So come comincia la vecchiaia. Tende a scomparire la forza sessuale (ma non il desiderio). Diventa faticoso salire gradini e pendii, senti dolore nei muscoli delle cosce, sebbene continui a camminare bene in piano. Se corri o cammini in salita ti manca presto il fiato, anche se da molti anni hai smesso di fumare. Ci metti molto tempo a ricordarti che l’Università di cui Dereck Drummond è decano si chiama McGill, e che il democristiano di nome Mariano, che hai visto ogni settimana per quindici anni e con cui ti soffermi a chiacchierare in Frezzeria, di cognome fa Baldo. E quando non fai una cosa che ti piacerebbe fare non pensi che la farai più avanti nel tempo, ma che non la farai più. Ecco come è cominciata la vecchiaia, per me.
Ho settant’anni; non sono ancora in pensione perché i professori universitari ci vanno più tardi. Penso che forse non ci andrò mai, perché lavorare mi piace. Mi piace il mio lavoro: mettere insieme le cose con le parole dette e quelle scritte; raccontare e scrivere per gli amministratori e per i ragazzi, parlando e proponendo a proposito di città, territorio, ambiente, pianificazione. Facendo quel mestiere che ho cominciato, quasi per caso, molti anni fa.
Non sono in pensione, ma ho imparato a conservare più tempo per me: a correre meno da una città a un’altra, da un impegno a un altro, da una riunione a un articolo, da una relazione a un’intervista. Tempo anche per i ricordi. Perché con la vecchiaia i ricordi ritornano. E diventano importanti: non più aneddoti che racconti per far sorridere gli amici ma ragioni di vita, possibili chiavi per comprendere te stesso. Per comprendere ciò che sei, e ciò che avresti potuto essere se le cose fossero andate in un altro modo. E anche per lasciare qualcosa di te ai figli e ai nipoti: perché cominci a pensare che forse non sei eterno.
Qualche vecchia fotografia, ritrovata nei residui di decine di traslochi e alcune, pochissime, scaricate dalla Rete. Le trovate in una cartella qui
Non sarei nato se il tenente del Genio Artiglieria Armando Diaz, nel 1884, a Caserta, avesse preso dal mazzo di chemin de fer una carta più bassa. Mio nonno era allora ufficiale di prima nomina. La sera, quando era libero, andava al Circolo degli ufficiali, dove giocava volentieri. Quella volta era stato particolarmente sfortunato. Contro il suo carattere rigoroso si era lasciato prendere la mano. Un rapido conto gli aveva fatto scoprire, con terrore, che perdeva più, molto di più, di quanto avrebbe potuto pagare col suo stipendio. Di farsi prestare soldi, neanche parlarne. Prese una decisione difficile: “Gioco un’ultima mano, se perdo, mi brucio le cervella, se vinco, non tocco mai più una carta in vita mia”. Per fortuna vinse, e visse. Così, quarantasei anni dopo, io nacqui. A Napoli, in casa: allora si usava così.
La casa era molto bella. Una specie di villa urbana, molto allungata, occupava tutto il lotto tra Corso Vittorio Emanuele (la lunga strada panoramica a mezza costa che attraversa Napoli da Mergellina al Museo) e via Torquato Tasso (la strada che si arrampica verso la collina del Vomero). Due piani, più un importante scantinato; un cortiletto ad un estremo, un microscopico giardinetto con una grande palma all’incrocio tra le due strade; entrambi racchiusi da un’alta cancellata di ferro verniciata di nero. Lì abitavano i miei nonni Salzano, mia zia Giannina, i miei genitori: Mauro e Anna Diaz. Si erano sposati nel 1929, un anno dopo la morte di Armando.
Sontuosi entrambi, i funerali e le nozze. Lo so dalle fotografie, perché io non c’ero ancora. Soprattutto il funerale. Mio nonno, oltre a vincere la Grande Guerra (così ero stato abituato a pensare, e c’era del vero), era stato Ministro della Guerra nel primo Gabinetto Mussolini, con l’ammiraglio Thaon de Revel (un altro “vincitore”) alla Marina Militare. E poi, era “cugino del Re”, poiché Maresciallo d’Italia e insignito del Gran Collare dell’Annunziata, la più alta onorificenza del Regno. Il trasporto funebre era un affusto di cannone (lo stesso sul quale era stato trasportato il Milite Ignoto), trainato da otto cavalli neri. Dalla casa borghese di via Giambattista Vico 1, su Piazzale Flaminio, dove abitava, il corteo lo condusse prima alla vicina chiesa di Santa Maria del Popolo, dove si svolse la cerimonia funebre, poi all’Altare della Patria a Piazza Venezia, dove si diedero il cambio per vegliarlo i grandi decorati di tutte le armi, poi infine a Santa Maria degli Angeli dove, in una speciale tomba in marmo di Verona scavata nel pavimento della chiesa e contornata da una balaustra di ferro, fu infine racchiuso il suo corpo imbalsamato.
Era molto popolare mio nonno. Lo è ancora, non foss’altro che per il Bollettino della Vittoria, il proclama con il quale annunciò la disfatta generale dell’armata austriaca sul fronte orientale, il 4 novembre 1918. Il Bollettino (che mi toccò imparare a memoria) è affisso ancora oggi in marmo o in bronzo in moltissimi municipi grandi e piccoli, in tutte le caserme e nelle numerose scuole che portano il suo nome. Era popolare allora non solo perché aveva vinto la guerra, ma anche perché il suo carattere aveva fatto di lui un capo amato dai soldati tanto quanto Cadorna, che l’aveva preceduto nel Comando Supremo, era odiato.
A differenza di Cadorna, rigido e severo ufficiale di chiusa, e forse un po’ ottusa, obbedienza piemontese, il giovane generale Diaz curava con molta attenzione il “fattore umano”. Forse anche perché era napoletano, di antica prosapia spagnola (i suoi avi erano sbarcati nella capitale del Sud nel XVII secolo con Carlo III di Borbone), e quindi abituato a temperare la severità tipica dell’ufficiale con la bonomia tradizionale dei governanti meridionali. A Cadorna, noto per la severità con la quale aveva comandato la fucilazione dei soldati in fuga durante la disfatta di Caporetto, era subentrato il napoletano Diaz che raccomandava ai soldati (come mi raccontava nonna Sara) di acquattarsi durante i bombardamenti nelle buche delle granate perché il calcolo delle probabilità le suggeriva come luogo più sicuro. All’attenzione alle condizioni del morale dei soldati, come alla capacità di lavoro collegiale e alla illuministica razionalità con la quale affrontava i problemi si deve, secondo gli storici, la sua capacità di ribaltare in un anno la sconfitta di Caporetto.
Insomma, dopo la guerra era popolare: lo era di per sé, e lo era perché alla Real Casa (come più tardi al Fascio) conveniva utilizzare la sua immagine come elemento di coesione sociale e come lustro dell’unità della nazione, in quel periodo attraversata dalle tensioni del “sovversivismo”. Dopo la firma del Trattato di Versailles fu utilizzato anche per consolidare il prestigio del Regno all’estero: fece un giro ufficiale in numerosi paesi stranieri, dai quali riportò cimeli che, anni dopo, colpivano la mia fantasia di bambino: Ricordo soprattutto uno splendido costume di cuoio di capo Pellirosse con un lungo diadema di piume di avvoltoio, che indossava in una fotografia in cui scambiava il calumet della pace con un capo autentico, della tribù dei Crows.
Non lo conobbi, né avrei potuto: era morto da due anni quando sono nato. Me ne raccontava mia nonna, Sara De Rosa, napoletana anche lei. E’ lei che mi raccontò della scommessa al gioco (“da allora non mi ha aiutato neppure a raccogliere le carte del solitario”, mi diceva), e di qualche altro aneddoto della loro vita. La prima scintilla del loro amore scoccò forse a Portici, nel “miglio d’oro” alle pendici del Vesuvio, dove la famiglia di nonna Sara andava in villeggiatura. Un giorno, alzatisi dopo il pranzo nel corso del quale Sara aveva dovuto contenersi (non era bene che le signorine di buona famiglia mostrassero appetito), Armando la scorse, dalla finestra a pianterreno della villa, mentre mangiava uno splendido peperone ripieno. “Buon appetito, donna Sara”, pare le abbia detto scherzosamente rimproverandola.
Certo è che tra i due c’era una grande intesa. Memorabili erano in famiglia le lettere che si scambiavano quando lui era al fronte, l’intelligenza con la quale Sara lo consigliava e aiutava nei rapporti politici e in quelli di Corte. Non ricordo che mi abbiano parlato molto di questo, però. Forse perché ero bambino (nonna Sara morì quando avevo sedici anni). O forse perché, essendo bambino, ricordavo solo le storielle che mi interessavano. Come quella, che mi dava molto gusto, della pesca a Corte. Quando si mangiava alla tavola del Re (allora regnava Vittorio Emanuele III), appena il sovrano aveva terminato il suo pasto nessuna forchetta, coltello, cucchiaio, bicchiere potevano agitarsi: tutti dovevano concludere, e posare il tovagliolo. Sara Diaz De Rosa stava mangiando una bellissima pesca, continuò a sbucciarla (con forchetta e coltello, naturalmente), fulminata dagli occhi dei presenti. Se ne accorse, arrossì, fece cadere le posate nel piatto. Il Re l’apostrofò sorridendo: “Continui pure, donna Sara, sarebbe peccato lasciare una pesca così bella”.
Mia mamma era molto legata ai suoi genitori, come del resto i suoi fratelli Marcello e Irene. Ci teneva a ricordare che quando Armando fu colpito dall’infarto che lo condusse rapidamente alla morte fu lei a correre alla ricerca del sacerdote che gli diede l’estrema unzione. E mia nonna ricordò quell’evento regalando alla figlia una fotografia di Armando Diaz, a mezzo busto e in grande uniforme, racchiusa in una vistosa cornice d’ebano e tartaruga, attraversata da una scritta vergata a mano dalla sua larga grafia: “Ad Anna che nel momento supremo procurò a Lui l’aiuto divino”.
Quella fotografia era sempre in evidenza, nella camera da letto di Anna Salzano Diaz, in tutte le case che abbiamo abitato. Bella era la camera della mamma, nella casa di Napoli. Occupava uno dei due angoli della casa volti verso il mare: l’altra, all’estremo opposto, era la camera dei nonni. Grande, luminosa, sia per il damasco giallo con il quale era tappezzata, sia per le tre ampie finestre sul golfo. La mia camera era quella accanto, e guardava sullo stesso panorama.
Un panorama splendido, così come lo ricordo. E vedere Napoli oggi, confrontando la realtà attuale con quella della memoria, è una cosa che ogni volta mi fa soffrire. Intendiamoci, ancor oggi è bellissimo. L’ampio specchio di mare, concluso a occidente dalla penisola sorrentina e dall’isola di Capri (entrambe azzurrine nelle ore più calde della lunga stagione del sole e dell’azzurro; verdibrune di campagna, solcate dalle stradine e disseminate dai bianchi granelli delle case lontane nelle ore nelle quali la visibilità è maggiore; grigie e confuse con le galoppanti nuvole nei giorni delle tempeste d’inverno), sovrastato dalla mole bonaria del Vesuvio (che ricordo ancora con il pennacchio di fumo e, la notte, rosseggiante alla bocca per la lava eruttante), solcato dalle vele, dalle barche dei pescatori, dalle navi. La superficie delle acque cangiante nelle stagioni e nelle ore, scintillante e screziata di sole nelle numerose belle giornate, oppure cupa e agitata nel grigiore delle nuvole trascinate dal vento, oppure ancora pesante e immobile come una coltre azzurra sotto l’afa del solleone. Questo c’era allora, e c’è ancora. Forse un po’ più torbido, per l’inquinamento dell’aria offuscata e avvelenata dallo smog urbano.
Quello che non c’è più è la verdeggiante collina di Posillipo, protesa sul mare, allora appena punteggiata dalle sagome di qualche villa e della Tomba di Schilizzi (il mausoleo Virgiliano: una buffa costruzione grigia sormontata da una cupola). Quello che non c’è più è la campagna scoscesa di Villanova, la costa che collega Posillipo alla collina del Vomero, alle spalle della nostra casa. Alle rare costruzioni che sottolineavano il carattere agreste di quelle parti della città (la grande villa Patrizi, la chiesetta di Sant’Antonio sopra Mergellina, gli sparsi e radi casolari, le ville signorili di Posillipo), alla campagna coltivata di vigne e ortaggi, si sono sovrapposte le orribili costruzioni realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta dagli improvvidi distruttori del più bel paesaggio del mondo: pseudoville, condomini, palazzine, viali e vialetti, muri di sostegno e muri di suddivisione dominicale. Una squallida periferia progettata e realizzata con la medesima cultura rapace e cretina che ha costruito le periferie delle tristi città di pianura: lì, seppellendo sotto i palazzi e le casette risaie abbandonate e terreni divenuti incolti “in attesa di valorizzazione edilizia”; qui, a Napoli, dove la natura aveva sorriso per secoli, sommergendo ogni cosa sotto un succedersi di lottizzazioni di cui soltanto i nomi ricordavano, con devastante ironia, ciò che c’era prima: Parco Làmaro, Parco Comola, Parco Ottieri, si chiamavano e si chiamano ancora quegli insediamenti parassiti.
