Dal Corriere della sera, 29 giugno 2008
Citato in Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008
Da Il Capitale, libro III; cit. in P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008
Cit. in Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, editori Laterza, Roma-Bari 2008
Da la Repubblica, 11 giugno 2008
1. Perché la questione del condono edilizio ha aperto contraddizioni così clamorose? Le ragioni sono numerose, e sono state poste in evidenza (ora l'una, ora l'altra) dai molti che di quella contraddizione hanno commentato l'episodio più vistoso: la manifestazione - pacifica nella forma, venata di tensioni e slogan eversivi nella sostanza - dei quarantamila abusivi meridionali. Trascorso qualche giorno, diradatosi il polverone della polemica, è utile approfondire il ragionamento e tentar di rispondere a quell'interrogativo cercando di comprendere se, tra le numerose ragioni che hanno provocato e reso potenzialmente esplosiva quella contraddizione, ve ne sia una che prevalga sulle altre: che indichi perciò anche, per converso, il punto su cui è possibile far leva per risolverla.
Certo, le ragioni individuate esistono tutte: l'assenza, in numerosissimi comuni del Mezzogiorno, di strumenti urbanistici; l'assenza, da troppi anni, di una politica statale dell'abitazione; l'incertezza delle prospettive economiche e quindi la persistenza della concezione della casa come «bene rifugio»;l'atteggiamento di palese disprezzo delle leggi sul territorio dimostrato dalle autorità governative; l'abbandono di ogni tensione sui problemi complessivi dell'assetto del territorio (il regime dei suoli, la riforma urbanistica, la programmazione ecc.); l'oggettivo confluire delle tendenze alla deregulation con le tirate d'orecchio al giacobinismo degli urbanisti»; le interne, pesantissime contraddizioni della legge sull'abusivìsmo (viziate nella radice dall'impostazione fiscalistica), e il fatto che per due anni l'attività del Parlamento in materia di territorio si sia impantanata nella discussione delle mille versioni di tale legge.
La mia impressione è però che queste ragioni, sebbene colgano ciascuna un importante aspetto del problema, non siano di per sé in grado di coglierne il centro, il nucleo essenziale. Non a caso, esse non spiegano una questione che è apparsa come fondamentale: perché il Mezzogiorno? E allora, bisogna provare a scavare più a fondo.
2. Perché è nel Mezzogiorno che la contraddizione tra abusivismo e rispetto della legge è esplosa? Perché è nel Mezzogiorno che la «cultura della pianificazione» si è manifestata più debole, e in larghe zone inesistente? Non credo che una risposta adeguata possa emergere dalla considerazione che le leggi urbanistiche sono costruite avendo quale riferimento le regioni più evolute, e precostituirebbero un «modello» non applicabile ad altre regioni. Chi propone questa tesi, non la argomenta: non spiega perché e in che cosa quelle leggi non sarebbero applicabili nel Mezzogiorno. E così, non mi convince la tesi secondo cui l'arretratezza urbanistica del Mezzogiorno deriverebbe, quasi immediatamente, dal colore politico delle maggioranze colà prevalente: questa tesi non spiega perché al Nord siano frequenti casi di «buongoverno urbanistico» anche in amministrazioni tradizionalmente «bianche», né perché la manifestazione dei 40mila abusivi sia stata guidata, fra gli altri, anche da un sindaco comunista.
C'è una considerazione, che a me sembra centrale, che può forse fornire un inizio di risposta più convincente. Ecco il punto. Il metodo capace di assicurare - nella società moderna - una sintesi trauso corretto della risorsa territorio e soddisfacimento dei bisogni sociali che richiedono, per essere soddisfatti, trasformazioni del territorio, è stato individuato, nelle società dell'Occidente europeo, nella pianificazione. Ma la pianificazione non si riduce alla elaborazione, una tantum, di un piano. Essa è un'attività continua, costante, sistematica di governo delle trasformazioni territoriali. Non è un evento straordinario, è un'attività ordinaria della pubblica amministrazione. Non è un'attività separata dalle altre sfere dell'azione pubblica (il bilancio, gli investimenti, i trasporti, il personale, il patrimonio), ma è componente e regola di tutta l'attività amministrativa: soprattutto a livello degli istituti cui la pianificazione è sostanzialmente affidata, gli enti locali.
Ma se è così (e io non ho dubbi su questo punto) allora è evidente che la pianificazione esige, quale sua condizione di fondo, più ancora che nuove leggi, nuovi strumenti, nuovi finanziamenti, la presenza di una efficace ed efficiente amministrazione pubblica, soprattutto a livello degli enti locali. Ed esige - dappertutto, ma soprattutto là dove questa presenza non c'è, o non è adeguata - un massimo di sforzo, di impegno politico, di tensione culturale volti a far sì che questa presenza vi sia, che questa condizione si realizzi.
3. Ebbene, che cosa si è costruito, dal dopoguerra a oggi, in tutto l'arco temporale della Repubblica, perché nel Mezzogiorno questa condizione vi fosse? Il ritardo è davvero gigantesco, ma è essenziale ed urgente colmarlo. E io credo che è a partire da questo punto che si debbano anche valutare alcune iniziative in atto nel Mezzogiorno: non foss'altro perché il giudizio politico sui fatti (e il segno, la direzione di questo giudizio) è ciò che può esprimere nell'immediato una linea politica, una strategia, più generali.
È nella chiave di questa valutazione, ad esempio, che si deve anche giudicare l'iniziativa per il Ponte sullo Stretto. Che è una iniziativa che va combattuta per molte ragioni; ma in primo luogo perché esprime il proseguire, rafforzato, della tendenza a risolvere il problema del Mezzogiorno in termini di interventi straordinari, di gestioni speciali, di opere faraoniche e prestigiose, anziché d'investimenti, magari eccezionali, nella soluzione di problemi ordinari con strumenti anche essi ordinari.
Ed è nella chiave di questa valutazione, per fare un altro esempio, che si è dato e che si deve consolidare un giudizio positivo sull'intervento straordinario per la ricostruzione di Napoli dopo il terremoto (mentre deve essere negativo, per le ragioni simmetriche il giudizio sulla ricostruzione di Pozzuoli). È infatti evidente scelta di atfidare la ricostrtirionc di Napoli alla struttura ordinaria del Comune e ai poteri del sindaco, l'una e l'altro rafforzati nella loro efficacia e nei loro poteri, facendone un momento dell'attuazione di scelte consolidate della politica urbanistica comunale, come il «piano delle periferie» (mentre per Pozzuoli 1'esautoramento del Comune, l'affidamento delle scelte alla Università di Napoli, la negazione di ogni politica urbanistica sono gli elementi a mio parere più criticabíli).
4. Per concludere questo invito a una riflessione collettiva su ciò che sta dietro la manifestazione dei 40mila, credo in sostanza che il punto su cui far leva, su cui quindi impiegare il massimo di risorse politiche, culturali, sociali, sia quello dell'amrnitnistrazione ordinaria della cosa pubblica, e in particolare del goverrno del territorio. Da questa punto di vista, mi sembra che anche all'interno del partito alcune modifiche sostanziali debbano essere introdotte, alcuni ritardi gravi debbano essere superati.
Ad esempio, non è forse indice di una sottovalutazione grave del problema cui ho accennato il fatto che mai, nei dieci anni in cui abbiamo goveato le maggiori città italiane, non vi sia stata una riunione generale di partito nella quale amministratori e dirigenti abbiano discusso sul complesso dei problemi della pianificazione, del governo del territorio, della «amministrazione dell’urbanistica»?
Sono convinto che limitarsí ad affrontare i problemi dell'emergenza , delle «situazioni calde», degli eventi eccezionali, mentre da una parte indebolisce lo sforzo per realizzare le condizioni per un'azione ordinaria (e perciò continua, sistematica, capace di durare e di crescere), dall'altra cornsolida la convinzione diffusa che i problemi più scottanti possono risolversi soltanto sostituendo, con la soluzione eccezionale e straordinaria, magari con la geniale improvvisazione, quell'azione tenace di costruzione di un'azione pubblica capace di affrontare, e di risolvere, tutti i problemi che volta per volta si pongorno. Problemi che - come il caso dell'abtlsivìsmo nel Mezzogiorno dimostra - il più delle volte sono solo il risultato del lungo accumularsi di ritardi, inadempiernze, inefficacíe, pigrizie, nell'affrontare le questioni ordinarie del governo del territorio e dei bisogni che nel territorio devono essere soddisfatti.
La cosidetta “tassa sul lusso” (ma vedremo che è tutt’altro) mi sembra esemplare per ragioni di politica del territorio, di equità sociale, di sviluppo economico.
Intanto, di che cosa si tratta. È un provvedimento della Regione Autonoma della Sardegna che istituisce tre imposte: la prima è prelevata una tantum sul plusvalore determinatosi nell’atto della compravendita di fabbricati destinati a residenze turistiche (seconde case) nella fascia compresa entro tre chilometri dal mare, e consiste nel prelievo del 20 % della differenza tra il prezzo di vendita dichiarato e quello originario d’acquisto o di costruzione; la seconda è annuale, è applicata agli stessi fabbricati ed è proporzionale alla dimensione delle unità immobiliari (va da un minimo di 900 € per unità fino a 60 mq a un massimo di 3.000 € e oltre per unità oltre i 150 mq); la terza imposta è prelevata una tantum agli aeromobili e alle imbarcazioni da diporto che approdano negli aeroscali e negli approdi dell’Isola nel periodo estivo, ed è anch’essa proporzionale alla dimensione del mezzo.
Le prime due imposte (quelle che riguardano le seconde case non appartenenti a cittadini sardi collocate entro la fascia costiera) sono destinate alla costituzione di un fondo regionale, che sarà impiegato per interventi di manutenzione ambientale, di ricostituzione dei paesaggi degradati e di sviluppo del turismo interno. Il fondo sarà ripartito tra progetti di interesse comunale, provinciale e regionale.
Il provvedimento, sul quale si è aperta una discussione ampia sia nell’Isola che nel Continente, è scaturito da una constatazione molto semplice e, a mio parere, totalmente condivisibile. La Regione ha provvidamente deciso di sottoporre a critica il modello di turismo (e di sviluppo economico) fin qui perseguito, basato sulla privatizzazione delle coste, sul loro sfruttamento edilizio, sull’espansione di un turismo di breve durata, e di promuovere al suo posto un modello (e uno sviluppo) alternativo. Il turismo tradizionale ha provocato, come è noto, il degrado di gran parte delle coste sarde, la distruzione paesaggi millenari di grande bellezza e la loro sostituzione con “villaggi turistici” e distese di seconde case di qualità scadentissima, contribuiendo al formarsi di squilibri territoriale e sociali. È un turismo che consuma la materia prima della quale vive (l’ambiente e il paesaggio della Sardegna, la sua identità) e che produce ricchezza soprattutto all’esterno dell’Isola: là dove hanno il loro domicilio fiscale le società immobiliari che costruiscono, vendono, affittano.
Le parole del presidente Soru che riportiamo nel box [stralci da questo documento] qui accanto illustrano a sufficienza le ragioni della critica e le speranze dell’alternativa. Il progetto delineato da Renato Soru ha tra le sue componenti un turismo caratterizzato da flussi di visitatori che della Sardegna frequentino non solo le coste, ma anche le risorse di cultura e di bellezza dell’interno, che non si presentino solo nel breve periodo delle vacanze estive ma in tutte le stagioni in cui l’Isola è bella e amichevole. Un turismo che trovi le sue attrezzature non nei villaggi turistici recintati e nel pullulare di ville e villette collocate a nastro lungo le coste, ma nei paesi e nei borghi posti al di là della fascia costiera, verso l’interno, i suoi paesaggi, i segni della sua identità. Un turismo che rafforzi perciò i sistemi insediativi esistenti, soggetti a un esodo sempre più pronunciato, e dia nuovo alimento alle economie locali: quelle legate alla produzione agricola e zootecnica, quelle legata all’impiego di tecniche, materiali e tipologie costruttive tradizionali, e quelle infine legate alla comunicazione e diffusione della cultura.
Il Piano paesaggistico regionale della Sardegna, al quale ho avuto l’onore di collaborare come membro del Comitato scientifico che ha dato il suo contributo all’Ufficio del piano, redattore del progetto, costituisce un primo passo: definisce una tutela accurata delle risorse d’interesse nazionale e regionale, disegna i lineamenti di progetti di paesaggio da sviluppare soprattutto da parte degli enti locali. Ma un piano non basta senza risorse.
Salvaguardare i paesaggi rimasti intatti, risanare quelli compromessi e degradati, mantenere il territorio e l’ambiente, richiede progetti e finanziamenti. E richiede progetti e finanziamenti anche lo sforzo di far nascere un turismo alternativo quale quello proposto. Ecco perché le nuove imposte, le quali attingono ai portafogli di chi ha ottenuto dallo sviluppo distorto privilegi negati agli altri, di chi ha contribuito alla distruzione di paesaggi straordinari, di chi vede ancora oggi la sua ricchezza privata accrescersi grazie a scelte pubbliche di politica del territorio e a investimenti di risorse collettive cui non contribuisce in misura significativa.
Le imposte che riguardano le costruzioni nella fascia costiera non colpiscono i profitti d’impresa, né tanto meno salari e stipendi: colpiscono la rendita immobiliare, quella che l’economia classica definisce “la componente parassitaria” del reddito. La ricchezza prodotta e goduta (il reddito) è infatti distinto in tre componenti. Secondo la scuola liberale e liberista, il salario (e lo stipendio, che ne è una forma) compensa il tempo di lavoro impiegato: cioè retribuisce chi spende il proprio sapere e mestiere e la propria attività fisica per produrre. Il profitto è, il compenso per l’attività dell’imprenditore: cioè di chi associa tra loro e organizza i vari fattori della produzione. La rendita è la parte della ricchezza collettiva di cui si appropria chi è pervenuto a possedere un bene che è richiesto da altri ed è disponibile in quantità limitata; è quindi la componente del reddito che premia chi si limita a richiedere una taglia per il fatto che gode della proprietà, ma non contribuisce in alcun modo al processo produttivo.
Nelle economie autenticamente liberali si tende a privilegiare, quale parte della ricchezza da cui prelevare le tasse, la rendita, la “componente parassitaria del reddito”. Il pensiero liberale ha considerato nel trasferimento di risorse dalla rendita alle attività produttive un contributo allo sviluppo di un’economia capitalistica sana. L’economista e politico statunitense Henry George divenne famoso nella seconda metà del XIX secolo per aver proposto un prelievo del 100 % della rendita immobiliare come soluzione per vincere la povertà e dare impulso alla produzione [si veda qui]. Il presidente della Fiat, Gianni Agnelli, sostenne pubblicamente, nel 1972, che “in Italia l'area della rendita si [è] estesa in modo patologico” e che, “poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa”. Questo era, secondo il padrone della maggiore azienda capitalistica italiana, “il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire” [si veda qui]
Non chiamiamo dunque “tassa di lusso” il sistema di imposte decise dalla Regione Autonoma Sardegna. Si tratta di tributi finalizzati alla difesa attiva della maggiore risorsa dell’Isola, patrimonio dei sardi e di tutti gli uomini che vogliono e vorranno goderne senza dissiparlo né rinchiuderla negli steccati delle proprietà esclusive; tributi che sottraggono alla “rendita parassitaria” una quota limitata di un plusvalore che è frutto della collettività e del suo secolare investimento nel paesaggio della Sardegna; tributi che incoraggiano uno sviluppo economico meno distorto di quello preconizzato dai difensori dei grandi poteri immobiliari.
Dalla lapide in bronzo a Piazza Antonio Gramsci, a Ghilarza (NU)
1.
Strano paese l’Italia. Ogni volta che si va all’estero, negli altri paesi d’Europa, ci si meraviglia di come stiano attenti a custodire la natura, a conservare il paesaggio, a aggiungere qualità al territorio. Fenomeni come il consumo di suolo, che da noi investono ogni anno migliaia e migliaia di ettari, vengono combattuti da decenni in Gran Bretagna, in Germania, Iin Francia e nei Paesi bassi. Nel progettare le strade si segue il più possibile l’andamento del terreno e si allontanano i cartelloni pubblicitari da tutte le visuali di un certo interesse. Da noi il territorio è considerato poco più d’una pattumiera.
Eppure, in questa situazione che indigna molti c’è qualcosa che si è salvato, e ancora si salva, meglio che altrove. Dirò qualcosa che farà forse stupire qualche mio collega, ma io credo di non sbagliare se dico che in Italia siamo all’avanguardia per quanto riguarda i nostri centri storici. Non c’è forse la cura minuziosa e quotidiana che in Austria e in Germania si pone alla conservazione dei piccoli centri tradizionali, e in Gran Bretagna e in Francia alla tutela dei monumenti più rilevanti e celebri, ma la sostanza dei nostri centri storici ne fa, ancora oggi, dei meglio conservati e dei più vivibili d’Europa.
Credo che questo dipenda dal fatto che, in Italia, si sono comprese prima che altrove tre verità importanti:
1.che ciò che ha valore e merita di essere conservato della nostra storia non sono soltanto i monumenti, le costruzioni eccezionali e “artistiche”, ma le città storiche nel loro insieme: che esse sono un valore perché testimoniano modi di vivere e di abitare nei quali tra le cose e l’uomo c’è equilibrio, formano nel loro insieme ambienti vivibili che la cultura e la tecnica moderne riescono raramente a eguagliare.
2. che la bellezza e l’utilità dei centri storici non è costituita soltanto dalle pietre che li formano, dai materiali e dalle forme degli edifici e degli spazi aperti che li organizzano, ma anche dalla società che li vive: dagli uomini e le donne, dai bambini e dai vecchi, dai lavoratori nei diversi mestieri, dai residenti stabili e dai viandanti e visitatori che vi arrivano.
3.che i centri storici non vivono separati dal territorio che li circonda, ma devono saper ricostituire con questo (con i nuovi quartieri e con gli altri centri antichi e nuovi, con i nuovi luoghi di produzione e con le vie di comunicazione, con le campagne e i paesaggi aperti) un rapporto efficace: se non si progetta l’insieme del territorio, anche i centri sstorici decadono.
2.
Un momento significativo della comprensione di queste verità è costituita da un documento, approvato nel 1960 in un convegno di studiosi e di amministrazioni comunali particolarmente consapevoli: c’erano Ascoli Piceno ed Erice, Bergamo e Ferrara, Genova e Perugia, Venezia e Gubbio. Mi riferisco alla cosiddetta Carta di Gubbio, nella quale si delineano alcuni essenziali principi, a mio parere ancora oggi in gran parte validi:
Era una fase particolarmente significativa della nostra storia. Nel dopoguerra si era costruito per ogni dove. L’esigenza di una ricostruzione rapida di tutto ciò che era stato distrutto dalla guerra prevalse, in Italia, su ogni altra esigenza e attenzione. Alla fine degli anni 50 si cominciavano a vedere i danni di un’edificazione senza scrupoli. Si cominciava a sentire come un delitto la devastazione dei vecchi centri e quartieri con edifici moderni. Furono gli anni in cui l’esigenza di una profonda riforma urbanistica diventò un grande tema politico e culturale. Bisognava salvare qualità preziose che minacciavano di scomparire. Ecco perciò l’impegno della cultura e dell’amministrazione più avveduta per correre ai ripari.
Di fronte agli scempi che si perpretavano la Carta di Gubbio pone in primo piano la salvaguardia:
“Si invoca una immediata disposizione di vincolo di salvaguardia, atto ad efficacemente sospendere qualsiasi intervento, anche di modesta entità, in tutti i Centri Storici, dotati o nodi Piano Regolatore, prima che i relativi piani di risanamento conservativo siano stati formulati e resi operanti”
Salvaguardia rigorosa, in attesa di compiuti atti di pianificazioni, basati su un accurato studio dei centri storici, finalizzati alla conservazione di tutti gli elementi e le regole che ne determinano la qualità. Pianificazione coordinata con quella dell’intero territorio comunale: la tutela e il risanamento
“come premessa allo stesso sviluppo della città moderna e quindi la necessità che esse facciano parte dei piani regolatori comunali, come una delle fasi essenziali nella programmazione della loro attuazione”.
Ma non basta il risanamento fisico:
“nei progetti di risanamento una particolare cura deve essere posta nell’iindividuazione della struttura sociale che caratterizza i quartieri e che, tenuto conto delle necessarie operazioni di sfollamento dei vani sovraffollati, sia garantito agli abitanti di ogni compatto il diritto di optare per la rioccupazione delle abitazioni e delle botteghe risanate, dopo un periodo di alloggiamento temporaneo, al quale dovranno provvedere gli Enti per l’edilizia sovvenzionata; in particolare dovranno essere rispettati, per quanto possibile, i contratti di locazione, le licenze commerciali ed artigianali ecc., preesistenti all’operazione di risanamento”.
Possiamo dire che da allora, in Italia, la buona cultura urbanistica e e la buona amministrazione hanno sempre considerato gli insediamenti storici come luoghi di eccellenza per più d’una ragione. Riassumo brevemente le ragioni della qualità del patrimonio costituito dagli insediamenti storici:
1.Sono testimonianza di un modo di vivere a misura d’uomo, nel quale l’individuale e il sociale, il provato e il pubblico trovavano l’espressione e lo strumento per il loro equilibrio.
2.Sono il prodotto memorabile di un rapporto tra costruito e non costruito, tra città e campagna, tra manifattura e agricoltura, tra il pieno (di pietre, di abitanti) e il vuoto (ma pieno di natura, di lavoro, di cultura millenaria) delle campagne.
3.Sono elementi nodali d’un paesaggio di rara bellezza, soprattutto nelle regioni nelle quali dall’assiduo lavoro della costruzione del territorio agrario nasceva la crescita d’una economia e d’una civiltà cittadine adornate anch’esse da suggestiva bellezza di forme.
3.
I migliori piani regolatori che la storia dell’urbanistica italiana del dopoguerra ricordi sono caratterizzate da episodi e da persone che hanno combattuto (e a volte vinto) battaglie memorabili per tramandare al futuro questi elementi decisivi del patrimonio comune. Basta ricordare
- Edoardo Detti e alla sua difesa del centro storico e delle colline di Firenze.
- La difesa delle colline di Bologna operata, negli stessi anni, da Armando Sarti e Giuseppe Campos Venuti.
- Il piano di Assisi e la disciplina meticolosa delle sue campagne nel piano regolatore guidato da Giovanni Astengo.
- L’impegno con il quale Luigi Piccinato e Ranuccio Bianchi Bandinelli imposero il rispetto del centro storico e delle valli orticole che determinano - con le mura e gli edifici – il paesaggio di Siena.
- Il piano del centro storico di Bologna, con il quale Pierluigi Cervellati introdusse per la prima volta nella pianificazione di un centro storico l’attenzione, e soprattutto la pratica, della difesa degli abitanti attraverso l’impiego – in un centro storico accuratamente pianificato con l’impiego dell’analisti tipologica – della programmazione dell’edilizia abitativa pubblica.
È all’inizio degli anni 70, del resto, che anche qui ad Asolo ci fu una coraggiosa battaglia e una coraggiosa scelta, grazie alla quale abbiamo ancora un centro storico intatto e bellissimo, ancora vivo e vitale, nonostante i suoi problemi. Mi riferisco alla scelta di evitare – con il PRG del 1973 - di manomettere con nuove pesanti costruzioni e con l’espansione dalla collina verso la piana il delicato assetto di uno dei più bei centri collinari.
4.
Riprendiamo il nostro ragionamento e veniamo all’oggi. Ogni centro storico ha una duplice caratteristica, una duplice funzione, e pone quindi una duplice serie d'esigenze, le quali sono due facce d'una medesima medaglia.
Da un lato, vi è il ruolo e il valore che deriva ai centri antichi dalla loro storicità: dal fato cioè che in essi si è verificata, nel corso dei secoli, una intensa accumulazione di valori, la quale fa oggi dei centri storici un patrimonio di grandissima rilevanza.
Dall'altro lato, vi è il ruolo che deriva dal fatto che nei centri storici si deve vivere, si deve lavorare, si deve abitare: che perciò essi devono essere comunque porzioni vive, attive, dinamiche degli organismi urbani e territoriali di cui sono parte.
I due aspetti sono strettamente intrecciati, e si sostengono anzi l'uno con l'altro. Infatti, mentre è ormai chiaro che i centri storici non trovano la ragione della loro bellezza solo nelle pietre e negli intonaci da cui sono costituiti, ma anche (e in modo essenziale) nella vita che in essi si svolge, è chiaro che solo nella misura in cui diverranno un patrimonio effettivamente considerato come tale - e perciò attivamente tutelato, messo in valore, concretamente utilizzato dalla collettività nazionale - i centri storici potranno diventare ancora una volta luoghi realmente vitali, sedi di attività non lesive dell'assetto formale che il trascorrer dei secoli e l'accumularsi del lavoro umano ha conferito a essi, ma capaci invece di integrarsi fecondamente con gli antichi valori.
Si apre a questo punto un problema di notevole rilevanza metodologica, al quale mi limiterò ad accennare. Tutelare in modo effettivo i centri storici significa, per quel che s'è detto, trovare un rapporto equilibrato e organico tra “strutture vitali” e “strutture formali”; significa in altri termini individuare, tra i “tipi organizzativi”, le attivita, le specifiche forme della vita produttiva presenti nella nostra epoca, quali siano quelli che possono non solo non risultar dannose all'assetto formale dei centri storici, ma anzi costituirne il contenuto organico e omogeneo, e perciò ravvivarlo e conferirgli nuova forza.
Questo è il tema che è di fronte a noi. Come fare della tutela, della conservazione, del risanamento e restauro, non qualcosa che sia fine a se stesso, ma la premessa e l’occasione per ripristinare una nuova vivibilità e vitalità del centro storico.
5.
A questo punto dobbiamo rilevare che nel nostro paese – a differenza degli altri paesi dell’Europa – se la politica della conservazione sembra abbastanza saldamente presente, manca assolutamente una politica che si faccia carico dei problemi concreti dell’assetto economico e sociale dei nostri territori, in particolare di quelli più delicati e preziosi.
Non mancano le spinte e le sollecitazioni economiche sul territorio e sulle città. Ma sono spinte e sollecitazioni di un’economia malata: un’economia che bada più all’appropriazione dei beni comuni e alla loro trasformazione in merci, che punta più alla rendita parassitaria che al profitto d’impresa, che divora il patrimonio storico anziché investire nel futuro, che riempie disordinatamente il territorio di edificazioni che spesso servono solo a chi le costruisce.
Ma non ci sono risorse per affrontare problemi per i quali in altri paesi di destinano investimenti importanti. Non ci sono risorse per un’edilizia abitativa a prezzi ragionevoli. Non ci sono risorse per aiutare i comuni a dotare le città e i paesi delle attrezzature necessarie per la vita civile. Non ci sono risorse per contribuire a restaurare e riqualificare patrimoni comuni importanti per il presente e il futuro, come appunto l’edilizia storica. Non ci sono leve per incentivare le utilizzazioni virtuose, socialmente e culturalmente utili, degli spazi per l’artigianato di qualità, il piccolo commercio vitale per i centri urbani, un’agricoltura radicata nelle specificità dei territori.
E invece, cresce a dismisura la ricchezza di chi sui beni comuni, sul territorio e sulla città, specula in modo sempre più smaccato. Non so quanti di voi hanno visto domenica scorsa il programma di Report dedicato all’urbanistica romana. Avete sentito grandi imprenditori confessare candidamente che, grazie alle scelte di una pianificazione compiacente con il loro interessi, il valore di aree acquisite pochi anni fa è aumentato di cinque e dieci volte.
In altri paesi dell’Europa, di cui pure facciamo parte, la pianificazione pubblica anticipa e guida le scelte degli investitori immobiliari. E sulle operazioni di trasformazione immobiliare l’incremento della ricchezza privata dovuto alle scelte della collettività ritorna in misura molto larga nelle casse pubbliche, per essere spese negli interventi utili per l’intera comunità. Da noi succede il contrario: con i nostri soldi, con le tasse, paghiamo i guasti, i disagi, le congestioni, i malfunzionamenti che un uso dissennato del territorio provoca alle nostre vite.
6.
Gli approdi della cultura urbanistica più avanzata si sono per lo più tradotti in strumenti e iniziative di salvaguardia, ma queste non sono sufficienti per tutelare con efficacia i centri storici e i loro paesaggi..
La pianificazione urbanistica ha contribuito alla tutela dei centri storici, scongiurando pesanti manomissioni e indirizzando l’attività edilizia verso il restauro e il recupero del patrimonio edilizio esistente. E questo benché i centri storici non siano riconosciuti né tutelati in modo specifico dalle leggi nazionali in materia di tutela del paesaggio e dei beni culturali, e sono disciplinati in modo fortemente disomogeneo dalle leggi urbanistiche regionali.
Ma risultati del tutto insoddisfacenti sono stati raggiunti con riferimento al secondo ruolo dei centri storici, quella di luogo privilegiato per vivere, lavorare e incontrarsi. Ai problemi legati allo spopolamento, alla terziarizzazione, alla degradazione collegata al turismo di massa, alla chiusura di servizi e attività commerciali di base, non sono state fornite risposte compiute, né sotto il profilo legislativo, né all’interno delle elaborazioni tecniche e culturali degli urbanisti.
Così come per la città nel suo complesso, la domanda di pianificazione si è ampliata negli anni, senza trovare adeguate risposte nella strumentazione ordinaria. Come ci si attrezza per facilitare la vita nelle città, e quindi nel centro storico? Quali attività sono da favorire e quali da escludere, in periferia e nel centro? Le politiche per la casa, i trasporti, i servizi ambientali, i servizi sociali, gli spazi pubblici devono trovare una declinazione specifica quando riguardano i centri storici? e fino a che punto sono influenzate dalle decisioni che riguardano le periferie o i territori circostanti?
Per Asolo, ci siamo sforzati – insieme all’amministrazione e ai numerosi cittadini che siamo riusciti a coinvolgere nel nostro lavoro – di fornire alcune risposte, sulle quali ragioneremo nel pomeriggio. E certo che localmente molto si è fatto, soprattutto negli ultimi anni, e molto si può ancora fare. Un grande rulo spetta ai comuni. È certo difficile, significa navigare controcorrente. Ma è ciò che feca a Gubbio, nel 1960, un gruppo di comuni animosi che sapevano guardare lontano.
Siamo convinti che il problema di Asolo sia parte di un problema molto più generale, che non riguarda solo gli asolani ma l’intera comunità nazionale, e di cui la comunità nazionale deve prendere consapevolezza. Bisogna che l’Italia decida se vuole davvero vedere e vivere nel suo patrimonio storico come qualcosa che essa possiede più d’ogni altra nazione, qualcosa che costituisce la ragione del suo prestigio nel mondo, qualcosa che nessuna concorrenza della Cina o della Malaysia può toglierle, perché è unico e serve per tutto il mondo di oggi e di domani. A condizione non solo che questo patrimonio venga amorevolmente conservato, ma che si investa in esso perché possa essere adoperato nel pieno delle sue possibilità, con l’impegno di quelle risorse finanziarie, amministrative, legislative che in altri paesi vengono largamente desinati ai beni comuni, e che da noi vengono invece troppo spesso dilapidati in opere inutili e inutilmente costose.
