubblico delle trasformazioni territoriali. Gli anni ‘70 si aprono senza che quest’obiettivo sia stato raggiunto, ma in un clima di grande sommovimento su tutti i terreni Si aprono infatti con le grandi tensioni del Sessantotto studentesco e operaio, si sviluppano, attraverso una serie di crisi politiche e di attentati dinamitardi, attorno ai temi dell’intervento pubblico nel settore della casa, degli espropri, dell’attuazione dell’ordinamento regionale, dei tentativi di programmazione economica.
Il quadro istituzionale dell’urbanistica cambia considerevolmente. La drammaticità degli scontri sociali sulle questioni del territorio e della città sembrano ridare fiato alla riforma urbanistica. La politica della casa entra a far parte dell’armamentario della pianificazione. L’istituzione delle regioni introduce un soggetto pubblico potenzialmente decisivo. Sebbene non si raggiunga una vera riforma del regime dei suoli, vengono introdotte alcune significative innovazioni, in parte vanificate dalle sentenze della Corte costituzionale. Mentre da un lato sembra procedere, attraverso tappe parziali, un disegno di riforma, dall’altro lato si mettono in moto forze controriformatrici, le quali agiscono a volte con gli attentati terroristici, a volte con sottili tattiche di svuotamento delle leggi innovative.
La questione della casa era stata al centro delle lotte sociali. Per la prima volta dalla rinascita della democrazia uno sciopero generale (il 19 novembre 1969) aveva avuto per oggetto una serie di questioni (casa, servizi, trasporti, squilibri territoriali) che esulavano dallo stretto terreno contrattuale. Il confronto tra sindacati e movimenti spontanei da un lato, Governo e parlamento dall’altro, si svilupparono per alcuni anni, punteggiati da attentati dinamitardi e crisi di governo. Un primo risultato si raggiunse nell’autunno del 1971, con una nuova legge per la casa[35].
La legge affronta quattro questioni: la programmazione e il coordinamento dell’edilizia pubblica, le espropriazioni, le modifiche alla legge 167/1962 e il finanziamento di alcuni primi programmi d’intervento. Quest’ultima parte ha carattere dichiaratamente transitorio; più rilevanti e strutturali le altre.
La legge innova profondamente i meccanismi della programmazione pubblica dell’edilizia. Anzichè una miriade di enti, ciascuno caratterizzato da regole, soggetti e procedure diversi (unificati solo “a valle”, a partire dal 1962, da una politica urbanistica unitariamente costituita dai PEEP), la legge prefigura un sistema secondo il quale: spetta allo Strato l’allocazione di tutte le risorse pubbliche nazionali destinate alla residenza nei diversi settori e tipologie d’intervento e nelle diverse regioni, in funzione dei fabbisogni regionali; spetta alle regioni la localizzazione ed il coordinamento degli investimenti pubblici per l'edilizia all’interno dei loro territorio; spetta ai comuni la programmazione locale, e spetta ai comuni e agli Istituti per le case popolari la realizzazione e le gestione degli interventi.
Le nuove norme espropriative unificano i procedimenti e i valori del’indennità per tutte le possibili finalità (dai PEEP ai parchi nazionali, dagli interventi nei centri storici alle opere di urbanizzazione). Ancorano tutte le indennità al valore agricolo: per i fondi aventi una effettiva utilizzazione agricola l’indennità è correlata alle colture e alle altre attività aziendali, per i terreni già urbanizzati l’indennità è fissata con un valore parametrico (correlato a quello della cultura più pregiata). Generalizzano la possibilità di assegnare le aree espropriate in concessione, come alternativa alla cessione in proprietà. Ribadiscono infine che l’indennità non deve in alcun modo tener conto dell’incremento di valore acquisito dall’area per effetto delle destinazioni di piano o dall’aspettativa della realizzazione delle opere.
Le modifiche alla legge 167/1962 tengono conto delle esigenze di correzione e miglioramento maturate in quasi un decennio d’applicazione. In particolare viene abolita la disposizione che consentiva ai proprietari di aree comprese nel PEEP di operare direttamente senza essere espropriati: norma che aveva provocato, in molte zone, un aumento consistente del prezzo delle aree comprese nei PEEP.