“Le mani sulla città” hanno distrutto per sempre (neanche Vezio De Lucia, assessore alla Vivibilità nella giunta del sindaco Bassolino tra il 1993 e il 1997, potrà restituirmelo) il paesaggio della mia infanzia: lo hanno sepolto sotto una “repellente crosta di cemento e asfalto”, per adoperare le parole di Antonio Cederna. Della sua bellezza rimane in me, fortissimo, solo il ricordo, e naturalmente il rimpianto.
Era una grande casa. Dal cortile posto a un capo del lotto si salivano una dozzina di gradini, in un ampio vano coperto a botte e, varcata una porta sorvegliata dal cameriere, si entrava in un grandissimo atrio che occupava un quarto dell’intera superficie della casa. In fondo, una grande scala a tenaglia con ringhiera di ferro battuto dorato e bronzeo portava al piano superiore. Il soffitto, sorretto da quattro grandi pilastri cilindrici verniciati di marrone, era tappezzato di stoffa blu scuro. In fondo alla sala, al di là dello scalone, un bagno di marmo bianco e lo studio del nonno. L’atrio e lo studio occupavano quasi tutta la parete verso monte; quella verso il mare era occupata da una fuga di saloni: la sala da pranzo, con l’immenso tavolo finto Rinascimento e grandi quadri di frutta e fiori; il fumoir, con il classico caminetto finto e le morbide poltrone di pelle; il salottino veneziano verde e oro; in fondo, il grande salone da ballo, in stile Luigi XIV bianco e oro. Accanto alla sala da pranzo, il “riposto” con il grande armadio delle stoviglie e il montacarichi che conduceva le portate dalla cucina.
Non sempre noi piccoli (dopo di me, cadenzate di due anni, erano nate le mie sorelline Litta e Germana) mangiavamo in sala da pranzo, e raramente frequentavamo i saloni: salvo che per Natale, quando l’Albero, circondato dai regali, troneggiava nel salone da ballo; oppure quando i genitori chiamavano qualcuno di noi a salutare gli ospiti, esibendoci nella canzone patriottica di turno. I luoghi a noi riservati, e quelli che potevamo usare correntemente, erano al piano di sopra. Ad un estremo della casa c’erano le stanze dei miei genitori: la grande camera di damasco giallo, la stanza da toilette (con gli armadi a muro in stile veneziano, la grande toilette della mamma, il sofà per le sedute di bellezza), il grande bagno, lo studio di mio padre. All’altro estremo, l’appartamento dei nonni e di zia Giannina. Al centro, in corrispondenza del vano della scala e del ballatoio che la fiancheggiava, le nostre stanze. Sul lato a monte della casa, il guardaroba, il nostro bagno, un cucinino.
Ma ciò che soprattutto mi affascinava era lo scantinato. Una piccola scala, a fianco di quella principale, conduceva nel vasto dominio condiviso da nonna Carmela, dal cuoco Luigi Massaro e da Nannina, protetta e confidente della nonna. Mitico era per me don Luigi. Ogni volta che uscivo gli lanciavo uno sguardo e un saluto dalle finestre inferriate a filo di marciapiede. Piccolo di statura, asciutto, grigio di capelli, sovrastato dal l’alto cappello immacolato regnava, aiutato da uno sguattero, nella grande cucina: sull’immenso tavolo di marmo tagliava, batteva, impastava, scorticava, sventrava, disossava, farciva; nell’acquaio di marmo lavava le verdure, i pesci, le carni; finalmente, sui numerosi fuochi del lungo piano di cottura, alimentato dalla brace sempre rosseggiante, amministrava le pentole mescolando e agitando, scoperchiando, assaggiando, aggiungendo sapori e odori, spostando dal fuoco più vivo (là dove il piano di ghisa della cucina si apriva sul fuoco) ai luoghi più lontani dal fuoco. Un maestoso mortaio di marmo, appoggiato al suo trespolo di legno massiccio, subiva i colpi del pesante pestello sbattuto dallo sguattero di turno per preparare le scorte di pangrattato, oppure per pestare la bianca carne di pollo con la quale, mischiandola con una densa béchamel, venivano preparate a bagnomaria le chinelle di pollo, la mia pietanza preferita.
Era un cuoco d’alto lignaggio, don Luigi. Era stato chef sui transatlantici, e dalle lontane terre oltre oceano aveva riportato un pappagallo, di nome Loreto. Non abitava da noi. La sua casa, che divideva con la moglie e con Loreto, era sul Corso, più avanti, verso la fermata della Ferrovia Cumana. Ma spesso, prima di tornare a casa, si fermava nel cortile a fumare una sigaretta con il cameriere o con l’autista. Allora poteva essere interpellato, ed emanava massime piene di saggezza. “Don Luigi, come finisce la guerra, chi vincerà?” gli chiesi in un’estate del luglio 1941. “Signuri’, tra i vinti non ci saranno i vincitori”. La Sibilla cumana non avrebbe potuto essere più abile.
La cucina, e la nostra golosità, erano alimentate dalle cantine, altra componente essenziale dello scantinato. Occupavano la parte verso monte. Chiuse da pesanti cancelli, Nonna Carmela le apriva e chiudeva con un gigantesco mazzo di chiavi che le pendeva alla cintola. Non so bene che cosa ci fosse: ricordo solo le forme, grandi e piccole, di rossa e trasparente cotognata, che profumava i primi mesi dell’inverno, i formaggi, le bottiglie nelle rastrelliere, i mucchi di patate, i grandi barattoli dalla bocca tappata con la carta oleata e lo spago. E ricordo come le cantine venivano approvvigionate.
Due volte all’anno arrivavano, sui barrocci o a piedi col carretto o il mulo, i contadini che conducevano a colonìa parziaria le numerose proprietà del nonno: piccoli appezzamenti di fertile orto o frutteto nei paesi confinanti (Afragola, Casoria, Giugliano, Qualiano, Vico di Pantano), per l’uso dei quali i coloni pagavano un canone (l’estaglio) corrisposto parte in moneta e parte in natura. Varcata la porta di servizio le coppie di dividevano: l’uomo andava su, nello studio, dove don Achille Di Santo, aiutante di nonno Eduardo, ragioniere e contabile, riempiva di minuta grafia il grande registro annotando la quantità di banconote rossicce che i coloni estraevano da logori portafogli e dai penetrali della biancheria, e i prodotti affluiti nelle cantine. Qui nonna Carmela e Nannina ricevevano le donne, e contavano e sistemavano le galline, i capponi e i tacchini collocandoli in una grande stia, i sacchi di fagioli, di grano e granturco, le pannocchie, i conigli (che venivano subito trasferiti alle competenze di don Luigi), le cassette di pomodori, melanzane, peperoni, carote, sedani, cavolfiori, teste d’aglio, cotogne, mele annurche e renette.
Un personaggio importante era Vicienzo Ucciero, mezzadro di Vico di Pantano. Era la più grande delle nostre proprietà: due o trecento ettari di palude, tra il Volturno e il Lago Patria. Luogo di grandi cacciate (ricordo le fotografie dove alcuni massicci signori baffuti, con lunghi schioppi, esibivano colline di uccelli più piccoli e sorreggevano ghirlande di anatre e altre specie commestibili), e di bufale. Vicienzo era il bufalaro. Sempre con la febbre terzana, amministrava bufale, mucche e qualche moggio (tre moggi sono un ettaro) di campagna coltivata a fagioli e ortaggi. Aveva anche un grande pozzo nel quale andavano a mangiare i conigli: vi si gettavano dall’alto carote e altre golosità; poi, quando serviva, si calavano le piccole saracinesche che chiudevano le gallerie dalle quali i conigli entravano e uscivano, e si sceglieva quello da cucinare, o la coppia da dare alla Signora perché li portasse al Corso, nella stia dello scantinato.
Non tutte le derrate venivano conservate a lungo. Davano luogo a conserve, oppure venivano consumate (subito o previa frollatura), oppure veleggiavano verso altri lidi. Avevano diritto a due capponi o a una dozzina di polli, a mezzo sacco di fagioli o un paio di conigli, a un tacchino o a un canestro di mozzarelle di bufala tutte le persone che durante l’anno avevano collaborato con la casa: i medici e il pediatra professor Franzì, il dentista D’Ambrosio e le sarte Buonanno, la maestra privata signora Martini e la manicure della mamma, l’infermiera che veniva a fare le iniezioni e la signora Crisafo che m’insegnava il francese, le sorelle La Morte che venivano tutte le settimane a rammendare e sistemare i vestiti, e la stiratrice. Quantità più sostanziose di prodotti venivano consegnate alle Piccole suore dei poveri, ai beneficati del parroco della chiesa dell’Arco Mirelli, alle Dame di San Vincenzo dei Paoli.
Era una famiglie benefica, ed era una famiglia ricca. Come lo era diventata? Il luogo d’origine dei Salzano era Casoria, un grosso borgo agricolo, dagli anni Cinquanta inglobato nella periferia, subito al di là dell’aeroporto di Capodichino (una parte del quale fu costruito su terreni Salzano, indennizzati dopo decenni di vertenze). Era probabilmente, fino all’Ottocento, una famiglia di origine contadina, i cui capifamiglia erano diventati mercanti o artigiani di campagna. Secondo i ricordi di zia Giannina, produttori e mercanti di vino. Borghesia laboriosa di campagna, ma già aperta a interessi urbani: i fratelli Eduardo e Mattia, i prodotti migliori di una covata di sette tra fratelli e sorelle, furono mandati alla celebrata scuola napoletana dei Padri Barnabiti. Abitavano un dignitoso palazzo, costruito da un Mauro Salzano attorno alla prima metà dell’800 nella strada principale del grosso borgo agricolo.
Senza abbandonare le loro radici paesane (il palazzo rimase loro fin dopo la Seconda guerra mondiale) all’inizio del nuovo secolo si trasferirono a Napoli; in un palazzo costruito da un Mauro o un Eduardo Salzano a via San Domenico Soriano, vicino a Piazza Dante. Mio padre e sua sorella Sisina, nati del 1902 e nel 1903, avevano visto i natali a Casoria, la nascita di Giannina, nel 1907, era stata la prima a Napoli.
L’artefice della fortuna della famiglia fu, all’inizio del secolo, il mitico Zio Mattia, fratello di Eduardo: ingegnere, abile imprenditore, col socio Gaetanino D’Aniello (di una benestante famiglia di Villaricca, un altro borgo della campagna napoletana) mise su un’impresa di costruzioni specializzata in lavori di bonifiche e di grandi infrastrutture, nel Napoletano e in Puglia, nel Foggiano. Mattia morì di febbre spagnola nel 1918. Da allora degli affari di famiglia dovette occuparsi Eduardo.
Mio nonno però non era tagliato per gli affari. Laureato in medicina, esercitò la professione di chirurgo all’Ospedale dei Pellegrini (una qualificata istituzione di beneficenza della nobiltà napoletana), dove divenne assistente del famoso chirurgo Caccioppoli, fratello del grande matematico Renato. Ma la chirurgia era un’attività sociale e benefica: il reddito, e la principale occupazione, erano le terre e l’impresa.
In vacanza, Eduardo portava la famiglia soprattutto a Capri, isola frequentata dalla famiglia Salzano fin da prima della guerra 1914-1918. Abitavano all’Hotel Quisisana. Invece la famiglia Diaz (anche Armando era innamoratissimo di Capri) affittava una villa. Lì le due famiglie si conobbero: le bambine Giannina, Sisina, Irene e Anna esploravano le campagne e le marine di una Capri frequentata solo da pochi turisti come Turgeniev e Gorki, e dai soci dei circoli nautici che si spingevano fin lì nelle gite con il cutter. A volte andavano in montagna, soprattutto a Cortina d’Ampezzo, dove diventarono amici di Alberto Pincherle, poi noto come Moravia. Le leggende familiari lo raccontano in flirt con zia Giannina.
Non ricordo molto di nonno Eduardo. La sua presenza gioviale e vociante, il suo affetto ruvido ed espansivo, i suoi munifici regali e il suo spiccato accento napoletano (dal quale la mamma mi teneva lontano, per evitare che inflessioni poco eleganti inquinassero il mio eloquio in formazione) mi accompagnarono solo fino ai miei cinque anni. Nel 1935 un colpo apoplettico lo portò via all’improvviso.
Non ricordo i suoi funerali: forse i bambini non vi erano ammessi. Furono certo grandiosi. Dovette accompagnarlo una vastissima corte di persone dei ceti più diversi, legate al suo ricordo (e ai suoi redditi) dalla sua trasbordante generosità. La sua morte concluse una fase della vita della famiglia e ne aprì un’altra, posta sotto un diverso segno: non il corno ridondante dell’abbondanza e del fasto, del lusso e della generosità scialona, ma la bilancia della parsimonia, la severità dignitosa di un benessere difeso con accortezza e, quando le vicende della Storia lo richiedevano, con sacrifici e rinunzie.