Democrazia, una parola difficile
Abbiamo lavorato con parole difficili. La prima è forse la più difficile: democrazia.
Non fermiamoci a immagini facili e agiografiche della democrazia. Io oscillo tra due definizioni. La prima è quella di Chirchill: "E’ un sistema di governo pieno di difetti, ma tutti gli altri ne hanno di più". E quella di Luciano Canfora:
La democrazia […] è infatti un prodotto instabile: è il prevalere (temporaneo) dei non possidenti nel corso di un inesauribile conflitto per l'eguaglianza, nozione che a sua volta si dilata storicamente ed include sempre nuovi, e sempre più contrastati, "diritti"
Non rinuncio a nessuna di queste due definizioni: né alla democrazia come male minore, né alla democrazia come tensione verso l’eguaglianza e la crescita di nuovi diritti. E’ quest’ultima però quella che meglio possiamo utilizzare per passare all’altra parola difficile, la partecipazione. Del resto, anche Paba mi sembra che concordasse con questa impostazione, quando diceva che "la democrazia non è una cosa quieta".
Possiamo allora intendere la partecipazione come il lavoro per far entrare nella democrazia (nell’attuale sistema di governo) nuovi diritti: nuovi soggetti sociali, finora esclusi dal processo delle decisioni o marginali rispetto ad esso. Soggetti sociali portatori di nuovi interessi, di nuovi bisogni – e anche, ricordavano Paba e Baruzzi, di nuova ricchezza, di nuovi valori.
Partecipazione, dunque, come alimento e condizione della democrazia. Ma quali spazi consente la democrazia attuale, l’attuale sistema di governo, alla partecipazione intesa in questo senso? Vorrei regalarvi una più lunga citazione di Canfora:
A ben vedere, tutta la ormai annosa disputa sull'efficacia "elettorale" e, più in generale "politica", del potere mediatico si basa su di un equivoco. Si finge di credere che la prevalenza politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione con il possesso e il controllo dell'informazione politica. Ma questa costituisce un aspetto minimo della questione: è al più la dose di potere me diatico che concerne l'élite politicizzata. Tutto il resto dell'immensa produzione - senza più differenze tra emittenti private e pubbliche, perché queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime - è ormai un colossale veicolo dell'ideologia, o per meglio dire del culto, della ricchezza. Non importa più chi controlli: è stato plasmato il gusto ed esso esige comunque un adeguamento totale. Il dominio della merce è diventato culto della merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla lunga consolida, il culto della ricchezza. La colossale massa di emissioni consacrate alla promozione delle merci è, a ben considerare, il principale contenuto della gigantesca "macchina" televisiva. Non importa di quale prodotto, meglio se di tutti. Quello che ad una minoranza di fruitori appare come un disturbo (di cui attendere la conclusione per "riprendere il filo") è invece il testo principale: ore e ore quotidiane di inno alla ricchezza presentata, con mirabile efficacia, come status a portata di mano (p. 328).
E ancora:
Il culto della ricchezza (nel quale rientrano anche i miti sportivi) ha creato - ed è questo forse il maggior suo successo - la società demagogica perfetta. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma della "parola demagogica". Proprio mentre sembra favorire, attraverso lo strumento mediatico, l'alfabetizzazione di massa, essa produce - e il paradosso è solo apparente - un basso livello culturale oltre che un generale ottundimentó della capacità critica […]contrario l'attuale "democrazia oligarchica", o sistema misto, o come altro si preferisca chiamarlo, orienta, ispira e perciò dirige una folla molecolarizzata e, insieme, omogeneizzata dalla capillare onnipresenza del "piccolo schermo"; nutre, illude e proietta verso una felicità merceologica a portata di mano una miriade di singoli, inconsapevoli della parificazione mentale e sentimentale di cui sono oggetto, paghi della apparente verità e universalità che quella fonte, in permanenza attiva, fornisce quotidianamente loro, soffusa di sogni (p. 331).
Questo è l’orizzonte (nel senso di limite valicabile) nel quale si colloca la nostra azione. E allora non possiamo né dobbiamo farci spaventare dalle difficoltà. Per calibrare l’ottimismo della volontà sul pessimismo della regione ricordiamo Italo Calvino:
L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Il nostro compito può essere proprio questo: "saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".
Un'altra parola: Partecipazione
Naturalmente si è ragionato molto anche attorno alla seconda parola del nostro tema: Partecipazione. Vorrei riprendere quattro temi che mi sembrano centrali.
1. La partecipazione nella nostra storia.
Proprio qui a Bologna, in Emilia Romagna, ricordiamo come si comportava la sinistra; ne accennava Tarozzi nel suo intervento. Quando c’erano i partiti, i "partiti di massa (il comunista, il socialista, la democrazia cristiana) allora esistevano dei progetti di società, che i partiti - e le oggi deprecate ideologie - esprimevano. La politica aveva e dava una prospettiva, animava degli ideali: basta leggere quel bellissimo libro di Alcide Cervi e Renato Nicolai, I miei sette figli, per comprendere lo spessore che animava e nutriva la politica, e che dalla politica era animato e nutrito.
Oggi questo non c’è più. Ed è anche da questa decadenza che nascono le difficoltà del rapporto con la politica: del rapporto tra il popolo e la politica. E da questo nascono anche le difficoltà della politica con la terza parola del nostro convegno: la Urbanistica. A questo proposito vorrei che ricordassimo che le poche leggi di riforma (leggi riformatrici, non riformiste) negli strumenti di governo del territorio sono nate in determinate ragioni della nostra storia, per effetto della spinta di grandi organismi di massa e della sensibilità democratica (adopererei proprio questo termine) delle forze politiche.
Mi riferisco all’inserimento dell’obbligo di riservare determinati spazi per i servizi collettivi e il verde nei piani regolatori, statuito con il decreto sugli standard del 1968, che ha indubbiamente tra i suoi motori principali la lunga camopagna popolare ingaggiata dall’Unione donne italiane dall’inizio degli anni Sessanta, con una serie di iniziative attorno a una legge d’iniziativa popolare.
E mi riferisco all’iniziativa delle tra centrali sindacali che ebbe il suo epicentro nello sciopero nazionale generale del 19 novembre 1969 per la casa, i servizi, i trasporti, che condusse alle leggi di riforma dei primi anni Settanta.
Oggi, sei Camere del lavoro hanno dato vita a un’iniziativa che va di nuovo nella medesima direzione. Il sindacato dei lavoratori esce dalla fabbrica, acquisisce consapevolezza del fatto che l’organizzazione della città e del territorio incide pesantemente sulla vita dei lavoratori e suoi costi, e decide di porre il tema al centro delle sue vertenze. E’ un segnale promettente, una speranza.
2. Partecipazione e decisione
Esistono vari modi di partecipare, di influire al processo delle decisioni. Bibo Cecchini ne ha parlato in modo condivisibile, e le stesse esperienze illustrate hanno esemplificato significati e accezioni diverse della partecipazione. Per continuare a ragionare su questo tema, vorrei invitarvi a rifletters su due aspetti: i gradi della partecipazione, la scala dell’argomento cui la partecipazione si applica.
Il grado più elevato della partecipazione è indubbiamente il concorso ala decisione. A questo proposito, alle istanze partecipative (il vicinato, il quartiere, la città) può essere delegata la decisione, oppure esse potranno esprimersi mediante proposte su cui il decisore sarà o meno tenuto a esprimersi, oppure potrà essere un mero condizionamento della decisione. Il modo maggiore o minore in cui l’istanza partecipativa contribuisce alla decisione varia evidentemente in relazione al carattere del decisore e al peso del "partecipatore".
Il grado minimo, ma essenziale, sembra a me essere la trasparenza del processo delle decisioni. Questo grado dovrebbe essere garantito sempre: in sua assenza la partecipazione è fittizia. Vorrei sottolineare che assicurare questo livello non basta "aprire le porte degli uffici e i cassetti delle pratiche": si pone anche, e in primo luogo, un problema di linguaggio. Il "burocratichese" è un linguaggio ricco di qualità, ma è formato per la comunicazione tra gli addetti ai lavori. I piani regolatori parlano un linguaggio costruito per essere compreso dal portatore d’interessi immobiliari, molto meno dagli utenti della città.
Il grado intermedio, il necessario passaggio tra la trasparenza e il concorso alla decisione, è la conoscenza. Questa implica certamente la possibilità di accedere ai dati, ma richiede in più apprendimento e cultura. A proposito del programma di amministrazione della giunta bolognese, a me sembrerebbe molto utile se ci fosse un forte nesso tra le politiche del territorio e dell’ambiente, dove ci si impegna a percorrere sentieri partecipativi, e le politiche culturali, che a prima vista mi sembrano un po’ "separate" e tradizionali.
Per quanto riguarda la scala dell’argomento cui la partecipazione si applica vorrei limitarmi a rilevare che il principio di sussidiarietà, correttamente inteso (alla Mastricht, più che alla Bossi), potrebbe essere una guida sufficiente per comprendere. Così mi sembra ovvio affermare che a livello di vicinato o di quartiere la partecipazione è facile, mentre a livello di una intera città media o grande è molto difficile (pensiamo, ad esempio, a un PRG).
3. Partecipazione e interessi
Qualcun diceva che anche l’urbanistica concertata è una forma di partecipazione. In effetti occorre intendersi: partecipazione è un termine neutrale, occorre qualificarlo, chiedersi "partecipazione di chi". In termini sostanziali credo che si debbano distinguere tra loro i diversi tipi di interessi in relazione agli usi diversi delle risorse territoriali.
Occorre distinguere e selezionare gli interessi economici da quelli delle cittadine e dei cittadini (abitare, muoversi, comunicare, conoscere). All’interno dei primi occorre distinguere (e selezionare) gli interessi della rendita immobiliare e di quella finanziaria, quelli del profitto e dell’accumulazione nel processo produttivo e nell’innovazione, quelli del salario. Occorre distinuere gli interessi di quanti usano la città per le loro esigenze personali o produttive, e quanti la usano per il proprio arricchimento. Occorre distinguere le differenze tra i diversi gruppi sociali (ce ne parlava Bassetti, quando affermava che lo sforzo è nel ortare a sintesi le diversità).
Credo che una stella polare cui guardare per orientarsi sia in quella definizione di democrazia come "il prevalere dei non possidenti nel corso d’un inesauribile conflitto per l’eguglianza". E che ocorra ricordare che la partecipazione agisce anche attraverso la contestazione, dove gli interessi dei "non possidenti" sono esclusi dal processo di formazione delle decisioni, o non si riconoscono nei suoi esiti.
4. Gli strumenti della partecipazione.
Su questo punto voglio limitarmi a sottolineare che la partecipazione ha bisogno di tempo e ha bisogno di risorse. Senza questi due ingredienti la partecipazione non esiste. Può esistere, al massimo, la comunicazione: o meglio, quella forma banale di comunicazione che o la propaganda.
Ma dire questo significa anche dire che la partecipazione ha bisogno di procedure certe. Occorrerebbe ripartire da quel poco di partecipazione formalizzata che era consentito dalla stessa legge del 1942, le "osservazioni" agli strumenti urbanistici, per tener conto della maggiore dose di democrazia garantita dal sistema attuale rispetto a quello fascista.
Nel quadro degli strumenti, credo che un contributo rilevante potrebbe darl la Agenda 21, se riuscisse a legare i diversi aspetti delle politiche territoriali e ambientali a quel grande palinsesto delle decisioni dsul territorio che è il piano urbanistico e territoriale.
Per concludere.
Il nostro colloquio si è intrecciato attorno a tre poli: un primo polo rappresentato dalla democrazia, le istituzioni, quindi la politica: un secondo, l’urbanistica e i suoi strumenti; il terzo polo, la particapazione, cioò la presenza dei cittadini nel sistema delle decisioni.
Ora la politica (il primo polo) è in crisi: delegittimata non dalla sua inefficacia, ma – in Italia – dallo svelamento del vizio denominato Tangentopoli, ossia alla subordinazione delle regole e delle strategie condivise agli interessi venali di singoli e di gruppi (e, nel mondo, dal contemporaneo venir meno dela speranza di un sistema economico-sociale alternativo).
Anche l’urbanistica è in crisi. Quando la politica si riduce al quotidiano, quando il suo obiettivo è la conquista del consenso dei poteri forti, quando i poteri forti coincidono con la rendita immobiliare e finanziaria tra loro intimamente legate (e quando la cultura si riduce ad accademia) è inevitabile che anche l’urbanistica entri in crisi.
Io vedo la partecipazione anche come uno strumento che può essere utile per tentar di uscire dall’una e dall’altra crisi.
Uno strumento da adoperare con duttilità, pazienza e costanza, ricordando che le sue finalità sono due. Da una parte, raggiungere obiettivi concreti. Dall’altra parte, svolgere una funzione educativa, formativa, di crescita collettiva.
Uno strumento, infine, da adoperare tenendo conto che c’è un divario che deve essere governato perché non diventi una contraddizione: quello tra il "locale", come spazio nel quale la partecipazione può raggiungere maggiore efficacia. Il "generale", come spazio che inevitabilmente condiziona anche il locale, e che quindi non può essere "lasciato agli altri".
Le citazioni di Luciano Canfora sono tratte da: L. Canfora, La democrazia. Storia di una ideologia, Editori Laterza, Roma-Bari 2004. Più ampi stralci sono in Eddyburg qui
Una legge può essere valutata in se, nelle parole del suo testo. È una lettura del tutt legittima, ed è quella con la quale, con grande chiarezza. Marco Cammelli ha aperto il convegno. Forse perché il mio mestiere è fare l’urbanista, sono abituato invece ad analizzare e a valutare le leggi nel contesto – storico, culturale, sociale, politico – nel quale sono formate e agiscono. Garzilli ha svelato stamattina una porzione del contesto. Al contesto si riferirà l’insieme del mio intervento: un contesto, voglio sottolinearlo, non emiliano-romagnolo, ma italiano, dell’Italia nel suo complesso.
Prima di affrontare il tema del paesaggio vorrei brevemente inquadrare la questione sottolineando alcuni principi cardine che caratterizzano storicamente l’impostazione italiana dell’azione di tutela del patrimonio comune che è costituita dai beni culturali, di cui il paesaggio è parte rilevante.
Il principio dell’inalienabilità. Vorrei ricordare, sia pure per incidens, le origini molto antiche di questo principio, affermato per la prima volta dal soprintendente alle antichità di Roma Raffaello Sanzio, nel 1517 (V. Emiliani, 2004)
Vorrei ricordare come questo principio, più volte ripreso nei secoli successivi, sia stato ribadito nella prima legge organica dello Stato italiano sull’argomento (1909), in cui si proclama l’assoluta inalienabilità dei beni culturali.
Credo che si possa dire che la premessa della “linea italiana” sui beni culturali è insomma la statuizione della sua appartenenza alla sfera dell’interesse pubblico. Ciò comportava la finalizzazione dell’uso e delle trasformazioni all’interesse comune, e la tendenziale preferenza per la proprietà pubblica.
Un secondo principio cardine mi sembra che sia costituito dalla consapevolezza della rilevanza del paesaggio ai fini della determinazione della identità nazionale.
Questo principio è stato portato a piena dignità d’espressione e di norma da Benedetto Croce, ministro dell’ultimo governo Giolitti (1922): il paesaggio "è la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo".
Esso è stato ripreso dall’articolo 9 Cost: “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Entrambi questi principi mi sembrano messi in crisi dal nuovo Codice. Come molti hanno osservato, nel decreto legislativo Urbani il principio dell’alienabilità come eccezione è ribaltato nel suo opposto: ogni qual volta vi sia la convenienza economica l’alienazione è la regola, la conservazione al patrimonio pubblico è l’eccezione. Questa valutazione, che condivido, era affermata per esempio con grande forza nell’intervento di stamattina di Andrea Emiliani.
Contraddetto è, di fatto, anche l’altro principio: quello dell’interesse nazionale, non frammentabile né ripartibile, della tutela del paesaggio; un principio che non a caso è stato posto – come ho appena ricordato - tra i fondamenti della Repubblica nella Carta costituzionale. Su questo aspetto tornerò fra breve. Voglio però domandarmi prima: perché questo capovolgimento?
La premessa è, a mio parere, nell’introduzione tra gli idola tribus di questi decenni di alcune nuove priorità: privato è meglio di pubblico, mercato è meglio di Stato, individuale è meglio di collettivo. Idola che non hanno prevalso solo nelle tribus di destra. Su questi nuovi idola è intervenuto con molta efficacia Trimarchi, stamattina, quando ha osservato che la tesi corrente è che lo Stato non è capace di tutelare il nostro patrimonio, e quindi si aspetta il privato risolutore come nei film western si aspetta il Settimo cavalleggeri.
In questo quadro, mi sembra che abbia avuto un ruolo rilevante, e che costituisce un rivelatore efficace, il largissimo impiego del termine valorizzazione.
È un termine che non c’è nell’articolo 9 della Costituzione (“la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”). È un termine che compare nell’articolo 117 novellato il quale, come tutti sappiamo, colloca la “ tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” , tra le materie di esclusiva competenza statale, e la “ valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, tra le materie di competenza concorrente.
È un termine a proposito del quale ho molto apprezzato le cose che ci ha detto stamattina Vanelli, dello sforzo di suerare la dicotomia tra valorizzazione e tutela riconducendo ciascuno dei due termini all’altro, come ho apprezzato l’angolazione economica intelligente sotto cui ci ha presentato il termine Trimarchi. Vorrei aggiungere un’ulteriore considerazione, che si riferisce alle categorie economiche che mi sono consuete.
Mi avevano insegnato che ci sono due forme del valore: il valor d’uso e quello di scambio. Il primo riferito agli oggetti come beni, il secondo agli oggetti come merci. A quale delle due forme di riferisce la valorizzazione della quale si parla oggi? Se si tratta del valor d’uso, allora mi sembra che coincida senza residui con tutela. Se invece si riferisce al valore di scambio, allora coincide con una visione economicistica, commercialistica, mercantilistica.
È certamente quest’ultima l’interpretazione che rinvia il contesto culturale e politico: È questa che è coerente con la logica della separazione, e con il trend culturale, iniziato con la proposta Craxi-De Michelis dei giacimenti culturali
La separazione significa: tutela l’oggetto come bene, valorizzazione l’oggetto come merce. Ma affidare la tutela allo stato, la valorizzazione sostanzialmente alla regione, significa allora introdurre una dialettica rischiosa. Impone comunque di porre su un piano di co-decisione (di condominio del potere) stato e regione. Una ragione forte a favore di un ruolo forte dei potere specialistici dello stato: ragione che, come vedremo, è negata e capovolta dal nuovo Codice.
Un ulteriore principio cardine dell’impostazione italiana dei beni culturale mi sembra sia costituito dal legame tra il bene culturale e il contesto. Questo principio è implicito nelle prime affermazioni dell’l’inalienabilità come divieto di estrarre dal contesto (ordinanze che si ritrovano già nella seconda metà del XVI secolo). Esso trova del resto la sua radice in quella straordinaria densità dei beni culturali nel contesto territoriale italianoi, come ci ricordava or ora Bruno Toscano: nel fatto che il nostro territorio è intriso di beni culturali, che non sono da esso distinguibili.
È da questo nucleo, mi sembra, che si sviluppa l’attenzione al paesaggio: ricordiamo il Ministro Benedetto Croce, ricordiamo Giulio Carlo Argan (il paesaggio come palinsesto nel quale possiamo leggere secoli di storia)
Il principio della rilevanza cuturale del paesaggio e dell’esigenza della sua tutela da parte dello Stato ha una prima statuizione compiuta nell’introduzione dei piani paesistici nella legge Bottai (1939), coeva della legge urbanistica del 1942. Ma è la legge Galasso (1985) il traguardo più significativo:
- si riprende l’intuizione crociana del paesaggio come espressione dell’identità nazionale,
- si individuano, prescrittivamente i lineamenti del paesaggio nazionale, la sua grande orditura e si vincolano (con vincolo solo procedimentale) i suoi elementi caratterizzanti,
- si amplia e si precisa lo strumento della pianificazione territoriale e urbanistica come strumento principe per la tutela del paesaggio (del contesto), passando da una visione settoriale del paesaggio a una visione tendenzialmente integrata con la pianificazione ordinaria: una anticipazione delle novità della convenzio ne europea del paesaggio, che Poli ci ricordava or ora;
- si definisce un sistema equilibrato competenze (e i doveri) dei poteri centrali e di quelli sub-nazionali: l’individuazione concreta dei beni da tutelare e delle specifiche regole da imporre per la loro tutela era affidata al sistema (prevalentemente regionale e sub-regionale) della pianificazione, mentre alla responsabilità dello Stato permaneva il potere di stabilire finalità, criteri e metodi della tutela, nonché quello di intervenire con l’annullamento di disposizioni amministrative qualora queste fossero in contrasto con la finalità della tutela dei beni: era, quest’ultimo, un potere di estremo arbitrato e di deterrenza, ma in esso risiedeva l’ultima garanzia della tutela di interessi nazionali.
Il nuovo Codice mantiene l’insieme del sistema Galasso, apportando utili integrazioni per quanto riguarda:
- il contenuto della pianificazione, secondo una linea che a me sembra convincente;
- la precettività delle determinazioni del piano paesaggistico;
- l’attività della ricognizione, del riconoscimento, dell’individuazione come fondamento della tutela, coe ci illustrava efficacemente Vanelli stamattina..
Il nuovo Codice rompe però drasticamente l’equilibrio tra potere centrale e potere regionale, eliminando il potere d’annullamento degli interventi contrastanti con le finalità della tutela e sostituendolo con l’espressione di un parere non vincolante delle sovrintendenze. In questo senso le critiche al Codice (ad esempio quelle che abbiamo sentito nell’intervento di Lo savio) mi sembrano motivate e giuste, e sottolineano anche in questo capitolo la linea generale di spoliazione dei poteri della nazione in quanto tale, che pervade tutta l’impostazione di questa legge, e di questa legislatura.
Credo che sia utile, e in questa sede necessario, passare dalla critica alla proposta.
Occorre domandarsi insomma che cosa fare, nel campo della tutela del paesaggio, per riprendere un cammino in avanti, che non sia di semplice resistenza ma che indichi prospettive positive: sia come preparazione di nuove regole (a livello nazionale e a livello regionale e subregionale) sia come azioni concrete.
1. A me sembra che sia in primo luogo necessario ribadire il principio di un interesse nazionale nella tutela del paesaggio: È un principio, del resto,dettato dalla Costituzione. È stato annebbiato negli ultimi anni dal cedimento alla demagogia della devoluscion, che si è manifestata già negli ultimi governi di centro sinistra.
Ribadire il principio dell’interesse nazionale del paesaggio non significa negare l’impianto regionalista della nostra Repubblica (prima o seconda che sia), ma significa richiamare l’idea dello Stato come “intero e armonioso complesso delle istituzioni” (V. Emiliani, 2004), e la concezione del paesaggio come elemento fondante dell’identità del tutto nazionale e delle sue singole parti. (Montale, “Il tutto è più importante delle sue parti”)
2. Ritengo che sia da apprezzare e da difendere, nel nuovo Codice, l’aver mantenuto la coerenza dell’impianto della legge Galasso, e in particolare il passaggio dal vincolo (indubbiamente valido come forma transitoria di protezione) alla pianificazione (come metodo e strumento per una considerazione complessiva delle esigenze di tutela del paesaggio e dell’ambiente e di sintesi con le altre esigenze).
Non concordo perciò con la critica al Codice in merito alla vincolatività perenne dei vincoli ope legis, peraltro meramente procedimentali.
3. Ritengo che sia da ribadire ulteriormente la priorità delle determinazioni relative alla tutela (le invarianti strutturali) rispetto alle esigenze di trasformazione. È una priorità che ha un suo rilevante precedente nella pianificazione paesistica della Regione Emilia-Romagna (1986), e che è stata incorporata nella migliore legislazione regionale (Toscana 1995, Liguria 1997, Emilia-Romagna 2000)
4. Ritengo che il principio dell’interesse nazionale non debba necessariamente manifestarsi nella forma dell’ annullamento (che interviene solo a posteriori, Meandri 2004), e neppure in quello della autorizzazione, ma debba esprimersi sia, nell’immediato, con la vincolatività del parere preventivo, sia e soprattutto con la sempre più larga applicazione di pratiche di co-pianificazione: con la partecipazione paritaria alle scelte della pianificazione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici degli enti che esprimono gli interessi della tutela ai diversi livelli, a partire da quello nazionale.
Un positivo precedente mi sembra del resto costituito dalla norma dell’articolo 57 del DLg n. 112 del 31 marzo 1998[1], che dà alla pianificazione provinciale il valore di pianificazione di tutela di competenza statale “sempreche’ la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti”
Vorrei aggiungere due considerazioni che non mi sembrano marginali, benché possano sembrare (e forse siano) delle assolute ovvietà.
La prima. Sono ormai trascorsi vent’anni dall’entrata in vigore della Legge Galasso. Mi sembrerebbe assolutamente indispensabile fare finalmente un’analisi seria del modo in cui essa è stata applicata: sia nelle concrete esperienze di pianificazione e nei loro effetti, sia dei comportamenti amministrativi, sia infine nelle ricadute sulla legislazione regionale.
Risulterebbero molte cose interessanti, alcune delle quali si possono già intuire:
- le enormi differenze tra regione e regione, che porrebbero in evidenza l’assoluta assenza di coordinamenti nazionali o di autocoordinamenti interregionali:
- le notevoli diversità di criteri adottati nelle diverse situazioni, a volte – ma non sempre - motivate da differenze sostanziali delle culture e delle realtà,
- l’inefficacia del sistema sanzionatorio, e quindi la scarsa garanzia fornita dalla potestà di annullamento
- la variegata traduzione (e spesso lo sviluppo) del “sistema Galasso” nelle legislazioni regionali.
La seconda. Se si condividono i punti che ho prima esposto, e in particolare l’esigenza di esprimere l’interesse nazionale nella forma della partecipazione preventiva delle strutture statali alle decisioni della pianificazione, si deve necessariamente convenire sul fatto che l’interesse nazionale non potrà essere tutelato finché l’apparato tecnico-scientifico dello stato sarà nelle tragiche condizioni di scarsità di risorse nelle quali versa, e verso le quali sempre più le sospingono il governo Berlusconi e il Ministro Urbani.
Se nelle preture e nei tribunali mancano cancellieri, attrezzature informatiche, e perfino codici, carta da fotocopie e carta igienica, non credo che le carenze di personale specializzato, di strumenti di lavoro e di materiali da consumo siano minori nelle sovrintendenze. Alle quali, per di più, l’autogoverno proprio del Terzo potere è sostituito da una burocrazia ministeriale la cui prevalenza mi sembra molto accentuata nell’ultima fase.
I sovrintendenti – lo scriveva Losavio nel suo intervento – sono relegati dal nuovo Codice “a un ruolo subalterno di mera consulenza”. Ed è facile immaginare la conseguenza di quella differenza tra il 2° e il 3à comma dell’articolo 115, che ci raccontava stamattina Cammelli: chiediamo all’ente pubblico di essere attrezzato, efficace ed efficiente, dotato degli strumenti e delle competenze adeguate, non lo mettiamo nelle condizioni richieste dal 2° comma, e allora siamo legittimati a dare i beni culturali nelle mani dei privati, cui il 3° comma non chiede nulla di simile. Il gioco è fatto.
[1]“La regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale di cui all'articolo 15 della legge 8 giugno 1990, n. 142, assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell'ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreche' la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti”.
Il nuovo PR di Eboli si colloca in una situazione nazionale fortemente contraddittoria. In essa colpiscono in primo luogo gli elementi negativi, alcuni dei quali sono già stati evocati in questo dibattito. Voglio riassumerli in quattro punti.
1. La grande incertezza sull’idea stessa di potere pubblico, sul suo ruolo, la sua forza, la sua necessità: L’interesse comune sembra spingere sempre di più verso la disponibilità del potere pubblico a diventare mero strumento al servizio degli interessi privati. Il documento sull’urbanistica milanese, di cui De Lucia ha parlato, è un caso limite, non certo l’unico.
2. La continua contrapposizione di strumenti speciali, sostanzialmente derogatori, provocati e condizionati dall’emergenza e dall’occasionalità, prodotti e gestiti all’ombra della discrezionalità, agli strumenti della pianificazione, necessariamente, statutariamente governati dalla trasparenza e dalla tensione verso la coerenza.
3. L’utilizzazione dell’accresciuta attenzione dei cittadini per l’ambiente più come stimolo alle esercitazioni retoriche che come presa in carico dell’esigenza di avviare processi di lungo periodo capaci di stabilire nuovi equilibri tra storia e natura, tra uomo e ambiente. Dalla tensione verso il la ristrutturazione ecologica della produzione siamo passati alle ecodomeniche.
4. Quasi come sintesi ed emblema degli elementi negativi del quadro, le mai sopite tensioni verso la promozione dell’abusivismo (Gaia Pallottino ce lo ha appena ricordato) attraverso la riproposizione continua dei condoni, nonché la scarsa attenzione verso gli episodi di deciso contrasto all’abusivismo, che hanno visto Eboli in prima linea.
Un quadro scoraggiante. Ma per fortuna, accanto a questi elementi ve ne sono altri di segno opposti. Deboli, non ancora egemoni, forse addirittura minoritari, che proprio per ciò meritano di essere conosciuti, promossi, valorizzati nei loro elementi positivi più che criticati per gli aspetti insoddisfacenti e per gli errori che inevitabilmente contengono. Mi riferisco a due serie di elementi:
- ad alcune tendenze e iniziative nuove a livello nazionale (e in particolare alla nuova legge urbanistica)
- all’azione di pianificazione corretta e innovativa che un numero non trascurabile di amministrazioni – soprattutto comunali e provinciali – sta conducendo.
Dopo un lungo lavoro dell’VIII Commissione parlamentare della Camera dei deputati, e un lavoro intelligente della sua Presidenza, è stato definito un testo unificato che affronterà nei prossimi mesi le discussioni e decisioni finali. La valutazione complessiva che ne do è positiva: è una proposta che assume, con equilibrio e intelligenza, gli elementi positivi e innovativi emersi dal dibattito e dall’esperienza degli ultimi tre lustri. Mi limito a sottolineare alcuni aspetti essenziali.
Mi limiterò ad annotarne gli aspetti a mio parere più interessanti.