Secondo la Costituzione italiana la competenza legislativa in materia urbanistica è delle regioni. Questa indicazione si saldava, nel dibattito degli anni ’60, con l’esigenza, affiorata fin dagli anni ‘50 nella cultura urbanistica (e già contenuta in nuce nella legge urbanistica del 1942), di promuovere una pianificazione territoriale, strettamente connessa alla programmazione economica, a partire dal livello regionale. Ma per tutti gli anni ‘50 e ‘60 avevano visto la luce solo le regioni “a statuto speciale” (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, Friuuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige), la cui formazione era dovuta più a esigenze d’ordine politico o diplomatico che alla volontà di realizzare il disegno costituzionale[36].
I quindici consigli regionali a statuto ordinario sono eletti per la prima volta nella primavera del 1970, e l'effettivo trasferimento dei poteri avviene nel febbraio del 1972, in base a decreti del Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda l’urbanistica, accanto al potere di legiferare già attribuito dalla Costituzione, alle regioni vengono trasferite tutte le funzioni amministrative che la legge del 1942, e le successive leggi di modifica e di integrazione, affidavano agli organi centrali e periferici del Ministero dei lavori pubblici: l'approvazione degli strumenti urbanistici (piani territoriali di coordinamento, piani regolatori generali comunali e intercomunali, piani di ricostruzione, regolamenti edilizi e programmi di fabbricazione, piani particolareggiati e lottizzazioni convenzionate) e dei piani per l'edilizia economica e popolare; il controllo e la vigilanza sull'attività edilizia ed urbanistica degli enti locali. Alle regioni a statuto ordinario viene anche trasferito il potere di redigere e di approvare i piani territoriali paesistici previsti dalla legge per la tutela delle bellezze naturali del 1939.
Agli organi centrali dello Stato è riservata la funzione di “indirizzo e coordinamento” delle attività amministrative regionali “che attengono ad esigenze di carattere unitario, anche con riferimento agli obiettivi del programma economico nazionale ed agli impegni derivanti dagli obblighi internazionali”. Allo Stato sono riservate inoltre le competenze relative alla rete autostradale; alle costruzioni ferroviarie, ai porti, alle opere idrauliche e di navigazione interna di maggiore importanza; all'edilizia statale, demaniale e universitaria, ecc.
Al trasferimento delle materie stabilite dall'art. 117 della Costituzione si affianca la delega delle “funzioni amministrative necessarie per rendere possibile l'esercizio organico da parte delle regioni delle funzioni trasferite o già delegate”. Viene istituita una commissione (presieduta da Massimo Severo Giannini) le cui proposte forniscono la base al decreto del presidente della repubblica n. 616 del luglio 1977, che chiude quasi un decennio di dibattiti e di produzione legislativa circa l'ordinamento regionale.
Secondo il decreto 616/1977, l'urbanistica è “la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”: tutto ciò è di competenza regionale. Allo Stato resta affidata la “identificazione, nell'esercizio della funzione di indirizzo e di coordinamento [...], delle linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale, con particolare riferimento alla articolazione territoriale degli interventi di interesse statale ed alla tutela ambientale ed ecologica del territorio nonché alla difesa del suolo”.
Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 55 era stata approvata la “legge-tappo” del novembre 1968, che prorogava per cinque anni la validità delle previsioni degli strumenti urbanistici comportanti vincoli nei confronti dei diritti reali. I cinque anni trascorsero inutilmente e si approvò un'altra proroga biennale; poi, ancora un rinvio di un anno, finalmente accompagnato da un disegno di legge governativo di riforma del regime dei suoli che, finalmente viene approvato nel gennaio 1977. E’ la legge n. 10 del 1977, nota come legge Bucalossi, dal nome del ministro che ne fu l'autore[37].
Alla base della legge c'è la scelta nettamente a favore della separazione dello jus aedificandi dal diritto di proprietà, proposta inizialmente (come mera ipotesi di lavoro) dall’ex Presidente della Corte costituzionale Aldo Sandulli e ripresa dalla parte maggioritaria della cultura urbanistica. L'intesa fra i partiti di governo si realizza, superando le esitazioni della DC, soprattutto grazie all'impegno di Bucalossi che minaccia le dimissioni e la crisi di governo in caso di mancata approvazione. Il principio della separazione viene però affermato in maniera ambigua, cosi da renderla accettabile anche agli incerti e ai contrari: non costituirà argine sufficiente rispetto alle critiche della Corte costituzionale.