Fino alla morte di nonno Eduardo suo figlio Mauro, mio padre, non aveva lavorato. Il nonno l’aveva tenuto lontano dagli affari. I miei genitori dovevano seguire le loro inclinazioni (vere o presunte che fossero) al divertimento e al lusso. Laureato in giurisprudenza, Maurino aveva ottenuto la libera docenza con alcuni studi, pubblicati dall’editore Loffredo, sul Negozio giuridico e sulla Pubblica amministrazione. Il suo ruolo di rilievo nella vita mondana aveva visto accrescere il suo splendore con il matrimonio con Anna Diaz, figlia del Duca della Vittoria e legata alla famiglia reale. Fascista come lo erano rapidamente diventati quelli della sua generazione e della sua classe, apparteneva a quella cerchia di persone che, senza esercitare direttamente il potere politico né quello economico, contribuivano però a costruirgli l’immagine, a fornirgli la prima fascia del consenso, a formargli l’opinione, la cultura, le parole. A formare una certa fronda, anche. L’aristocrazia napoletana gravitava infatti sulla corte di Umberto di Savoia e della sua moglie Maria José, vicina all’ala intellettuale dei Ciano e dei Bottai.
Il confine tra mondanità e impegno sociale era labile, seppure esisteva. Non so se contasse di più, nella sua vita e nel ruolo sociale, la sua carica di Presidente dell’Opera nazionale balilla di Napoli, o il suo carisma di spadaccino, ballerino, velista, dirigente di mitici circoli nautici, oppure le feste che, con la mamma, organizzava nella casa del Corso o a Villa Diaz.
Mammà era sempre il centro delle feste e dei salotti. Spiritosa, brillante, elegante: era davvero “molto chic”. Aveva dei bellissimi capelli castani con sfumature rosse, che ravvivava con l’henné. Amica fin da piccola dei Salzano, temeva però che il dialetto napoletano, correntemente adoperato da nonno Eduardo, corrompesse la mia lingua. E non le piaceva che, quando andavo a salutare nonna Carmela, lei mi prendesse nel letto.
Erano una coppia molto bella, e avevano moltissimi amici: Gino e Didina Santasilia (abitavano in un bellissimo palazzo a Piazza dei Martiri), la “Baronne” Anna Ricciardi, Gigione (che mi cantava: “O capitan, c’è un uomo in mezzo al mare”), i più anziani Marcello Orilia (arbiter elegantiarum: ordinava le camicie a dozzine a Londra, dove andava ogni anno per aggiornare il guardaroba), Ettore Ricciardi, i baroni di feudi calabresi Baracco e Compagna, e tanti altri che costituivano la crema dell’aristocrazia napoletana. Il salotto della casa del Corso era frequentato, ma le feste più belle erano, d’estate, a Villa Diaz, al Vomero.
Un grande edificio bianco, immerso nel verde, con un giardino che si concludeva con una lunga balaustra bianca aperta sul Golfo di Napoli. Così era la villa che la Città di Napoli aveva donato al Generalissimo, dopo averne decretato il trionfo. (Per il vero, avevano deciso di regalargli una villa a Posillipo, ma lui aveva preferito quella del Vomero). Era a cento metri di quota sopra la casa del Corso, probabilmente era in origine parte della più grande e famosa Villa Floridiana.
Quando, d’estate, ci trasferivamo lassù (con i genitori, le sorelline, le governanti), appena grandicello scendevo attraverso gli orti, i sentieri, le scalette e in dieci minuti ero al Corso. Ricordo ancora il sapore dei pomodori colti al volo: un sapore scomparso, mai più ritrovato, cancellato dall’omologazione delle colture artificiosamente allontanate, con l’aiuto della chimica e dei teli di plastica, dalla natura e dal sito.
Belle le feste a Villa Diaz, d’estate. Ricordo i grandi fuochi artificiali che le coronavano. Ricordo le signore che, accompagnate dalla mamma, venivano a vederci addormentati nei nostri lettini. Erano feste alle quali erano certamente invitati, e a cui partecipavano, il Principe ereditario Umberto di Savoia (che poi divenne Umberto II, il “re di maggio”) e la sua bella moglie alta e dagli occhi cerulei, Maria José.
Per me Villa Diaz erano soprattutto i giochi estivi, nel grande giardino. Pochi erano i miei amici, rare le loro visite. Ma mi divertivo molto a giocare con la terra dei vialetti e l’acqua che facevo colare dai rubinetti per l’irrigazione, costruendo col fango argini e canali. Mi divertivo ad arrampicarmi sui lecci dai tronchi rugosi, costruendomi dei rifugi dove mi nascondevo in attesa che mi chiamassero per la merenda o la passeggiata. E mi divertivo, quando ero più piccolo, con il Capitano Gamboni Mazzitelli.
Così si chiamava l’inquilino dell’ultimo dei tre piani della villa, affittuario di zia Irene, sorella di mia mamma (a quest’ultima era toccato il piano di mezzo, e nonna Sara con zio Marcello, il terzo dei figli Diaz, occupava il piano rialzato e lo scantinato). Capitano di lungo corso in pensione, molto vecchio (aveva probabilmente l’età che ho adesso che scrivo), era abilissimo con gli attrezzi di falegname. Mi aveva costruito una daga e uno scudo, accuratamente verniciati, e altri attrezzi per guerreggiare. Ricordo che una volta, mentre duellavamo, si ferì a una mano e perse (così mi sembrò) molto sangue. Ne rimasi scosso, con un senso di colpa da cui provai di liberarmi ipotizzando che la causa fosse stata un temperino che portava in tasca e che s’era inopinatamente aperto.
Quando nonno Eduardo morì, mio padre dovette piombare nel faticoso mondo degli affari. Scoprirono che tutto era andato a rotoli. La crisi del 1929 aveva picchiato duro, ma nonno Eduardo aveva cercato di nascondere e di aggiustare. L’indebitamento era molto consistente. Papà e nonna Carmela chiesero consigli autorevoli. Il livello di competenza più alto fu raggiunto consultando Raffaele Mattioli, il mitico banchiere e mecenate, fondatore della Banca Commerciale e dei Classici della letteratura italiana dell’Editore Ricciardi. Mattioli consigliò di dichiarare bancarotta, per tentar così di salvare qualcosa. Maurino non volle. Gli sarebbe sembrato di tradire la memoria del padre, di sputtanarlo dopo morto. S’incaponì. Fece ogni sforzo per tacitare i debitori, vendendo quello che poteva e riprendendo l’attività dell’impresa. In poche settimane ricordo che i suoi capelli, da neri quali erano, diventarono grigi. Non aveva ancora quarant’anni.
Ero un bambino molto perbene. Una bambinaia di Olevano romano, balia Nunziata, quando ero piccolo, una governante tedesca, Schwester Maria Simon, dopo i cinque anni badavano alla mia pulizia, alla custodia, al nutrimento; sorvegliavano i miei giochi, mi accompagnavano a passeggiare o ai giardinetti. Una signora ginevrina, madame Crisafo (aveva sposato un cuoco italiano) mi veniva a prendere il mercoledì pomeriggio e mi portava a spasso insegnandomi il francese. Frère Jaques e i libri di Madame de Ségur, con i libri della Scala d’oro, Struwelpeter (così si chiamava in tedesco Pierino il porcospino), le favole di Grimm, Perrault e La Fontaine e le canzoncine dei bambini tedeschi (mi commuoveva soprattutto Roselein rot, un leed di Schiller e Schubert) sono stati i primi alimenti della mia cultura letteraria plurilingue.
A queste donne era affidata anche la mia educazione sessuale. Ricordo balia Nunziata che mi puliva il pisellino mentre mi faceva il bagno. Ricordo Schwester Maria quando il suo sguardo gelido e severo, dietro gli occhialetti scintillanti bordati d’acciaio, mi rimproverava senza parole scoprendomi a masturbarmi. Ricordo madame Crisafo che denunciava il fatto che giocherellavo col sesso attraverso le tasche dei pantaloni, provocando la repressiva cucitura delle tasche.
La mamma era vicina (dormivo nella stanza accanto alla sua), ma lontanissima. La mattina potevamo andare a salutarla, nel suo grande letto rivestito di damasco giallo, solo quando la suoneria di un apposito campanello collocato nella mia stanza veniva attivato dalla sua mano. La sera, veniva lei a salutarci quando tornava a casa, dai salotti che con papà frequentava. Buono e dolce era il suo profumo odoroso di mughetto, Arpége di Lanvin; gradevole e pungente l’odore dello smalto con cui curava le sue unghie, sdraiata sul canapè della toilette. La severità di Schwester Maria era un prolungamento della sua, ma in lei c’era una morbida dolcezza che veniva concessa con prudenza ed ironia. Come capii più tardi, con troppa parsimonia rispetto al mio bisogno.
Papà era più lontano, più esterno; probabilmente, anche più occupato. Era accanto alla mamma, ma in secondo piano. Mi sarebbe piaciuto seguirlo quando faceva (non so in che modo) il comandante dei Balilla: ragazzi appena un po’ più grandi di me, che raramente intravedevo. Mi sarebbe piaciuto andare nella favolosa barca a vela che possedeva, la Silphea II, un cutter col fasciame di mogano il cui modellino ammiravo (fu venduto dopo la crisi). Ma fino ai cinque anni ero evidentemente troppo piccolo per queste cose e, dopo, la crisi doveva aver cambiato le abitudini. Benché noi non ce ne fossimo accorti, la vita era diventata più seria, meno giocosa.
Dalle parole di balia Nunziata cominciai a conoscere l’Amore. Compariva nelle canzonette che canterellava quando mi accompagnava ai giardini (“Parlami d’amore, Mariù, tutta la mia vita sei tu...”), in carrozzella o in passeggino, nelle chiacchiere che faceva con le altre bambinaie, negli scherzi che facevano con noi. Non avevo ancora cinque anni quando mi innamorai di Giovanna Pignatelli, che ne aveva tre, andava ancora in carrozzina e aveva dei lunghi boccoli biondi. Non fu un amore che durò a lungo. E non fu neppure ricambiato: questo, da allora, mi è successo abbastanza spesso. O almeno così ho pensato.
Alludeva all’Amore anche Rita, la nipotina di Nannina, che qualche volta la zia, quando veniva da Casoria a Napoli per aiutare la nonna, portava con sé. Mi piaceva, Rita. Mi piaceva guardare le sue cosce sotto i vestiti, buttandomi per terra. E mi piaceva come cantava:
E’ arrivato l’ambasciatore
con le piume sul cappello
E’ arrivato l’ambasciatore,
a cavallo d’un cammello,
Ha portato una letterina
dove scritto sta così,
tu mi piaci, Ninì ti darò tutto il cuor
è arrivato l’ambasciator.
E ancora di più mi piaceva quando cantava:
All’alba quando spunta il sole
là nell’Abruzzo tutto l’or
le prosperose campagnole
discendono le valli in fior.
Ma io, non sapendo che cosa fosse l’Abruzzo, capivo: La Nella bruzza tutto odor.
Avevo sette od otto anni quando, un pomeriggio d’estate, mentre scendevo la lunga gradonata che dal Vomero conduceva al Corso Vittorio Emanuele, ebbi una improvvisa illuminazione: compresi (o pensai) che l’Amore era il pensiero centrale di tutti, uomini e donne. Perché mi balenò così intensamente questo pensiero? Non riesco a ricordare. Ma ricordo che mi colpì con l’evidenza di un profumo intenso e indiscutibile: ebbi la sensazione di aver raggiunto una verità che fino allora non avevo visto.
Giocavo molto da solo: credo che questo capitasse spesso ai bambini per bene, che non fossero forniti di una banda di fratelli. Le sorelline erano piccole ed erano femmine: due buone ragioni per condurre vite completamente diverse. Ricordo, da piccolissimo, una grande cucina per bambini, con le provviste vere (lenticchie, pastina) portate da don Luigi, forse premio di consolazione dopo qualche malattia. Ricordo un cannone rosso, con le ruote, molto bello, ma non sparava. Ricordo una sciabola di latta e un cappello da bersagliere, sotto l’albero di Natale del 1934 e, alla Pasqua dell’anno successivo, una bellissima bicicletta rossa che mi regalò zio Marcello, fratello della mamma. Ricordo una macchinetta che, mossa da uno stantuffo premuto dal pollice, emetteva tutte le scintille che una pietra focaia può produrre, e riusciva a illuminare gli angoli bui della stanza.
Era simpatico zio Marcello Diaz, Duca della Vittoria per eredità. Era un avventuroso. Pilota, volontario nella guerra d’Abissinia (io registravo su di una carta geografica, con bandierine patriottiche, le città conquistate dalle Camicie nere), dove fu abbattuto riportando molte gloriose ferite, e nella guerra di Spagna. Poi si fece dare una concessione a Derna, in Somalia, dove coltivava banane. Arrivava sempre pieno di regali generosi e strani. Era quello che mi trattava più da grande, sia pure sfottendomi bonariamente.