In primo luogo, l’assunzione piena dell’articolazione degli atti di pianificazione in due componenti, quella strutturale e strategica e quella programmatica e operativa, come nuova forma della pianificazione. Una forma che si è cominciato a sperimentare nel PRG del centro storico di Venezia negli anni Ottanta, che è stata proposta da Polis nel convegno sui 50 anni della legge urbanistica tenuto a Venezia nel 1992, che è stata assunta dall’INU nel congresso di Bologna nel 19895, che è stata sperimentata in più d’un PRG e che è sostanzialmente contenuta nelle nuove leggi urbanistiche della Toscana, della Liguria, del Lazio. È un’innovazione decisiva, a mio parere, pere rendere più chiaro e più snello il processo di pianificazione, per semplificarne le procedure, per avviarci verso una “pianificazione continua” delle trasformazioni del territorio, per decentrare le responsabilità di rilevanza locale senza rinunciare al controllo di quelle di carattere più generale.
In secondo luogo, la definizione di rapporti responsabili tra i diversi livelli di governo coinvolti nel processo di pianificazione. Benché non si dia una definizione sufficientemente rigorosa del principio di sussidiarietà, esso è concretamente applicato in modo convincente: non come trasferimento d’ogni potere “verso il basso”, ma come individuazione del livello giusto (cioè efficace ed efficiente) per ogni decisione. La responsabilità degli enti sottordinati viene intesa (come deve essere) in due sensi: essi assumono la competenza a decidere, ma al tempo stesso vengono previste norme suppletive e di salvaguardia nel caso che essi non adempiano in modo adeguato.
In terzo luogo, il modo corretto con il quale si assume e si risolve il tema della “perequazione”: non come riconoscimento generalizzato si un diritto a edificare trasferibile sul territorio, non come “spalmatura” dell’edificabiità, e neppure come alternativa generalizzata all’espropriazione delle aree necessarie per la formazione di spazi pubblici, ma come tecnica di ripartizione di oneri e benefici all’interno delle aree trasformabili, decise come tali dagli strumenti urbanistici. Una generalizzazione, insomma, della procedura già introdotta con i “comparti” dalla legge 1150/1942, estesa alle zone d’espansione dalla legge 765/1967. (Ma devo annotare che rimane aperto un problema di fondo: quello della realizzazione della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”, e della sperequazione tra i proprietari compresi nelle aree urbanizzabili o riurbanizzabili, e gli altri).
Infine, la soluzione equilibrata che si dà alla questione del coinvolgimento dei soggetti pubblici e privati nel processo di pianificazione. È una questione decisiva: ne ho parlato come uno degli elementi negativi della situazione nella quale viviamo. La proposta di legge affronta il tema affermando sempre, nelle procedure, il principio della priorità del generale sul particolare, del “piano” sul “progetto”. Questa scelta è resa ancora più esplicita e forte da una proposta che al lettore disattento può sfuggire.
Si prescrive infatti la formazione di un Testo unico nazionale il quale, tra l’altro, si disponga “l’abrogazione esplicita di tutte le norme non conformi ai principi” della nuova legge” (articolo 33). E poiché tra tali principi campeggia quello secondo cui “la tutela, l’uso, la trasformazione del territorio e degli immobili che lo compongono sono disciplinati esclusivamente dai piani” previsti dalla legge stessa (articolo 8), si comprende facilmente come il legislatore s’impegni a fare piazza pulita della selva di strumenti derogatori accumulati negli ultimi vent’anni.
La valutazione complessivamente positiva, molto positiva, della legge mi induce a sorvolare sui suoi limiti, su alcune formulazioni poco chiare o ambigue. Esse potranno essere precisate e messe a punto nell’ultima fase del lavoro parlamentare – analogamente a quanto, del resto, ci si propone di fare per il PRG di Eboli in fase di osservazioni. C’è un punto, peraltro, sul quale si deve a mio parere porre grande attenzione: esso riguarda il carattere della pianificazione a livello regionale, che nella formulazione attuale della legge è piuttosto evanescente.
C’è un principio, mai esplicitamente formulato ma sotteso all’insieme delle norme proposte, che considero fondamentale. È quello che definirei il “principio di pianificazione”. Esso può essere così espresso. ogni ente elettivo di primo grado, rappresentante di interessi generali della cittadinanza, esprime le proprie scelte sul territorio mediante atti di pianificazione: atti cioè nei quali le scelte siano esplicite, chiaramente definite nei confronti di tutti, trasparenti e - ovviamente - precisamente riferite al territorio, cioè rappresentate su di una base cartografica di scala adeguata alla maggiore o minore definizione e precettività delle scelte.
Assumere questo principio significa aver deciso che la pianificazione è il metodo generale che gli enti pubblici elettivi di primo grado (in Italia: comuni, regioni, province, stato) adottano quando effettuano scelte suscettibili di incidere sull’assetto fisico e funzionale del territorio. Se un ente (poniamo, la Regione), decide che non assume alcuna scelta di rilevanza territoriale, che delega alle province o lascia allo stato qualunque opera o intervento o programma che incida sul territorio, allora evidentemente la pianificazione di livello regionale non è necessaria. Se così non è, allora non si comprende perché le scelte di competenza della regione non debbano essere formulate, garantite nella loro coerenza e rese esplicite con trasparenza, in modi analoghi a quelli da adottarsi da parte delle province e dei comuni.
Mi sembra che il “principio di pianificazione” dovrebbe essere affermato in modo esplicito, e tradotto più compiutamente nella strumentazione a tutti i livelli.
Dicevo che il secondo elemento positivo della situazione attuale è individuabile nell’all’azione di pianificazione corretta e innovativa che un numero non trascurabile di amministrazioni – soprattutto comunali e provinciali – sta conducendo. Il caso di Eboli e del suo nuovo PRG mi sembra un caso esemplare di questa tendenza positiva. E devo dire che mi riconosco così pienamente nelle scelte compiute, di merito e di metodo, che ho quasi una certa ritrosia a parlarne.Ma vorrei mettere in evidenza quattro aspetti e limitarmi ad essi.
1. Il sistema degli obiettivi proposto. Sono espressi nella relazione in una frase molto bella, sintetica ed esauriente, efficace. Precisamente, là dove si afferma che il disegno del piano è “comandato dall’obiettivo di rigenerare ciò che è deteriorato, riqualificare ciò che è saturo, trasformare ciò che è incompiuto, connotare ciò che è indefinito”.
2. L’impegno a tutelare quella gigantesca risorsa – per le generazioni presenti e per quelle future – costituito dalla zona agricola. Mi è sembrato leggere una volontà tenace, cocciuta, di difendere quel patrimonio, di contrastare ogni tentativo di lasciar invadere la campagna dalla “discarica urbana”, città diffusa o villettopoli che la si voglia denominare. In quella difesa della produttività agricola vedo l’emblema di un generale impegno alla difesa delle risorse: il centro storico, il territorio collinare, la costa, il fiume. Risorse viste non come “monumento”, ma come occasione per uno sviluppo economico durevole.
3. La decisione, non solo proclamata ma portata a compimento, di costituire un Ufficio del piano che è stato il vero Autore del piano. Questo è un impegno essenziale. Senza questo strumento la pianificazione non esiste: è solo chiacchiera, o accademia.
4. La determinazione con la quale si si è accompagnata, sorretta e preparata la redazione del PRG con un’azione energica contro l’abusivismo,. Senza il recupero della legittimità l’interesse generale non può essere un obiettivo credibile, e la stessa società scompare.
Come vedete, queste valutazioni positive sono rivolte più all’Amministrazione che ai progettisti. Ma secondo me la validità di un piano, a qualsiasi livello, sta proprio in questo: nella capacità e volontà dell’Amministrazione di farne il suo strumento per il governo del territorio. Il piano non è un fine: è lo strumento di questa volontà.
La definizione che preferisco di “piano urbanistico” è proprio questa: “una decisione politica tecnicamente assistita”. Mi sembra che, nel caso di Eboli, l’assistenza tecnica sia stata ottima, e l’azione politica della scelta continua e sistematica degli obiettivi giusti e delle soluzioni giuste sia stata eccezionale.
Per iniziare con un’espressione sintetica, vorrei affermare subito che Giovanni Astengo aveva una visione politica del ruolo dell’urbanistica nella società italiana. Questa affermazione deve essere chiarita.
Devo cioè precisare che cosa intendo per visione politica, e in che modo questa visione politica si sia espressa nel transito di Giovanni Astengo, e in particolare in relazione a quello che è l’argomento specifico della nostra discussione, “La rivista urbanistica sotto la direzione di Giovanni Astengo - La comunicazione delle idee degli urbanisti e del dibattito dell’INU”.
Potrò poi enunciare qualche idea su quello che, per Giulio Tamburini (coordinatore di questo insieme di riflessioni su Astengo) dovrebbe essere il vero obiettivo della nostra riflessione: che cosa si può trarre oggi, in positivo e in negativo, dall’insegnamento di Giovanni Astengo.
Astengo era indubbiamente convinto che l’urbanistica fosse una esigenza della società. Era convinto che una società adeguatamente organizzata, che voglia garantire anche solo una adeguata funzionalità, non possa fare a meno della pratica di cui l’urbanistica era portatrice: la pratica della pianificazione del territorio.
Ma la politica doveva porsi anche un obiettivo più alto della mera funzionalità: doveva realizzare una società solidale. Anche questo compito non poteva essere assolto senza il contributo creativo e scientifico dell’urbanistica.
Urbanistica e politica, quindi, come due componenti strettamente legate del percorso della società. Ma qual è il ruolo reciproco? Qual è, in questo rapporto inevitabile e necessario, il ruolo dell’urbanistica? Mi sembra che Astengo resti coerente con una posizioni teorica, a partire dalla quale compie uno sforzo in due direzioni pratiche.
La posizione teorica può essere sintetizzata così: l’urbanistica deve svolgere un ruolo di guida della politica:
Chi può e deve creare il territorio non può essere che la classe dei savants, in base a proprie motivazioni autonome e disinteressate, insindacabili: corpo di pubblica utilità, come i pompieri e la croce rossa (Fabbri 1975, p.59)
Ecco allora il tema dell’”orgoglio del tecnico”:
[…] il tecnico è depositario di un sapere e di un compito, quello di trasmettere le sue convinzioni ai politici investiti del potere di decisione. Astengo non dubita che il suo “sapere” sia frutto di una sintesi e che non debba perciò essere posto in dubbio da nessun altro “attore”; non si stupisce, si compiace anzi della solidarietà che altri tecnici illustri gli esprimono. Esisteva ancora, parrebbe, un orgoglio corporativo basato su una concezione “alta” della professione: difficile a leggersi oggi, nella pratica della lottizzazione eretta a sistema (G.Piccinato 1991, p. 287)
L’”orgoglio del tecnico” è riferito a un ruolo possibile, non a una funzione effettuale: si riferisce a un “dover essere”. Bisogna allora lavorare in due direzioni: verso gli urbanisti, e verso chi governa.
Da un lato, occorre costruire una “classe di savants” consapevoli del proprio ruolo e padroni degli strumenti disciplinari necessari per svolgerlo. Mi sembra che il ruolo principale di “Urbanistica” sia proprio in questa direzione. Ed è tutta l’attività di Astengo che opera in questa direzione. È già negli anni della ricostruzione postbellica che da lui
l’esigenza di giungere alla formazione di un linguaggio omogeneo e ad un’uniformità di metodi e di procedure per la pianificazione territoriale era stata sottolineata con forza […] (C. Mazzoleni 1991, p. 46)
La pubblicazione dei piani, cui Astengo dedica tanta parte del suo impegno e che costituisce della sua rivista un esempio mai più raggiunto, non è documentazione: è proposta di modelli, di archetipi, di norma.
Così si spiega il fatto che, se la sua rivista “rimane certo una delle fonti più importanti per ricostruire la storia dell’urbanistica italiana ed europea” del suo periodo,
difficilmente potremmo compiutamente ricostruire sulla sua sola base la storia dello stesso periodo, riconoscerne lo svolgimento, i principali periodi e i caratteri salienti (B. Secchi 1991, p. 149)
Il luogo e l’impegno nel quale prosegue e in qualche modo vuole coronarsi, il tentativo di Astengo di costituire un corpo di savants, gradualmente sostituendo il lavoro di direzione e gestione della rivista, è la faticosa costituzione del Corso di laurea in urbanistica (F. Indovina 1991, p.217 e segg.).
La “carta” di fondazione del corso di laurea pone come prima ragione della progetto la constatazione della
Necessità davvero inderogabile di specializzazione. I tecnici che oggi si occupano di urbanistica escono dalle facoltà di architettura e ingegneria le quali […] offrono una preparazione in tal campo che non si può che definire dilettantistica (G. Astengo et alii 1979, in: F. Indovina 1991)
E d’altra parte (ecco la necessità sociale del progetto di un nuovo corso di laurea)
L’assenza di una specializzazione basata su una chiarificazione disciplinare contribuisce a perpetuare, e ormai giustifica in parte (mio corsivo), la non utilizzazione dello strumento della pianificazione da parte degli enti pubblici [e] risulta ormai insopportabile per le pubbliche amministrazioni: al loro interno la presenza del tecnico urbanista diviene necessaria anche per dimensioni urbane medio-basse (G. Astengo et alii 1979, in: F. Indovina 1991)
E si può tranquillamente affermare che la stessa attività professionale di redattore di piani e documenti di pianificazione che Astengo ha svolto era finalizzata a sperimentare modelli (tecnici e procedurali) idonei a esser proposti in quel dinamico manuale che la sua rivista ha costituito (C. Mazzoleni 1991, pp.35 e segg.). Un tentativo continuo di “codificare” le esperienze selezionate come valide, non solo al fine di costruire paradigmi comuni tra gli urbanisti
per renderli esponenti di una influente comunità scientifica, studiosi e professionisti accomunati da uno stesso modo di guardare, descrivere e problematizzare il territorio e la società (P. Di Biagi 1992, p.422)
ma anche (e forse soprattutto) per costruire una corporazione di sapienti capace di avere un peso politico: capace di esprimere socialmente il ruolo politico dell’urbanistica.
Come aveva una concezione alta della politica, Astengo aveva anche una concezione alta dell’urbanistica e del suo portatore, l’urbanista. Il suo impegno non va solo nella direzione di rendere solido lo statuto disciplinare: Astengo non era un accademico. Il suo impegno volto a consolidare, a rendere certo il mestiere dell’urbanista e convincente il suo risultato si accompagna con forti richiami alla moralità e alla responsabilità.
Un esempio. Nel 1956 il governo amplia gli elenchi dei comuni obbligati a formare i PRG: saranno alcune centinaia le città che riceveranno l’imprinting della pianificazione. La posta è grossa, ricorda Astengo (“Urbanistica” 20, 1957):
Tre-quattrocento piani significano l'avvenire delle nostre città; se ben studiati ed utilizzati a fondo essi possono rappresentare il trapasso da situazioni di disordine e di amministrazione caso per caso a a situazioni di pianificazione per programmi organici, possono consentire di moralizzare il mercato edilizio o di nazionalizzare e quindi risanare i bilanci comunali. Se male interpretati, od usati in modo superficiale e del tutto esteriore, essi possono decadere al rango di un artificioso regolamento edilizio.
Le attese sono grandi. Ma l’esito “non dipende solo dalle Amministrazioni”,
anche dall’attività degli urbanisti chiamati a redigere i piani e soprattutto di quelli investiti di diretta e completa responsabilità. […] Ad essi aspetta infatti -rendersi conto fin dagli inizi dei più minuti particolari delle varie manifestazioni della vita del Comune; dipanare l'aggrovigliata, matassa dei problemi, per ritrovare il filo conduttore di un futuro più razionale sviluppo della comunità; illuminare amministratori e funzionari, guidandoli nei primi passi di questa esperienza; stimolare le collaborazioni locali, chiarendo ai tecnici ed ai privati le finalità e le procedure della pianificazione; infondere al piano un contenuto economico e sociale che sostanzi gli interventi edilizi; agire da soli anche senza adatti strumenti legali per la salvaguardia del piano in fieri; dare, in una parola, inizio alla pianificazione urbana, già fin dai primi atti del suo concepimento.
Non si tratta di una responsabilità burocratica: è una responsabilità morale:
Questo compito ben duro supera, è chiaro, i limiti di un consueto mandato professionale […] I piani, anche i più giovani ormai lo sanno, non possono farsi a distanza e a tavolino: essi nascono faticosamente sul posto. occorre preparare il terreno, seminare e coltivare giorno per giorno l'arbusto, se si vuole che la pianificazione urbana metta ben saldo le radici e con l'approvazione del piano essa si trovi ad essere adulta e rigogliosa. Quest'opera, che ben poco ha da vedere col piano disegnato, non ha, compensi, è chiaro. Solo lavorando pazientemente ed umilmente, consci dei propri modesti limiti, ma fermamente decisi a penetrare fino in fondo la realtà sociologica urbana e ad imprimere alle situazioni attuali impulsi vivificatori, ciascuno di noi avrà contribuito, in misura proporzionale al proprio impegno, a costruire il futuro per le più importanti città italiane.
Nel 1966 Astengo fu chiamato da Giacomo Mancini, ministro per i Lavori pubblici, a fare parte della Commissione d’indagine su Agrigento. Non ne fu solo un membro: insieme al presidente Michele Martuscelli ne fu l’anima. La relazione al Parlamento, in gran parte pubblicata su “Urbanistica”, (n. 48, 1966) costituisce un documento essenziale per comprendere il suo ruolo nell’urbanistica italiana (e nella storia degli urbanisti), e cogliere un aspetto centrale del suo messaggio.
Fu un momento di straordinaria tensione nella sua vita. Astengo affermò che
nella mia vita di studioso e di pubblico amministratore […] l’indagine di Agrigento rappresenta la più forte emozione e la più straordinaria tensione nmorale che abbia finora provato e che difficilmente penso possa per me essere, in un altro caso, raggiunta (in: P. Di Biagi 1992, p. 411)
Merita di essere ricordato e meditato ancor oggi, l’editoriale con il quale si apre in numero di “Urbanistica” dedicato agli
Improvvisi ed eccezionali accadimenti hanno scosso il paese tra luglio e novembre: la frana di Agrigento, l'allagamento di Firenze e Venezia, le frane e le alluvioni nell'alto e basso Veneto.
Un numero con la copertina tutta nera: l’unico nella storia della rivista. Alla radice di ciascuno di quegli avvenimenti, scrive Astengo,
sta, per certo, il cattivo uso del suolo, sotto forma sia di continuativo ed insensato disfacimento di antichi equilibrati ecosistemi naturali, sia di violento e pervicace sfruttamento intensivo del suolo a scopi edificatosi. In entrambi i casi, la natura, irragionevolmente sfidata, ha scatenato d'improvviso le sue furie terribili ed ammonitrici.
In entrambi i casi, alla radice è l'imprevidenza umana. E se, nell'imminenza del repentino maturare della tragedia, è mancata anche la più rudimentale forma di preavviso organizzato, alle origini giganteggia una ben piú ampia e continuativa imprevidenza, che si concreta nel mancato uso razionale degli strumenti della pianificazione territoriale ed urbanistica.
Non è infatti pensabile l'istituzione ed il funzionamento di un sistema di costante controllo, capace di far scattare uno stato di allarme, senza la presenza di un quadro di riferimento generale, che, stabilite le regole interne di equilibrio fra i vari fattori, definisca le finalità delle singole azioni, d'intervento e d'uso, e fissi le soglie dello stato di pericolo. Senza piani territoriali ed urbanistici, seriamente studiati e coscienziosa- mente resi operanti, è dunque perfettamente inutile pretendere un efficace sistema di controlli per l'ultima ora: se in Olanda scatta l'allarme nel polder minacciato è perché l'intero paese è vigilato da una pianificazione territoriale attiva ed attenta, con strutture, responsabilizza e tradizioni.
Quel memorabile fascicolo di “Urbanistica”, e l’intera vicenda della partecipazione di Astengo al lavoro della Commissione ministeriale per Agrigento, mi sembrano significativi almeno per due aspetti.
In primo luogo, per il modo in cui Astengo riesce a saldare in un’unica operazione l’accuratezza dell’analisi scientifica sull’evento, la finalizzazione civile e politica del lavoro, la tempestività della restituzione e diffusione dei risultati, la lezione morale e culturale rivolta all’insieme dell’opinione pubblica.
In secondo luogo, la carica di indignazione che riesce ad esprimere e a comunicare, e attraverso la quale trasmette, con il veicolo dell’emozione, il suo messaggio, la sua “verità”. Una carica di indignazione che difficilmente si riesce ad accostare, nella memoria, alla figura dimessa e grigia di quello che fu chiamato, con un certo benevolo compatimento, “il ragioniere dell’urbanistica”. Una carica d’indignazione che esprime compiutamente la ragione morale del ruolo dell’urbanistica come esigenza della società.
Una duplice azione di consolidamento nei confronti degli urbanisti, verso l’interno: un’azione per fondare uno statuto della disciplina, una ben ordinata cassetta degli attrezzi; e un’azione per dotare il corpo dei savants di un’anima, e quindi di una responsabilità e di una moralità. Ma dall’altro lato occorre cominciare da subito un’azione diretta su chi ha la responsabilità di governare: su chi ha il potere. Occorre tenacemente far comprendere, spiegare, illustrare e documentare a chi esercita il potere. Occorre conquistare consenso. In questo senso ha ragione chi afferma che quella di Astengo
non è una ricerca di verità epistemiche e di fondamenti, quanto piuttosto quella di una verità consensuale. Di argomenti che possano essere condivisi e divenire comportamento degli urbanisti in primo luogo, delle amministrazioni e dei differenti soggetti sociali infine (B. Secchi 1990, p.41)
Se e finché la politica non è stata “educata” dagli urbanisti a comprendere ciò che deve fare per governare al meglio le trasformazioni del territorio, occorre farlo in sua vece. Occorre, al limite, esercitare un ruolo di supplenza.
L’azione diretta sulla politica è naturalmente diversa a seconda delle diverse fasi dell’evolversi dei rapporti di forza tra le diverse componenti del quadro politico: in particolare, quelle più legate a un processo di modernizzazione ed “europeizzazione” della società italiana, più vicine ad Astengo e ai suoi amici, e quelle nelle quali si esprimeva il versante più arcaico del compromesso storico tra borghesia nazionale ancien régime.
Così, è evidente che nella fase che va dall’immediato dopoguerra all’iniziale manifestarsi della crisi dell’equilibrio politico centrista e della prospettiva di governi di centro-sinistra l’impegno sembra rivolto prevalentemente a denunciare i danni che derivano dall’assenza dell’urbanistica e della programmazione, dallo sviluppo delle città senza pianificazione, dalle inefficienze e dai ritardi culturali nell’organizzazione dei quartieri.
Particolarmente cocente è l’indignazione che sorge nel comparare il modo nel quale il governo del territorio avviene in Italia e quello nel quale si procede negli altri paesi europei, dove la pianificazione è stata lo strumento della ricostruzione ed è divenuta negli anni prassi indiscutibile.
Una fase diversa si apre successivamente. Mentre si infittiscono le discussioni (e le dislocazioni di forze sociali, interessi economici, rappresentanze politiche) che porteranno al centro-sinistra, “Urbanistica” diventa via via più propositiva ed affronta i temi che sono già, o che più facilmente meritano di essere portati al centro dell’attenzione politica. Dal regime dei suoli alla politica della casa, al governo delle trasformazioni territoriali, alla partecipazione dei privati alle spese di urbanizzazione, la rivista di Astengo è il repertorio delle soluzioni possibili e il manifesto delle critiche alle soluzioni sbagliate.
Ma alle speranze e alle proposte della fase iniziale del centro-sinistra subentrano presto la delusione e la protesta, a mano a mano che la carica riformatrice della nuova alleanza di governo mostra segni di logoramento – e a mano a mano che gli esponenti politici a lui più vicini, i socialisti della sinistra di Riccardo Lombardi, perdono peso e potere, o si trasferiscono su altre sponde.
Una nuova speranza nasce quando vengono istituite le regioni a statuto ordinario. Astengo riprende l’esperienza di amministratore pubblico (come Detti a Firenze e Campos Venuti a Bologna all’inizio degli anni Sessanta, era stato assessore comunale a Torino) e diventa assessore all’urbanistica nella regione Piemonte. In una stagione in cui “le politiche territoriali delle regioni” non offrono molti spunti incoraggianti, in cui (nonostante le attese degli urbanisti) “non è riconoscibile una consapevole politica di piano”, dal
quadro generale si distingue il Piemonte, che ha vissuto un quinquennio di grazia nella persistente volontà di vincere la quasi impossibile scommessa per una politica di piano (M. Romano 1981, p.3)
In termini generali, non mi sembra che – una volta conclusa l’esperienza regionale e spenta l’illusione della carica rinnovatrice – sia stato fatto un bilancio serio dell’esperienza delle regioni. Né da parte degli urbanisti, per il vero, né da quella dei politici. Né allora, né quando – concluso il terzo mandato elettorale – era apparsa evidente la generale riduzione delle regioni a organismi prevalentemente dedicati alla gestione burocratica dell’esistente e alla funzione di cinghia di trasmissione delle politiche centrali; e neppure quanto, all’inizio del decennio scorso, le vampate separatiste, autonomiste e poi federaliste avrebbero imposto, in un paese serio, una seria riflessione sull’esperienza del regionalismo.
Qui però si tocca, probabilmente, un limite dell’impostazione di Astengo ben registrata dall’archivio che “Urbanistica” costituisce. La rivista patisce una singolare contraddizione.
Da un lato, negli anni in cui Astengo la gestisce, la rivista è l’urbanistica italiana: la rappresenta, la riassume, la esprime. In Italia, in quegli anni, non c’è urbanistica fuori di “Urbanistica”: non per volontà egemonica o per particolari capacità di sopraffazione delle voci diverse, ma per l’assenza di posizioni alternative capaci di dotarsi di analoghi strumenti d’espressione; o, se si vuole, per la pienezza di rappresentatività di Astengo.
Ma dall’altro lato, e proprio per la piena consapevolezza della dimensione politica delle questioni cui disciplinarmente è legata, la rivista manca di continuità nello sviluppo del dibattito, dell’elaborazione, nell’accumulazione e nella digestione dei prodotti dell’evoluzione disciplinare. Per meglio dire, anzi, la sua continuità è nel seguire gli eventi, nello scegliere volta per volta, fase per fase, la questione più rilevante ai fini dell’affermazione sociale del messaggio dell’urbanistica, della politica della pianificazione urbana e territoriale.
Se mi è consentito un riferimento personale, la ragione di fondo per la quale, nel 1971, nacque “Urbanistica informazioni” fu forse proprio questa: la consapevolezza, da parte del rinnovato gruppo dirigente dell’INU (ossia di quello che allora ancora era l’espressione degli urbanisti italiani), del logoramento del ruolo di “Urbanistica” come strumento di raccordo con gli eventi e i soggetti della politica, come attrezzo idoneo a svolgere un ruolo dinamico, e perciò stesso mutevole, di polemica e di proposta nei confronti della “faccia politica” della società.
In molte sedi si sono tentate valutazioni del ruolo di Astengo. A me personalmente non convincono le letture dell’azione di Astengo che tendono ad attribuire all’insufficienza dell’elaborazione il mancato raggiungimento degli obiettivi proposti (ad esempio: Secchi 1984, Berlanda 1991, Becchi 1998). Sebbene in queste critiche ci siano elementi di verità sui quali occorerebbe riflettere con attenzione.
La mia opinione è che il tentativo di Astengo (e degli altri che ne condivisero l’impegno) era in sostanza quello di imprimere al governo del territorio in Italia un sistema di regole (metodologiche, procedurali e tecniche) analogo a quelli che aveva consentito agli altri paesi europei di conoscere uno sviluppo sociale ed economico accompagnato e sorretto da un’armatura urbana e territoriale bella ed efficiente e da una valorizzazione delle risorse territoriali.
E credo che, alla fine degli anni Cinquanta, sia stata giusta la scelta di individuare nella questione della rendita il nodo centrale del garbuglio che rendeva così difficili i tentativi di esercitare un governo moderno alle violentissime trasformazioni del sistema territoriale.
Ma sono convinto che ha probabilmente anche ragione chi si domanda perché gli urbanisti
non si sono battuti, a partire dal dopoguerra, per l’attuazione della legge urbanistica che già c’era, la n. 1150 del 1942? e perché all’atto di avvio del centro sinistra, nel rinfocolarsi delle speranze nei confronti dell’assunzione di effettive volontà e capacità di introdurre riforme efficaci, non si concentrarono sulla costruzione degli strumenti attuativi ed eventualmente integrativi delle norme di quella stessa legge, invece di tentare di vararne una nuova? (A. Becchi 1998, p.52).
Del resto, agli urbanisti e ad Astengo può essere giustamente rimproverato, a proposito della questione della rendita, il fatto di “non vedere altri aspetti” della questione,
ad esempio, di capire i connotati della strategia di mobilitazione individualistica in atto, di capire che non ci si trova di fronte a governi che perseguono “in modo empirico e senza alcuna prospettiva di lungo termine, una politica di composizione dei contrasti, equilibrismi e rinvii, accompagnata da piccolo favori a determinate categorie o clientele” [l’A. cita un testo di L. Bortolotti], ma, all’opposto, ad un programma politico certamente teso a privilegiare nel suo complesso i ceti medi, ma delineato con grande chiarezza (B. Secchi 1984, p. 70)
Questi argomenti, peraltro, sono stati affrontati dagli urbanisti nella fase (su cui si dovrebbe lavorare di più) successiva al clamoroso fallimento del Congresso di Napoli del 1968, che vide articolarsi il mondo degli urbanisti italiani in una pluralità di gruppi e di posizioni, alcune delle quali specificamente impegnate nell’analisi del “programma politico” dominante.
Un altro limite che può esser rimproverato ad “Urbanistica”, e in generale alla cultura urbanistica italiana, mi sembra quello di non aver scavato al fondo delle ragioni storiche che avevano prodotto, in Italia, il manifestarsi di un peso politico e sociale della rendita molto più forte di quanto non fosse nei paesi nei quali la rivoluzione borghese aveva vinto sull’ancien régime in modo non compromissorio.
Può esser rimproverato agli urbanisti, insomma, di non aver compiuto con sufficiente continuità e rigore analisi politiche corrette. Questa osservazione sollecita però due ordini di considerazioni.
In primo luogo, è un’osservazione che chiama in causa, prima ancora che un ritardo (e una insufficienza) della cultura degli urbanisti, un ritardo della cultura politica. I ritardi, insomma, non sono stati soltanto né tanto quelli della cultura urbanistica, quanto soprattutto quelli della cultura politica. Ed è indubbio che questo ritardo (e questa insufficienza) tende ai nostri giorni ad accrescere con straordinaria velocità, a mano a mano che la politica riduce la progettualità a tutela degli interessi degli attori più forti, e la missione alla conservazione del potere.