Gli elementi portanti della riforma sono l'istituto della concessione onerosa, il convenzionamento dell'edilizia abitativa, il programma di attuazione dei piani urbanistici e la normativa contro gli abusi.
Passare dalla “licenza edilizia” alla concessione, e per di più a una concessione onerosa, ha come presupposto l’aver ammesso, almeno implicitamente, che esiste una riserva pubblica del diritto di edificare. La concessione di questo diritto è accordato al proprietario dell'area, o a chi ne ha la legittima disponibilità, per edificare opere conformi agli strumenti urbanistici, contro un determinato onere. Questo dovrebbe, sul piano dei principi, essere commisurato al maggior valore all’area viene attribuito per il fatto che essa è divenuta edificabile. In realtà la legge, privilegiandoi anche qui il compromesso rispetto al rigore, stabilisce che il contributo di concessione è formato da una quota del costo di costruzione, variabile dal cinque al venti per cento, e da una quota afferente agli oneri di urbanizzazione.
La legge prevede la possibilità di non pagare la parte di contributo concessorio corrispondente a una quota del costo di costruzione, a condizione che il proprietario si impegni a convenzionare il canone d’affitto e il prezzo di vendita dell’edificio realizzato. Si tratta di una innovazione interessante, già introdotta dalla legge per la casa del 1971 all’edilizia economica e popolare che la legge Bucalossi tenta di generalizzare; essa consentirebbe alla mano pubblica di controllare contrattualmente l’esito finale del processo di urbanizzazione e costruzione della città.
L’introduzione del programma poliennale d’attuazione è comunque il più importante contributo della legge allo sforzo di razionalizzare i modi e i tempi in cui avviene il processo di espansione e trasformazione della città, per tentare di ridurne i costi e accrescerne i benefici sociali. L’esigenza di governare nel tempo l’attuazione delle previsioni dei piani regolatori, correlando l’attuazione delle opere di competenza pubblica con quelle d’interesse privato era viva da tempo. Il primo tentativo di soddisfarla fu compiuto, sia pure solo parzialmente a causa delle difficoltà frapposte dal Consiglio di Stato, dal Piano regolatore di Rtoma del 1962.
La legge prescrive sostanzialmente che i comuni, ogni tre o quattro o cinque anni, provvedano a indicare quali saranno gli interventi, pubblici e privati, previsti o consentiti dal piano regolatore vigente, che saranno effettuati o autorizzati nel periodo considerato. Per gli interventi privati inclusi nel PPA ma no attivati alla scadenza del periodo, la legge prevedeva l’esproprio delle aree e l’intervento sostitutivo del comune.
A proposito dell’abusivismo, fenomeno che era già in forte espansione, soprattutto nell’area romana, nel Sud e lungo le coste, la legge prevede, nei casi di maggiore gravità, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva. La demolizione è l'unica sanzione prevista quando l'abuso contrasta con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali.
Nel dibattito parlamentare non viene chiarito il nodo di fondo, relativo al regime di proprietà delle aree edificabili. Resta l’ambiguità nelle formulazioni sulla separazione dello ius edificandi dalla proprietà. Puntualmente, nel gennaio 1980, la Corte costituzionale si pronuncia ancora sulla incostituzionalità della legge urbanistica. Nel frattempo, le regioni cominciano a svuotare il programma poliennale di attuazione, e le norme contro l’abusivismo saranno rimaste inapplicate.
Nonostante le riforme legislative operate a partire dal 1962 la questione della casa era ben lontana dall’esser risolta. Il settore era, nel suo complesso, estremamente articolato e ricco di sperequazioni e differenze quasi patologiche. Oltre agli alloggi abitati direttamente dei proprietari, giunti a livelli sconosciuti negli altri paesi europei, vi erano: gli alloggi privati condotti in affitto libero, per i quali si pagavano prezzi crescenti; gli alloggi privati condotti a fitto “bloccato”, cioè ancorato al valore originario senza tener conto dell’aumento dell’inflazione, per effetto di una serie di leggi che, a partire dagli anni della guerra, avevano teso a proteggere gli inquilini dei ceti meno abbienti dai notevoli aumenti dei prezzi; gli alloggi privati realizzati in aree Peep, preventivamente espropriate e assegnati a fitti convenzionati; gli alloggi di proprietà pubblica, assegnati a canone “sociale”.