La domenica, zia Giannina mi portava al Catechismo, dalle suore del Sacro Cuore, a piazza Amedeo. E tornando a casa mi comprava il Corriere dei Piccoli, che leggevo avidamente. Erano buffe le suore, intabarrate nei veli neri, con le dita fredde che sporgevano dai mezzi guanti. Ed era buono il caffellatte nelle grandi scodelle bianche, e il pane e cioccolata che ci davano dopo la comunione.
Fino alla seconda elementare studiavo a casa. Veniva ogni mattina la signora Martini, una volta alla settimana controllava i compiti e li correggeva, firmando le pagine con la matita rossa o con quella blu. Al colore della firma corrispondeva l’entità del premio che mi dava il nonno: due lire per la firma rossa, cinque lire per la firma blu. Non mi divertiva studiare. Nella mia stanza c’era una scrivania costruita apposta per me: un ripiano inclinato doveva contribuire a curare la scoliosi. Il ripiano era incernierato in alto. Avevo preso l’abitudine di appoggiare sotto il ripiano un libro d’avventure che leggevo invece di studiare, pronto ad abbassare il piano se sentivo qualcuno avvicinarsi.
Quando avevo finito di studiare mi era permesso di andare ai giardinetti, al di là della strada. Erano giardinetti privati, per gli ospiti dei due alberghi vicini, il Britannique e il Parker, entrambi appartenenti a una famiglia svizzera, Löhliger. Avevano due figlie, Silvia e Mirta. Silvia era più grande di noi, mi piaceva molto, a lei dedicai i miei primi dormiveglia erotici. Il giardinetto del Parker fu in definitiva il mio primo esperimento di socializzazione; guardie e ladri, nasconderella, e cerimonie rituali di impiccagione e squartamento delle bambole di Mirta erano i giochi consueti. A rivedere oggi quel giardinetto (poco più di un’aiuola, un po’ di alberi e qualche cespuglio) sembra incredibile che per noi potesse essere un’arena così vasta.
Quello che c’era fuori dalla casa e dal suo cortiletto, dal giardinetto del Parker, dalle passeggiate strettamente controllate e protette dalla balia, dalla Schwester o da madame Crisafo, era sconosciuto e rischioso. Anche affascinante, a volte: peccato che i bambini per bene non potessero attaccarsi al paraurti posteriore dei tram sferraglianti, e neppure far arrabbiare il conducente mettendo i fulminanti tra ruota e rotaia oppure, addirittura, staccando il trolley e provocando l’arresto del tram. Neppure il “carruoccio” era permesso: quel carretto costruito con un rozzo pianale di legno, quattro cuscinetti a sfera come ruote (le due davanti montate su un asse incernierato al pianale e comandato da una funicella a mo’ di timone), con il quale si lanciavano in spericolate corse lungo le discese, tra i carri e le automobili.
Uno di quelli con cui giocavo di più era mio cugino Luigi. Aveva esattamente un anno più di me. Figlio di zia Sisina (sorella di mio padre) e del colonnello Franz Carignani, veniva da noi per lunghi pomeriggi. Mi sembrava che la merenda fosse più buona quando veniva lui: forse perché era consentito scegliere, tra lo sciroppo d’amarena e quello d’orzata. A volte facevamo giochi tranquilli, con i soldatini o con le carte, a volte facevamo lotte furibonde, nelle quali generalmente vinceva lui: il combattimento cessava quando riusciva a infilarmi sotto al letto, oppure quando entrava in camera la Schwester.
Diventati un poco più grandi inventammo un gioco bellissimo. Si giocava con le fiches, la base era il gioco “pulce”: spingendo con una fiche sul bordo di un’altra, questa saltava: se copriva per un pezzo quella dell’avversario quest’ultima era “morta”. Avevamo perfezionato molto il gioco. Grandi battaglie avvenivano tra eserciti contrapposti: uno era arroccato in cittadelle formate da file di libri accortamente disposti, l’altro attaccava. Un grande foglio a quadretti, sul quale era tracciata una carta geografica (le città, le strade, gli stati contrapposti), conteneva la strategia. Un quadernetto riportava le posizioni e la consistenza degli eserciti. La prima parte del gioco avveniva con i dadi; contando i quadratini: gli eserciti avanzavano, fino allo scontro, che avveniva con le fiches tra i libri. La guerra “vera” e gli sfollamenti ci impedirono di proseguire quel bellissimo gioco. (Più tardi qualcun altro lo reinventò, e brevettò il gioco Risiko).
Un altro che veniva spesso a giocare (ma divertimenti più semplici e tradizionali) era Luigi Rodinò, dei Rodinò di Migliore. Non mi piaceva molto, mi sembrava un po’ troppo melenso e “perbene”. Eppure rimasi malissimo quando, correndo sulla grande terrazzona che copriva la casa, sbatté con la gola contro un filo per stendere la biancheria. Le bambinaie lo raggiunsero subito; con mio sollievo, aveva riportato solo una escoriazione.
Era bellissima la terrazza. Copriva l’intera casa, quindi era grandissima. Tutta pavimentata di piastrelle esagonali bianche e rosse, circondata da una balaustra di ferro nero intercalata da pilastrini sui quali fioriere di terracotta ospitavano qualche pianta. Di lì vedevo, nella casa vicina e più bassa, al di là del cortiletto, giocare dei bambini più ricchi di me di amici e di feste giocose. Un giorno lanciai loro dei sassi, non per offendere ma per richiamare la loro attenzione. L’intenzione fu compresa. Cominciò uno scambio di soldatini, con una teleferica di fortuna che Vittorio De Feo (così si chiamava il più grande dei due fratelli vicini) industriosamente costruì.
Diventammo molto amici con Vittorio. Aveva un anno più di me. Tentammo (avevo ormai dieci anni) dei piccoli commerci: cercavamo di vendere al mio cuoco foglie di basilico, senza molto successo. Più arditamente, fondevamo soldatini di piombo che versavamo in un ditale, costruendo pallottole che, dalla loggetta sullo scalone di casa mia, lanciavamo sulla zucca pelata di Ottavio, il cameriere. Il quale un giorno s’arrabbio, acchiappò Vittorio e minacciò di metterlo nella vasca innaffiandolo d’acqua fredda.
A volte, d’estate, quando stavamo in città ci portavano al mare. Ricordo il viaggio verso Lucrino, una grande spiaggia pulitissima e deserta, subito al di là della collina di Cuma. Percorrevamo a piedi un pezzo del Corso, fermandoci dalla drogheria Stinca a comprare le caramelle, e raggiungevamo, subito dopo la casa di Luigi Massaro, la stazione della ferrovia Cumana. Era divertente guardare dal finestrino il paesaggio prima urbano poi, dopo Pozzuoli, aperto sulla Baia. Come tutti i bambini, raccoglievamo conchiglie, facevamo i castelli di sabbia, prendevamo il bagno nelle ore stabilite e ci facevamo asciugare dai grandi lenzuoli a spugna. Più tardi, su quella spiaggia fecero arrivare la grande cloaca che portava i liquami delle fogne napoletane.
Qualche volta andavamo a Villa Pavoncelli, a Posillipo: un luogo dove sarei tornato spesso da grande. Era una villa di amici. Una serie di scalette e corridoi umidi ci portava giù, alla spiaggetta contenuta tra il muro di sostegno della villa e una breve scogliera, nei cui anfratti, mormoravano, si celavano grandi “ranci felloni”. Lì Schwester Maria mi insegnava a nuotare, con teutonica regolarità. Indossava un costume olimpionico, tutto d’un pezzo, nero. Al polso conservava l’orologio. All’ora giusta scendevamo in acqua, nuotavamo con lente bracciate per un numero stabilito di minuti, poi tornavamo indietro.
Noi bambini stavamo in un angolo della spiaggia. Altrove, sulla sabbia e sulla scogliera, chiacchieravano e giocavano i grandi, salutavano festosi gli amici che arrivavano a nuoto buttandosi dalla barca a vela giunta dal Circolo, si cimentavano in grandi gare di palla a nuoto - nelle quali, come al solito, mia mamma eccelleva.
Alcune volte, quando ero ormai più grandicello, mammà mi portava a villa D’Avalos. Lì non c’era spiaggia: una banchina di cemento, e scogli. Meno bambini, più giovanotti e ragazze. I D’Avalos erano una famiglia colta, grandissimi appassionati di musica. Francesco, un ragazzo mio coetaneo, diventò più tardi un famoso direttore d’orchestra e compositore. Ammiravo molto questo ragazzo che sapeva riconoscere autori e stili diversi, valutare cantanti, parlare di opere e di sinfonie con i grandi.
E’ solo dalla terza elementare che cominciai a frequentare una scuola. Andavo al Pontano, la celebre scuola dei Gesuiti dalla facciata adornata dai busti di tutti gli illustri frequentatori divenuti famosi, dove tornai più tardi, dopo la guerra, per il liceo. Altre due classi le feci alla Ravaschieri, una scuola pubblica. Non ho conservato molto di quelle esperienze. Frequentavo solo i bambini per bene come me, con i quali ci vedevamo fuori, ma seguendo complicati rituali: non ci s’incontrava casualmente, bisognava che ci fosse un invito trasmesso dall’alto, dalle governanti o, addirittura, dai genitori.
Alla Ravaschieri m’innamorai, naturalmente, della prima della classe, la bellissima Richetti. Anche lei alimentò i miei sogni erotici. Una volta temetti di averle fatto seriamente male: l’avevo colpita con un rotolino di carta lanciato con l’elastico (un gioco allora molto diffuso negli intervalli della ricreazione) e il giorno dopo non era venuta a scuola: per mia colpa, pensai.
Più tardi andai, per la prima media, all’Umberto I, una scuola grande e affollata. Non ricordo grandi amicizie. Ricordo il contadino che, fuori dal cancello della scuola, vendeva fichi d’India con l’affollato gioco della “appizzata”: bisognava “appizzare” con un coltellino spuntato, lasciato cadere dall’alto sulla cesta, un fico e sollevarlo portandolo fuori dalla cesta. Costava “un soldo semplice, quattro soldi continuata”: la “continuata” era praticata dai più esperti, potevi portar via tutti i fichi che riuscivi a sollevare fino al primo errore. Credo di non aver mai giocato neppure la “semplice”.
La Villa Diaz al Vomero, più in basso Casa Salzano al Corso. Prolungando verso il mare la linea ideale che congiunge questi due punti si tocca un terzo punto in Via Caracciolo. Lì c’è oggi il monumento ad Armando Diaz: una statua equestre posta su di un alto parallelepipedo di marmo bianco, su cui è scolpito in grandi caratteri il Bollettino della Vittoria, firmato: “Armando Diaz, Duca della Vittoria”. Mi portarono con nonna Sara a vedere la fonderia, verso Poggioreale, nella quale si stava elaborando la grande statua: fuoco, fumo e odor di ferro fuso riempiono ancora le narici della mia memoria.
L’inaugurazione fu una grande cerimonia. In una fotografia rivedo nonna Sara e mamma, con tailleur e cappellini con la veletta nera, zia Giannina con velo nero in lutto di nonno Eduardo, e me stesso (avevo sei anni), con eleganti pantaloncini dalla piega ben stirata, camicia col collo tondo, gilet grigio e giacchetta sul braccio: doveva far caldo, quella mattina, a Via Caracciolo. Signori in orbace e fez e militari in alta uniforme ci circondavano, e i balilla facevano da picchetto d’onore.
Anche a me fu imposta l’uniforme, più tardi. La divisa di Figlio della lupa la misi solo per casa. Ma quando frequentai le medie, all’Umberto I, era obbligatorio indossare il sabato la divisa di Balilla e andare alle adunate. Ricordo la scomodità delle doppie calze (i calzettoni lunghi, grigioverdi, senza piede e con la stringa sotto, e i calzini neri arrotolati, che scendevano sempre nelle scarpe) e della larga fascia elastica che sostituiva la cinta (e lasciava sfuggire sempre l’orlo dei pantaloni), la noia delle lunghe e inutili attese (di che cosa?) nei piazzali assolati e polverosi. Fui anche, per un certo periodo, Marinaretto, ma la cosa non era molto diverse: solo la divisa era più realistica: rinviava a un mestiere vero, il marinaio.
In vacanza andavamo a volte a Selva di Val Gardena. Era proprio bello. Ricordo l’aria pulita, lo scroscio dei torrentelli, l’intenso profumo delle assi di abete sopra le quali giocavamo, le belle passeggiate sulle vicine montagne, le fragole e le stelle alpine che raccoglievamo. Mammà era bravissima, la chiamavamo “occhio di lince”, scopriva fragoline saporitissime dove vedevamo solo distese di foglie, e stelle alpine lontane decine di metri.