In secondo luogo, è un’osservazione che richiederebbe da parte degli urbanisti (ed effettivamente richiede) un impegno più severo e attento nella direzione della politica (della sua analisi, della comprensione dei suoi fondamenti e delle sue regole, e perfino nella partecipazione ai suoi eventi): il che mi sembra largamente il contrario di ciò che sta avvenendo in una vasta porzione del mondo degli urbanisti.
È vero insomma che i limiti progredenti della cultura politica privano l’urbanista di una “spalla” essenziale per la sua riflessione, ma a me sembra altrettanto vero che ciò non può costituire un alibi il ripiegamento su posizioni esclusivamente tecnicistiche, per isolare la “progettazione” dalla “politica”.
Questi appunti, certo disordinati, mi sono stati sollecitati dalla rilettura delle pagine di Astengo sulla sua rivista e di alcuni commenti alla sua opera. Domandarsi quale sia il contributo che oggi Giovanni Astengo può dare alla vicenda dell’urbanistica italiana induce a porsi un ulteriore interrogativo: qual’era – al di là delle definizioni canoniche forse troppe volte ripetute – l’idea di urbanistica che Astengo praticava? E quali componenti di questa idea sono ancora oggi utili?
Una prima componente l’ho già enunciata: l’urbanistica è una faccia della politica. Non dico “una parte”, come dice L. Benevolo, perché questa espressione può alludere a un ruolo parziale, di “ritaglio”, o, al contrario, troppo invadente dell’urbanistica. Dire che è una faccia della politica significa dire che senza un rapporto con la politica l’urbanistica è monca, e che viceversa è insufficiente a svolgere la propria missione una politica che ignori le ragioni, i metodi, le attenzioni dell’urbanistica.
Una seconda componente, che in qualche modo argomenta e sorregge la prima, è nella convinzione che l’urbanistica è servizio tecnico di interessi collettivi. È in questa natura dell’urbanistica, a mio parere,la ragione della necessità del rapporto con la politica: anch’essa - nella tradizione giacobina e borghese cui Astengo partecipa - al servizio di interessi collettivi.
Una terza componente, figlia delle due che ho ora enunciato, è che l’urbanistica, nella tradizione e nella realtà dell’Europa, è sostanzialmente compito dell’amministrazione pubblica. Gli urbanisti, allora, sono primariamente commis d’Ètat, civil servants, funzionari pubblici, e la loro missione comprende la partecipazione alla ricerca della struttura amministrativa più efficiente ai fini del governo del territorio.
Una quarta componente (o per meglio dire, una direzione di ricerca alla quale sollecitano gli assunti precedenti) è l’individuazione, o la costruzione, del ruolo dell’urbanistica, nel duplice senso della scoperta della sua utilità e della sua autonomia dalla politica.
In questa direzione moltissimo cammino resta da percorrere. A me sembra che due linee di lavoro possano essere fruttuose.
Da un lato, l’azione volta alla individuazione degli elementi dell’assetto delle città e dei territori che non sono negoziabili: che non sono assoggettabili al deperimento derivante da un loro uso indiscriminato perché costituiscono parte del patrimonio dell’umanità.
Si tratta di una problematica legata a una contraddizione sempre più lacerante e a una tradizione che rischia di essere assunta in modo rituale e riduttivo.
Mi riferisco alla contraddizione (che costituisce un limite serio della democrazia) tra i mandato elettorali temporalmente limitati caratteristici della forma attuale della democrazia, e gli impegni che bisogna assumere (e le penalizzazioni che occorre subire) per garantire i diritti delle generazioni future.
E mi riferisco alla tradizione della migliore urbanistica italiana, diligentemente e puntigliosamente illustrata nelle pagine di “Urbanistica”, che ha visto esemplari ed efficaci azioni di difesa e valorizzazione e promozione (con i piani e al di là dei piani) delle risorse culturali, paesaggistiche, naturali. I piani di Piccinato, di Detti, di Astengo illustrati da “Urbanistica” non sono solo capitoli di un manuale tecnico, ma manifesti, proclami ed esempi di un’azione di tutela delle risorse territoriali che ha contribuito allo sviluppo di una consapevolezza sociale dei valori impliciti in quelle risorse (sebbene il ragionamento in essi implicito non sia sviluppato).
Forse, l’utilità dell’urbanistica per la politica e, al tempo stesso, uno dei fondamenti della sua autonomia possono essere individuati proprio nel suo ruolo di regia dei saperi utili a individuare e segnalare le risorse e le occasioni per lo sviluppo della civiltà presenti nel territorio.
E forse nello svolgimento di questo suo ruolo l’urbanistica può anche trovare un suo collegamento diretto con la società, autonomamente rispetto a quello comunque ricercato attraverso la politica. Superando in tal modo anche il limite, presente nella vita dell’INU, e nelle stesse pagine di “Urbanistica”, fino alla fine degli anni Sessanta, e anche negli anni più recenti,di un collegamento esclusivo con i patrons della politica e“i grossi apparati della burocrazia ministeriale” (C. Mazzoleni 1991).
C’è chi sostiene che il carattere analitico, minuzioso, in ultima analisi positivistico di Astengo, e il carattere che ha voluto imprimere alle pratiche urbanistiche in Italia derivino prevalentemente dalla volontà di “una migliore argomentazione, giustificazione e forse specificazione delle scelte” (P.C. Palermo 1987). È probabile che sia così. Credo però che lo sforzo di Astengo di garantire una razionalità a priori alle scelte sul territorio mediante un fondamento razionalistico della pianificazione possa essere proseguito su più piani di lavoro, e che possa fornire un ulteriore contributo alla definizione di un ruolo (e un’utilità sociale fondata sull’autonomia disciplinare) per l’urbanistica.
Si tratta di impiegare gli strumenti logici e, soprattutto, la “sensibilità territoriale” elaborati e affinati nelle pratiche dell’urbanistica per misurare la razionalità delle scelte sul territorio: per valutarne costi e benefici, vantaggi e svantaggi per le diverse categorie di soggetti interessati (presenti e futuri), per simularne le conseguenze vicine e remote, per disegnare scenari analoghi a quelli utilizzati nelle tecniche della Vision of cities.
Si tratta, insomma, di suggerire alla politica non solo i quadri normativi tipici della pianificazione classica (essenziali soprattutto laddove l’appartenenza dei diritti alla trasformazione urbanistica non è del pubblico), ma anche le modalità per scegliere secondo ragione.
In fondo, si tratterebbe di svolgere un ruolo analogo a quello che, secondo Ugo Foscolo, svolge quel tale Machiavelli il quale
Gli allor ne sfronda ed alle genti mostra
Di che lagrime grondi e di che sangue.
Il ruolo di chi illustra al Principe - alla politica nel suo intreccio con la società - , le conseguenze delle scelte che essa si accinge a compiere, e in tal modo limpidamente richiama la politica alle sue responsabilità.
Perché questo ruolo sia utile (e anzi, semplicemente possibile) è naturalmente necessario che ci sia una politica degna di questo nome. Ma questo è un altro discorso.
Edoardo Salzano
13 giugno 2000
STORIA DEL 1° MAGGIO
Il 1° Maggio nasce come momento di lotta internazionale di tutti i lavoratori, senza barriere geografiche, né tanto meno sociali, per affermare i propri diritti, per raggiungere obiettivi, per migliorare la propria condizione.
"Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire" fu la parola d'ordine, coniata in Australia nel 1855, e condivisa da gran parte del movimento sindacale organizzato del primo Novecento. Si aprì così la strada a rivendicazioni generali e alla ricerca di un giorno, il primo Maggio, appunto, in cui tutti i lavoratori potessero incontrarsi per esercitare una forma di lotta e per affermare la propria autonomia e indipendenza.
La storia del primo Maggio rappresenta, oggi, il segno delle trasformazioni che hanno caratterizzato i flussi politici e sociali all'interno del movimento operaio dalla fine del secolo scorso in poi.
Le origini
Dal congresso dell'Associazione internazionale dei lavoratori - la Prima Internazionale - riunito a Ginevra nel settembre 1866, scaturì una proposta concreta: "otto ore come limite legale dell'attività lavorativa".
A sviluppare un grande movimento di lotta sulla questione delle otto ore furono soprattutto le organizzazioni dei lavoratori statunitensi. Lo Stato dell'Illinois, nel 1866, approvò una legge che introduceva la giornata lavorativa di otto ore, ma con limitazioni tali da impedirne l'estesa ed effettiva applicazione. L'entrata in vigore della legge era stata fissata per il 1 Maggio 1867 e per quel giorno venne organizzata a Chicago una grande manifestazione. Diecimila lavoratori diedero vita al più grande corteo mai visto per le strade della città americana.
Nell'ottobre del 1884 la Federation of Organized Trades and Labour Unions indicò nel 1 Maggio 1886 la data limite, a partire dalla quale gli operai americani si sarebbero rifiutati di lavorare più di otto ore al giorno.
1886: I "martiri di Chicago"
Il 1 Maggio 1886 cadeva di sabato, allora giornata lavorativa, ma in dodicimila fabbriche degli Stati Uniti 400 mila lavoratori incrociarono le braccia. Nella sola Chicago scioperarono e parteciparono al grande corteo in 80 mila. Tutto si svolse pacificamente, ma nei giorni successivi scioperi e manifestazioni proseguirono e nelle principali città industriali americane la tensione si fece sempre più acuta. Il lunedì la polizia fece fuoco contro i dimostranti radunati davanti ad una fabbrica per protestare contro i licenziamenti, provocando quattro morti. Per protesta fu indetta una manifestazione per il giorno dopo, durante la quale, mentre la polizia si avvicinava al palco degli oratori per interrompere il comizio, fu lanciata una bomba. I poliziotti aprirono il fuoco sulla folla. Alla fine si contarono otto morti e numerosi feriti. Il giorno dopo a Milwaukee la polizia sparò contro i manifestanti (operai polacchi) provocando nove vittime. Una feroce ondata repressiva si abbatté contro le organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori, le cui sedi furono devastate e chiuse e i cui dirigenti vennero arrestati. Per i fatti di Chicago furono condannati a morte otto noti esponenti anarchici malgrado non ci fossero prove della loro partecipazione all'attentato. Due di loro ebbero la pena commutata in ergastolo, uno venne trovato morto in cella, gli altri quattro furono impiccati in carcere l'11 novembre 1887. Il ricordo dei "martiri di Chicago" era diventato simbolo di lotta per le otto ore e riviveva nella giornata ad essa dedicata: il 1 Maggio.
1890: 1 maggio, per la prima volta manifestazione simultanea in tutto il mondo
Il 20 luglio 1889 il congresso costitutivo della Seconda Internazionale, riunito a Parigi, decise che "una grande manifestazione sarebbe stata organizzata per una data stabilita, in modo che simultaneamente i tutti i paesi e in tute le città, i lavoratori avrebbero chiesto alle pubbliche autorità di ridurre per legge la giornata lavorativa a otto ore".
La scelta cadde sul primo Maggio dell'anno successivo, appunto per il valore simbolico che quella giornata aveva assunto.
In Italia come negli altri Paesi il grande successo del 1 Maggio, concepita come manifestazione straordinaria e unica, indusse le organizzazioni operaie e socialiste a rinnovare l'evento anche per 1891.
Nella capitale la manifestazione era stata convocata in pazza Santa Croce in Gerusalemme, nel pressi di S.Giovanni. La tensione era alta, ci furono tumulti che provocarono diversi morti e feriti e centinaia di arresti tra i manifestanti.
Nel resto d'Italia e del mondo la replica del 1 Maggio ebbe uno svolgimento più tranquillo. Lo spirito di quella giornata si stava radicando nelle coscienze dei lavoratori.
1891: la festa dei lavoratori diventa permanente
Nell'agosto del 1891 il II congresso dell'Internazionale, riunito a Bruxelles, assunse la decisione di rendere permanente la ricorrenza. D'ora in avanti il 1 Maggio sarebbe stato la "festa dei lavoratori di tutti i paesi, nella quale i lavoratori dovevano manifestare la comunanza delle loro rivendicazioni e della loro solidarietà".
Il primo maggio durante il fascismo
Nel nostro Paese il fascismo decise la soppressione del 1 Maggio, che durante il ventennio fu fatto coincidere il con la celebrazione del 21 aprile, il cosiddetto Natale di Roma. Mentre la festa del lavoro assume una connotazione quanto mai "sovversiva", divenendo occasione per esprimere in forme diverse (dal garofano rosso all'occhiello, alle scritte sui muri, dalla diffusione di volantini alla riunione in osteria) l'opposizione al regime. Il 1 Maggio tornò a celebrarsi nel 1945, sei giorno dopo la liberazione dell'Italia.
1947: L'eccidio di Portella della Ginestra
La pagina più sanguinosa della festa del lavoro venne scritta nel 1947 a Portella della Ginestra, dove circa duemila persone del movimento contadino si erano date appuntamento per festeggiare la fine della dittatura e il ripristino delle libertà, mentre cadevano i secolari privilegi di pochi, dopo anni di sottomissione a un potere feudale. La banda Giuliano fece fuoco tra la folla, provocando undici morti e oltre cinquanta feriti. La Cgil proclamò lo sciopero generale e puntò il dito contro "la volontà dei latifondisti siciliani di soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori".
La strage di Portella delle Ginestre, secondo l'allora ministro dell'Interno, Mario Scelba, chiamato a rispondere davanti all'Assemblea Costituente, non fu un delitto politico. Ma nel 1949 il bandito Giuliano scrisse una lettera ai giornali e alla polizia per rivendicare lo scopo politico della sua strage. Il 14 luglio 1950 il bandito fu ucciso dal suo luogotenente, Gaspare Pisciotta, il quale a sua volta fu avvelenato in carcere il 9 febbraio del 1954 dopo aver pronunciato clamorose rivelazioni sui mandanti della strage di Portella.
Il primo Maggio oggi
Le profonde trasformazioni sociali, il mutamento delle abitudini, la progressiva omogeneizzazione delle abitudini hanno profondamente cambiato il significato di una ricorrenza che aveva sempre esaltato la distinzione della classe operaia. Il modo di celebrare il 1 maggio è quindi cambiato nel corso degli anni.
Da diversi anni Cgil, Cisl, Uil hanno scelto di celebrare la giornata del 1 Maggio promovendo una manifestazione nazionale dedicata ad uno specifico tema.
http://www.lomb.cgil.it/primo_maggio.htm
Repubblica, 29 aprile 2008
Ogni volta che attraverso l’area fiorentina mi colpisce e amareggia il contrasto tra la bellezza del paesaggio, le cui tracce si intravedono ancora, e la capacità di devastazione delle sempre più consistenti infrastrutture stradali che li hanno degradati. Ogni volta che attraverso Firenze e il suo centro storico mi scoraggia e deprime il contrasto tra la bellezza dell’impianto urbano, della grazia delle architetture, della bellezza (nelle aree centrali) degli originari spazi pubblici e l’invasione oscena delle automobili.
Il modo perverso con il quale sono stati adoperati gli strumenti del governo del territorio (come si è ribattezzata l’urbanistica) è testimoniato nella grande maggioranza delle città e dei territori italiani. Ma in Toscana, e a Firenze, ci turba particolarmente perchè in modo più smaccato contrasta con la bellezza di ciò che c’era prima: con quei paesaggi, urbani e rurali, che l’intelligenza estetica di generazioni succedutesi per secoli aveva saputo costruire.
È dagli albori del XIX secolo che si è compreso che regolare le trasformazioni della città in modo ordinato e consapevole era non solo possibile, ma anche necessario. Si è compreso che lasciare libero il gioco alla spontaneità dei processi economici innestati su regimi patrimoniali privatistici, provocava, nei territori urbanizzati, caos, diseconomie, disagi. È da allora che sono stati formati, e via via perfezionati, strumenti capaci di imprimere le regole di una trasformazione ispirata a obiettivi di carattere generale: obiettivi e strategie mirate a una prospettiva più ampia, a una visione più lungimirante, rispetto alle scelte di convenienza economica dei singoli soggetti che sul territorio agiscono.
Sono nati così gli strumenti della pianificazione urbanistica e poi territoriale. Ma erano, appunto, strumenti: utilizzabili per obiettivi e per strategie differenti, anche alternativi. Quali obiettivi avrebbero potuto essere assunti, e ai quali invece sono state di fatto finalizzate le strategie di trasformazione delle città e dei territori? I problemi odierni della mobilità (sia quella fisica, delle persone e delle merci, sia quella sociale, della convivenza e della permeabilità) ci aiutano a comprenderlo.
“Natura di cose altro non è che nascimento di esse”, scrisse Giovan Battista Vico. E sono convinto che per comprendere l’essenza delle cose occorre riflettere sul modo in cui inizialmente furono formate. Voglio perciò domandarmi come si poneva la questione della mobilità (sia quella fisica, dei corpi e delle cose attraverso lo spazio, sia quella sociale, delle persone attraverso i confini delle età, dei mestieri, dei redditi, delle culture) nelle città che precedettero le grandi trasformazioni dell’epoca del sistema economico-sociale nel quale viviamo.
Prima della grandiosa epoca della rivoluzione borghese – e anzi, nella sua prima fase – le ragioni della mobilità erano risolte dalla stessa natura, dalla scelta del sito, dalla configurazione, dall’organizzazione, dalla forma della città. La città era il luogo stesso dell’incontro. Era il luogo nel quale accorrevano i servi per diventare cittadini, cioè portatori di eguali diritti. Era il luogo deputato alla comunicazione, allo scambio, all’incontro. Raramente la specializzazione delle varie parti della città (quelle utilizzate dagli artigiani, dai mercanti e dai borghesi, dagli agricoltori, dai salariati) comportava la nozione di segregazione: bisogna aspettare il trionfo del capitalismo per vedere nel disegno e nella organizzazione della città i segni visibili della divisione in classi. E comunque c’erano i luoghi destinati egualitariamente ai cittadini in quanto tali: le piazze, e gli spazi pubblici costruiti attorno ad esse.
Le piazze sono il simbolo della città. Non solo ne sono (ne erano) i fuochi, i principali elementi ordinatori, ma esprimevano la natura stessa della città: il suo essere il luogo degli interessi comuni, della comunicazione e dell’incontro, e di quello che oggi chiamiamo “mixitè”. Che cosa sono diventate oggi?
Solo raramente – nei paesi, in qualche città piccola o media oculatamente governata, e nell’incomparabile città storica di Venezia – le piazze sono rimaste quello che erano: i luoghi della socialità. Ancora più raramente nei nuovi quartieri e nelle gigantesche espansioni ad alta o a bassa densità sono state create piazze, o simili luoghi d’incontro. Là dove c’erano e sono state vive le piazze sono state trasformate in grandi depositi di automobili o in incroci di traffico – o l’una e l’altra cosa insieme. Il pedone è quasi un intruso: Al massimo è accettato in qualche spazio incatenato come spettatore di qualche monumento più eccezionale degli altri.
In questi ultimi tempi si sta assistendo a uno scimmiottamento perverso dell’idea della piazza, spacciando come nuove piazze quelli che più propriamente sono stati definiti i “non luoghi”: le stazioni ferroviarie, gli aeroporti, i grandi centri commerciali. Quei luoghi dovunque anonimi, informi, privi di collegamenti vitali con gli spazi dove le persone abitano e lavorano. Quei “non luoghi” il cui frequentatore non è più il cittadino, ma è il cliente. Quei “non luoghi” i cui caratteri dominanti sono lo shopping (la sollecitazione al consumo di merci quali che siano, generalmente tendenti verso l’inutilità, e sempre caratterizzate da anonimia e fungibilità), la sicurezza (cioè l’esclusione degli altri, dei “diversi”, dei soggetti non dotati di capacità di spesa), la mobilità (spesso si tratta infatti di luoghi correlati all’accesso di vettori di trasporto veloci, quali i treni e gli aeroplani).
Ma di quale mobilità si tratta ai nostri tempi? Ecco un’altra domanda rilevante.
La mobilità fisica non è necessariamente un bene in se. È un bene se viene scelta par ciò che il percorso offre. Ma se muoversi significa unicamente spostarsi da un luogo (quello in cui normalmente si abita) verso un altro luogo (dove si lavora, o si può fruire di un determinato servizio, o incontrare qualcosa o qualcuno), se significa dedicare una parte del proprio tempo a qualcosa che non si è scelto di fare, ma a qualcosa che si è obbligati a fare, allora la mobilità non è un bene.
Oggi molto raramente il percorso che si compie e il vettore che si utilizza, sono di per sé piacevoli, interessanti, tali da meritare di per sé uno spostamento e l’impiego di una porzione del proprio tempo. È bello, ed è un valore, muoversi a piedi o in vaporetto a Venezia, oppure in bicicletta o a piedi lungo l’argine di un fiume, oppure in battello lungo il corso del Nilo. Ma non è piacevole né interessante essere obbligati a prendere l’autobus o la metropolitana o il treno per andare la mattina da dove abito a dove lavoro. Né tanto meno è interessante e piacevole chiudersi nell’auto e, intruppati con mille altre simili, gran parte di quei fiumi di ferraglia che percorrono le strade e le autostrade di cui il nostro paese è sempre più ricco.
Non credo che sia necessario essere un urbanista, o un esperto di mobilità e infrastrutture, per rendersi conto che grandissima parte dei nostri movimenti (del tempo e dell’energia che impieghiamo per accedere a luoghi cui vogliamo accedere) dipendono dal modo in cui i luoghi che sono necessari alla nostra vita sono collocati sul territorio. Man mano che il lavoro diventa “flessibile” e precario, e i prezzi delle case più alti, i luoghi dove si abita sono lontani da quelli che si devono raggiungere per lavorare o per fruire dei servizi essenziali.
E sempre più siamo spinti, dal potere delle compagnie law cost e all inclusive, a raggiungere per il nostro tempo libero luoghi lontani ed esotici: quindi a muoverci, a spostarci chiusi nei grandi vettori aerei consumatori di energia e produttori d’inquinamento.
Ma lo spreco d’energia e la produzione di inquinamento sono poderosamente incrementati, al di là da ogni ragionevole necessità, dal modo stesso nel quale l‘assenza di pianificazione e la cattiva pianificazione, saldate con la cattiva politica dei trasporti, hanno plasmato (meglio, hanno lasciato plasmare al mercato) l’organizzazione del territorio e quella il sistema delle infrastrutture. La logica sempre più applicata nella pianificazione è stata quella di rincorrere gli interessi delle proprietà immobiliari e della loro valorizzazione, non quella di porsi obiettivi d’interesse comune ed esigenze degli strati sociali più deboli: massima valorizzazione delle aree e non massima riduzione della mobilità e del disagio urbano.
La crescita indefinita della città, l’accavallarsi di una periferia sull’altra, la promozione (o la tolleranza) nei confronti dello sprawl urbano e della diffusione dell’edificazione su territori sempre più vasti sono stati i risultati. E mentre da un lato si aumentava in tal modo la domanda di mobilità, si affidava l’offerta pressoché interamente all’automoobile: al vettore più consumatore di spazio e d’energia, e più produttore d’inquinamento, tra tutti quelli disponibili.
Ecco allora manifestarsi, nelle città, quello che definisco il paradosso del traffico: la città, luogo nato e foggiato dalla storia per favorire gli incontri, gli scambi, la convivenza è diventata il luogo dove ciò è divenuto impossibile. Ed ecco il proliferare di strade, autostrade, raccordi, bretelle, tangenziali ecc. ecc. che sempre di più devastano i paesaggi rurali; e che, man mano che aumentano, generano altro traffico, reclamano ulteriori aggiunte bdi nastri di cemento e asfalto, sempre più spesso dotate di muraglia di “mitigazione” dei danni e fiancheggiati da capannoni e capannoncini, cartelloni e vetrini. Sempre più intrusivi e devastatori dei paesaggi attraversati.
il manifesto, 22 febbraio 2008
il manifesto, 15 aprile 2008
il manifesto, 14 aprile 2008
”Sono tra quelli che, a partire dell’inizio degli anni Ottanta del XX secolo, hanno cominciato a proporre e sperimentare l’articolazione della pianificazione in due componenti: una componente strutturale, una componente programmatica. Le proposte che in quegli anni proponemmo e sperimentammo[1] acquisirono marcata evidenza pubblica nel Congresso dell’INU del 1995, e ispirarono molte legislazioni regionali successive (a partire da quella toscana e quella ligure del 1995-1997) e la formazione di strumenti di pianificazione particolarmente in Toscana, Liguria, Emilia-Romagna, Veneto.
Oggi si discute (ma in cerchie abbastanza ristrette) sull’efficacia di quella articolazione. Una discussione nella quale si sentono molte voci critiche le quali, a mio parere, si riferiscono più all’applicazione concreta dell’articolazione che al suo significato. In questa note vorrei domandarmi se quella articolazione abbia ancora oggi un senso oppure no: se sia sbagliato, o comunque criticabile, il principio in se, il metodo che esso suggerisce, oppure se ne sia stata sbagliata l’applicazione; e se quindi quel principio e quel metodo siano ancora validi, e meritino perciò d’essere riproposti e, dove possibile, praticati.
Esporrò con una certa ampiezza le intenzioni dell’articolazione della pianificazione in due componenti citando i successivi approfondimenti cui ho partecipato, poi esaminerò molto brevemente alcuni aspetti della sua applicazione. E avverto subito il lettore che queste note non hanno un carattere sistematico ed esprimono e illustrano il portato e le opinioni desunte da esperienze personali. Sarebbe a mio parere estremamente utile se in qualche sede si svolgesse una ricerca seria, oggettiva, raccogliendo, raccontando e confrontando riflessioni ed esperienze dei numerosi urbanisti che sulla stessa linea si sono mossi, negli ultimi decenni. Così come sarebbe estremamente utile se le regioni che hanno avviato, ormai da molti anni, l’esperienza dell’articolazione del piano in più componenti promuovessero un serio bilancio critico dell’applicazione delle loro leggi urbanistiche.
LE INTENZIONI E LE PRIME ESPERIENZE
Due esigenze
Cominciammo a ragionare (con Edgarda Feletti e Luigi Scano) sull’articolazione della pianificazione (anzi, allora del “piano”) quando nel 1981 avviammo la redazione di un nuovo PRG per la città storica di Venezia. Proseguimmo il ragionamento,e la sperimentazione, soprattutto con Luigi Scano, in numerose occasioni successive, sia nell’attività culturale e professionale e in quella politica e legislativa, sia nell’ambito dell’INU (di cui sono stato il presidente dal 1983 al 1990). Ciò che inizialmente volevamo risolvere era la contraddizione tra due esigenze, che minava l’efficacia della pianificazione tradizionale.
Da una parte, il fatto che la definizione delle scelte territoriali richiedeva, soprattutto nella fase di prima impostazione, un lavoro di analisi della struttura fisica e di quella sociale del territorio di notevole impegno e durata, e che le scelte strategiche sulle prospettive della città richiedevano – una volta definite – la loro permanenza per un tempo lungo trattandosi di decisioni che richiedevano operazioni complesse e lunghe per essere tradotte in concrete trasformazioni della realtà. Del resto, le scelte derivanti da quelle analisi consistevano soprattutto nelle tutele degli elementi di qualità del territorio e nella definizione della strategia che si configurava per quel determinato territorio(città o ambito d’area vista che fosse. In entrambi i casi, scelte che dovevano avere una certa fermezza e costanza nel tempo, quindi dovevano dettare regole di carattere permanente, o almeno di lungo periodo.
Dall’altro lato, la necessità di poter modificare nel tempo scelte legate ad eventi non prevedibili, o di per sé tali da mutare in tempi medio-brevi: le caratteristiche della popolazione, le trasformazioni nell’assetto delle convenienze sociali ed economiche di utilizzazione degli spazi, i differenti orientamenti politici (e i differenti interessi sociali) prevalenti nelle istituzioni elettive. Si trattava di scelta che non era ragionevole ancorare a tempi indefiniti né lunghi, come non era ragionevole prescrivere procedure complesse per modificarle: purché, ovviamente, fossero coerenti e conformi alle decisioni strutturali e strategiche preliminarmente definite.
Il conflitto tra queste due esigenze diveniva più marcato negli anni in cui le trasformazioni sociali ed economiche subivano vistose accelerazioni, e la pianificazione tradizionale sembrava incapace di assicurare la flessibilità necessaria alle decisioni sul territorio. La pianificazione appariva dominata dalla rigidezza, dalla difficoltà di seguire in tempi ragionevoli il modificarsi delle esigenze e delle opportunità. L’unica risposta era quella di estendere all’inverosimile pa pratica delle varianti al piano parziali, episodiche, discrezionali: una risposta che, inseguendo la flessibilità e tentando di soddisfarla, provocava la perdita di ogni coerenza al sistema territoriale.
Per soddisfare entrambe le esigenze cominciammo a ragionare sulla possibilità di articolare le scelte della pianificazione in due componenti: l’una, contenente le scelte strutturali (in riferimento particolare alla struttura fisica del territorio, urbano ed extraurbano) e quelle strategiche (non fruttuosamente modificabili nel breve periodo); l’altra contenente le scelte, coerenti e compatibili con quelle strutturali e strategiche, concernente le trasformazioni da programmare e operare nel breve periodo, che si convenne coincidere con il mandato amministrativo.
Il piano del centro storico di Venezia
Il primo tentativo al quale partecipai fu in occasione della redazione del nuovo PRG per la città storica di Venezia, avviato nel 1981[2]. L’analisi tipologica strutturale delle unità edilizia (e delle altre unità di spazio) della città storica ci aveva condotto a individuare e definire, per ciascun tipo edilizio, due elementi: le trasformazioni fisiche consentite (che andavano generalmente nella direzione del ripristino degli elementi della tipologia storica originaria) e la gamma (generalmente molto larga) delle utilizzazioni compatibili con quel tipo: cioè tali da non stravolgerne l’assetto fisico e funzionale. Inoltre il piano perimetrava le parti della città in cui si potevano e dovevano effettuare operazioni più consistenti, fino alla ristrutturazione urbanistica; per questa parti il piano stabiliva le caratteristiche fisica e funzionali da rispettare nella formazione dei piani urbanistici attuativi.
Questa scelte dovevano avere carattere di permanenza nel tempo. In occasione di ogni mandato amministrativo si doveva invece decidere che cosa concretamente rendere esecutivo nel periodo successivo: quali destinazioni d’uso erano ammesse nelle diverse tipologie strutturali, naturalmente nella gamma di quelle compatibili; quali specifiche trasformazioni rendere obbligatorie nel periodo considerato; quali piani attuativi formare.
Ogni quinquennio insomma, tenendo conto delle condizioni sociali, delle possibilità economiche, degli indirizzi politici, delle disponibilità degli operatori, il Consiglio comunale (mentre verifica e aggiorna, ove necessario, la parte "fissa" del piano), rielabora integralmente la parte "programmatica" del piano: stabilisce di nuovo quali sono, nell'ambito della gamma ampia di utilizzazioni compatibili con i vari tipi edilizi, le destinazioni d'uso che devono, o possono essere attivate nel periodo successivo. E stabilisce anche quali sono gli ambiti per i quali si procederà alla formazione dei piani particolareggiati, e approva quelli nel frattempo redatti.