Gli inconvenienti e le sperequazioni di questa situazione erano notevoli. Particolarmente pesante era il blocco dei fitti. D’altra parte, lo stesso contenimento dei prezzi operato nelle aree Peep (per effetto della decurtazione iniziale della rendita fondiaria e del controllo sul prezzo finale operato con il convenzionamento) veniva vanificato dalla “concorrenza” provocata da un “mercato libero”, libero di spingere all’insù i prezzi degli alloggi. Né era possibile limitarsi a “sbloccare” la parte vincolata dello stock privato, ciò che avrebbe provocato tensioni sociali insostenibili.
Per affrontare la questione non bastava quindi più limitarsi a costruire abitazioni economiche per le fasce più disagiate, ne limitare l’intervento pubblico alla costruzione di nuove case. Del resto, in quegli anni erano emerse due consapevolezze nuove: da un lato, il fatto che l’età dell’espansione continua e indefinita era terminata, che “più case si fanno più ce ne vogliono”, e che non si poteva proseguire con “lo spreco edilizio” [38]; dall’altra parte, il fatto che l’esigenza di disporre di un alloggio ad un prezzo commisurato al reddito e alla conseguente capacità di spesa era un “diritto sociale”, che doveva essere garantito a tutti.
D’altra parte, le leggi per la casa avevano affrontato solo episodicamente il problema del finanziamento dell’intervento pubblico nell’edilizia abitativa. E non era stato affrontato (salvo che nella positiva eccezione del “Peep-centro storico” di Bologna[E.S.1] ) la questione di un intervento volto al recupero dell’edilizia esistente.
Ha vinto la ragione. La pressione dei cittadini veneziani e del Comune, l'appello dell'opinione pubblica internazionale e della cultura europea e mondiale, il solenne monito del Parlamento europeo, hanno infine prevalso. Il Parlamento della Repubblica è riuscito a far sentire la sua voce e il suo peso. E il Governo dopo aver dato l'impressione di non saper far altro che giocare allo scaricabarile, ha avuto un soprassalto di buon senso e di dignità: ha ritirato la candidatura di Venezia per l'Esposizione universale del 2000.
Ricordiamo tutti la vicenda. L'idea di fare a Venezia una Expo era stata lanciata da Gianni De Michelis nell'autunno 1984, alla vigilia della campagna elettorale per le amministrative. Le reazioni di una parte consistente dell'opinione pubblica veneziana e italiana furono immediate, ma De Michelis avviò una poderosa e ben oliata macchina di conquista del consenso. Costituì un consorzio per la promozione dell'Expo di cui facevano parte le maggiori firme dell'industria, si assicurò l'appoggio di prestigiosi esponenti della cultura, costruì una solida piattaforma d'intesa con i dorotei veneti fingendo d'allargare l'impatto dell'Expo all'intero Veneto. Con procedure discutibili, una "prenotazione" ufficiale per l'Expo del 2000 approdò al Bureau international des expositions (Bie), il quale svolse l'istruttoria preliminare.
Sembrava che i giochi fossero fatti.Mentre lavoravano i promotori dell'Expo, lavoravano però anche quanti erano convinti che la proposta sarebbe stata una rovina per Venezia. Si accumularono materiali di conoscenza e di analisi che consentirono di comprendere (e di far comprendere) in che modo l'Expo avrebbe influito sui problemi di Venezia. Divenne chiarissimo che gli effetti sarebbero stati dirompenti: non tanto sulle "pietre" della città, quanto sul delicato equilibrio tra struttura fisica e struttura sociale, tra le preziose forme della città e la società che le abita. Questo equilibrio è già minacciato da un non governato turismo di massa, che modifica giorno per giorno l'assetto sociale ed economico delle città: influisce sul mercato immobiliare, sulla qualità del commercio, sui prezzi delle merci, sui modi di fruizione della città e dei suoi servizi.
Ciò che si è finalmente compreso è che realizzare una Expo nell'area di gravitazione di Venezia avrebbe comportato una poderosa accelerazione dei nefasti processi già in atto.Questa accelerazione è stata scongiurata. Adesso, dopo aver perso cinque anni a contrastare una proposta sbagliata, si può ricominciare a lavorare per risolvere i problemi, ma nella direzione opposta: per governare il turismo, anziché per esaltarlo, per difendere le attività ordinarie della città, per costruire le ragioni, e le occasioni, di uno sviluppo economico e sociale non effimero. pubblicato su L'Unità del 13.6.1990.