Andavamo in treno, e dovevamo essere una bella comitiva: mammà, noi tre, la bambinaia di turno, la cameriera della mamma. Quest’ultima si chiamava Iolanda, era friulana di Tarso. S’innamorò del postino di Selva, Albert Mussner. Prima della guerra lasciò Napoli, sposò il suo Alberto il quale, oltre che il postino, faceva l’intagliatore di legno; era specializzato in aquile, e ne faceva di tre tipi: una guardava in avanti, una a destra e una a sinistra: sempre le stesse aquile, più grandi o più piccole, ma senza mai trasgredire dai modelli prescelti. Dopo aver concluso una lite con i parenti per ottenere un pezzo di terra, Iolanda costruì una casa in stile friulano (gliela costruirono i fratelli). Era davvero bruttissima. Poiché cominciavo ad essere spiritoso dicevo che era il più bel posto dove abitare, perché era l’unico punto della valle di Selva da cui non si vedesse Villa Iolanda.
Una volta il nostro treno si fermò in una stazione sulla linea del Brennero, passava il treno speciale con il quale Mussolini andava a Monaco per incontrare Hitler. Fu stipulato il patto con il quale gli anglofrancesi lasciavano mano libera a Hitler per rivolgere le sue truppe verso l’Oriente bolscevico. Eravamo alla vigilia della seconda guerra mondiale: una guerra nella quale non c’era nessun nonno Armando a renderci vittoriosi
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.La traduzione e' tratta da "Lieder", a cura di Vanna Massarotti Piazza,
con una prefazione di Claudio Magris, e testi introduttivi di G. Bevilacqua e M. Just, Vallardi-Garzanti 1982.
Per tornare a Napoli fu necessario aspettare il turno su di un camion. Le strade erano interrotte, le ferrovie non funzionavano. Non so come, mediante quali canali i miei genitori riuscissero a organizzare quel viaggio. Era un camion scoperto, sul quale erano accumulate le masserizie di alcune famiglie e, sopra, i passeggeri. Del viaggio non ricordo gran che; ricordo l’arrivo a Napoli. La strada era un canyon, tra due alte rive di macerie, alte quasi quanto lo erano le case demolite dai bombardamenti.
Andammo ad abitare a Palazzo Ottaviano, un palazzo nobile all’inizio di via Chiaia, dove c’era, e c’è ancora, la famosa pasticceria Caflisch: di ottocentesca origine svizzera, come di origine olandese o belga erano le altre famose ditte di cioccolata e dolci di Van Bol & Feste e Gay & Odin. Era un appartamento di amici (Fernanda Del Balzo di Presenzano, nota per la passione per il gioco, che soddisfaceva a Montecarlo), molto bello e grande, al primo piano, con una gigantesca terrazza a livello. Aveva un solo inconveniente: una stanza era stata attraversata da una bomba fortunatamente non esplosa, che però con il suo peso aveva sfondato tetto e pavimento: si poteva attraversare la stanza solo sullo stretto spazio addossato alle pareti. Ma aveva una gigantesca terrazza, aperta su Via Chiaia, proprio sul centro elegante della città.
La casa del Corso era stata veduta, non ricordo se prima del nostro arrivo a Napoli o subito dopo. Per 10 milioni. E si scoprì che l’impresa di papà praticamente non esisteva più: la guerra aveva travolto tutto. Rimanevano le terre, che poco a poco furono vendute.
Cominciai a conoscere amici nuovi: ragazzi e ragazze che erano diventati adolescenti come me negli anni della guerra. Oltre agli amici d’un tempo (con Riccardo e Renato prendemmo la prima gigantesca sbornia di vin santo), i primi amici nuovi li conobbi a scuola: al Ginnasio-Liceo Pontano, dove completai la confusa formazione degli anni della guerra. Ammiravo un intelligentissimo e coltissimo ragazzo ebreo, Gianni Eminente, con cui gareggiavo nell’indovinare gli autori dei brani di musica classica e nel risolvere indovinelli colti. Ricordo Nello Ajello, con cui non ci frequentavamo molto ma che condivideva con me il ruolo del migliore della classe in italiano (i nostri temo venivano premiati col massimo dei voti, che era il 7, e che ci obbligavano a portare il giorno dopo confetti a tutta la classe); Nello è diventato un famoso giornalista, una delle migliori penne delle pagine culturali di Repubblica. Ricordo i fratelli Marino: Paolo, sordo e ottimo violinista, Angelo spigliato rubacuori: sulla scia (e con le risorse) dei loro genitori, sono diventati facoltosi commercianti di abbigliamento maschile, con negozi nelle strade eleganti di Chiaia e Toledo. E Franco Persico, e Lello Pagliarulo, vocianti e grezzi adolescenti senza pensieri, con i quali condividevamo le fughe da scuola, per sfuggire a un’interrogazione difficile rifugiandoci nei cinemetti in Galleria o evadendo, nella buona stagione, verso le scogliere di Posillipo.
Le ragazze si incontravano ai balletti: festicciole, con aranciate e dischi suonati sul fonografo a manovella: cominciavano appena ad apparire quelli elettrici, e i primi dischi a 33 giri, i V-Disc dell’esercito USA. Attraverso i dischi cominciai ad imparare l’inglese: Frank Sinatra fu un maestro molto migliore da quella signora, non ricordo come si chiamava, dove andavo una volta alla settimana a leggere Oscar Wilde, The importance of being Ernest. Lo sport che praticavo (un poco) era il tennis. Su Via Caracciolo era stato riaperto, con aiuti degli Alleati, la nuova sede del Circolo del Tennis, uno dei luoghi di ritrovo dell’aristocrazia napoletana.
Né lo sport né i balletti mi guarivano dalla mia timidezza. Ricordo l’imbarazzo quando, per far colpo, mi presentai a un balletto dalla nipotina di benedetto Croce con il maglione e le scarpe da tennis. Credevo di far colpo, mi sentii sprofondare quando mi resi conto (o immaginai) che gli altri mi guardavano con disprezzo dall’alto dei loro abiti eleganti.
Un’estate andammo a Capri. Era la prima volta che andavo in quest’isola, che ogni giorno per dieci anni - quando abitavamo a Corso Vittorio Emanuele 130 - avevo visto dalla finestra della mia stanza, a chiudere la visuale del Golfo. Eravamo in un piccolo albergo vicino alla Strada Krupp. Pochi ricordi mi rimasero impressi, ma tutti con molta forza.
Un concerto per pianoforte in una villa a Tragara, una grande terrazza a strapiombo sul mare, con i Faraglioni immersi in una intensa luce lunare. Fu lì forse che conobbi Perla Cacciaguerra, una ragazza di poco più grande di me, poetessa. Mi insegnò ad amare Rabindranath Tagore, un poeta indiano. Un ingegnere che incontravamo nel ristorante dell'albergo, sapeva tutto d'ogni cosa: non c'era evento, piccolo o grande, che non sapesse spiegare. Forse è allora che sognai di diventare ingegnere.
E fu a Capri che conobbi una ragazzina bionda con gli occhi celesti, di cui m'innamorai. Caterina Galli si chiamava. Figlia di amici dei miei genitori, amica delle mie sorelline. La rividi a Roma. Le feci la posta negli ombrosi corridoi della casa a Monte di Dio 18, dove ci eravamo trasferiti, le strappai un esitante umido bacio. E qualche volta andavamo a passeggio per le stradine di Posillipo, vicino al Mausoleo Virgiliano ('a tomba 'e Schilizzi, la chiamavano i napoletani, dal nome del signore che volle costruirvi il suo mausoleo, poi fallì prima di morire e potervi essere sepolto). Ci scrivemmo lettere d'amore che ho perduto.
Un luogo che frequentavo spesso, d'estate, era Sorrento. Eravamo andati lì in villeggiatura i primissimi anni di guerra, all'Hotel Victoria, il più bello e lussuoso. Un insopportabile bambino, di cui ho subito dimenticato il nome, recitava a memoria, appena erano stati letti dall'annunciatore dell'Eiar e fino al giorno dopo, i bollettini di guerra. Dalle terrazze dell'albergo vedevamo, di notte, i fuochi dell'artiglieria contraerea senza sentirne i rumori, mentre come lontani boati ci giungevano gli annunci delle bombe esplose sui quartieri del porto e della zona industriale.
Dopo la guerra andavo a Sorrento da solo, da amici che avevano una bellissima villa decadente, a Piano di Sorrento: i principi di Fondi. Un grande giardino pensile si apriva sul mare. Una fotografia che mi è rimasta ricorda una ragazza bionda, Giuliana Silvestri, che corteggiavo in gara con il mio amico Renato Ruggiero. Ma ciò che soprattutto mi rimane nella memoria sono le semplici prime colazioni, costituite da una scodella di caffellatte, sapide fette di ottimo pane e meravigliose noci schiacciate in grandi quantità.
Prima del fascismo c'erano a Napoli i boy scout. Lo era stato mio padre. Dopo la guerra un gruppo di amici decise di ricostituire l'antica organizzazione, fondata dopo la guerra dei Boeri da lord Baden Powell. Ci organizzavano e portavano in giro due amici di mio padre, l'ingegnere Luigi Cosenza e il signor Cavallo, un simpatico e distinto commerciante di tessuti. Cominciammo con una gita alle pendici del Vesuvio. Rimasi indietro, perché a uno dei piccoli figli di Cosenza (non ricordo se Giulio o Giancarlo) scoppiò un febbrone. Fummo lasciati in un campo, tra le stoppie, dall'imbrunire alla notte, mentre gli altri raggiungevano il luogo dell'accantonamento, finché il padre tornò a prenderci e ci riportò in città.
Eravamo un gruppo molto disordinato: una compagine del tutto diversa rispetto a quello che poi i boy scout divennero più tardi: irreggimentati e tirati a lustro. Vestivamo uniformi raccogliticce: pochi fortunati avevano l'uniforme e il cappello del padre (ricordo solo Franco Cavallo), gli altri si arrangiavano con ciò che trovavano. Con grande impegno trasformammo in cappelli con la tesa, tipici del boy scout, i feltri verdi di avanguardista sottratti ai padri o ai fratelli maggiori: scoprimmo che bastava bagnarli e stirarli, aiutandosi con una pignatta a mo’ di forma e un ferro caldo.
La nostra pattuglia (gli Scoiattoli) era comunque la più organizzata. Ci eravamo dotati di fazzoletti da collo bordeaux, "nastrini omerali", fischietti col cordoncino, bastoni regolamentari e temperini robusti. La domenica facevamo gite ai Camaldoli accompagnati da Luigi Cosenza. In quegli anni, appena superate due file di isolati da Piazza Sannazzaro, al Vomero, si entrava in aperta campagna. Ai pochi casolari abitati da famiglie contadine seguivano rapidamente boschi di castagni, fino a quello che avvolgeva l'Eremo e nel quale ci accampavamo.
A volte pernottavamo nelle tende messe su alla meglio. All’inizio erano vecchie coperte prese a casa, legate con funicelle e spaghi; poi qualche ufficiali degli Alleati, che vedevano di buon occhio la sostituzione dei Balilla fascisti con la democratica istituzione scoutistica, ci regalarono qualche avanzo della guerra. La notte facevamo rigorosi turni di guardia. I due di turno vigilavano accanto a un fuoco di bivacco, accuratamente alimentato. Più dei vagabondi, il timore erano i lupi che - si diceva - erano scappati con la guerra dallo Zoo della Mostra d'Oltremare, ai piedi della Collina dei Camaldoli.
Luigi Cosenza era un personaggio davvero singolare. Piano piano (e soprattutto qualche anno dopo) conobbi la sua storia. Generoso e irruente quando ci organizzava e accompagnava (ricordo un suo a corpo a corpo con due giovinastri che ci minacciavano, nelle campagne tra il V’omero e i Camaldoli), queste caratteristiche presiedevano tutta la sua vita. Comunista, era stato amico di Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del PC d'Italia, ingegnere come lui. Negli anni del fascismo aveva abbracciato la scuola razionalista, e costruito alcune pregevoli architetture a Napoli, con il famoso Rudofsky.
Era una delle figure eminenti dell'ala intellettuale del PCI a Napoli. Un altro che ricordo, ma che non conobbi di persona, era il grande matematico Renato Caccioppoli. Geniale nel suo mestiere, grandissimo musicologo e musicista, era legato da vincoli familiari all'anarchico Michele Bakunin. Quando lo ricordo insegnava ancora all'Università (ma non ho frequentato i suoi corsi), e si aggirava la sera nelle strade di Napoli avvolto in un impermeabile bianchiccio, vacillante per l'alcool e la droga.
Cosenza non era matematico, ma ingegnere: portato alla pratica più che alla teoria, dunque. Dicono che quando fu incarcerato a Poggioreale (capeggiava una grande dimostrazione contro la visita in Italia di Ike Eisenhower, preludio all'ingresso nella NATO, repressa dalla polizia) convinse il direttore del carcere che le condizioni erano intollerabili e ottenne l'incarico di studiare il progetto per un carcere moderno e razionale.