Lungo periodo e breve periodo
Esposi un primo tentativo di generalizzare l’esperienza di Venezia a un convegno organizzato dalla Provincia di Bologna nel 1984, al quale mi invitò l’amico Giorgio Trebbi.
Nella mia relazione, proponendo i requisiti di una nuova pianificazione, sostenevo che il piano “deve contenere indicazioni valide per il lungo periodo (poiché le caratteristiche della risorsa territorio sono sostanzialmente invariabili nel tempo, se si prescinde dalle trasformazioni operate dal piano), ma deve anche, e precisamente e tassativamente, indicare quali sono le trasformazioni operabili - prescritte - nel breve periodo: nel periodo per il quale le previsioni sono certamente attendibili, la volontà politica è certamente costante, le risorse sono certamente disponibili”. Sostenevo di conseguenza che il piano “deve costituire un quadro di coerenza sia per il lungo periodo (a causa della relativa invariabilità temporale della risorsa territorio, e l'ampiezza dell'arco di tempo necessario ad eseguire le opere di trasformazione di più ingente consistenza), che per il breve periodo: per il periodo cioè nel quale in modo più certo esplica la propria efficacia”, e che esso deve, di conseguenza, “essere contemporaneamente aggiornabile nella sua parte invariabile, o di lungo periodo, e programmabile nella attuazione delle trasformazioni di breve periodo: deve essere un quadro di coerenza dinamico, il quale abbia la capacità di adattarsi alle modificazioni da esso stesso impresse (e di seguire i mutamenti della domanda sociale e delle risorse disponibili) conservando costantemente la sua coerenza complessiva”[3].
Dal piano alla pianificazione;
il ruolo delle strutture pubbliche della pianificazione
L’articolazione del piano in due componenti era fin d’allora parte di una convinzione che riguardava l’intero ambito della pianificazione territoriale e urbana: quella che, in un saggio per La Rivista Trimestrale di Franco Rodano e Claudio Napoleoni, definii come il passaggio dell’urbanistica dal piano alla pianificazione[4].
In quella sede, anche in riferimento alla polemica allora in corso tra i sostenitori del “piano” e quelli del “progetto”, sostenevo che era ormai insufficiente “l'immagine di uno strumento, costruito come la definizione del desiderabile assetto di una determinata parte del territorio, concluso e statico”, uno strumento “che, una volta delineato, verrà poi successivamente attuato mediante una separata attività di gestione e, nei casi migliori, di programmazione dei modi nei quali sviluppare nel tempo la sua attuazione.
Occorreva spostare “l'accento dallo strumento del ‘piano’ all'attività di ‘pianificazione’ significa non concepire e praticare più l'uso dei tre momenti tradizionali del ‘piano’ (ossia del disegno dell'assetto desiderato), del ‘programma’ (ossia della scelta, all'interno dell'universo delle opportunità definite del ‘piano’, di quelle da realizzare in una fase determinata), e della ’gestione’ (ossia dell'attuazione concreta, attraverso ‘progetti’ esecutivi, degli interventi previsti dal ‘programma’) come tre operazioni separate e successive, ma concepire invece, e praticare, i tre momenti suddetti come momenti logici di un'attività (la ‘pianificazione’, appunto) che si svolge con una stretta e continua interazione tra l'uno e l'altro momento”.
Una condizione essenziale perché si potesse compiere il passaggio “dal piano alla pianificazione” e perché quest’ultima potesse essere organizzata in modo nuovo (in particolare procedendo con continuità in un’attività sistematica di programmazione, esecuzione, monitoraggio delle scelte operative conseguenti dalle condizioni e dalle strategia dettate dalla componente strutturale della pianificazione, era costituita dalla presenza di adeguate strutture pubbliche specificamente adibite all’attività di pianificazione.
Lo avevamo già avvertito nell’esperienza veneziana, come sottolineavo nell’illustrazione del piano del centro storico, dove sottolineavo che l’impostazione proposta richiedeva, “per il suo pieno esplicarsi - una condizione irrinunciabile: una struttura di pianificazione e gestione comunale solida, efficiente, autorevole, e dotata degli attrezzi necessari per operare con continuità, sistematicità ed efficacia”.
Lo ribadivo nel saggio de La Rivista Trimestrale, dove ricordavo che “é da decenni che la migliore cultura urbanistica sostiene che la possibilità di esercitare un effettivo ed efficace governo del territorio ha il suo passaggio obbligato nella formazione di strutture pubbliche di pianificazione” e osservavo che “questo problema, mai risolto in modo compiuto, è oggi più urgente che mai proprio per le novità che sono intervenute”.
L’esperienza dell’INU prima della “svolta”
Ero presidente dell’INU quando (1988-89) avviammo la preparazione del XIX congresso nazionale. Proposi di lavorare per un congresso a tesi, al fine di consentire alle varie posizioni che venivano a manifestarsi nell’ampio gruppo dirigente dell’Istituto di esprimersi nel modo esplicito. La discussione fu ampia e, a mio parere, proficua. Non si riuscì, se non parzialmente, a giungere all’esplicitazione chiara di ipotesi alternative su cui votare all’Assemblea dei soci, coinvolgendo tutta la base associativa in una discussione che mi sembrava fondamentale. Si approdò invece a un documento unitario, approvato a maggioranza[5].
Al congresso, che si svolse a Milano dal 27 al 29 settembre 1990, presentai nella loro formulazione originaria le proposizioni che avevo avanzato nel corso dei lavori preparatori. Si trattava di due gruppi di tesi, che riguardavano argomenti nodali: l’efficacia del sistema di pianificazione e il rapporto tra pubblico e privato. Su quest’ultimo punto rendevo esplicita e argomentata con episodi concreti la critica alla “urbanistica contrattata”, che poi emerse con forza negli anni successivi con l’inchiesta giudiziaria “mani pulite e lo svelamento di Tangentopoli[6]. Ma la maggioranza dell’INU preferì glissare.
Sul primo argomento (l’efficacia del sistema di pianificazione) proponevo sostanzialmente un metodo basato sulla concezione della pianificazione come attività continua e sistematica, la preliminare considerazione dell’analisi delle risorse territoriali e della definizione delle invarianti strutturali e delle “regole della trasformabilità”, l’articolazione del piano in due componenti.
Proponevo in particolare “di porre la lettura delle qualità del territorio e la definizione delle regole della trasformabilità alla base dei processi di pianificazione non solo in tutta la pianificazione regionale ma anche nella pianificazione territoriale e urbanistica ai livelli provinciale o metropolitano e comunale”. E proponevo di definire successivamente “quali sono, all'interno della gamma delle trasformazioni teoricamente possibili per una corretta utilizzazione del territorio, lo operazioni che è concretamente possibile operare in un determinato e prevedibile arco di tempo, in relazione alla domanda socialmente prioritaria e alle risorse impiegabili per le trasformazioni necessarie per soddisfarla”[7].
Le mie proposte non vennero accolte.
La proposte dell’associazione culturale Polis
Il Congresso di Milano dell’INU aveva comportato la sconfitta della posizione culturale che esprimevo. Non ne fui più il presidente, né partecipai al gruppo direttivo e, successivamente, diedi le dimissioni dall’Istituto[8]. Con un gruppo di amici costituimmo un’associazione, che doveva consentirci di proseguire l’elaborazione che avevamo avviato nell’INU. Dopo una serie di seminari e di convegni approdammo, soprattutto grazie al lavoro di Luigi Scano, a definire una proposta legislativa compiuta. Essa fu presentata a un convegno nazionale, organizzato a Venezia dal PDS e dalla Sinistra europea, dedicato a una riflessione in occasione al cinquantesimo anniversario della legge urbanistica del 1942[9].
Per quanto riguarda le caratteristiche della pianificazione, nella posizione di Polis si sottolineava in primo luogo la necessità di provvedere, “ad ogni livello, a determinare, in via preliminare, le disposizioni finalizzate alla tutela sia dell'"integrità fisica" che dell'"identità culturale" del territorio interessato, da porre come "condizioni" (da intendersi sia come "limiti", sia come "prerequisiti") ad ogni possibile scelta di trasformazione (fisica e/o funzionale) del medesimo territorio”. Era, questo, un assunto che derivava anche dalla riflessione sulla legge 431/1995 (Legge Galasso) e dall’esperienza di formazione, ai sensi di quella legge, del piano paesaggistico regionale dell’Emilia-Romagna. Questo piano era stato considerato dai suoi protagonisti come la prima fase di un processo di pianificazione, che avrebbe dovuto completarsi con la formazione di un piano territoriale regionale[10].
La preliminare definizione delle regole di tutela non veniva considerato solo fine a se stesso, cioè come funzionale all’esigenza di difendere prima d’ogni altra scelta le qualità naturali e storiche del territorio, ma anche come necessaria premessa “per un'attività pianificatoria altamente, e correttamente, flessibile”. Una pianificazione, si sottolineava, “non soggetta a più o meno frequenti, e più o meno semplificate, ma comunque indiscriminate, variazioni delle scelte o delle disposizioni del piano, sulla base di ‘urgenze’ e di ‘nuove dinamiche’ troppo spesso insufficientemente valutate o neppure verificate nei loro effetti sull'assetto complessivo del territorio”, ma una pianificazione, “capace di assumere la gerarchia degli interessi e degli obiettivi che la comunità esprime e di dare tempestivamente, ma in costante riferimento ad essi, le risposte ai nuovi problemi via via insorgenti”.
Ecco che, sulla base di questa premessa, Polis riproponeva nella sua proposta di legge urbanistica l’articolazione della pianificazione, a tutti i livelli, in due componenti: “quella strutturale, rivolta al perseguimento dei principali obiettivi ambientali, culturali e socio-economici, e comprendente la definizione delle condizioni alle trasformazioni e delle trasformazioni strategiche, che costituisce la parte più solida, più duratura, della pianificazione, e che, quindi, richiede procedure di formazione di maggiore garanzia istituzionale”, e quella “programmatica, rivolta alla precisazione, alla configurazione ed all'organizzazione specifica delle trasformazioni, che costituisce la parte flessibile, e più agilmente modificabile, della pianificazione, e che, quindi, deve disporre di procedure più semplici e tempestive”.
La proposta al XXI Congresso (Bologna, 1995)
Nel 1995 si tenne a Bologna il 21° congresso nazionale dell’INU. Inviai un contributo che fu inserito negli atti del congresso[11]. Ribadivo “la possibilità, l'opportunità e l'utilità di una trasformazione del tradizionale strumento di pianificazione (il PRG)” mediante la “articolazione degli elaborati. grafici e normativi del piano comunale (ma analogo criterio viene proposto per gli atti di pianificazione degli altri livelli) in due serie di componenti” la strutturale e la programmatica.
La prima ”rappresenta e disciplina le decisioni relative alla tutela ambientale e della riduzione dei rischi, e quindi definisce, per ciascuna unità di spazio, le condizioni che l'esigenza suddetta pone alle trasformazioni territoriali, e inoltre individua (rappresentandole e disciplinandole) le scelte relative a opere e interventi di carattere strategico, e cioè riferite al lungo periodo e governabili solo in una prospettiva lunga. Essa ha validità a tempo indeterminato, viene periodicamente verificata (e aggiornata solo se ciò si rivela necessario), e comporta un iter procedimentale più garantistico dell'altra componente.”
La seconda componente “definisce le destinazioni d'uso attivabili, nonché le trasformazioni fisiche operabili (le une e le altre, ovviamente, nell'ambito e nel rispetto delle condizioni definite dalla componente strutturale e in coerenza con la sua stralegia), […] “ha validità per un quadriennio, cioè per un periodo coincidente con il mandato amministrativo; alla fine di tale periodo essa decade, e deve essere sostituita da un nuovo analogo atto. L'iter procedimentale della componente programmatica si esaurisce nell'ambito dell'ente territoriale che l'ha adottata (comune, provincia o città metropolitana, regione)”.
La proposta trovò un’eco che giudicai limitata nella proposta finale avanzata dall’INU.
Riepilogando: i contenuti essenziali della proposta
Possiamo adesso riepilogare sinteticamente i contenuti essenziali del modello di pianificazione che, a partire dall’esperienza del piano per il centro storico di Venezia, si era venuto via via precisando.
L’articolazione della pianificazione in due componenti è ritenuta utile a tutti i livelli, sulla base del cosiddetto “principio di pianificazione”[12].
Il contenuto della componente strutturale è costituito da due elementi: le regole che garantiscono la tutela delle qualità naturali e storiche del territorio e la salvaguardia dai rischi, le strategie definite per quel determinato territorio, sia nel loro aspetto di “progetto” di lungo periodo che in quello di trasformazioni di vasto respiro strategie. Dato il suo contenuto, le sue scelte sono valide a tempo indeterminato e definite con “rigidezza”, con una condivisione interistituzionale (“interscalare”), necessaria perché esse coinvolgono interessi non disponibili esclusivamente per la comunità direttamente interessata, ma anche per quelle più e meno vaste..
Il contenuto della componente programmatica è costituito dalle decisioni che possono o devono essere operative nel breve periodo, ovviamente nell’ambito e nel rispetto delle regole e delle strategie definite dalla componente strutturale. Esse sono valide a tempo determinato, e costituiscono il luogo della flessibilità nel rispetto delle rigidezze definite dalla componente strutturale. La responsabilità si esaurisce nell’ambito del territorio di competenza dell’ente proponente, e quindi le procedure di formazione si concludono entro il livello proprio.
Un corollario che ne discende è il passaggio dall’approvazione alla verifica di conformità. Poiché ogni istituzione esprime la proprie scelte mediante un atto di pianificazione, invece dell’approvazione da parte dell’ente sovraordinato delle scelte del livello sottordinato, o di complesse procedure di co-pianificazione, il ruolo dell’ente sovraordinato si esaurisce nella definizione del proprio piano e nella verifica di conformità del piano sottordinato rispetto ad esso.
Due condizioni sono indispensabili perché un simile modello funzioni.
La pianificazione non deve consistere più nella formazione di piani, ciascuno caratterizzato da un inizio e una fine del suo percorso (della sua storia), ma si invera in un’attività sistematica e continua nel tempo, nella quale le varie fasi dell’analisi, delle scelte, del monitoraggio e della formulazione delle nuove scelte si susseguono ciclicamente. Un’attività della quale il quadro conoscitivo, sistematicamente aggiornato e condiviso con tutti gli attori direttamente e indirettamente coinvolti è la base indispensabile.
Ma perché questa condizione possa verificarsi è indispensabile che, a ciascun livello, operino strutture pubbliche tecniche dotate di tutte le competenze e le attrezzature necessarie per svolgere con efficacia le operazioni necessarie. Strutture la cui qualificazione sia tale da consentir loro di individuare i supporti di consulenza necessari nelle diverse fasi del processo e in relazione ai diversi contenuti specialistici necessari, sia in termini di conoscenze esperte che di progettazione di singoli aspetti o settori od oggetti.
Una terza condizione, sulla quale in questa sede non mi soffermerò ma che è anch’essa essenziale, è la volontà politica e culturale, da parte degli eletti, di adoperare effettivamente un metodo e un procedimento siffatto per decidere sulle trasformazioni territoriali, nel breve e nel lungo periodo.
LA PRATICA SUCCESSIVA,
NELLE LEGGI E NEI COMPORTAMENTI
Le leggi regionali
Si può dire che tutte le leggi regionali approvate a partire dal 1995 prevedono l’articolazione del piano secondo criteri analoghi a quelli che ho enunciato. Esse adottano, sia pure in maniera molto diversificata, la distinzione di due (o più) componenti, o parti, o disposizioni, nell’ambito degli atti di pianificazione generale, o, più ampiamente, di più piani con differenti denominazioni, contenuti, procedure.
Nelle proposte che avevo contribuito a definire l’articolazione riguardava la pianificazione a tutti i livelli. La quasi totalità delle leggi regionali l’applica invece solo al livello comunale. Esse attribuiscono alla pianificazione di livello comunale, e ai relativi documenti, un carattere complessivo e riassuntivo di tutte le scelte sull’assetto del territorio.
La Toscana (1995) articola la pianificazione comunale in “piano strutturale”, “regolamento urbanistico” e “programma integrato d’intervento”: il primo con un carattere di individuazione e classificazione delle risorse territoriali, il secondo con efficacia di attribuzione di prescrizioni (e valori) agli immobili, il terzo con funzione programmatica e operativa.
L’Umbria (1995) articola il piano comunale in una “parte strutturale, che individua le specifiche vocazioni territoriali a livello di pianificazione generale in conformità con gli obbiettivi ed indirizzi urbanistici regionali e di pianificazione territoriale provinciale”, e una “parte operativa, che individua e disciplina le previsioni urbanistiche nelle modalità, forme e limiti stabiliti nella parte strutturale”. La Liguria (1997) articola il “piano urbanistico comunale” in “descrizione fondativa”, “documento degli obiettivi”, “struttura del piano”, “norme di conformità e di congruenza”. Il Lazio (1999) articola il “piano urbanistico comunale” in “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche”. La Basilicata (1999) e l’Emilia Romagna (2000) articolano analogamente, alla legge toscana, la pianificazione comunale in “piano strutturale comunale”, “piano operativo” e “regolamento urbanistico”. La Calabria (2002) prevede un “piano strutturale comunale”, peraltro ricco di articolati contenuti precettivi, un “regolamento urbanistico ed edilizio”, che contamina contenuti propriamente “urbanistici” con quelli tipici del più tradizionale regolamento edilizio, e un “piano operativo temporale”, con forte valenza di programmazione temporalizzata degli interventi, arricchita di alcuni elementi di specificazione della disciplina urbanistica.
Come si vede, alcune regioni prevedono più piani, tra loro connessi ma reciprocamente autonomi, per le componenti strategico-strutturali e per quelle più direttamente operative; altri invece articolano in più componenti un’unica figura pianificatoria generale.
Alcune leggi regionali attribuiscono l’articolazione della pianificazione in più parti o componenti anche ai livelli sovraordinati. Così la Liguria prevede a ciascuno dei tre livelli un documento di analisi fondativa (“quadro descrittivo” a livello regionale, “descrizione fondativa” a livello provinciale e comunale), una trascrizione precettiva di tale analisi (“quadro strutturale” e “struttura del piano”). Il Lazio prevede la distinzione tra “disposizioni strutturali” e “disposizioni programmatiche” anche a livello regionale e provinciale. In particolare, la legge laziale stabilisce che “la pianificazione territoriale ed urbanistica generale si articola in: previsioni strutturali, con validità a tempo indeterminato, relative alla tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio regionale, alla definizione delle linee fondamentali e preesistenti di organizzazione del territorio ed alla indicazione delle trasformazioni strategiche comportanti effetti di lunga durata; previsioni programmatiche, riferite ad archi temporali determinati, dirette alla definizione specifica delle azioni e delle trasformazioni fisiche e funzionali da realizzare e costituenti riferimento per la programmazione della spesa pubblica nei bilanci annuali e pluriennali”.
In sostanza, l’impostazione delle legislazioni regionali rimane fedele ad alcuni dei criteri emersi dalle elaborazioni culturali degli anni precedenti. In particolare, per la parte strutturale della pianificazione comunale sono sempre presenti tre elementi: la preliminare individuazione degli elementi del territorio che ne condizionano l’integrità e ne connotano l’identità; la definizione delle regole che ne assicurino la corretta utilizzazione anche per i posteri; l’individuazione delle direttrici strategiche dell’azione di trasformazione.
A causa di questa sua natura, il piano strutturale parte generalmente da una descrizione, la assume come fondativa delle scelte di lungo periodo (lo “statuto dei luoghi”), la traduce in regole di lunga durata (di carattere “statutario”).
L’attuazione
Non mi risulta che sia stata compiuta una seria analisi comparativa delle esperienze di applicazione dell’articolazione del piano in più componenti. Sarebbe a mio parere un lavoro estremamente utile. Un’analisi che parta da una chiara enunciazione degli obiettivi che si volevano raggiungere, dalle intenzioni che li sorreggevano, che esponga il modo in cui i precetti sono stati applicati nelle diverse situazioni (o almeno in un certo numero di casi oculatamente scelti come rappresentativi), che misuri la distanza tra gli obiettivi e i risultati, che formuli alcune ipotesi sullo scarto maggiore o minore tra gli uni e gli altri. Ma non sembra facile, ai nostri tempi e nel nostro paese, fondare l’attività legislativa su un’analisi rigorosa dell’attuazione delle leggi che si vogliono cambiare, e di cui semplicemente di vuole verificare l’adeguatezza.
Mi limiterò quindi, per ora, a formulare alcune osservazioni sulla base delle conoscenze più ravvicinate di cui dispongo.
Credo di poter innanzitutto sostenere che gia nelle leggi regionali, e ancor di più nella loro attuazione, si siano trascurati due aspetti della questione che a me sembrano essenziali.
In primo luogo, non si è applicato quello che ho definito il “principio di pianificazione”. Stato, regioni, province non hanno espresso le loro scelte territoriali sulla base di metodi e procedimenti di pianificazione, ossia traducendo in quadri coerenti e olistici, trasparentemente formati, l’insieme delle loro decisioni, ma hanno proceduto per singoli programmi, settori, opere, politiche, spesso occasionati dall’emergenza o da motivazioni di prestigio e d’immagine, o meramente di potere.
In secondo luogo, si è completamente trascurato il fatto che il nuovo modello avrebbe richiesto un poderoso rafforzamento delle strutture pubbliche adibite alla pianificazione. L’aggiornamento della base conoscitiva e la sua alimentazione con i risultati del monitoraggio sui piani e sulle trasformazioni da essi indotte, l’aggiornamento della componente strutturale e la sistematica riformulazione della componente operativa, il prolungamento dell’azione di pianificazione territoriale e urbanistica nelle attività esecutive (edificazioni private, interventi pubblici di infrastrutturazione e urbanizzazione, definizione di politiche aventi ricadute sul territorio), azione di stimolo nei confronti della partecipazione dei cittadini alle scelte: tutto ciò avrebbe richiesto la presenza di strutture abitate da tecnici qualificati e motivati, dotate di attrezzature efficaci, formalizzate in un’organizzazione autorevole e qualificata.
Un’esperienza diretta
Ho dedicato tutta la prima parte di queste note all’esposizione di proposte maturate nell’esperienza personale. Concluderò questo appunto con alcune considerazioni riferite anch’esse all’esperienza personale: in particolare, alla sperimentazione di una delle migliori leggi in materia, la 5/1995 toscana, nella collaborazione alla formazione degli strumenti urbanistici nuovi (piano strutturale e regolamento urbanistico) del comune di Sesto Fiorentino. Un comune di circa 60mila abitanti, nel quale si sono succedute amministrazioni capaci di condurre politiche urbanistiche lungimiranti.
La premessa politica del nostro lavoro è stata ottima. L’amministrazione ci ha fornito direttive che abbiamo completamente condivise: porre termine all’espansione, salvaguardare il territorio inedificato, garantire le visuali libere e promuovere le connessioni ambientali e di percorrenza tra i due complessi paesaggistici più rilevanti, il Monte Morello e la piana dell’Arno, coordinare le scelte con i comuni limitrofi, accrescere il livello della vivibilità della cittadina, rispettare l’individualità dei singoli paesi che la componevano ma consolidare l’unitarietà del Comune.
Anche sul piano normativo la nostra interpretazione della legge regionale, che gli uffici regionali hanno formalmente dichiarato di condividere, ci ha consentito di utilizzare i diversi nuovi istituti prescritti dalla legge (lo statuto dei luoghi, le invarianti strutturali, i sistemi e sub-sistemi territoriali, le unità territoriali organiche elementari) in modo coerente con il contenuto delle componenti della pianificazione (quella strutturale e quella operativa) che era la nostra.
Su alcuni punti rilevanti delle scelte abbiamo trovato soluzioni a mio parere convincenti, che però sono state frutto di una interpretazione della legge, alla quale numerose altre potevano contrapporsi (e si sono infatti contrapposte). Mi riferisco al rapporto tra dimensionamento di lungo periodo, richiesto dalla legge per il piano strutturale (ma ha senso un dimensionamento di lungo periodo?), e la sua articolazione in una serie di piani operativi. Mi riferisco al rapporto tra aspetti strutturali del piano e aspetti strategici, tra sistema delle tutele e progetto di città. Mi riferisco ancora al rapporto tra la rigidità delle scelte strutturali e strategiche e la flessibilità delle scelte operative: un rapporto difficile, che spinge i comuni a interpretare il piano strutturale o come un documento vago, generico e privo di regole, oppure, al contrario, come un vecchio piano regolatore generale.
C’è poi un paio di problemi per i quali neanche interpretando creativamente la legge abbiamo potuto raggiungere soluzioni soddisfacenti: il livello d’area vasta, i tempi della pianificazione.
In assenza di una pianificazione regionale e provinciale che definisca le scelte territoriali di più vasta portata è particolarmente incerto il rapporto con l’area vasta. Molte delle scelte comunali riguardano aspetti (ambientali, paesaggistici, infrastrutturali) che hanno rilevanza sovracomunale, e che solo operando a questo livello possono essere affrontati seriamente. Ma in Toscana (e, credo, anche altrove) la dimensione d’rea vasta è del tutto trascurata. La regione trascura generalmente la dimensione provinciale della pianificazione (e, in generale, del governo del territorio) e “risolve” i problemi con rapporti bilaterali regione-comune. La provincia continua a essere considerata un ente settoriale, di rango inferiore, e le forme associative volontarie di comuni non hanno preso piede. È probabile che questo limite sia particolare evidente in Toscana, dove l’attuale gruppo dirigente della regione teorizza, oltre a praticare, la centralità del momento comunale risolve la maggior parte dei problemi con il rapporto diretto tra Regione e singolo comune[13]: ciò che indubbiamente accresce il peso delle decisioni regionali e aumenta il suo potere discrezionale.
In Toscana, ma anche in altre regioni, il problema principale è tuttavia rappresentato dalla lentezza con cui si rinnova la pianificazione e dall’inerzia delle decisioni. A Sesto Fiorentino, uno dei primi comuni nei quali si è adoperato l’incerto modello della legge 5/1995, il vecchio PRG è morto nel 2006, cioè 11 anni dopo l’inizio dell’applicazione di quella legge. Nella provincia di Firenze molti comuni hanno approvato il piano strutturale ma non il piano operativo, il Regolamento urbanistico.Clamoroso è il caso di Firenze, che dopo tredici anni dal suo avvio anni non ha concluso l’iter formativo del piano strutturale. Nella più rosea delle ipotesi saranno necessari altri due anni per “superare” il veccguo PRG: cioè saranno trascorsi quindici anni dalla legge.
Nel frattempo i vecchi PRG e le loro scelte obsolete (generalmente caratterizzate dal sovradimensionamento) pesano. A Firenze oggi si realizza una tramvia pensata 20 anni fa; la progettazione dell’attraversamento del treno ad alta velocità è iniziato negli anni Novanta; l’università a Sesto Fiorentino è attuativa di in un brandello del Piano intercomunale, progettato da Detti negli anni Sessanta, del quale si sono realizzati alcuni tasselli casuali che oggi appaiono del tutto privi di logica urbanistica; il famoso intervento sull’area Fiat-Fondiaria, contestato un quarto di secolo fa, sta per essere completato oggi (e non parliamo del come). In base alla legge (o meglio, alla sua interpretazione corrente) le previsioni obsolete o semplicemente vecchie non decadono: nulla di ciò che è stato promesso può essere messo in discussione, e tutto si somma in maniera casuale.
Se almeno il tempo trascorso fosse stato impiegato per costruire strumenti e strutture di pianificazione efficaci, competenti, attrezzati, autorevoli, se almeno si fosse instaurata una prassi ci collaborazione tra le strutture tecniche dei diversi livelli di governo i cui interessi e le cui azioni si intersecano sugli stessi territori, se fosse maturata una cultura (tecnica, politica, amministrativa) condivisa e capace di durare nel tempo, il tempo impiegato nella prima fase di attuazione del nuovo modello di pianificazione avrebbe potuto dare frutti negli anni a venire. Così – almeno per quanto mi è dato conoscere – non è stato. Spero che altri contributi su questo tema possano consentire di affermare che non dappertutto è così.
Il “Notiziario dell’archivio Osvaldo Piacentin”i è scaricabile qui
[1] Nelle diverse fasi della riflessione e della sperimentazione concorsero alla messa a punto in primo luogo, e decisivamente Luigi Scano, poi Edgarda Feletti, Vezio De Lucia, Giulio Tamburini, Alessandro Dal Piaz, Mauro Baioni, Paolo Berdini.
[2]Mi riferisco alla variante di PRG per la città antica, la cui costruzione fu impostata e iniziato nel 1982, (ero assessore all’urbanistica), interrotto nel 1985, ripreso nel 1987, concluso e reso pubblico nel 1990, e adottato nel 1992 Ho seguito il piano come diretto responsabile nella prima fase, poi come collaboratore esterno negli anni in cui, assessori Boato prima e Salvagno poi, gli uffici diretti da Edgarda Feletti, con la costante collaborazione di Scano, lo conclusero e portarono all’adozione. La Giunta eletta nel 1993 (sindaco Massimo Cacciari), vittima della ventata di neoliberismo che in quegli anni soffiava impetuoso, iniziò subito smantellare quel piano. Esso fu ampiamente rimaneggiato dall’assessore Roberto D’Agostino e dal consulente Leonardo Benevolo, soprattutto nella normativa e, reso ormai irriconoscibile, adottato nel 1996.
[3] “Livelli di pianificazione e livelli di governo: Le tendenze che devono affermarsi per la costruzione di un processo unitario di pianificazione”. Provincia di Bologna, Luoghi e logos - Il territorio fra sistemi di decisione e tecnologie della conoscenza, convegno nazionale, Bologna, 27-28 nov. 1984. Il mio contributo fu inserito nel terzo volume dei materiali preparatori.
[4] “L’urbanistica dal piano alla pianificazione”, La Rivista Trimestrale, n. 4, dicembre 1985
[5] Le tesi sono pubblicate in un supplemento allegato al n. 108, novembre-dicembre 1989, della rivista Urbanistica informazioni.
[6] Si veda P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco. Come negli incredibili anni ’80, nacque e si diffuse Tangentopoli, Editori Riuniti, Roma, 1993.
[7] Le tesi alternative sono pubblicate in eddyburg.it, al seguente indirizzo:
[8] Le ragioni sono espresse nell’editoriale di “Commiato” che pubblicai nell’ultimo numero di Urbanistica informazioni che uscì sotto la mia direzione (n. 125-126, settembre-dicembre 1992)
[9] Gli atti furono pubblicati in Cinquant'anni dalla legge urbanistica italiana 1942-92, a cura di E. Salzano, Editori Riuniti, Roma, 1993
[10] Il Piano paesaggistico regionale dell’Emilia-Romagna fu adottao il 29 dicembre 1986, e approvato
[11]“Nota sulle proposte di riforma urbanistica dell'INU -1995”, in: XXI Congresso Inu, Bologna 23-25 novembre 1995, Atti, Volume secondo - I contributi al congresso.