Invece del carcere progettò la nuova sede della facoltà d'ingegneria, a Fuorigrotta, e la bella sede della Olivetti a Pozzuoli. Abitava in una casa con una splendida terrazza, a Mergellina. Sulla terrazza scorrazzavano gli animali che volta per volta amava. Una volta aveva avuto un leoncino, che nel tempo era cresciuto. Si racconta che una volta chiese agli ingegneri della Olivetti, con cui doveva andare a vedere il cantiere a Pozzuoli: "Vi dispiace se passiamo un momento alla Mostra d'Oltremare, che porto Leo a giocare con i suoi amici?". Pensando che si trattasse di un cane gli ingegneri risposero: "Senz’altro, la macchina è grande": si spaventarono molto quando scoprirono che Leo era il nome di un leone.
Aveva un fratello più giovane di lui, Carlo. Più giovane e più mondano. Era infatti nel giro dei miei genitori. Era innamorato di una ragazza, la cui bellezza ancora mi rapisce: Carlottina Del Pezzo, si chiamava. Un giorno si ammazzò, per amore si disse.
Dopo l'esperienza dei boy scout prendemmo l'abitudine di andare a fare dei campeggi per conto nostro. Allora era molto diverso da adesso: poche cose sono più distanti dei campeggi come li ho vissuti in quegli anni dai camping che costellano le coste del Mediterraneo.
Si partiva con robusti sacchi e, per le gite più lunghe, grandi rotoli in cui erano stretti i teli delle tende e le coperte. Scatolette, qualche pentola, indumenti caldi, lampade a petrolio e ferramenta varia erano d'obbligo. A volte un mulo ci accompagnava per i fardelli più pesanti e i sentieri più impervi. Una volta raggiunto il punto dell'accampamento, si passava la giornata ad accudire al campo, giocare a carte, esplorare i dintorni. Ogni due o tre giorni una passeggiata di corvée al paese più vicino per comprare la pagnotta fresca e qualche alimento.
L'intelligenza era di scegliere un posto riparato, tra ombra e luce, vicino a vegetazione da usare per ammorbidire il suolo sotto il fondo della tenda, non distante da una sorgente dove approvvigionarsi per bere e cucinare, lavare i panni e le stoviglie (che strofinavamo con cenere e terra).
Ricordo un campeggio a Sant'Angelo ai Tre Pizzi, nei Lattari, tra la Costiera amalfitana e quella sorrentina. Le tende erano sulle pendici di una sella, al limitare del bosco, su un pendio coperto di morbide felci. Ero di guardia accanto a un fuoco ormai ridotto a poche braci rosseggianti. L'alba ancora non appariva e la luna era appena scomparsa, ma la sua residua luce rivelava i brandelli di nebbia sul fondo della sella. All'improvviso delle luci più forti, l'abbaiare dei cani, e un certo numero di uomini con i fucili a tracolla animarono il paesaggio: cacciatori, in marcia d'avvicinamento. Non ci videro. Dopo qualche istante il silenzio e la nebbiolina lattiginosa ripreso il dominio. La rapida scena, e l'emozione, mi sono rimaste impresse.
A quei tempi Napoli era anche, per i suoi abitanti, una stazione balneare. Gli scugnizzi d'estate si gettavano in mare dalle scogliere prospicienti Via Caracciolo (ma a noi, ragazzi per bene, era proibito: già si diceva che non fosse igienico). Uno stabilimento frequentato era però il Sea Garden a Mergellina, proprio dove dalla strada litoranea si stacca la collina di Posillipo. Noi andavamo a mare più su, a Posillipo, dove grandi e intricate ville occupano il costone verdeggiante tra la strada e il mare.
Palazzo Donn'Anna, l'antica residenza di Giovanna La Pazza, non aveva spiaggia, ma una discesa a mare attraverso i diruti saloni dove il tufo delle rocce e quello dei muri si sfaldavano. Le ville che frequentavamo di più erano più avanti: villa Pavoncelli, Villa Carunchio, Villa D'Avalos. La prima soprattutto, abitata da alcune famiglie dell'aristocrazia napoletana molto legate alla mia: i Del Balzo di Presenzano e i Pavoncelli.
Da Via Posillipo si scendeva per una scaletta, vigilata dal portiere. Si attraversavano corridoi umidi, a volte aperti sul mare, terrazze, ballatoi, scalette e atri, finché si giungeva a una spiaggetta protetta da una breve scogliera. Prima dell'ultima rampa una umida stanza scavata nella roccia era il luogo dove ci si cambiava e si lasciavano gli abiti e, al ritorno, si poteva fare la doccia. Sulla spiaggetta si apriva un'ampia grotta, deposito di innumerevoli scafi.
Miei amici erano soprattutto i Pavoncelli. Famiglia di nobiltà recente (si diceva, con una certa sufficienza, che fossero diventati marchesi con l’unità d’Italia), la loro ricchezza veniva dalle terre in Puglia, a Cerignola (il paese del grande sindacalista contadino Giuseppe Di Vittorio, che contribuì poderosamente a portare nella democrazia repubblicana i mezzadri e i braccianti del Sud). Avevano un'azienda molto ben condotta che produceva, tra l'altro, ottimi vini. Dei due figli maschi (Giuliana, la sorella, era un po' più grande di noi) Nico era già orientato verso l'azienda familiare. Fraternizzavo più con Giuseppe, che fu per me un magister elegantiarum (ma l' imprinting me l'avevano dato i geni e l'esempio paterni). Naturalmente le gite per comprare le cravatte da Marinella, il negozietto alla Torretta poi diventato famoso, erano d'obbligo: per noi, allora, non c'era altro chic se non quello. Per ciascuno di noi il signor Marinella conservava la forma per tenere in piega la cravatta, e ci avvertiva quando era arrivata una nuova partita di pezze..
Un altro luogo della buona società napoletana dove sport e mondanità s'intrecciavano erano i circoli nautici. Ve n'erano diversi: il Savoia, il Napoli, l'Italia. Comuni a tutti erano le attività nautiche (di giorno) e il gioco d'azzardo (la sera). Il Circolo del remo e della vela Italia era il più su, nella gerarchia sociale: il Savoia era frequentato soprattutto da commercianti, e al Napoli prevalevano i nuovi ricchi. All'Italia solo molto tardi, ai rentiers e ai professionisti, si tollerò l'aggiunta dei commercianti. Anzi, c'è una storiella che dipinge bene l'atmosfera.
Un commerciante, un farmacista, era appena stato ammesso al Circolo: uno dei primissimi. Una sera perde, molti milioni. Il giorno dopo non si presenta. Il Presidente è informato, cerca subito i due presentatori. "Non ti preoccupare - rispondono - vedrai che sta male o s'è rotto una gamba, non ha trovato nessuno per venirci a informare. Adesso andiamo noi".
Si precipitano a casa del farmacista. Bussano, il cameriere apre. "Come sta 'u signorino?", chiedono. "Benissimo", risponde il cameriere, e chiama il padrone. "Ue', ma tu qua stai? Stai bene" fanno stupiti. "E ch'aggio 'a tene'?", esclama il farmacista, facendo gli scongiuri. Qui il dibattito diventa intenso.
"Ma come, non ti ricordi che l'altro ieri sera hai perso 15 milioni?"
"Certo che mi ricordo. Non vuoi che mi ricordo una puttanata e una scalogna così grossa. M'ero proprio infognato"
"E allora? Non sai che i debiti di gioco si pagano entro le 24 ore?"
"Ah si? Davvero si devono pagare entro le 24 ore?"
"Ma certo, mille volte te l'abbiamo detto"
"E se uno non paga che succede?"
"Come che succede: ti affiggono", rispondono costernati i soci presentatori.
"Ah, mi affiggono. E che vuol dire?"
"Come che vuol dire? Vuol dire che scrivono il tuo nome su in foglio, con la cifra che non hai pagato, e lo mettono nella bacheca all'ingresso!"
"Ah, se non pago 15 milioni mettono il mio nome su un foglio e lo mettono nella bacheca?"
"Certo, si, proprio così!"
"Vabbuo' - fa il farmacista - e a me che me ne fotte?"
Guardandosi negli occhi, i due presentatori rispondono a una voce:
"Farmaci', tu si' 'nu ddio!"
Nessuno dei soci dell'Italia si sarebbe permesso di violare una regola così severa. Ma certo si permettevano di sorridervi sopra. E la battuta "Farmaci', tu 'si 'nu ddio" rimase a contrassegnare chi svelava l'incoerenza che si nascondeva sotto uno stereotipo.
Dell'Italia mio padre era socio influente. Per un certo periodo ne fu l'amato vicepresidente. Io ero di casa, quindi. Di giorno, come tutti i ragazzi. Ma non praticavo il remo: non volli mai vogare su quegli esili scafi lucidissimi, dove selezionate squadre ogni anno si allenavano per alcune famose regate, le cui coppe vinte ornavano il salone del circolo. Preferivo la vela, più adatta a un pigro come me.
La domenica c'erano le gite sociali. I soci e le loro famiglie s'imbarcavano la mattina su alcune barche a vela (i "monotipi"), generalmente guidate da uno dei marinai salariati, e si allontanavano verso baie vicine (come la Cala di Trentaremi, al Capo di Posillipo) o più lontane (come la scogliera di Puolo, al Capo di Sorrento, o alla Marina Grande di Capri). Si mangiava a bordo: le frittate di maccheroni portate da casa, o i taralli "'nzogna e pepe" offerti da barcaioli stazionanti nei punti di maggior afflusso. Si chiacchierava e si prendeva il sole, ancorata la barca si facevano i tuffi e i più coraggiosi (mia mamma era tra questi) sommozzavano e pescavano i ricci, poi al ritorno si prendevano ancora il sole e il vento. Dipingono bene l'atmosfera di questa gite alcuni versi di Ernesto Murolo:
L'arberatura schioppa…'E vele sbanneno,
ruciulèa sottoviento nu binocolo…
'O cottero va "orza"…
Nu poco ancora…N'atu ppoco ancora…
Pare c'affonna, pare
Cu 'a murata 'int'all'acqua e a chiglia 'a fore…
…Che viento frisco!
…e quant'è bello, 'o mare,
ca fragne a poppa e sciaqquettèa p''a prora…
Ecco, tra le emozioni della mia giovinezza ritrovate nei poeti questa è forse tra le prime. Sento ancor oggi “quant’è bello, 'o mare, che fragne a poppa e sciaqquettea p''a prora”.
Ernesto Murolo era padre di Roberto, il famoso e bravissimo cantante di canzoni napoletane (la sua filologica Antologia della canzone napoletana, edita da Ricordi, è molto bella), Massimino, gran giocatore di carte e amico dei miei genitori, e Maria, con cui mio padre ebbe un flirt, intessuto di gite in barca a vela: forse in quelle stesse occasioni cui il poeta si riferisce, nella sua poesia "'O viento".
Nel giro di Villa Pavoncelli e del Circolo Italia conobbi due ragazze di cui divenni inseparabile amico, innamorandomi prima dell’una e poi dell’altra: Isabella Mosca e Francesca Sersale. Isabella abitava a via Monte di Dio, la strada dove abbiamo abitato alcuni anni. Un vecchio palazzo nobiliare, del quale occupavano un appartamento, devastato dalle bombe e reso vivibile da drappi appesi alle pareti a nascondere i muri rattoppati alla meglio, arricchito da una grandissima terrazza a livello. Adoravo le donne della famiglia: la vecchia nonna Giordano, la mamma che nel salotto modesto ed elegante, dopo il tea, mi leggeva le carte interrompendo i suoi solitari, la sorellina Schatzy, spiritosa e turbolenta.
Per Isabella ebbi un breve trasporto d’amore, che subito si trasformò in intensa amicizia. Di Francesca Sersale invece, sua amica e “fidanzata” di Peppe Pavoncelli, mi innamorai perdutamente. Era molto bella e gaia, di una semplicità ingenua e spensierata. Corpo esile e lunghissime gambe, lunghi capelli castani e occhi intensi, a volte sorridenti a volte gravi. Non ho mai capito il suo flirt con Peppe Pavoncelli: lei aveva una profondità di pensieri e di sentimenti che doveva sfuggire alla fatuità di Peppe, cui interessava molto pavoneggiarsi ( nomen, omen) con la ragazza più bella del giro.
Francesca aveva molti fratelli (di uno era perdutamente innamorata Isabella), e la sua famiglia viveva nell’angosciato lutto per la scomparsa, in Russia, del fratello maggiore, dato per disperso. Da questo evento era nato nella famiglia (soprattutto negli anziani genitori, ma con riverberi anche sui figli) un aspro anticomunismo.
Non ero comunista allora. Di politica si parlava poco, e meno ancora vi si pensava. Se avessi dovuto definirmi, avrei detto che ero socialdemocratico: una sinistra sentimentale e “per bene”. È per il partito di Saragat che votai infatti, al mio primo esercizio di democrazia.
Della politica mi arrivavano solo gli echi lontani, attraverso le poche persone che, in qualche modo vicine al mondo della politica, raggiungevano con qualche loro dimensione il mondo delle frivolezze, delle buone maniere e dell’estetica, al quale appartenevo, sia pure con un crescente distacco. La dimensione politica che c’era dietro Luigi Cosenza o Renato Caccioppoli, oppure dietro Leopoldo Rubinacci (il sottosgretaruio democristiano, zio e protettore del mio amico Renato Ruggiero), la compresi molto più tardi.