[12] Principio di pianificazione
[13] Ma non accade così anchein E-R?
IL MESTIERE DELL’URBANISTA
L’urbanista
Diverse sono le interpretazioni sulla nascita di questa nuova figura professionale, l’urbanista. Questa figura professionale ancora oggettivamente acerba e soggettivamente incerta. Una figura caratterizzata più dal suo mestiere che dal suo sapere (la “disciplina”), più da ciò che la società gli chiede che da una propria carismatica “missione”. Una figura più propensa a individuare problemi e a proporre percorsi per risolverli che a propinare certezze, più a favorire la ricerca di visioni condivise che a imporre la propria.
C’è chi, come Leonardo Benevolo, lega il mestiere dell’urbanista alla crisi del sistema economico-sociale fondato sulla produzione industriale, alla conseguente necessità di sanare i guasti prodotti nell’ambiente della vita dell’uomo, all’emergere dell’aspirazione (da parte di élite visionarie o di gruppi organizzati di uomini) a una condizione urbana caratterizzata da salubrità, socialità, benessere condiviso.
C’è chi, come Hans Bernoulli, dedica il mestiere dell’urbanista al tentativo di recuperare la grande rottura storica avvenuta quando il trionfo della borghesia, sciogliendo i variopinti vincoli feudali che legavano la società e ponendo l’interesse individuale come motore dello sviluppo, infranse anche il sistema delle regole comuni basate sulla proprietà indivisa del suolo urbano, capace di rendere la città bella e funzionale.
E c’è chi, assumendo come metafora della nascita dell’urbanistica il piano di New York del 1811, individua il mestiere dell’urbanista come il primo tentativo di superamento dell’incapacità del mercato a risolvere i problemi derivanti dalla contraddizione tra il carattere intrinsecamente sociale, comune, collettivo della città e la logica invincibilmente individualistica che del mercato è padrona.
Dalla parte del collettivo
Una cosa è certa. Se guardiamo alla storia, ci rendiamo conto che l’urbanistica moderna, e quindi l’urbanista quale oggi riusciamo a immaginarlo, nascono per risolvere problemi che derivano da una circostanza che ha segnato il nostro tempo. Dalla contraddizione tra il carattere collettivo, sociale, comune che hanno necessariamente alcune costruzioni del processo storico (e in particolare la città) e il carattere individualistico proprio dell’ideologia che è alla base del sistema capitalistico.
Esiste una letteratura sconfinata su questa contraddizione. E possiamo affermare che il modo mediante il quale si è cercato e si cerca di superarla caratterizza le diverse scuole, le diverse tonalità, i diversi stili dell’urbanistica, mentre mi sembra indubbio che la posizione a partire dalla quale l’urbanista si pone, il versante sul quale si schiera, sono dalla parte del collettivo, del comune, del sociale.
L’urbanistica è regolativa
La privatizzazione del suolo urbano è la prima forma della contraddizione tra sistema economico-sociale e città, ed è il primo ostacolo alla riduzione dei suoi effetti. Chi governa in nome degli interessi collettivo non è libero nelle sue operazioni: deve fare i conti con la proprietà privata del suolo urbano.
Una parte consistente dell’urbanistica (e una parte consistente del lavoro dell’urbanista) è perciò volta a regolare la proprietà privata: non può ignorarla, non può ignorare che il suolo urbano è parcellizzato, suddiviso, frammentato, frantumato: una città che voglia avere una identità, e quindi voglia esprimere un’immagine unitaria di se stessa, non può essere liberamente disegnata, progettata, pianificata sul terreno tenendo conto solo delle sue caratteristiche fisiche: deve fare i conti con la proprietà individuale e i suoi confini. Perciò, deve imporre ai proprietari (ai “particuliers”, dicono i francesi) la sua regola. L’urbanistica non può non essere regolativa.
E la prima fase del mestiere dell’urbanista è stata proprio quella di regolare a priori (mediante lo strumento del “piano regolatore”) i malfunzionamenti che sarebbero nati se le forme della crescita delle città fosse stata solo quella dettata dai vincoli dell’assetto dominicale e dalle leggi del sistema economico.
I beni culturali
Se la prima contraddizione tra l’habitat dell’uomo e il sistema economico-sociale è quella che ho enunciato, altre sono nate con la sua crescita. Voglio sottolinearne due principali.
La prima sta nel fatto che il sistema capitalistico compie una doppia operazione sul terreno dei valori: da un lato riconosce quale unico valore socialmente rilevante quello economico, ma dall’altro lato, e contemporaneamente, riduce il valore economico al valore di scambio, dimenticando completamente l’altra componente del valore, il valor d’uso. In altri termini, le cose hanno valore, meritano di essere considerate, promosse, tutelate, se sono riducibili a oggetti (servizi) che possano essere comprati e venduti: on hanno valore in se. In una parola, i beni sono ridotti a merci.
Questo comporta il fatto che se un castello o un casale o un bel paesaggio sono d’intralcio a una operazione che dà reddito al suo promotore, il castello o il paesaggio possono essere distrutti.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento i valori del sistema capitalistico-borghese non avevano ancora occupato tutti gli spazi. Esisteva, sia pure a livello di élites (ma le èlites allora governavano), la consapevolezza che determinati valori (e determinate qualità territorialmente localizzate) meritassero di sopravvivere di per se, indipendentemente dal loro valore economico: che dovessero essere sottratte alle leggi del mercato mediante la tutela. Esistevano insomma, oltre alle esigenze dell’economia e quelle della razionalità nell’organizzazione della città, anche le esigenze della cultura e della storia.
La teoria economica non osò, o non seppe, compiere il passaggio di allargare il senso del valore economico inventando un riconoscimento economico anche per il valor d’uso, riportando nell’economia gli oggetti in quanto beni, e non solo in quanto merci. Si promosse invece la formazione di un settore protetto, in cui vigevano leggi diverse da quelle dell’economia.
E nacque, di conseguenza, un versante del mestiere dell’urbanista, il quale fu indotto a occuparsi del territorio non solo come sede nella quale far sorgere e sviluppare ordinatamente la città, ma anche come luogo nel quale esistevano oggetti (e configurazioni) che esprimevano valori che dovevano essere individuati, riconosciuti, protetti rispetto ad altre utilizzazioni.
E’ il filone di lavoro che si aprì con le leggi di tutela del 1939, e proseguì nelle esperienze della migliore urbanistica italiana: i piani di Astengo per Assisi, di Detti per Firenze, di Campos Venuti per Bologna, di Piccinato per Siena – per non ricordare che i caposcuola.
L’ambiente
La seconda contraddizione nuova che si manifesta nel corso dello sviluppo del sistema capitalistico è quella che nasce come “questione ambientale”. Anche questa esprime un vizio profondo del sistema. Nella sostanza, quello di aver ridotto l’intero ciclo economico alla produzione via via crescente di beni materiali (merci), secondo ritmi necessariamente tali da minacciare la sopravvivenza delle stesse basi materiali sulle quali poggia l’esistenze dell’umanità sul pianeta Terra.
Questa contraddizione richiederebbe, per essere superata, una visione d’insieme della società (dell’intera società umana), richiederebbe una visione a lungo termine, richiederebbe una serie di politiche che passano tutte attraverso la fase della massima parsimonia nell’impiego delle risorse non riproducibili.
Gran parte di queste risorse riguardano il territorio, nel senso che ne sono parti costituenti, o nel senso che il loro consumo dipende dall’uso che del territorio e delle sue parti si fa. Ecco quindi che un nuovo, ulteriore interesse collettivo – la saggia gestione delle risorse naturali – entra nel campo di lavoro dell’urbanista.
URBANISTICA E POLITICA
Riepilogo
Proviamo a riassumere e a fare un passo avanti.
Il mestiere dell’urbanista nasce in relazione alla necessità di tutelare, nell’organizzazione della città, alcuni interessi comuni di cui la logica del mercato era incapace di tener conto. Le contraddizioni, e i relativi problemi pratici, si spostarono nel tempo dalla città ad ambiti più vasti: dalla città al territorio. Agli interessi comuni della funzionalità e della bellezza della città altri se ne sono aggiunti nel tempo: anche la tutela dei valori e interessi dei beni storici e culturali, anche l’impiego razionale e parsimonioso delle risorse naturali e dell’ambiente, si rivelarono via via come beni e interessi non tutelabili dalle leggi dell’economia, che quindi richiedevano un intervento regolatore “esterno”.
Di questo intervento regolatore si fece carico – sul piano sostanziale della decisione – l’autorità politica: cioè, nel sistema democratico, il sistema dei poteri rappresentativi eletti direttamente dalla popolazione. In Italia, il sistema Stato, Regione, Provincia, Comune.
Poiché si trattava di regolare una realtà complessa, che riguardava una realtà georeferenziata, si inventò un insieme di strumenti che avevano la loro base in un progetto di territorio, cioé un piano. Poiché, più tardi, si vide che la dinamica delle trasformazioni non era sufficientemente governata da un documento statico, si trasferì l’accento dal piano alla pianificazione, cioè a un’attività continua di governo delle trasformazioni territoriale.
Nacque, e via via si sviluppò, la figura professionale adibita alla formulazione tecnica degli strumenti per il governo, delle trasformazioni territoriali: l’urbanista, depositario dei saperi e mestieri tecnici necessari per supportare le decisioni dell’autorità politica: per redigere gli atti necessari a dar corpo a “una voltà politica tecnicamente assistita”, come dice Indovina.
L’urbanista e il politico
L’urbanista e il politico (l’elu, l’eletto, dicono i francesi) sono due figure sociali che vivono in stretta simbiosi.
L’una, l’urbanista, esprime i saperi e i mestieri connessi alla materia che la pianificazione deve trattare. Poiché questi saperi e mestieri sono un ventaglio molto ampio, il terreno di lavoro è essenzialmente interdisciplinare. Dalla pluralità dei saperi l’urbanista deve trarre ciò che serve a sorreggere le decisioni, che spettano al politico. Egli è perciò in qualche modo la cerniera tra i vari saperi “tecnici” e la sfera della politica, del governo. Non ha però autonomia rispetto alle decisioni, poiché queste, in un regime democratico, spettano a chi rappresenta la collettività, al politico (all’eletto).
Il suo mestiere è legato (l’ho detto e ripetuto) alla ricerca della soddisfazione di interessi comuni, collettivi. Ma gli interessi della collettività sono rappresentati dall’altra figura: il politico. E’ lui, nel sistema democratico, il soggetto che esprime gli interessi “generali”. E’ a lui che è attribuito il compito (la responsabilità) di tradurre questi interessi in atti di governo che modifichino, dirigano, conducano le trasformazioni della società.
La politica oggi
E’ proprio nel rapporto tra queste due figure il problema di fronte al quale ci troviamo, in questi anni. Per chiarire il mio punto di vista dovrò riferirmi alla mia personale esperienza.
Il grosso della mia attività di urbanista si è svolto in una fase della nostra storia in cui il politico era l’espressione di un partito: di una formazione (tra il sociale e l’istituzionale) la cui coesione, e l’appartenenza dei cui membri, era assicurata dalla comune convinzione della validità di un progetto di società.
Lo scontro politico era la competizione tra progetti di società alternativi, ciascuno riferito agli interessi di determinate classi sociali. A seconda del potere conquistato dai portatori dell’uno o dell’altro progetto di società, il compromesso che via via si raggiungeva nella concreta attività di governo era più vicino all’uno o all’altro.
Ciò che voglio sottolineare è che in quella fase l’obiettivo che le formazioni politiche perseguivano (e che era fatto proprio dagli appartenenti alle diverse formazioni, dai politici) era un obiettivo di ampio respiro, un progetto di società. Esso si realizzava concretamente con piccole azioni e piccole trasformazioni, ma queste erano viste come parti di una costruzione complessiva, che si sarebbe concretata interamente solo in un futuro lontano. Si lavorava oggi per domani, e magari per dopodomani.
E poichè per poter realizzare il proprio progetto di società era necessario il consenso, l’azione politica di arricchiva di una forte componente didattica: occorreva spiegare il proprio progetto di società, illustrarne le ragioni, le possibilità, le conseguenze. Per conquistare i voti occorreva prima conquistare le coscienze. Partendo dagli interessi specifici delle diverse categorie di soggetti, ma cercando di farli convergere verso un interesse più ampio: tendenzialmente, verso un interesse generale.
La politica è cambiata
La politica è radicalmente cambiata. Oggi l’attenzione è tutta schiacciata sul breve periodo, sull’immediato, su ciò che si può raggiungere oggi, prima che inizi la prossima campagna elettorale. E poiché ciò che conta è conservare (o conquistare) il potere, ecco che lo sforzo non è rivolto a formare le coscienze e a costruire il futuro, ma a guadagnare il consenso con una doppia operazione:da una parte, calibrando la propria proposta politica sul consenso che si può guadagnare nell’immediato, sugli interessi già presenti oggi e in grado oggi di essere soddisfatti; dall’altra parte, impigando tutte le tecniche capaci di modellare la coscienza di strati vasti di popolazione.
Dall’interesse generale alla cattura di tutti gli interessi più immediati e spiccioli. Dalla faticosa costruzione del futuro alle piccole trasformazioni nell’immediato. Dalla formazione alla manipolazione. Dalla visione prospettica alla miopia. Questa è la sintesi della caduta della politica.
E ciò è tanto più grave se teniamo conto dell’attuale quadro delle vicende del nostro pianeta. E’ infatti sempre più profonda e più ampia la convinzione che il modello di sviluppo otto-novecentesco, basato sulla crescita indefinita della produzione di merci sotto la spinta dell’interesse individuale dei proprietari dei mezzi di produzione, non solo è incapace di risolvere i grandi problemi del mondo (il deperimento delle risorse, l’estendersi della povertà e delle ingiustizia, la scomparsa delle diversità culturali e di quelle naturali) ma tende ad aggravarli sempre di più: basta scorrere i titoli di testa dei giornali negli ultimi anni per rendersi conto di come il disagio diventi catastrofe.
Se vogliamo che la nostra civiltà abbia un futuro e non deperisca (come è accaduto a moltissime altre) occorrerebbero classi dirigenti che non si riducano ad amministrare il giorno per giorno, a logorarsi nella piccola conquista di sempre più miseri poteri, ma classi dirigenti capaci di progettare una società e un’economia del tutto nuovi, e di avviarne faticosamente e tenacemente la costruzione.
LA LEGGE LUPI
Cambia di mano il bastone di comando
Come sapete, la Camera dei deputati ha approvato in prima lettura una nuova legge “per il governo del territorio”, che dovrebbe sostituire tutta la legislazione urbanistica nazionale vigente. Con essa si pone esplicitamente il bastone del comando nelle mani di quegli interessi che le amministrazioni pubbliche oneste (di sinistra, di centro o di destra che fossero) hanno sempre tentato di contrastare: quelli della proprietà immobiliare.
Il plurisecolare tentativo dell’autorità pubblica di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare non si fonda su presupposti ideologici o su velleità moralistiche. Non ha nulla a che fare con il socialismo o il comunismo, poiché nasce dalla più schietta cultura liberale. Non esprime una volontà autoritaria, perché ha la sua origine nell’esigenza di liberare gli interessi di tutti dal dominio degli interessi di sfruttamento immediato e miope di un bene comune. Non è in opposizione con lo sviluppo economico peculiare al sistema capitalistico, perché tende a distrarre risorse dagli impieghi improduttivi (dalla rendita) perché possano essere orientate a quelli produttivi (al profitto). Ma su questo punto ritornerò fra poco.
Guardiamo con un po’ d’attenzione al testo della legge.
Cancellato il piano “regolatore”
La norma chiave è l’articolo 5, comma 4:
“Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento fra i soggetti pubblici, nonché, ai sensi dell’articolo 8, comma 7, tra questi e i cittadini, ai quali va riconosciuto comunque il diritto di partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti”.
Un emendamento di deputati dei DS e della Margherita ha ottenuto che la parola “cittadini” fosse sostituita alle parole”soggetti interessati”, che c’erano nella stesura uscita dalla Commissione. Indubbiamente è più elegante. Ma chi saranno i “cittadini” partecipi “ai procedimenti di formazione degli atti? La casalinga di Voghera, la maestra di Forlì, il contadino di Tricarico, il musicista di Sorrento, il salumaio di Norcia, la studentessa di Bologna? Oppure i colleghi di Franco Caltagirone e Stefano Ricucci? La domanda è ovviamente retorica.
Del resto, il rinvio all’articolo 8, comma 7 svela chiaramente che il contentino formale concesso è una burla. La norma ora citata precisa infatti che “gli enti competenti alla pianificazione possono concludere accordi con i soggetti privati”, non con i cittadini, “per la formazione degli atti di pianificazione”.
Insomma, nel sistema di pianificazione tradizionale il governo pubblico guida il processo di urbanizzazione per impedire che le scelte di “valorizzazione immobiliare” private (miope per definizione, produttrici di caos nel loro insieme per plurisecolare esperienza), e perciò definisce autonomamente le scelte sul territorio. Nel sistema “innovativo” e “moderno”, largamente condiviso dai parlamentari di centro sinistra presenti nel lavoro di Commissione, le scelte sono concordate a priori con la proprietà immobiliare, le cui convenienze sono anzi alla base delle scelte di pianificazione. Purché (si cautela il legislatore immobiliarista) siano “coerenti con gli obiettivi strategici individuati negli atti di pianificazione” (art. 8, c. 7).
Il ruolo trainante che si vuole assegnare alla proprietà immobiliare gronda da ogni articolo del disegno di legge: è l’unica cosa chiara in questo confusissimo testo legislativo, che sarebbe giusto definire “pasticcio di legge”. Si comincia dall’articolo 3, “compiti e funzioni dello Stato”. A chi mai potrebbe ragionevolmente venire in mente che “le funzioni dello Stato sono esercitate”, oltre che con “la tutela e la valorizzazione dell’ambiente, l’assetto del territorio, la promozione dello sviluppo economico-sociale”, anche con “il rinnovo urbano”, se non fosse perché si vuole continuare a gestire centralmente le operazioni immobiliari promosse e finanziate con i “programmi complessi” e simili? Si prosegue con l’articolo 4, dove si precisa che gli “interventi speciali dello Stato “sono attuati prioritariamente attraverso gli strumenti di programmazione negoziata”: negoziata con chi, con i terremotati, gli alluvionati, le popolazioni colpite da frane? Dell’articolo 5 si è già detto: esso è il centro dell’edificio.
L’articolo 6 parla d’altro, minaccia altri danni. Cancella il ruolo delle province. Annega (uccidendolo) il principio di sviluppo sostenibile attribuendolo al “sociale, economico, ambientale”, confermando così una delle più turpi operazioni di deformazione semantica compiuta negli ultimi anni. Apre la strada all’urbanizzazione del territorio rurale. Elimina la possibilità dei comuni di proseguire l’attività di ricognizione e di vincolo dei beni culturali, paesaggistici e ambientali.
Cancellati gli standard nazionali
L’articolo 7 tratta delle “dotazioni territoriali”: è il termine “moderno” che allude agli standard urbanistici, cioè ai diritti minimi in ordine agli spazi e alle attrezzature pubbliche che la legislazione vigente riconosce a ogni cittadino della Repubblica italiana. Gli standard vengono regionalizzati: un diritto che non è uguale per tutti, è giusto che in Calabria i diritti siano più bassi se in Emilia-Romagna sono alti, che i cittadini di Napoli ne abbiano meno, molto meno, di quelli di Sesto Fiorentino. Ma ciò che più conta è che tutti sono invitati a garantire “comunque un livello minimo anche con il concorso dei privati”. Ecco la trappola. Invece dei “costosi espropri” il successivo articolo 8 invita regioni e comuni a promuovere “l’adozione di strumenti attuativi che favoriscano il recupero delle dotazioni territoriali”, naturalmente”anche attraverso piani convenzionati stipulati con i soggetti privati e accordi di programma”. Quanti saranno i comuni che, anche incoraggiati dall’illustre esempio di Roma, ora generalizzato dalla legge Lupi, aumenteranno a dismisura le aree edificabili per ottenere così dai proprietari, in contropartita, le aree per sanare i deficit pregressi di spazi pubblici? Con buona pace per la crescita dei carichi urbanistici e l’abbandono di ogni sostenibilità (quella vera, quella legata al concetto di limite, di irriproducibilità, di generazioni future).
Frustrati gli uffici pubblici
L’articolo 8 (già ne abbiamo commentato uno svelamento) contiene un altro paio di perle, un paio di porte spalancate all’irrompere degli interessi immobiliari. Il comma 2 decreta l’obbligo di esaminare una per una le osservazioni pervenute agli strumenti urbanistici (nella quasi totalità sono le proteste/richieste dei piccoli e grandi proprietari immobiliari) e di motivare il loro rigetto o accoglimento (quante volte si è applicata la formula “l’osservazione appare in contrasto con le scelte generali del piano”!). Il comma 3 stabilisce che, ove mai qualche incauto e “arcaico” comune voglia acquisire aree mediante espropriazione non basta che remuneri con ragionevole larghezza il proprietario espropriato (come aveva stabilito il diritto borghese del XIX secolo, certo non ostile alla proprietà), ma “deve essere comunque garantito il contraddittorio degli interessati con l’amministrazione procedente”!
Morale della favola, soggetti a un surlavoro nella fase delle osservazioni e in quella delle espropriazioni, frustrati dal vistoso riconoscimento dei poteri degli interessi privati (di quei soggetti privati, non dei cittadini), puniti nelle aspettative economiche dal progressivo depauperamente delle finanze locali, ostacolati nel loro crescente lavoro per l’impossibilità di integrazione o reintegrazione del personale, gli uffici comunali funzioneranno sempre peggio. Un risultato atteso: meno funziona il pubblico, più aumenta la “necessità” di rivolgersi al privato. Voilà, il gioco è fatto.
Altri gioielli della legge Lupi
Qualche ulteriore gioiello va esibito. Così l’articolo 9, che sollecita le regioni a “prevedere incentivi consistenti nella incrementalità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici” (lotta dura / per una maggiore cubatura).
E l’articolo 11, che invita le regioni a concedere "l’esenzione totale o parziale dal pagamento del contributo di costruzione” (requiem per il tentativo della legge Bucalossi di introdurre il concetto di “concessione”, riducendo l’aspettativa edilizia dei proprietari fondiari).
E infine l’articolo 13, ultimo comma: “Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, la domanda di permesso di costruire si intende favorevolmente accolta”. Anche qui, un rovesciamento delle regole faticosamente conquistate. per privilegiare l’interesse privato rispetto a quello pubblico: il “silenzio rifiuto” (se non ti rispondo, abbi pazienza, è perché mi hai chiesto qualcosa che non era giusto darti), il “silenzio assenso”: fai quello che vuoi, io non ho tempo di guardare la pratica.
Lupi non è solitario
Ciò che a me preoccupa di più non è che la maggioranza di destra (della destra italiana) abbia lavorato per una legge siffatta. Mi preoccupa che questa legge abbia ricevuto la sostanziale adesione di una parte consistente del centrosinistra (l’on. Mantini, della Margherita, l’ha definita una legge bipartisan), che sia stata apertamente appoggiata dagli organi nazionali dell’INU, e che sia stata discussa e approvata nel totale silenzio dell’opinione pubblica (con l’eccezione di qualche articolo sul manifesto e su Liberazione).
Questo è il segno più cupo dei tempi in cui viviamo: davvero un tempo di lupi, in cui ogni conquistato traguardo di solidarietà, di prevalenze dell’interesse di tutti su quello di pochi, di preoccupazione per il futuro, sembra seppellito in un passato di cui ci si è dimenticati, e di cui quasi ci si vergogna.
E L’ECONOMIA?
La questione della rendita
La questione della rendita immobiliare è sempre stata strettamente legata all’urbanistica e ai suoi problemi. La proprietà privata del suolo urbano ha determinato un conflitto di fondo tra diverse categorie di soggetti. Da una parte, la proprietà immobiliare (immobili = aree + edifici), interessata alla massima redditività dei propri immobili, e quindi tenacemente orientata ad ottenere edificabilità, destinazioni d’uso pregiate, quantità edilizie più elevate possibile. Dall’altra parte, le categorie di soggetti interessati a un prezzo moderato degli alloggi e degli altri edifici, a una città ordinata e funzionante, alla presenza di spazi pubblici e così via.
Tra gli interessi teoricamente antagonisti rispetto alla proprietà immobiliare, oltre a quelli delle “famiglie” (cioè dei cittadini il cui reddito è costituito prevalentemente dalla remunerazione del lavoro) ci sono anche quelli delle “aziende”, cioè delle attività economiche, i cui gestori sarebbero anch’essi interessati al buon funzionamento della città, quindi al contenimento del potere della proprietà immobiliare.
Il conflitto teorico nella città è il riflesso di un conflitto più ampio, che ha a che fare con la distribuzione delle risorse e dei loro frutti nelle tre grandi categorie: la rendita, ossia la mercede del puro privilegio proprietario; il profitto, la remunerazione dell’attività volta ad associare i “fattori della produzione” e a trasformare i beni in merci, motore, attraverso l’accumulazione, dell’allargamento indefinito del processo produttivo; il salario, compenso per l’erogazione delle forza lavoro dei produttori.
Nella vicenda storica della formazione degli Stati (e dei mercati) moderni i rapporti tra le grandi classi sociali corrispondenti a quelle tre componenti del reddito sono stati determinanti per più di un aspetto: in particolare, hanno inciso sulla formazione della città e sull’urbanizzazione del territorio. Nei paesi più avanzati la borghesia (la classe sociale legata all’impresa e al profitto) è stata egemone, ha sconfitto l’ancien régime (interprete e beneficiario principale della rendita), e ha giocato il suo sviluppo sulla dialettica del conflitto con la classe operaia (la classe sociale legata al salario). In Italia non è stato così. Sviluppiamo un momento questo tema.
La particolarità italiana
Tra il XVIII e il XIX secolo si sono scontrate, nelle diverse regioni d’Europa, tre grandi forze: l’ancien régime, espresso dagli ordinamenti feudali delle monarchie; la borghesia capitalistica, ormai lanciata alla conquista del mondo; il proletariato, emergente come nuovissima forza sociale dalle viscere stesse della produzione capitalistica. A queste tre figure sociali corrispondevano le tre classiche forme di reddito: della rendita, del profitto, del salario
In quasi nessuno dei paesi europei la nuova classe egemone, la borghesia capitalistica, giunse al potere senza combattimenti aspri, spesso tinti di sangue. L’ancien régime fu sconfitto e, quando ne riemersero i fantasmi, erano già trasformati in vesti borghesi: lo sfruttamento della proprietà attraverso la speculazione aveva prodotto risorse che più fruttuosamente venivano destinate in un’industria orientata a impadronirsi dei mercati mondiali. In Italia no.
In Italia la borghesia giunse al potere mediante un “compromesso storico” con l’ancien régime. Questo era rappresentato, nelle regioni del Nord e nella Toscana, da una borghesia che aveva sovente nell’investimento nella terra le sue radici (e aveva quindi prodotto un’agricoltura resa feconda e, insieme, sapiente modellatrice del paesaggio, mediante cospicui investimenti delle rendite). Ma in altre regioni l’alleanza fu stipulata con un’aristocrazia che si limitava a trasformare in consumi sfarzosi e futili il frutto della fatica del mondo contadino nelle terre, rese aride dalla mancanza degli investimenti necessari.
Fin dalla nascita dello Stato italiano il peso delle rendite (all’inizio, rendita fondiaria agraria) fu quindi considerevole nell’economia italiana. E poiché, a un momento dato, le risorse sono quello che sono, l’ampiezza della quota percepita dalla rendita riduceva l’entità di quelle destinata al profitto (e quindi all’allargamento della produzione) e al salario (e quindi alla capacità di consumo, e all’allargamento del mercato). Lo sviluppo dell’urbanizzazione e, più tardi, la finanziarizzazione dell’economia capitalistica fecero sorgere, accanto alla rendita agraria, quella urbana (fondiaria ed edilizia, in una parola “immobiliare”) e quella finanziaria. L’intreccio tra le due, segnalato dagli osservatori più attenti da alcuni decenni almeno, è diventato in queste settimane l’elemento più preoccupante della situazione italiana: sul terreno dell’economia come su quello della democrazia. Entrambe le rendite hanno una cosa in comune: consentire l’accrescimento delle ricchezze personali di alcuni sulla base del privilegio proprietario, sottrarre ricchezza al circuito produttivo.
Gli “immobiliaristi” e il rischio del declino
La questione è riemersa nelle ultime settimane. Gli osservatori più attenti hanno ricordato il ruolo nefasto che ha giocato, nel sistema economico italiano, il peso della speculazione e delle rendite immobiliare e finanziaria che l’alimenta. Francesco Giavazzi ha posto l’accento “sui danni che le rendite - anche quelle immobiliari - provocano al Paese” (Corriere della sera, 16 luglio 2005) e Galapagos ha osservato come nel sistema economico italiano al circuito merce-denaro-merce si sia sostituito quello denaro-merce-denaro, rilevando che “tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fase distributiva; con la seconda c'è il trionfo della sola speculazione, dell'arricchimento individuale” (il manifesto, 6 agosto 2005).
E molti hanno osservato come non solo la destra (una destra ben lontana da quella espressa dalla borghesia liberale dei Sella e degli Einaudi), ma anche la sinistra, tradizionalmente attenta nel comprendere i mutamenti della struttura economica del paese e vigile nel combattere il prevalere degli interessi della rendita parassitaria, si sia dimostrata incapace di contrastare il trionfo degli immobiliaristi e, anzi, sia apparsa addirittura complice.
Fragilità culturale e fragilità strutturale
Come mai, però, questa situazione si è determinata? Solo una decadenza nella “cultura di governo” del ceto politico, solo una riduzione della politica a lotta per il potere indifferente al progetto di società in nome del quale esercitarlo, solo l’incapacità di esprimere una prospettiva, una strategia, un orizzonte al quale indirizzare le forze sociali? Certo, queste sono componenti reali della situazione italiana.
Ma in questa fragilità culturale si esprime una più profonda fragilità del sistema economico-sociale: appunto, il prevalere delle rendite nel nostro sistema, questa particolarità dell’economia italiana, che la rende lontana da quella degli altri paesi europei e che, come abbiamo visto, affonda le sue radici nel modo stesso in cui fu realizzata l’unità d’Italia. Svellerle richiede quindi sforzi poderosi, strategie lungimiranti, determinazione eccezionale: doti delle quali l’attuale personale politico sembra del tutto sprovvisto.
Ridare prospettiva all’economia
Per ridare prospettiva all’economia (sia pure in una logica capitalistica, qual è l’unica data sebbene non sia l’unica possibile) sconfiggere la rendita è dunque un passaggio essenziale. E duole constatare come siano rari e discontinui i segni della comprensione di ciò da parte del personale politico e di quello sindacale.
Non so su quali strumenti si può contare per ridurre il peso della rendita finanziaria. Conosco abbastanza bene, invece, gli strumenti cui si può ricorrere per ridurre il peso della rendita immobiliare (fondiaria ed edilizia), per distrarre risorse da quegli impieghi improduttivi, per travasarne parte consistenti verso utilità pubblica. L’utilità di farlo mi è stata insegnata dal pensiero dell’economia classica e di quella liberale (da David Ricardo a Karl Marx, da Claudio Napoleoni a Luigi Einaudi) gli strumenti per farlo mi sono stati indicati dalla cultura politica espressa da personaggi come Giovanni Giolitti ed Ernesto Nathan, amministratori e presidenti del consiglio nel primo decennio del secolo scorso, e da quella urbanistica, da maestri come Hans Bernoulli e Luigi Piccinato, Giovanni Astengo ed Edoardo Detti.
Di questi strumenti la pianificazione territoriale e urbanistica è il principale, proprio perchè esprime il primato del potere pubblico nel decidere le utilizzazioni e trasformazioni del territorio: cioè quei meccanismi mediante i quali la rendita immobiliare si forma e si trasforma. E anche perchè costituisce la cornice nella quale inserire le altre decisive politiche urbane: quelle della casa, dei servizi collettivi, della mobilità, della gestione dell’energia e dei rifiuti.
CHE FARE
Il nostro mestiere, il mestiere dell’urbanista, e il ruolo sociale che esso si attribuisce, la sensibilità ai problemi territoriali propri di quel mestiere, sono oggi di grande rilievo per comprendere l’ampiezza della posta in gioco e le strade che occorre percorrere per vincere la scommessa: scommessa nella quale la posta è rappresentata dalla capacità di sopravvivenza della nostra civiltà.
Sul terreno della tutela del nostro patrimonio culturale e paesaggistico come su quello del risparmio delle risorse essenziali (la terra, l’acqua, l’aria, l’energia) il ruolo della pianificazione territoriale e urbana è decisivo, per chiunque comprenda che una visione olistica dei problemi e delle politiche è essenziale. E sul terreno delle risorse disponibili e della loro allocazione ottimale per la sopravvivenza del sistema economico la contestazione del potere decisionale della rendita immobiliare è un contributo rilevante per scoraggiare l’afflusso di risorse al settore improduttivo dell’economia.
Mi sembra che il primo passaggio da compiere per ottenere qualche risultato concreto sia quello di far sì che l’assetto legislativo (determinante per l’impiego degli strumenti specifici della pianificazione) non venga peggiorato. Per aprire qualche varco l’’uscita da una società di lupi occorre quindi in primo luogo sconfiggere la legge Lupi. Ho spiegato perchè l’approvazione di quella legge costituirebbe la sconfitta più grave per chi combatte contro il ruolo storicamente e attualmente centrale della rendita immobiliare, e la sconfessione più grave per gli uomini che, da ogni sponda culturale e politica, hanno tentato di contrastarla. Lo è perchè scardina il principio del primato del potere pubblico nelle decisioni sul territorio e sul suolo urbano, perchè introduce i “privati” (in Italia, la proprietà immobiliare) tra i decisori della pianificazione, perchè costruisce la cornice legale entro la quale esercitare il primato della rendita sul profitto e sul salario, della speculazione sull’impresa e sul lavoro.
Ma al di là e oltre questo, occorre lavorare nel concreto in tutte quelle situazioni nelle quali il potere pubblico democratico intende avvalersi pienamente dei suoi strumenti per servire l’interesse collettivo. Sapendo che spesso lavoreremo controcorrente, e che anche dove la “corrente politica” è favorevole alle direttrici della nostra azione troveremo ostacoli, sordità, insufficienze, scarsità di risorse e di strumenti contro i quali dovremo batterci ogni giorno.
Dovremmo ricorrere con ampiezza all’”ottimismo della volontà”. E per calibrarlo sul “pessimismo della ragione senza cadere nella disperazione potrà esserci utile rileggere quanto scriveva Italo Calvino alla fine di quel suo vero e proprio manuale di urbanistica che è Le città invisibili:
“L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Il nostro compito può essere anche questo: "saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".
Venise est née avec l’eau, elle a eu grâce à l’eau l’alimentation de son peuple, sa défense, le développement économique, la puissance politique.
Sans les eaux (les eaux de la Lagune elle-même, l’eau des fleuves qu’y portent la terre et les eaux douces, l’eau des océans qui lui apportent les rythmes des marées et les eaux salées) on ne saurait imaginer Venise.
Les eaux déterminent la forme même de ses espaces et le dessin de ses architectures.
Mais Venise et sa Lagune n’auraient pas été possibles, elles n’eurent pas duré mille ans sans l’emploi d’une extraordinaire sagesse scientifique et politique, technique et administrative: car aucune lagune au monde n’est restée intacte après mille ans de vie, car aucun centre historique n’a gardé ses formes et sa vitalité comme la ville historique de Venise.
Depuis mille ans, Venise est une ville durable.
Aujourd’hui la durabilité de Venise - telle que nos ancêtres nous l’ont transmise - est en grave péril.
La cause générale est un renversement de la politique d’aménagement : l’abandon de la maintenance continuelle et systématique de l’environnement lagunaire, qui en à garanti la survivance jusqu’à aujourd’hui, et sa substitution par une politique lourde, de grands ouvrages indifférents au site et a ses règles.
Pour comprendre les risques qu’on court, il faut auparavant comprendre ce qu’est une lagune telle que celle de Venise.
Les fleuves portent à la mer les eaux et la terre qu’ils ont arrachée. La terre se dépose sur le front des bouches. Des longues barres se forment, et finalement émergent. Un bassin se forme donc entre la ligne du ressac et la ligne de la terre : un bassin que quelques bouches (pertuis) lient à la mer. Avec les rythmes lunaires, les marées mêlent l’eau de la mer et les eaux des fleuves.
Une nouvelle eau est née, ni douce ni salée: saumâtre. Dans cette eau, une flore et une faune se forment, extraordinairement différentes, dans leur association, les unes des autres.
Mais la lagune n’est pas un système qui puisse atteindre, selon les lois de la nature, un état de paroxysme: un état stable. C’est, selon les lois de la nature, un système dynamique. Il peut évoluer en deux directions, et toutes les lagunes se sont transformées dans l’une ou l’autre direction.
Les flux des fleuves portent la terre, les courants de la mer rongent les littoraux. Si les fleuves l’emportent, la terre se dépose, le bassin devient un marais, le marais se transforme en terrain solide. Si l’apport des fleuves s’affaiblit, la mer l’emporte, la lagune devient une baie.
La République Sérénissime avait décidé, à partir de début du deuxième millénaire, de maintenir la Lagune telle qu’elle était. Cela exigea la mise à point d’une instrumentation technique et administrative tout à fait unique, fondée sur le contrôle systématique et l’intervention quotidienne, sur un système de surveillance et de garanties juridiques très rigide, et surtout sur trois principes, qui furent plus tard résumés en trois mots : expérimentation, progressivité, réversibilité.
Pour utiliser les lois de la nature et en corriger les effets, il fallait expérimenter d’abord la transformation qu’on voulait apporter, il fallait ensuite la conduire avec une progressivité permettant d’en évaluer les conséquences, il fallait enfin qu’on puisse à chaque moment revenir sur ses pas et rétablir la situation antérieure.
Une approche tout a fait moderne, qu’il à été indispensable d’inventer et d’adopter car on avait affaire à un écosystème extraordinairement délicat et vif, qu’on ne pouvait pas laisser à son évolution naturelle, et qu’on ne voulait pas arracher au lois naturelles qui l’avaient crée et qui – si elles étaient savamment guidées – pouvaient aider l’homme a conserver dynamiquement l’équilibre.
| Laguna nel XX secolo |
Les choses changèrent à partir du XIXème siècle. D’un coté, localement, à cause de la chute de la République Sérénissime, qui eu lieu à la fin du XVIIIème siècle, quand elle fut écrasée entre les empires de France et d’Autriche. De l’autre coté, globalement, à cause des nouvelles techniques et des nouvelles conceptions qui s’affirmèrent dans le domaine de l’aménagement et de l’équipement, et de l’emploi des patrimoine communs.
En effet, les civilisations précédentes (et en particulier la Vénitienne) considéraient l’environnement comme une ressource qui devait être protégée pour pouvoir être utilisée durablement. Au contraire, la civilisation basée sur la production industrielle massive considère le sol comme une grande extension neutre, sur laquelle les techniques peuvent provoquer sans aucune conséquence toutes les transformations voulues. Un sol, d’autre part, soustrait aux règles sévères et durables de la soumission à l’intérêt commun, car il était devenu une marchandise disponible pour tout avantage économique de particuliers plus malins et plus agressifs.
La privatisation des terrains, l’introduction de techniques modernes hard pour la réalisation des infrastructures, la formation d’équipement industriels provoquèrent des transformation soustraites au trois principes d’expérimentation,de progressivité, de réversibilité, qui avaient guidé le gouvernement vénitien.
En conséquence, le bassin de la Lagune s’est rétréci, à cause des remblaiements. Les canaux sont devenus plus profonds, à cause des navires toujours plus grands, et ça a augmenté l’afflux de l’eau marine. La terre s’est abaissée, à cause des puits ouverts pour les exigences de l’industrie. À côté de ça, le niveau de l’eau de la mer est devenu plus haut, à cause des changements du climat et de la réduction des glaciers qui en résultait.
En 1966, à cause d’une marée exceptionnellement haute et d’un apport également extraordinaire d’eau par les fleuves, la ville fut inondée à des niveaux jamais atteint auparavant.
Le gouvernement italien pris la question en charge. Une loi nationale de 1973 définit les grandes lignes et les outils nécessaires à la restauration physique et sociale du bassin lagunaire et des habitats. Pour les problèmes spécifiquement hydrauliques, un appel d’offre international fut lancé. Des commissions furent constituées. En 1980, un consortium d’entreprises privées (le consortium Venezia Nuova) fut constitué. En 1984 le Ministre des Travaux publics lui confia la mission d’étudier, de projeter et de réaliser les ouvrages nécessaires à la sauvegarde de la Lagune.
La même année, le Parlement, poussé par le Conseil Municipal de Venise (le plus important de la dizaine de communes qui sont baignées par les eaux de la Lagune), avait précisé, par une nouvelle loi, les orientations directrices fondamentales des interventions pour la sauvegarde de la Lagune, en reprenant les trois grands principes de la République Sérénissime: expérimentation, agir avec progressivité, et surtout appliquer des solutions qui soient réversibles.
Ça aurait signifié donc avant tout réduire la taille (et surtout la profondeur) des canaux qui apportent à la Lagune l’eau de la mer, régulariser les fleuves qui coulent dans le territoire bordant la Lagune, transformer les zones de pêche fermées en bassins ouverts au passage de l’eau, rouvrir les parties de Lagune remblayée en prévision de l’expansion de l’industrie, abandonner l’extraction de l’eau souterraine (ce qui, pour alimenter la zone industrielle, avait provoqué l’abaissement du terrain). Enfin, faire tous les travaux de réhabilitation du réseau des canaux que l’abandon plus que centenaire de l’entretien systématique rendait nécessaire.
On avança dans la direction opposée. Si l’extraction de l’eau souterraine a été interrompue, on est en train de forer le sous-sol de la Haute Adriatique pour en extraire du pétrole. Mais le risque le plus important vient d’un projet qui est en cours d’exécution.
En deux mots, il est un revival de l’idéologie qui avait dominé le XIXème et XXème siècle: la nature n’est pas une entité avec laquelle il faut cohabiter sur la planète, mais un ennemi a battre.
Le nom de ce projet est MOSE : Modulo Sperimentale Elettromeccanico C’est-à-dire Module Expérimental Électromécanique.
| MoSE, simulazioni |
l est constitué de 79 grands caissons d’acier, la surface qui s’oppose à l’eau mesurant 20x20 mètres. Ils sont plein d’eau lorsqu’ils sont au repos sur le fond. Ils sont remplis d’air comprimé lorsqu’ils doivent se soulever face à la marée entrante et l’arrêter. Une imposante œuvre sous-marine en béton armé porte les caissons ; à l’intérieur se trouvent les mécanismes de commande très complexes et les faisceaux de tuyaux amenant l’air comprimé et les autres éléments nécessaires pour le fonctionnement du système. Une île artificielle, créée à côté d’un des pertuis de la Lagune, d’une superficie de 135.000 m2, accueille les autres appareillages nécessaires.
L’entrée en fonction du système est prévu lorsque les prévisions laisseront envisager que la marée dépassera les 110 cm sur le niveau moyen de marée. En 2003 il y à eu plusieurs dizaines de marées hautes : aucune a dépasse cette mesure.
C’est un énorme projet. La totalité des matériaux prélevés dans la Lagune ou enlevé des ouvrages existants est de 5 millions de mètres cubes. Douze mille pieux de ciment, chacun de 10 à 20 mètres de long, 6.000 éléments d’acier de 10 à 28 mètres de long, 157 caissons de béton armé, 560.000 m2 de pavés de pierre. Enfin, un coût de construction qu’on estime proche de 7-8 millions de Euro : mais personne n’a encore estimé les coûts de gestion et de maintenance, qui sera certainement très élevé.
On formule trois critiques principales contre le projet MoSE.
• de ne pas être efficace et, à la limite, d’être dangereux ;
• d’être trop coûteux, et en fait d’absorber tant de ressources qu’il n’en resterait aucune pour les œuvres certainement nécessaires (celle que le Parlement avait demandés) ;
• de ravager l’environnement, et de finalement détruire cette Lagune qu’il aurait pour mission de sauvegarder.
Mais au-delà de ces excellentes critiques, je veux souligner un aspect à mon avis très grave du point de vue de l’exercice du pouvoir et de la démocratie. Le projet est illégal à plusieurs points de vue: il n’a jamais eu d’évaluation d’impact environnemental positive (le dossier à été au contraire profondément critique sur tout le points essentiels); il est réalisé par le biais d’une concession qui est contraire aux principes de la concurrence. À ce propos, il suffit de savoir qu’un groupement unique a été chargé de faire les études préliminaires, concevoir le projet, et de réaliser les travaux.
Le fait que ce groupement soit composé en grande majorité d’entreprises de bâtiment, donc intéressées à ce type de travaux, aide à comprendre pourquoi on a refusé de prendre en considération des solutions beaucoup plus sures, moins chères, plus proches des trois principes d’expérimentation,de progressivité, de réversibilité, que les sages gouvernants de la République Sérénissime, et à nos jours le Parlement national, avaient posé comme critères directeurs de toute solution.
Je suis vivement préoccupé par le silence de l’opinion publique nationale et internationale. Rara avis, vien de sortir un numero de la revue Cahiers Science&Vie, entièrement dediée à Venise, qui rend compte aussi des critiques.
Le fait est que le monopole de l’information appartient au richissime consortium Venezia Nuova, qui à reçu des fleuves d’argent de l’État et en a employé une grande partie pour sa propagande.
La lobby que s’est formé autour du Consortium est très puissant, s’opposant seulement aux faibles associations pour la protection du patrimoine et de la nature (tels Italia Nostra et WWF), et une partie des force politiques locales.
Et la question est très complexe, et pas facile à comprendre : dans l’opinion courante, une lagune est tout à fait équivalente a un fleuve ou à un lac, alors qu’il s’agit en fait d’un eco-système tout à fait différent. Mais on ne prête pas grande attention au différences dans un monde qui court vers l’homogénéisation.
Je serai heureux de faire parvenir de plus amples informations à quiconque m’enverra son adresse de courrier électronique :
eddysal@tin.it
Dans ce site vouz trouvez plusiers textes et informations sur Venise et sa Lagune dans le dossier dedié a Venezia e la Laguna. Sur le thèmes traité dans le texte je vous conseil mon écrit La Laguna di Venezia e gli interventi proposti, aussi en englais.
Secondo il diritto italiano i vincoli posti dagli strumenti urbanistici decadono dopo un certo periodo di tempo? Quindi se si vuole tutelare un’area di pregio, che non si sia potuta acquisire, occorre scendere a patti col proprietario e concedergli una quota di edificabilità, lì o altrove? E il proprietario fondiario cui una previsione urbanistica (ad esempio, un piano regolatore approvato) ha attribuito una certa edificabilità, può pretendere dal Comune un indennizzo se questi ritenga di modificare la destinazione d’uso ed eliminare, o ridurre fortemente, l’edificabilità? È quindi necessario, per ragioni di diritto [1], compensare il proprietario la cui area non sia più edificabile come inizialmente previsto?
A queste domande si tende a dare, da qualche anno, una risposta positiva: non da parte dei giuristi, ma da parte di numerosi urbanisti, e dagli amministratori che da essi si lasciano convincere.
Sempre più diffusamente si parla infatti di “perequazione”. Non come pratica introdotta con il comparto (1942) e, più tardi (1967), con la lottizzazione convenzionata, da estendere ad altri casi. Ma come sistema che consente di sfuggire alla decadenza dei vincoli e alla mancata riforma del diritto dominicale. Antesignano, il comune emiliano di Casalecchio al Reno; sponsor, l’Istituto nazionale di urbanistica, a partire dal 1995.
E sempre più diffusamente si propongono complesse pratiche di “compensazione” con trasferimenti di cubature su e giù per le campagne. Esemplare il caso del PRG di Roma, approvato dalla Giunta comunale nel luglio 2002 e da allora soggetto a una serie consistente di critiche soprattutto al sovradimensionamento.
Non sono un giurista (benché per fare l’urbanista qualcosa del diritto bisogna pur conoscerlo). Ho consultato qualche amico che ne sa, e ho letto qualche documento. Proverò a dimostrare che, sulla base del diritto vigente oggi in Italia, “compensazioni” e “perequazioni” possono essere suggerite da opportunità politiche, ma non sono affatto la conseguenza obbligata di norme perverse, che tutelino troppo profondamente gli interessi dei proprietari a dispetto degli interessi generali.
La Corte costituzionale ha avuto, negli anni, un orientamento costante e costantemente ribadito [2], che può essere riassunto nei termini seguenti.
È necessario distinguere due tipi di vincoli alla libera disponibilità della proprietà immobiliare. Un primo tipo di vincoli (i giuristi li definiscono “vincoli ricognitivi”) deriva dal fatto che il legislatore abbia stabilito che una determinata “categoria di beni”, per la sua intrinseca natura, merita di essere tutelata in modo particolare, limitando le possibilità di trasformazione dei beni che ricadono in quella categoria. Un secondo tipo di vincoli (i giuristi li chiamano “vincoli funzionali” o “urbanistici”) comprende quelli che la pubblica amministrazione pone su determinati immobili (aree o edifici che siano) in relazione all’utilizzazione che ne vuol fare.
È chiara la ragione della distinzione.
Nel secondo caso è l’amministrazione che decide, in modo sostanzialmente discrezionale, che è lì, su quell’area, che conviene prevedere la costruzione di una scuola o il passaggio di una strada. Sono vincoli posti in relazione alla funzione (d’interesse pubblico) che si vuole assegnare a quell’immobile, e al disegno urbanistico che si vuole realizzare. Sono vincoli che vengono apposti a questa o quell’altra area con una certa “discrezionalità amministrativa”: il disegno urbanistico avrebbe potuto essere diverso, la funzione collocata in un altro sito.
Nel primo caso, invece, il legislatore ha stabilito che tutti i beni appartenenti a quella determinata categoria (per esempio, i boschi, o gli edifici anteriori al 1900, o i terreni terrazzati oppure, più generalmente, i beni d’interesse paesaggistico) devono essere utilizzati senza compromettere le caratteristiche proprie di quella categoria di beni. L’atto amministrativo che impone il vincolo a un determinato bene (quel bosco o quell’edificio antico) non è una decisione autonoma, ma è semplicemente il riconoscimento che quel determinato bene appartiene alla categoria di beni che la legge ha voluto tutelare: è un vincolo “ricognitivo”, perché la sua imposizione a un determinato oggetto deriva dalla ricognizione che l’atto amministrativo (il PRG, o l’elenco, o il decreto) effettua per individuare gli oggetti che, all’interno di un determinato perimetro, appartengono a quella categoria.
La pianificazione può imporre vincoli dell’uno e dell’altro tipo. Ma mentre per quelli “urbanistici” il vincolo non può essere imposto senza un interesse pubblico che lo motivi, e non può essere protratto senza indennizzo al di là di un termine ragionevole, per i vincoli “ricognitivi” non è necessario nessun indennizzo, perché il vincolo è “coessenziale” al bene.
Espressa in termini semplici la tesi prevalente (e anzi, sembra, unanimemente condivisa nel diritto), è opportuno adesso riferirsi precisamente al testo di alcune sentenze. Già nel 1966 (sentenza 19 gennaio 1966, n. 6) la Corte costituzionale aveva
"rilevato che la legge non può disporre indennizzi quando i modi e i limiti che essa segna ai diritti reali attengono in maniera obiettiva, rispetto alla generalità dei soggetti, al regime di appartenenza o ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando essa regola la situazione che i beni stessi abbiano rispetto a beni o a interessi della pubblica amministrazione; nel quale caso la legge imprime, per così dire, un certo carattere a determinate categorie di beni, identificabili a priori per caratteristiche intrinseche, salva la possibilità di accertare, con atti amministrativi di destinazione individuale, l'esistenza delle situazioni presupposte rispetto a singoli soggetti e a singoli beni. Solo per le imposizioni che comportano un sacrificio riguardo a beni che non si trovino nella situazione suddetta sorge [...] il problema dell'indennizzabilità."
Pochi anni dopo, in una delle due famose e concorrenti sentenze del maggio 1968 (sentenza 29 maggio 1968, n. 56), la Corte costituzionale si sofferma più ampiamente e organicamente sull’argomento e afferma che
"i beni che formano il patrimonio paesistico della comunità costituiscono essi stessi una categoria a contorni certi, dato il carattere tecnico del giudizio che la pubblica amministrazione è chiamata a emettere per delinearla in concreto, e che è suscettibile di sindacato giurisdizionale."
La Corte rileva che
"i beni immobili qualificati di bellezza naturale hanno valore paesistico per una circostanza che dipende dalla loro localizzazione e dalla loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge. Costituiscono cioè una categoria che originariamente è di interesse pubblico, e l’amministrazione, operando nei modi descritti dalla legge rispetto ai beni che la compongono, non ne modifica la situazione preesistente ma acclara la corrispondenza delle concrete sue qualità alla prescrizione normativa. Individua il bene che essenzialmente è soggetto al controllo amministrativo del suo uso in modo che si fissi in esso il contrassegno giuridico espresso dalla sua natura e il bene assuma l'indice che ne rivela all'esterno la qualità; e in modo che sia specificata la maniera di incidenza di tali qualità sull’uso del bene medesimo. L'atto amministrativo svolge [...] una funzione che è correlativa ai caratteri propri dei beni naturalmente paesistici e perciò non è accostabile a un atto espropriativo; non pone in moto, vale a dire, la garanzia di indennizzo apprestata dall'articolo 42, terzo comma, della Costituzione."
E la sentenza prosegue:
"Nell'ipotesi di vincolo paesistico su beni che hanno il carattere di bellezza naturale, la pubblica amministrazione, dichiarando un bene di pubblico interesse o includendolo in un elenco, non fa che esercitare una potestà che le è attribuita dallo stesso regime di godimento di quel bene, così che le sia consentito di confrontare il modo di esercizio di alcune facoltà inerenti a quel godimento con l'esigenza di conservare le qualità che il bene ha connaturali secondo il regime che gli è proprio e di prescrivere adempimenti coordinati e correlativi a tali esigenze. L'amministrazione può anche proibire in modo assoluto di edificare[...]. Ma, in tal caso, essa non comprime il diritto sull’area, perché questo diritto è nato con il corrispondente limite e con quel limite vive; né aggiunge al bene qualità di pubblico interesse non indicate dalla sua indole e acquistate per la sola forza di un atto amministrativo discrezionale, com'è nel caso dell'espropriazione considerata nell'articolo 42, terzo comma, della Costituzione, sacrificando una situazione patrimoniale per un interesse pubblico che vi sta fuori e vi si contrappone."
Questa posizione, molto chiara e ragionevolmente motivata, viene ribadita in numerose sentenze successive[3]. Fino alla più recente, quando la Corte, pronunciandosi più specificamente in merito ai cosiddetti “vincoli urbanistici” (di cui parleremo più avanti) ricapitola la propria giurisprudenza anche a proposito di “vicoli ricognitivi” (sentenza 20 maggio 1999, n.179). In questa sentenza la Corte ribadisce che
"non sono inquadrabili negli schemi dell’espropriazione, dei vincoli indennizzabili e dei termini di durata i beni immobili aventi valore paesistico-ambientale, in virtù della loro localizzazione o della loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge."
E ricorda che
"più in generale si è ritenuto che la legge può non disporre indennizzi quando i modi e i limiti imposti - previsti dalla legge direttamente o con il completamento attraverso un particolare procedimento amministrativo - attengano, con carattere di generalità per tutti i consociati e quindi in modo obiettivo [...], a intere categorie di beni, e per ciò interessino la generalità dei soggetti con una sottoposizione indifferenziata di essi - anche per zone territoriali - a un particolare regime secondo le caratteristiche intrinseche del bene stesso. Non si può porre un problema di indennizzo se il vincolo, previsto in base a legge, abbia riguardo ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando la legge stessa regoli la relazione che i beni abbiano rispetto ad altri beni o interessi pubblici preminenti."
Ma i vincoli ricognitivi non sono forse di competenza dello Stato e, dopo la legge 431 del 1995, delle Regioni? Che c’entrano dunque con le politiche urbanistiche locali e con i piani regolatori, se non come una tutela che viene dall’alto e che come tale deve essere rispettata?
In realtà, porre i “vincoli ricognitivi” non spetta solo gli organi centrali dello Stato, com’era mezzo secolo fa, nè solo alle Regioni, cui la costituzione e i decreti succedutisi dal 1970 al 1977 hanno attribuito, trasferito e delegato competenze e poteri in proposito alla tutela del paesaggio e dell’ambiente. Ma, dopo la legge 431 del 1985, quel compito (e quel potere) spetta anche agli altri enti pubblici dotati di competenze in materia di pianificazione territoriale e urbanistica. Molto chiara in proposito è, ad esempio, la Corte costituzionale con la sentenza n. 378 del 2000. In essa si afferma, riferendosi alla pianificazione in Emilia Romagna:
"[…] proprio perché il legislatore regionale, in linea con la previsione della legislazione statale, ha seguito la via alternativa (al piano paesistico) dello strumento di pianificazione urbanistica, sia pure anche con valenza paesistica e ambientale, non esiste un limite territoriale alle sole zone elencate nel quinto comma dell’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977 […]. Anzi gli strumenti di pianificazione urbanistica hanno una efficacia normalmente orientata verso l’assetto dell’intero territorio dell’ente investito dello specifico potere di pianificazione. […] Del resto la tutela paesistico-ambientale svolta attraverso uno strumento di pianificazione urbanistica può comportare la protezione di un territorio ben più vasto delle aree strettamente vincolate, per le necessarie connessioni con le zone contermini e per esigenze di coinvolgimento di una sfera più ampia. Ed infatti questa Corte ha avuto occasione di sottolineare che la protezione preordinata dalla legge n. 431 del 1985, sia pure "minimale", non esclude né preclude "normative regionali di maggiore o pari efficienza" […], soprattutto quando vi siano esigenze di una valutazione complessiva (e più ampia) dei valori sottesi alla disciplina dell’assetto urbanistico."
L’equazione “vincolo ricognitivo uguale vincolo imposto per legge”, che costituisce un’opinione corrente nel mondo perequativo, è quindi priva di fondamento. Lo è certamente per gli aspetti paesaggistici, poiché la stessa legge nazionale 431/1985 prevede la possibilità di redigere “piani urbanistici” che possono riguardare (anzi, di norma riguardano) l’intero territorio. Lo è più in generale per tutte le categorie di vincoli preordinati alla tutela paesistico-ambientale che possono essere apposti, attraverso i piani urbanistici, anche in virtù di leggi regionali più restrittive di quella nazionale. Tale orientamento della Corte prelude ad un’altra fondamentale statuizione: hanno facoltà di individuare sul territorio beni da sottoporre a vincoli ricognitivi non indennizzabili, quindi, le Regioni, le Province e anche i Comuni, nell’ambito della pianificazione ordinaria. La Corte costituzionale lo ribadisce nella stessa sentenza:
"Del resto, la pianificazione urbanistica a livello comunale non ha carattere esaustivo e non riassorbe, con funzione di prevalenza, le altre forme di pianificazione o gli altri vincoli non urbanistici, poiché qualsiasi intervento che modifica il territorio non deve porsi in contrasto con tutti gli altri vincoli su di esso esistenti (paesistici, culturali, di rispetto delle ferrovie e delle autostrade, del demanio marittimo ecc.), ancorché la pianificazione urbanistica comunale non escluda tale tipo di intervento o lo consenta. Il principio è reciproco anche nei rapporti tra vincoli non urbanistici e vincoli derivanti da pianificazione urbanistica comunale. Riguardo alla sfera degli interessi coinvolti e delle esigenze relative al territorio, giova sottolineare che la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di principio fondamentale unitario dell'ambito territoriale in cui si svolge la vita dell'uomo (sentenza n. 85 del 1998) e tali forme di tutela costituiscono una endiadi unitaria. Detta tutela costituisce compito dell’intero apparato della Repubblica, nelle sue diverse articolazioni ed in primo luogo dello Stato (art. 9 della Costituzione), oltre che delle regioni e degli enti locali."
Sulla facoltà (anzi, il dovere) dei Comuni a sviluppare, approfondire e articolare l’individuazione dei beni territoriali da sottoporre a tutela effettuata dalle Regioni la Corte si era del resto già espressa all’indomani dell’entrata in vigore della legge 431 del 1985, con la sentenza n. 151 del 24 giugno 1986. La Corte aveva affermato in quella sede che la legge 431/1985,
"discostandosi nettamente dalla disciplina delle bellezze naturali contenuta nella legislazione precostituzionale di settore (l. n. 1497 del 1939) introduce una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, implicante, cioè, una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce del valore estetico-culturale, in aderenza all'art. 9 Cost., che assume tale valore come primario. Detta tutela non esclude nè assorbe la configurazione dell'urbanistica quale funzione ordinatrice degli usi e della trasformazioni del suolo nello spazio e nel tempo, devoluta alle Regioni: la nuova normativa provvede, bensì, al raccordo - nell'ambito stesso della nuova tutela e nei suoi rapporti con l'urbanistica - tra competenze statali e competenze regionali, mediante soluzioni ispirate al principio di leale cooperazione, sia istituendo un rapporto di concorrenza, strutturato in modo che le competenze statali sono esercitate (solo) in caso di mancato esercizio di quelle regionali e (solo) in quanto ciò sia necessario per il raggiungimento dei fini essenziali della tutela; sia proiettando quest'ultima (in modo dinamico) sul piano dell'urbanistica, col regolare l'esercizio qualificato, e teleologicamente orientato in senso estetico-culturale, di competenze regionali in materia urbanistica."