Una volta, tra il 1946 e il 1948, intuii che c’era un’altra dimensione, sconosciuta e potente, fonte di timore e soggezione. Fu dall’alto del Ponte di Chiaia che vidi passare, giù in strada, un grande e compatto corteo di operai delle fabbriche di Fuorigrotta: una folla silenziosa, muta, dai volti chiusi più dei pugni, colorata del blu delle tute. Una realtà che incuteva, insieme, paura e rispetto.
Fu forse dopo la licenza liceale, quindi nel 1948, che andammo in villeggiatura a Colle Isarco. Ricordo quella vacanza per la conoscenza, fugace, di un gruppo di emiliani di cui faceva parte una ragazza che mi piaceva molto, e che si faceva distrattamente accarezzare, e per la frequentazione di un singolare personaggio: Chinchino Compagna.
Ch’inchino era il rampollo d’una famiglia di nobili calabresi, ricchissimi e (a quanto si diceva) altrettanto rozzi: vera nobiltà borbonica. La loro ricchezza era prodotta dai cafoni dei latifondi calabresi. Non si era trasformata né in cultura né in lusso. Si diceva ( horresco dicens!) che a tavola loro si mangiasse il formaggio con le mani.
Oggi definiremmo forse il Chinchino degli anni Quaranta un giovane teppista. Era certamente ignorante e maleducato: famoso rimase un sonoro pernacchio col quale salutò il presidente dell’elegante Circolo del Tennis, alla festa per la sua inaugurazione. Quando lo conobbi era in una fase di profonda trasformazione. Aveva frequentato casa Croce (non so se ve lo condusse mio padre), e aveva scoperto l’esistenza dei libri. Leggere gli aveva cambiato la testa, in pochi mesi. Ricordo le signore amiche di mia mamma, tutte rigorosamente monarchiche, che dicevano scandalizzate: “Capisci, è diventato repubblicano perché ha letto duecento libri!”, meravigliandosi del fatto che si potesse cancellare una fede, così saldamente impressa, come quella monarchica, semplicemente perché si era fatto l’esercizio frivolo e un po’ stravagante della lettura!
A Colle Isarco, dove era con la giovane ed esile moglie Licia, partecipava con comodo alle gite che facevamo, ma la sua attività preferita era la lettura, fin dalla mattina presto. Le cameriere che facevano le pulizie nei saloni dell’albergo lo trovavano già a leggere la mattina all’alba.
Chinchino alimentò la mia passione per la poesia regalandomi un libro di cui gli fui molto grato: il primo volume di una bellissima rivista di poesia (la testata era, appunto, Poesia, ed era diretta da Enrico Falqui). Con una bellissima dedica:
Un modesto ricordo, un sincero augurio, una certa speranza di sicuri successi in una vita serena, rischiarata da caldi affetti, il mio compreso.
Lo persi di vista. Per meglio dire, lo seguii a distanza: era diventato un uomo pubblico. Con i soldi dei cafoni calabresi fondò una rivista, Nord e Sud, che riuniva gli intellettuali meridionali e meridionalisti di area repubblicana e socialdemocratica. Lo ritrovai molti anni dopo, bravo ministro per i Lavori pubblici. Morì a Capri, sulla spiaggia sotto il Palazzo di Tiberio, per un infarto, d’improvviso.
All’università, in quegli anni, non mi impegnavo molto. Mi ero iscritto a Ingegneria senza una vera ragione. Gli argomenti che mi convinsero erano due: al liceo andavo bene in matematica, mio padre aveva (ancora per poco) un’impresa di costruzioni. Se avessi potuto seguire le mie inclinazioni, avrei scelto mestieri “poetici”. Ma carmina non dant panem.
Dell’università di quegli anni ricordo ben poco. La mesta cerimonia della “matricola”, consistente in una grande abbuffata di paste offerte agli amici della lista Bacco Tabacco e Venere; le aule sovraffollate e i professori inavvicinabili nell’immenso palazzo tra il Rettifilo e Via Mezzocannone. Non ricordo come diedi gli esami, meno ancora come mi preparai nelle difficili materie che farcivano il biennio. I miei interessi erano altrove.
Non ricordo come conobbi Carlo Frezza. La comune passione per il cinema? Forse. A quei tempi si frequentava un circolo del cinema a Via Martucci, dove finalmente vedemmo film diversi da quelli dell’infanzia (Capitano Blood o Stanlio ed Ollio), e dalle “americanate”, tipo Bellezze al bagno, che si proiettavano dal dopoguerra al cinema Della Palme o al cinema Corona. De Sica ed Eisenstein, Pudovkin e Rossellini, Autant–Lara e Dreyer erano le nostre scoperte e i nostri entusiasmi.
Carlo apparteneva a una famiglia della piccola borghesia intellettuale: notai o avvocati. Mi introdusse nella politica universitaria. Ero appena iscritto a Ingegneria, e mi chiese di partecipare a una lista diversa da quelle legate ai partiti, dal titolo goliardico, e un po’ qualunquista, di Bacco Tabacco e Venere. Aveva un programma culturale impegnativo: Carlo avrebbe dovuto dirigere il Centro universitario teatrale e, nell’ambito di questo, mi chiese di mettere su una nuova Sezione cinema. Accettai. La lista ottenne una rappresentanza nel parlamentino universitario. Con grande fatica organizzai una splendida rappresentazione di un bellissimo film, cha a Napoli nessuno aveva ancora visto: Breve incontro, di David Lean, con Trevor Howard e Sheila Johnson (mi sembra): due eccezionali attori drammatici. Grandissimo successo: la sala del Cinema Santa Lucia, che avevamo affittato per l’occasione, era gremita, il pubblico attento e silenzioso. Ne ero così entusiasta che, da allora, Francesca Sersale mi chiamava Eddy Lean.
Ricordo le lunghe serate, con Carlo, a discutere di cinema, di arte, di poesia. Il tema in voga, nel mondo che frequentava i circoli del cinema, era “lo specifico filmico”: se ne discuteva sulle riviste che leggevamo (Bianco e Nero, Cinema, Cinéma d’Aujourd’hui), se ne dibatteva in sala alla fine delle proiezioni. Dopo il cinema io accompagnavo lui fino al portone, poi lui riaccompagnava me, poi ancora e ancora. In quei mesi uscì un articolo di Benedetto Croce, in cui sosteneva che il cinema è Prosa e non Poesia. Eravamo entrambi crociani: in quegli anni, a Napoli, o si era crociati o si era comunisti: non c’erano alternative per i giovani intellettuali. La presa di posizione ci turbò moltissimo: non eravamo affatto d’accordo con il Maestro, per noi il cinema era Poesia con quattro maiuscole, sebbene non fosse ancora chiaro se lo “specifico filmico” risiedesse nel montaggio (come era nostra opinione), o altrove.
Abitavamo a Via Monte di Dio 18, nel bel palazzo della baronessa Barracco, amica dei miei genitori. Una casa molto grande, che girava attorno a un cortile adorno di piante. Vecchi e solidi arredi. Ricordo il nostro bagno, con vasca e lavandini di marmo massiccio, ornati da zampe di leone e attrezzati con una consunta rubinetteria inglese di ottone brunito dal tempo.
Una fuga di stanze: per raggiungere la mia dovevo attraversare quelle di rappresentanza, dove a volte incontravo gli amici dei genitori, ascoltavo brevemente i loro discorsi. La musica era molto presente. Sui frequentava il San Carlo, ma soprattutto i concerti del Conservatorio di San Pietro a Maiella. Fu lì che catturai l’autografo di Rubinstein, ed è lì che i miei genitori conobbero il maestro Franco Caracciolo, che frequentava la nostra casa e a volte suonava al pianoforte.
I confini tra mondanità e cultura erano praticamente inesistenti: si scivolava dall’una all’altra con grande leggerezza. Si discuteva dell’immortalità dell’anima e del paradiso, ad esempio, e la battuta più convincente era quella del marchese Agostino Patrizi, che diceva
Pe ‘mme ‘o Paraviso è quel posto che, se quando sei vivo ti piacevano le sfogliatelle, mangi tutto il giorno sfogliatelle
Una visione un po’ maomettana. Ma questo lo penso adesso: allora l’immagine, e la prospettiva, mi colpirono.
Dal cortile si accedeva al nostro appartamento, che era al primo piano, da una scala a una rampa interna, con una larga guida. Fu lì che mio padre si sparò un colpo di rivoltella: un incidente, fu detto. L’impressione che ne ebbi fu quella di una storia d’amore con una signora amica di famiglia (una storia che forse proseguiva dagli anni di Roccaraso), e di una crisi profonda nei rapporti tra i miei genitori. Il fatto è che, di lì a poco, mia mamma e le sorelline si trasferirono a Roma, mio padre rimase a Napoli in un appartamentino ammobiliato a Via Carducci, per badare agli affari (quali, non so, visto che l’impresa si era dissolta e le terre via via vendute). Rimasi con lui, per finire il biennio all’Università.
Per me, la vita continuò come prima.
Avevamo le serrande avvolgibili, di legno, nella casa del Corso. Il sole entrava a strisce, faceva strani disegni sulle pareti e i mobili. Una porta filtrante per la luce, da fuori a dentro. Da dentro a fuori filtrava i miei sguardi, il mio cercare il mondo. Anche comunicare con il mondo, nella mia fantasia. Come quella volta, nel giugno 1940, quando sentimmo alla radio che l’Italia era entrata in guerra. Il discorso del Duce, dal balcone su Piazza Venezia, le parole bellicose ed entusiasmanti, le ovazioni del popolo Mi sentivo riempito anch’io di sacro furore. Ritagliai in piccole striscioline un foglio di carta, su ciascuna scrissi “Viva la Guerra”, le ripiegai e mi accingevo a gettarle per strada, tra le stecche della persiana, per comunicare al mondo la mia partecipazione. Mi sorprese Zia Giannina, mi fulminò con lo sguardo gelido e mi spiegò che non si inneggia mai alla guerra. Nelle sue parole si esprimeva la cultura cattolica.
Nonostante la sostanziale partecipazione al fascismo della mia famiglia, nonostante gli ascendenti militari, la guerra non entusiasmò nessuno. Certo, le vicende sui diversi fronti erano seguite con partecipazione: ricordo come si ascoltava, con attenzione ed emozione, il quotidiano bollettino di guerra alla radio, all’una. Ricordo un’atmosfera più di attesa, di sospensione, che di tifo. Forse la famiglia aveva cominciato la revisione critica del fascismo. Un episodio che dovette aiutare, in questa direzione, fu certamente la partenza di Maria Simon.
La mia Schwester era ebrea. Quando il Führer venne in Italia, nel 1938, papà fu avvertito dalla Questura che, se non avessimo provveduto ad allontanare Schwester Maria, sarebbe stata messa in camera di sicurezza insieme a tutti gli altri ebrei stranieri. Non serviva che essa avesse un genitore ariano, che fosse cristiana protestante. La soluzione che fu concordata fu di mandarla per qualche giorno a Foggia, dove papà aveva una casa. Qualcosa mi turbò, di questo episodio, più di quanto mi entusiasmassero i portali di cartone, le gigantesche bandiere, i fasci e le svastiche eretti lungo il percorso che Hitler e Mussolini avrebbero compiuto salutando, dall’automobile scoperta, la folla inneggiante.
All’inizio della guerra papà fu richiamato alle armi. Non aveva fatto il servizio militare, così cominciò dalla gavetta, soldato semplice. All’inizio stava alla caserma di fanteria al Corso, verso Mergellina. Sul muro verso la strada c’era una grande scritta: “Fu il Fante il seme e la Vittoria il fiore”. Dopo l’addestramento, da sottotenente e poi tenente, andò in Grecia e in Jugoslavia: ricordo una cartolina di saluti da Mostar, con il ponte distrutto in questi anni dalla guerra dei serbi..
Cominciarono i bombardamenti. Prima sporadicamente, poi tutte le notti. Era diventato un rito: andando a letto ci si preparava sulla sedia il maglione, le calze, il cappotto con il quale ci si sarebbe coperti appena avesse suonato la sirena d’allarme. Nei primi tempi, si correva in una stanza appositamente attrezzata in cantina. Travi di legno puntellavano pareti e soffitto, e sacchi di sabbia avrebbero dovuto riparare dalle schegge. Tutti i vetri di casa erano rigorosamente decorati di larghe strisce di carta gommata, per impedire che gli spostamenti d’aria delle esplosioni rompessero i vetri minacciando l’incolumità dei passanti.