Anche la pianificazione comunale, in altri termini, deve farsi carico dell’esigenza di individuare sul territorio i beni che è necessario sottoporre a vincolo ricognitivo (non indennizzabile), “proiettando” così la tutela, “in modo dinamico, sul piano dell’urbanistica”.
La questione dei vincoli urbanistici fu posta per la prima volta in termini compiuti con la prima delle due sentenze del 1968: la n. 55. In realtà le due sentenze (che ad alcuni frettolosi commentatori apparvero allora in contraddizione tra loro) compongono tra loro un unico ragionamento: legato dalla distinzione tra “vincoli ricognitivi” e “vincoli urbanistici” che ho all’inizio sottolineato, e che è davvero fondativa per qualsiasi valutazione in materia.
La tesi che la Corte costituzionale argomenta nella sentenza 55/1968 può essere sintetizzata come segue. Il piano regolatore generale, una volta approvato, ha vigore a tempo indeterminato; anche i vincoli di destinazione di zona per uso pubblico sono validi a tempo indeterminato e sono immediatamente operativi. Però al vincolo di piano non segue necessariamente l’atto concreto dell’espropriazione, e quindi del pagamento di una indennità: il vincolo ha validità a tempo indeterminato, e ugualmente indeterminato è il momento nel quale il comune avrà l’intenzione e la possibilità di realizzare l’opera prevista. Viene così a determinarsi “un distacco tra l’operatività immediata dei vincoli previsti dal piano regolatore generale ed il conseguimento del risultato finale”. Questo, sostiene la Corte, è costituzionalmente illegittimo.
Ma la sentenza suggerisce anche al legislatore il possibile riparo. La sentenza afferma infatti che il legislatore potrebbe anche porre limitazioni pesantissime alla proprietà, a tre condizioni: che la norma sia stabilita in relazione a tutte le proprietà appartenenti a una determinata “categoria di beni”, senza discrezionalità; che questo derivi da una esigenza d’interesse generale; che la limitazione non annulli il valore economico del bene. In caso contrario, la limitazione è legittima, ma va indennizzata.
Com’è noto, il legislatore non seguì la via indicata dalla Corte. Ne eluse l’insegnamento, stabilendo un sistema di proroghe e di “validità a tempo determinato” [4] dei vincoli urbanistici (quelli ricognitivi non furono mai messi in discussione). Molti comuni, non riuscendo ad avviare le procedure di acquisizione delle aree entro i termini, con nuovi provvedimenti urbanistici rinnovarono i vincoli decaduti. A qualche comune andò bene, ad altri no.
Finalmente, nell’inerzia del legislatore, la Corte intervenne con una nuova sentenza, la n. 179 del 1999. In essa la Corte afferma che i vincoli urbanistici
"assumono certamente carattere patologico quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi, anche non contenuto in termini di ragionevolezza […]. Ciò ovviamente in assenza di previsione alternativa dell’indennizzo […], e fermo, beninteso, che l’obbligo dell’indennizzo opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge (periodo di franchigia)."
Ma nello stesso tempo la sentenza stabilisce in quali casi la reiterazione del vincolo non sia “patologica”, e quindi non sia criticabile per incostituzionalità. Ribadisce ulteriormente la piena validità (e la non indennizzabilità) dei vincoli ricognitivi, ma afferma che devono considerati “come normali e connaturali alla proprietà, quale risulta dal sistema vigente”, e quindi non indennizzabili, anche
"i limiti non ablatori posti normalmente nei regolamenti edilizi o nella pianificazione e programmazione urbanistica e relative norme tecniche, quali i limiti di altezza, di cubatura o di superficie coperta, le distanze tra edifici, le zone di rispetto in relazione a talune opere pubbliche, i diversi indici generali di fabbricabilità ovvero i limiti e rapporti previsti per zone territoriali omogenee e simili."
Quindi, ad esempio, non sono indennizzabili i vincoli consistenti nelle destinazioni a zona agricola. Non pongono analogamente problemi di indennizzabilità, o altra compensazione,
"i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene."
La Corte precisa anche tecnicamente questo caso, e aggiunge:
"Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l’iniziativa economica privata - pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento. Si fa riferimento, ad esempio, ai parcheggi, impianti sportivi, mercati e complessi per la distribuzione commerciale, edifici per iniziative di cura e sanitarie o per altre utilizzazioni quali zone artigianali o industriali o residenziali; in breve, a tutte quelle iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato."
Ma la Corte aggiunge ancora una ulteriore precisazione. Essa ricorda come la giustizia amministrativa
"a proposito della reiterazione dei vincoli, ha delineato un diritto vivente (che deve essere tenuto presente per risolvere la questione di legittimità costituzionale prospettata), secondo cui la reiterazione dei vincoli urbanistici decaduti per effetto del decorso del termine può ritenersi legittima sul piano amministrativo se corredata da una congrua e specifica motivazione sulla attualità della previsione, con nuova ed adeguata comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti, e con giustificazione delle scelte urbanistiche di piano, tanto più dettagliata e concreta quante più volte viene ripetuta la reiterazione del vincolo."
In definitiva, in questa stessa sentenza 179/1999, che è stata giudicata come escludente in modo tassativo ogni ipotesi di reiterazione dei vincoli, la Corte indica la piena legittimità costituzionale delle reiterazioni a talune condizioni. E afferma esplicitamente che
"la reiterazione in via amministrativa degli anzidetti vincoli decaduti (preordinati all'espropriazione o con carattere sostanzialmente espropriativo), ovvero la proroga in via legislativa o la particolare durata dei vincoli stessi prevista in talune regioni a statuto speciale (v., per quest’ultimo profilo, sentenze n. 344 del 1995; n. 82 del 1982; n. 1164 del 1988) non sono fenomeni di per se inammissibili dal punto di vista costituzionale. Infatti possono esistere ragioni giustificative accertate attraverso una valutazione procedimentale (con adeguata motivazione) dell’amministrazione preposta alla gestione del territorio o rispettivamente apprezzate dalla discrezionalità legislativa entro i limiti della non irragionevolezza e non arbitrarietà."
Utile riepilogo è costituito dall’ultimo paragrafo dell’articolata sentenza dove la Corte, sintetizzando l’insieme degli approdi delle sue argomentazioni, afferma che
"restano al di fuori dell'ambito dell'indennizzabilità i vincoli incidenti con carattere di generalità e in modo obiettivo su intere categorie di beni - ivi compresi i vincoli ambientali-paesistici -, i vincoli derivanti da limiti non ablatori posti normalmente nella pianificazione urbanistica, i vincoli comunque estesi derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato, i vincoli che non superano sotto il profilo quantitativo la normale tollerabilità e i vincoli non eccedenti la durata (periodo di franchigia) ritenuta ragionevolmente sopportabile."
In altri termini, se il comune, con un piano regolatore aveva destinato una particolare area a zona d’espansione, o comunque aveva attribuito una utilizzazione che comportava l’edificazione, e poi con un successivo documento urbanistico aveva modificato questa destinazione prevedendo utilizzazioni diverse (per esempio, zona agricola), il proprietario ha diritto a una qualche forma di risarcimento o d’indennizzo? Esiste insomma una “diritto all’edificabilità” che, una volta ottenuto dal proprietario, gli appartenga come parte del proprio patrimonio?
La giurisprudenza è costante nell’affermare che l’interesse pubblico, espresso dalle amministrazioni legittimate a compiere gli atti amministrativi, prevale sull’interesse dei privati proprietari. L’unica attenzione che legislazione e giurisprudenza costantemente pongono è che l’atto con il quale si comprimono i legittimi interessi dei proprietari siano adeguatamente motivati, e che la compressione del legittimo interesse sia altrettanto adeguatamente indennizzata.
Motivazione e indennizzo, sono dunque i due elementi cardine che temperano la piena potestà della pubblica amministrazione e garantiscono gli interessi legittimi del proprietario (non sembra che legislazione e giurisprudenza, in Italia, si siano occupati altrettanto del cittadino non proprietario).
Ecco alcune sentenze, dal 1980 al 2001 (sono riprese dalla, Rassegna di giurisprudenza dell’urbanistica di Renzo Poggi; i corsivi sono miei):
Nel 1980 il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria, ha stabilito che
"l’amministrazione comunale, se pure non è tenuta a motivare le scelte urbanistiche generali considerate nella loro globalità (se non nei casi in cui tali scelte incidano su lottizzazioni già approvate), deve peraltro motivare l’adozione di una variante al piano regolatore generale che quelle scelte abbia approvato, indicando le ragioni che hanno determinato la totale o parziale inattualità del piano o la convenienza di migliorarlo." [5]
Il TAR Lombardia ha sentenziato, nel 1982, che
"la variante al piano regolatore comunale abbisogna di una particolare motivazione solo quando al posizione del privato, proprietario dell’area, risulti “consolidata” per effetto di precedenti convenzioni lottizzate stipulate con il comune, e non anche quando trattasi di aree sulle quali insiste un semplice manufatto edilizio” [6].
Il Consiglio di Stato, IV Sezione, ha affermato nel 1984 che
"è illegittima la variante al piano regolatore generale in contrasto con un preesistente piano di lottizzazione, che non indichi i motivi di interesse pubblico che giustificano il mutamento della sistemazione urbanistica del territorio" [7] .
Ma veniamo ad anni più vicini. In una sentenza del 2000 il Consiglio di Stato, Sezione V, ha giudicato che
"il comune, in sede di adozione di una variante al piano regolatore generale, ha la facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva peraltro la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni predisposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore" [8].
Il TAR Lombardia, sez. Brescia, ha stabilito nel 2001 che
"neppure la preesistenza di un piano di lottizzazione approvato e già convenzionato costituisce - per se sola - un ostacolo alla modifica delle previsioni urbanistiche vigenti su una determinata area, proprio perché il prg non rappresenta uno strumento immodificabile di pianificazione del territorio, sul quale i privati possano fondare sine die, le proprie aspettative, ma è suscettibile di revisione ogni qual volta sopravvenute esigenze di pubblico interesse, obiettivamente esistenti ed adeguatamente motivate, facciano ritenere superata la disciplina da esso dettata" [9].
Con la medesima pronuncia il tribunale ha argomentato che
"il comune, pur avendo la più ampia discrezionalità di rivedere le previsioni urbanistiche in sede di disciplina del proprio territorio, tuttavia, anche in assenza di una preesistente lottizzazione convenzionata, ove abbia ingenerato precisi affidamenti sulla edificabilità nel proprietario dell’area, non può adottare una variante che modifichi le previsioni già in vigore, senza addurre una circostanziata motivazione sulle particolari ragioni di pubblico interesse che abbiano reso necessario incidere sulle posizioni giuridiche del privato costituitesi con l’avallo dell’amministrazione e senza una congrua comparazione tra i vari interessi in conflitto" [10].
Nel medesimo anno il Consiglio di Stato, V sezione, ha giudicato che
"sono illegittime le deliberazioni comunali di adozione di variante a piano regolatore generale che modificano la destinazione urbanistica di aree oggetto di convenzione di lottizzazione precedentemente autorizzate, senza recare una congrua e puntuale motivazione in ordine alla preponderanza dell’interesse pubblico sotteso alla nuova destinazione urbanistica sull’interesse precedente e che aveva trovato espressione nell’approvata lottizzazione" [11].
L’esemplificazione della giurisprudenza potrebbe proseguire a lungo. Ciò che mi interessa sottolineare è che, se è legittimo modificare con uno nuovo strumento urbanistico, al limite escludendo l’edificabilità, una lottizzazione convenzionata già stipulata purché se ne motivino adeguatamente le ragioni, a maggior ragione ciò è possibile se si tratta di una semplice previsione di PRG. In tal caso, neppure una specifica motivazione sembra necessaria. E meno che meno è necessario un indennizzo.
In altri termini , non esiste alcun “diritto all’edificabilità” da parte del proprietario, né se questi è stato in precedenza gratificato da una previsione edificatoria poi cancellata, e neppure se, sulla base di quella previsione, aveva ottenuto l’approvazione di un piano di lottizzazione convenzionata e aveva stipulato con il comune i relativi atti.
È possibile a questo punto riepilogare per giungere a una conclusione.
Non esiste impedimento giuridico a modificare le previsioni del piano regolatore comunale vigente ove ciò sia necessario, senza che ciò comporti alcun obbligo di indennizzare o compensare in alcun modo il proprietario che abbia avuto una riduzione della utilizzabilità urbanistica della sua area.
Non esiste impedimento giuridico (e anzi esiste una sollecitazione da parte del giudice costituzionale) alla individuazione, da parte dei Comuni, di aree da sottoporre a tutela per motivi connessi ai valori culturali, archeologici, storici, paesaggistici (con specifico riferimento al paesaggio agrario) o a situazioni di fragilità e di rischio, e su cui quindi imporre un vincolo ricognitivo.
Non esiste impedimento giuridico a vincolare per utilizzazioni pubbliche (a sottoporre quindi a vincolo urbanistico) aree già sottoposte a vincolo ricognitivo, ove le ragioni del vincolo lo consentano e compatibilmente con le trasformazioni e le utilizzazioni coerenti con tali ragioni.
Non esiste obbligo a indennizzare i proprietari di aree, destinate a svolgere una funzione di pubblica utilità, per la quale la normativa urbanistica comunale preveda la gestione economica da parte del proprietario delle attrezzature e degli impianti di cui si ipotizza la realizzazione.
Ove sia necessario sottoporre a vincoli urbanistici di tipo espropriativo immobili che non ricadano nei due casi precedenti, e che non siano neppure acquisibili mediante le normali procedure della lottizzazione convenzionata praticata almeno dal 1967, l’indennità espropriativa non deve compensare ipotesi di edificabilità diverse da quelle che le leggi in materia dispongono. A meno che il Comune non sia così sciocco da promettere edificabilità diffuse e “spalmate” su gran parte del territorio comunale.
Edoardo Salzano
Venezia, 10 gennaio 2003
[1] Sottolineo “per ragioni di diritto” perché possono esserci motivi di opportunità politica o sociale che inducono ad agevolare determinati gruppi di proprietari; ma non è di questi aspetti che voglio occuparmi.
[2] A partire dalle sentenze n. 55 e 56 del 1968, fino alla sentenza 378 del 2000. Le rilevantissime sentenze del 1968 le ho commentate a suo tempo: Dopo la sentenza della Corte Costituzionale – La responsabilità a sciogliere i nodi nella questione del suolo urbano, in “Città e Società”, n.6, nov.- dic. 1968. Vedi anche: V.De Lucia, E.Salzano, F.Strobbe, Riforma urbanistica 1973, edizioni delle autonomie, Roma 1973: E Salzano, Fondamenti di Urbanistica, Laterza editori, Bari-Roma, 20024.
[3] Si vedano le sentenze 15 luglio 1969, n. 136; 26 aprile 1971, n. 79; 20 febbraio 1973, n. 9; 4 luglio 1974, n. 202; 20 dicembre 1976, n. 245; 16 giugno 1988, n. 648; 17 luglio 1989, n. 391; 20 luglio 1990, n. 344; 28 luglio 1995, n. 417.
[4] Legge 19 novembre 1968, n. 1187. In realtà nell’approvare la legge il Parlamento si era impegnato a risolvere più sostanzialmente la questione approfittando della proroga quinquennale che si era concesso.
[5] Cons. Stato, Ad. Plenaria, 21 ottobre 1980 n. 37.
[6] TAR Lombardia, Sez. Milano, 6 maggio 1982 n. 254.
[7] Cons. Stato, Sez IV, 5 dicembre 1984 n. 884
[8] Cons. Stato, sez. IV, 3 luglio 2000 n. 3646.
[9] TAR Lombardia, sez. Brescia, 12 gennaio 2001, n. 2.
[10] Ibidem.
[11] Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1385.
Per affrontare le questioni poste in questa sessione – e più in generale in questa conferenza - occorre definire l’oggetto attorno al quale ragioniamo: il paesaggio. A me interessa allora ricordare che il paesaggio è il prodotto storico della cultura e del lavoro dell’uomo sulla natura. Nel paesaggio, nella forma del territorio così come ci appare, natura e storia si integrano variamente nelle varie parti del pianeta. Essi formano così tipi diversi di paesaggio (naturale, agrario, urbano), ciascuno dei quali è caratterizzato da genesi, caratteri, significati, utilità, problemi diversi. È proprio la loro genesi, caratterizzata dalla sintesi tra evento e sito, che definisce quindi l’identità dei luoghi: elemento costitutivo della stessa identità delle comunità, nazionali e locali, che quei luoghi abitano. Prodotto della storia, e identità dei luoghi e delle comunità: questi sono gli attributi del paesaggio che soprattutto mi interessano.
Sottolineare, come mi sembra giusto fare, il ruolo della storia nella formazione del paesaggio (e quindi del suo valore) significa porre l’accento sul ruolo dell’uomo. Occorre allora riconoscere che l’intervento dell’uomo sulla natura ha avuto ed ha segni diversi. A volte (in certe epoche, in certe società, in certi luoghi) un ruolo positivo: ha costruito paesaggi (urbani, agrari, naturali anche) ai quali riconosciamo oggi valore d’insegnamento e valore estetico: con la semplice manutenzione, oppure con la formazione di nuovi paesaggi agrari, oppure con la creazione di opere integrate nel paesaggio preesistente, l’uomo ha aggiunto insomma valore alla forma della Terra. Ma altre volte (con l’incuria e l’abbandono, con l’eliminazione dei segni del passato in nome del profitto immediato, con l’artificializzazione dissennata) ha sottratto valore e distrutto il patrimonio culturale e storico costituito dal paesaggio, ha ridotto la ricchezza della civiltà umana.
Una domanda inquietante dobbiamo allora proporci. È in grado la società di oggi, la cultura che essa esprime, di porsi nei confronti della natura e della costruzione del paesaggio nello stesso modo nel quale si sono posti gli uomini il cui prodotto oggi ammiriamo, e nel quale riconosciamo una componente essenziale della nostra identità? I paesaggi urbani e periurbani, la devastazione delle campagne, la distruzione di ambienti naturali, realizzati in Italia nell’ultimo mezzo secolo, non lasciano dubbi in proposito, e invitano alla massima attenzione di fronte alla tentazione di “abbassare la guardia” dell’azione di tutela.
A non abbassare la guardia nell’azione di tutela ci invita del resto il titolo stesso di questa sessione: “Paesaggio e sviluppo sostenibile”. Molti criticano oggi il temine “sostenibile”: in effetti, è diventato un aggettivo passepartout, può essere stiracchiato fino a coprire qualunque contenuto, anche il più devastante. Ma non c’è da meravigliarsi: succede sempre così, quando una parola diventa alla moda. Occorre però allora precisare, oltre al termine “paesaggio”, anche “sostenibilità”.
Io mi riferisco all’accezione del termine che ne è stata data nel Rapporto Brundtland, nella Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo dell’ONU, nel 1983. Per “sviluppo sostenibile - si legge nel Rapporto – si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”.
A ragionarci bene, è un’interpretazione severa. Non si tratta di trovare un qualche compromesso, tra l’esigenza della conservazione e quella della trasformazione. Non si tratta di scegliere le trasformazioni in qualche modo “compatibili” con la tutela. Si tratta, invece, di rinunciare a quelle trasformazioni che comportino una riduzione delle risorse che riteniamo necessarie, oggi e domani, al genere umano. Oppure (ed è un altro modo di dire la stessa cosa) si tratta di garantire che il bilancio di ogni trasformazione porti a un miglioramento dell’insieme delle risorse disponibili: nel campo che ci interessa, a un miglioramento della qualità del territorio e della vita.
Per ricondurre il paesaggio sotto le regole dello “sviluppo sostenibile” occorre allora invertire la tendenza, e imparare di nuovo a governare la natura senza negarla. Ma questo non può essere lasciato alla buona volontà dei singoli, o all’azione di qualche minoranza illuminata. Occorre che la tutela del paesaggio diventi una priorità sociale. Perché ciò avvenga, è necessario rendere evidente a tutti quali sono le ragioni per cui è socialmente necessario tutelare e arricchire la qualità del paesaggio (dei paesaggi). Perché, insomma, il paesaggio serve?
In primo luogo, il paesaggio è memoria. Il paesaggio è un deposito di storia. In esso è rappresentato e testimoniato il nostro passato, il passato della nostra civiltà. Esso è dunque il fondamento della identità delle diverse comunità che abitano il pianeta (dalle nazionali alle locali). Esso serve (a noi, e alle generazioni future) perché è una insostituibile risorsa della civiltà, è la materia vitale che alimenta il futuro. Basterebbe questo a comprendere come una società che voglia esistere debba custodire il paesaggio come una propria risorsa primaria.
Ma il paesaggio è anche risorsa economica. Sempre più, nell’economia moderna, tendono ad accrescere il loro peso (fino a diventare dominanti) i settori legati alla produzione di “beni immateriali”, tra i quali i comparti legati alla ricreazione e al benessere fisico, al turismo, alla conoscenza e al godimento estetico assumono crescente rilievo. In moltissime aree dell’Italia (e dell’Europa) il paesaggio di qualità è luogo e condizione per produzioni enogastronomiche “di nicchia”, caratterizzate dalla qualità e dall’identità, fondamentali sia per lo sviluppo economico e sociale delle aree coinvolte che per la conservazione di valori universali.
A proposito del ruolo economico del paesaggio nei prossimi decenni non va trascurato il peso che può avere per lo sviluppo dell’occupazione in molte regioni italiane un’azione di manutenzione del suolo, di riduzione dei rischi e dei costi del degrado ambientale, di avvio di un’azione di presidio ambientale. Si tratta di ricostituire e manutenere ambienti naturali distrutti dall’incuria dell’uomo (e minacciosi per la sopravvivenza nelle aree a valle del degrado), oppure ambienti caratterizzati da un assiduo rapporto di costruzione del paesaggio agrario.
Alla qualità del paesaggio è legata anche la qualità della vita: La bellezza dei panorami, l’armonia dei luoghi nei quali si svolge la sua vita sono essenziali per il benessere della donna e dell’uomo, del bambino e dell’anziano. Nell’epoca della globalizzazione, la concorrenza tra le regioni e le città assume sempre di più la qualità dell’ambiente (come componente della qualità della vita) come un valore economico da mettere in gioco nel “ marketing urbano”. Ciò pone, una volta ancora, l’esigenza economica di migliorare la qualità del paesaggio anche là dove (come nelle periferie urbane) non si è stati capaci di creare qualità nuove, ma solo di distruggere quelle preesistenti.
Obiettivo primario che si pone è dunque quello di conferire piena efficacia alla protezione e al godimento dei beni paesaggistici (di quelli esistenti e di quelli da realizzare) da parte delle generazioni presenti e future. Con quali strumenti però?
Non credo nella sufficienza di politiche meramente vincolistiche (sebbene sia convinto, come argomenterò fra poco, che tali politiche siano ancora necessarie). Non credo neppure nella utilità di strumenti che isolino determinate porzioni del territorio e riservino a queste l’azione di tutela. Il paesaggio va governato nel suo complesso, con un’azione cui non sfuggano nè la storicità del paesaggio (e dunque la consapevolezza dell’intreccio tra lavoro e natura che il paesaggio rappresenta ed esprime), né l’esigenza di tutelarlo dinamicamente, governandone quindi l’evoluzione e il rapporto, certo complesso e difficile, con l’azione antropica.
Il paesaggio può essere tutelato con efficacia unicamente se diviene un aspetto, decisivo e vitale, di un’azione di governo del territorio che affronti l’insieme dei problemi e delle esigenze legati al suo uso e alle sue trasformazioni, assicurando in questo quadro la priorità alla tutela e allo sviluppo delle dimensioni qualitative: dunque, del paesaggio. Ecco perché ritengo che la pianificazione territoriale e urbanistica, come insieme di metodi e strumenti volti ad assicurare coerenza alle trasformazioni del territorio garantendo trasparenza e partecipazione al processo delle decisioni, sia l’ambito entro il quale tale obiettivo può essere raggiunto.
Ed ecco perché, per converso, sono preoccupato delle fortune che sempre più stanno ricevendo quegli strumenti urbanistici “anomali”, che dall’inizio degli anni Ottanta stanno rendendo via via più complicata – e più perversa – la pratica della pianificazione. Mi riferisco ai programmi integrati, ai programmi di recupero urbano, ai programmi di riqualificazione urbana, ai contratti di quartiere, agli accordi di programma quadro, ai contratti di programma, ai patti territoriali, ai contratti d’area, ai programmi straordinari di edilizia residenziale, e infine ai programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio.
Ciò che accomuna la quasi totalità di questi “piani anomali” è che enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione “anomali” è quello di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare dalle regole comuni della pianificazione “ordinaria”. Di derogare cioè dalle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini).
Occorre utilizzare lo strumento e il metodo della pianificazione nella sua reale portata. Ma occorre arricchire e adeguare quest’ultima, definendo nuovi indirizzi che le consentano di farsi carico più compiutamente delle esigenze della tutela del paesaggio. A me sembra particolarmente significativo, da questo punto di vista, il modo in cui la legge 431/1985 (la cosiddetta Legge Galasso) ha posto le premesse per innovare il sistema di pianificazione.
La legge è stata attuata solo parzialmente, e spesso la sua attuazione è stata una elusione delle sue finalità. Ma l’esperienza di attuazione di quella legge, là dove un’attuazione positiva vi è stata, induce ad sottolineare, e a proporre alcuni indirizzi particolarmente significativi. Li enuncerò in termini molto sintetici:
La “attenta considerazione delle valenze paesistiche e ambientali”, che la legge 431 chiede alla pianificazione ordinaria perché abbia efficacia, deve diventare una costante nella pianificazione territoriale e urbanistica ordinaria, a tutti i livelli: nazionale, regionale, provinciale, comunale.
Più precisamente, la prima fase della pianificazione deve essere costituita dall’assidua ricognizione delle qualità naturali e storiche del territorio, come si tentò di fare nell’esperienza della Regione Emilia Romagna del 1985-86 e come hanno prescritto, in modi più o meno chiari, le nuove leggi urbanistiche della Toscana e della Liguria.
La ricognizione delle qualità del territorio deve condurre precettivamente all’individuazione delle trasformazioni fisiche ammissibili e delle utilizzazioni compatibili con le caratteristiche proprie di ogni unità di spazio, come condizionenon negoziabile per ogni decisione sulle trasformazione da promuovere o consentire;
La tutela attiva del paesaggio richiede che nel processo di pianificazione vengano integrati tutti gli strumenti disponibili: le politiche e le azioni di settore, gli incentivi finanziari, la partecipazione a programmi e progetti nazionali e sovranazionali, il ricorso all’imprenditoria privata. Questi strumenti non devono essere adoperati in contrasto alla pianificazione oppure come alternativa ad essa, ma - appunto - come suoi strumenti.
Sottolineare l’utilità della pianificazione (come mi sembra indispensabile) significa riconoscere la parzialità, e quindi l’insufficienza, della protezione passiva costituita dai vincoli di tutela. Ma credo che il clima culturale e morale che stiamo attraversando (gli anni Ottanta non finiscono mai!) impongano al tempo stesso di ribadirne l’utilità.
I vincoli, ancorché non sufficienti, sono utili sotto un duplice profilo. In primo luogo, il vincolo è necessario come difesa temporanea, in attesa che la pianificazione consenta di articolare le politiche, sia attive che passive, di tutela. In secondo luogo perché (come dimostra l’esperienza della legge 431/1985) il vincolo agisce strumentalmente come sollecitazione alla pianificazione, e quindi alla possibilità di una tutela più compiuta e di una fruizione dei beni paesaggistici che ne garantisca la conservazione.
Un ultimo punto vorrei brevemente toccare. La tutela e valorizzazione del paesaggio esprime una pluralità d’interessi collettivi: da quelli nazionali a quelli locali. Occorre evitare sia il rischio del conflitto paralizzante sia quello della negazione di uno o dell’altro degli interessi coinvolti.
Il principio di sussidiarietà è il criterio utilizzabile per individuare a chi spetta la responsabilità della scelta in relazione agli oggetti e aspetti su cui occorre decidere. Lo è, beninteso, se è assunto nella sua accezione corretta, quella elaborata nella recente cultura europea. Non il principio di sussidiarietà inteso come “tutto il potere alla periferia”, ma come riconoscimento del fatto che per ogni decisione c’è un livello giusto al quale quella decisione può essere presa efficacemente. Ma valga il testo ufficiale (Trattato di Maastricht, art.3B):
Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità.
È davvero difficile pensare che il paesaggio, essendo elemento fondamentale per la definizione dell’identità nazionale, non rientri pienamente nelle responsabilità (e nelle competenze) dello Stato, essendo appunto questione che si pone a una scala nazionale.
Ma se gli organi centrali dello Stato hanno la responsabilità dell’azione di tutela, essi hanno anche quella di promuovere la concorrenza dei poteri nell’azione di tutela. Se la responsabilità primaria in materia di paesaggio spetta allo Stato, anche i livelli di governo regionale e locale sono legittimati (credo d’averlo argomentato a sufficienza) a concorrere con esso nella azione di individuazione, definizione, tutela.
Come può esercitarsi la concorrenza nel campo della pianificazione territoriale e della tutela del paesaggio? Anche qui vi è un principio, e un istituto già introdotto nel nostro ordinamento, che possono aiutare. È il principio secondo il quale gli strumenti di pianificazione, laddove disciplinino beni dello Stato in termini tali da incidere sulla loro finalizzazione, possono diventare efficaci soltanto previa "intesa" con lo stesso Stato. Questo principio, del resto, è stato introdotto recentemente nell'ordinamento, seppure limitatamente alla pianificazione provinciale, dall'articolo 57 del decreto legislativo 112/1998, il quale stabilisce che:
la regione, con legge regionale, prevede che il piano territoriale di coordinamento provinciale [...] assuma il valore e gli effetti dei piani di tutela nei settori della protezione della natura, della tutela dell’ambiente, delle acque e della difesa del suolo e della tutela delle bellezze naturali, sempreché la definizione delle relative disposizioni avvenga nella forma di intese fra la provincia e le amministrazioni, anche statali, competenti.
Come propone l’associazione Polis, un simile testo normativo può essere esteso al di là del suo specifico contesto, e costituire un modello sulla cui base affrontare compiutamente la questione. È un modello, del resto, che è già stato più volte proposto e applicato in concrete esperienze di governo del territorio e può dar luogo a utili semplificazioni e snellimenti delle procedure. Ciò che è nell’interesse di tutti.
Vedi anche: Ragionando sul paesaggio