La nonna, Nannina, zia Giannina recitavano il rosario, gli uomini, negli intervalli tra un bombardamento e l’altro, andavano in strada per fumare una sigaretta e guardare le sventagliate dei riflettori, i fuochi degli incendi dove le bombe erano cadute, le ultime raffiche dell’antiaerea. Ma dopo un po’, si capì che, se una bomba fosse caduta sulla nostra casa, il rifugio non avrebbe costituito riparo sufficiente. Subito al di là di via Tasso c’erano (e ci sono ancora) due alberghi, il Britannique e il Parker, entrambi appartenenti alla stessa famiglia. Dagli alberghi, attraversando le cucine e i magazzini, si raggiungevano immense caverne scavate nella montagna di tufo che si alzava verso il Vomero. In quelle caverne erano stati organizzati dei giganteschi rifugi, ben più sicuri della nostra fragile cantina.
Furono presi i necessari accordi. Diventammo frequentatori abituali del rifugio del Britannique. Là c’erano bambini, si poteva giocare e girare. C’erano anche le nostre amiche Lölingher, Maria Antonia d’Ayala Valva e i suoi fratellini Inigo e Diego, Eddy Perriello, Leonetto Levi de Leon e altri. Quando si prevedeva che i bombardamenti fossero molto prolungati, la nonna e noi piccoli dormivamo direttamente in albergo, per essere pronti a scendere nel rifugio al primo allarme.
La mattina dopo i bombardamenti la città era piena di novità. Non erano novità le automobili con i fari tappati da maschere di carta, né i piccoli bunker costruiti all’entrata dei rifugi; queste erano diventate componenti normali della città, come le grandi strisce di carta incollate sulle vetrine e sulle lastre delle finestre. La novità effimera erano le schegge: le tracce che avevano lasciato i bombardamenti della notte prima, e che noi ragazzi facevamo scomparire ogni mattina per arricchire le nostre collezioni. Schegge piccole e grandi, d’alluminio, di rame e di leghe sconosciute, proiettili dell’antiaerea e spolette dei razzi traccianti, pezzi dalla cui curvatura si poteva comprendere se provenivano dall’esplosione di una bomba grande o di una di pochi chili.
Privilegiati nella raccolta di schegge erano gli scugnizzi, che si svegliavano presto la mattina ed avevano la strada come loro residenza abituale, e i bambini dotati, come me, di una grande terrazza, luogo riservato di raccolta. Era una strana emozione salire, la mattina, in terrazza, cercare per terra e trovare questi strani pezzi di metallo, dalle forme stravaganti foggiate dall’esplosione.
Era forse il primo anno di guerra quando andammo in vacanza a Fiuggi. Forse perché era un luogo più vicino a casa e più lontano dagli insicuri confini, rispetto alla consueta Val Gardena. Avevo una bicicletta, con le ruote di legno marca Ballon, che facevano ridere i miei nuovi amici: mi sentivo preso in giro, e la mia timidezza ne veniva ribadita. Diventai amico di un ragazzo Campello, non ricordo il nome. Organizzammo insieme una specie di festicciola a pagamento, in una sala del grande albergo dove abitavamo, con le sorelline che ballavano addobbate da grandi.
Con il ragazzo Campello progettammo a lungo una “fuga”, che avremmo intrapreso appena attrezzati. Raccoglievamo oggetti che potevano servirci. Non se ne fece nulla. Eravamo dei chiacchieroni.
Conobbi la prima barzelletta sporca. Era la risposta alla domanda: quante palle ci sono sul campo se c’è una squadra di undici giocatori? La risposta era: ventitré. Ci misi un bel po’ a capirla. E mi innamorai di una nuova bambina: si chiamava Eva, aveva dei bellissimi boccoli biondi, mi sembra che fosse di origine ungherese. Naturalmente non si accorse di me.
Da Fiuggi tornammo a Napoli. La guerra non accennava a concludersi. Si continuava ad andare a scuola, a raccogliere le schegge dopo i bombardamenti, a passare le notti al rifugio del Britannique. L’anno dopo andammo in villeggiatura a Sorrento. Di lì, la notte, si vedevano i bombardamenti da lontano: sembravano fuochi d’artificio, accompagnati da un cupo rombo. La guerra era diventata ormai una cornice permanente della nostra vita. Un bambino mio coetaneo (abitava con noi all’Hotel Vittoria) era noto come “Tonino bollettino”. Aveva una memoria formidabile e l’impiegava per imparare a memoria il bollettino di guerra, che ogni giorno veniva trasmesso dall’Eiar in apertura del giornale radio dell’una: da quel momento era in grado di ripeterla a memoria a chiunque glie lo chiedesse.
Una fotografia ci ritrae in terrazza, al Corso. Avevamo forse una dozzina d’anni. Era quindi durante la guerra, gli ultimi tempi prima dello sfollamento a Roccaraso. Eravamo tre amici inseparabili.
Riccardo Tomacelli era figlio di un’amica di mammà, molto simpatica, e di un signore un po’ noioso che era lettore d’italiano in una università di Dublino (o lo divenne dopo, non ricordo). Era un ragazzino con capelli lisci, pettinati con cura. Era legato a una vasta parentela, che frequentai anni dopo: i Del Balzo di Presenzano, possessori e inquilini di una bellissima villa sul mare, a Posillipo, dove da piccolo Schwester Maria mi aveva insegnato a nuotare.
Renato era figlio d’una famiglia della tranquilla borghesia napoletana. Suo zio era un importante personaggio della Dc napoletana, Leopoldo Rubinacci, che lo prese sotto la sua protezione e, più tardi, lo avviò alla carriera diplomatica. Renato ne percorse tutti i gradini, poi diventò “ministro degli esteri” della Fiat, ministro del commercio estero nel governo [ES1] , poi presidente del Trade World Office. Lo rividi ai primi passi della sua carriera: era Primo consigliere (o qualcosa del genere) a Stoccolma. Mi parlò solo dei nuovi tipi di preservativi che si usavano lì.
Quando i bombardamenti divennero più intensi un certo numero di famiglie prese la difficile decisione di “sfollare”: si radunarono armi e bagagli e ci si trasferì a Roccaraso, un paesino d’Abruzzo dove qualche volta si andavano a passare le vacanze di Natale. I marchesi Santasilia con i loro bambini, Enzo Strongoli e la bella moglie, i principi D’Avalos, i cugini Carignani, tutti ci trasferimmo tra le montagne abruzzesi. Ogni cosa i miei portarono con sé: bauli e bauli contenenti tutta la biancheria, personale e di casa, i vestiti e le pellicce, i gioielli e le scarpe, casse contenenti i 150 chili d’argenteria di famiglia, libri, e ricordi preziosi, come una delle due copie del Bollettino della Vittoria vergato dalla mano di nonno Armando. Tutto si cercò di salvare dai bombardamenti: gli oggetti portandoli in Abruzzo, i mobili, i quadri e i tappeti sistemandoli in una villa a Ottaviano, un paesone tra Napoli e Caserta, nella villa di amici.
La nostra vita cambiò. Non in peggio. Abitavamo in un appartamento costruito sulla rocca che dominava il paese, e da cui esso trae il nome. (Rocca raso, rocca di raso, si poteva pensare, e i prati erbosi che circondavano il paese giustificavano il toponimo; solo dopo compresi che era anche una premonizione: rocca rasata, come la storia volle). Sotto di noi abitavano i Santasilia. Una grande stufa di terracotta, della ditta Becchi di Forlì, riscaldava splendidamente la casa.
Si giocava più di quanto si studiasse; lo studio, del resto, era affidato prevalentemente alla buona volontà del parroco, il quale disponeva pure d’una bibliotechina circolare alla quale attingevamo i libri di Fantomas e altri polizieschi per ragazzi. Fino ad allora le mie letture si erano limitate alla traduzione per bambini delle grandi storie della letteratura romantica nella collana della Scala d’Oro, e all’amato Emilio Salgari (Jules Verne, di cui ricordo uno splendido Le pays des fourrures, rilegato e con incisioni d’autore, mi piaceva molto meno).
Nel paio d’anni che trascorremmo a Roccaraso le mie amicizie cambiavano, a seconda delle stagioni e delle passioni. Soprattutto nel primo periodo passavo le giornate con i bambini del paese, i “roccolani”. La cosa che mi entusiasmava di più erano le gite in montagna. Si partiva la mattina presto, con una pentola o una padella che qualcuno aveva trafugato, una mezza bottiglia d’olio, un pacco di pasta. Per strada si scavavano un po’ di patate da qualche campo. Arrivati sulle brulle montagne a pochi chilometri dal paese so completava la costruzione di una “casola”, iniziata alla gita precedente: una costruzione rozzamente messa su con muri a secco, e coperta da rami di pino. Si cucinava, si mangiava, i più abili davano la caccia agli scoiattoli con le fionde, sapientemente costruite da un legno a forcella e due pezzi di camera d’aria legati da una toppa di pelle, o addirittura con le frombole nelle quali il sasso, adagiato all’interno di un attrezzo di corda e pelle, veniva scagliato dalla forza della rotazione del braccio.
In questo, come negli altri giochi d’abilità e di forza, non solo non eccellevo ma neppure mi cimentavo volentieri. E invidiavo la capacità dei miei amici paesani a giocare a “mmazza e piuze”, con un bastone lungo che percuoteva, lanciandolo lontano con mira precisa, un bastoncello più corto, rastremato alle due estremità, dopo averlo sollevato da terra con un appropriato colpo su una delle punte. Così come invidiavo la loro bravura nel precipitarsi giù sui campi di neve, avendo ai piedi due tavole di legno grezzamente foggiate, o due doghe di botte, e correndo più veloci degli sciatori di città calzati con gli sci di marca accuratamente trattati con la specifica sciolina.
Naturalmente anch’io sciavo, ma senza fare grandi prodezze. Sono arrivato, al massimo della mia carriera di sciatore, a fare dei buoni “spazzaneve” e qualche assaggio di “christiania”. I miei genitori erano bravissimi, invece, specialmente la mamma. A volte affittavamo una slitta trainata da cavalli e salivamo alla Piana dell’Aremogna, dove noi piccoli facevamo campetti e i grandi percorrevano passeggiate di fondo, con le splendide pelli di foca (che qualche volta anch’io adoperai, con notevole fatica e imbarazzo).
Altre gite le facevano in primavera e in autunno. In queste occasioni a un certo punto si apriva una grande tovaglia, sulla quale venivano adagiate grandi frittate di maccheroni (in genere erano sia rosse, con gli spaghetti preliminarmente conditi con la salsa di pomodoro, sia bianche, con gli spaghetti conditi con burro e parmigiano). Una direzione tipica per le gite erano le pendici del Monte Tocco, dove prima delle feste di Natale di andava a raccogliere il vischio parassitariamente abbarbicato sui vecchi alberi del querceto. A volte Raggiungevamo Pietransieri: Un paesino poverissimo, dove la vita scorreva cento anni più antica di quella che si svolgeva nella stazione turistica di Roccaraso, distante pochi chilometri. Pastori, contadini e taglialegna erano i mestieri di questo paese (diventerà presto tragicamente famoso), dove ancora l’eliminazione degli escrementi avveniva vuotando per strada, all’ora serale annunciata dal banditore, i domestici vasi.
In quegli anni gli amori, da fantasmi infantili, diventarono sentimenti quasi istituzionalizzati da una sorta di riconoscimento sociale. Ancora infantile era il sentimento che m’ispirava Mimma Chiarini, snella bionda dagli occhi celeste, sorella di Paolo e Carlo (più tardi famoso germanista l’uno, noto architetto l’altro; Mimma sposò Vito Laterza, editore in Bari come suo padre e suo nonno). Pienamente adolescenziale fu l’amore per Annamaria Sepe, sorella anche lei di amici romani, incontrati e conosciuti a Roccaraso con il solito tramite dei genitori. Annamaria, che era amica delle sorelle, ricevette anche, turbata quanto me, un fuggevole bacio. Mi regalò (o sottrassi a qualcuno) una sua fotografia. E mi arrabbiavo molto, fino alle lacrime, quando i miei amici un po’ più grandi, primo fra tutti mio cugino Luigi, mi prendevano in giro. Ancora ricordo quando, dopo una rissa, mi strapparono di tasca la fotografia che, nella colluttazione, finì in un mucchio di patate: “Annamaria tra le patate!” fu l’urlo di guerra, per me profondamente offensivo.
Un ulteriore amore di quel periodo, quando i Sepe partirono per l’Alta Italia, fu per Maria Stella Signorini. Era una bambina più piccola di noi (di me e del cugino Luigi, che insieme a me le faceva la corte). La madre era una donna bellissima, siciliana credo. Il padre Renato faceva (si diceva) deliziose statuette d'oro; ma non era uno scultore, era proprietario di un grande albergo a Via Veneto, il Flora.
Con Maria Stella, e la sua bambinaia inglese, lunghe passeggiate nei prati autunnali raccogliendo crochi viola e bianchi. La rividi qualche mese più tardi a Roma, dove per incontrarla andavo a Piazza di Siena, luogo dei suoi giochi. Non so come, avevo scoperto questa sua abitudine. La sfruttavo, acquistando così un vantaggio rispetto a Luigi. Aspettavo lei (e l’immancabile governante) seduto sul prato, le spalle appoggiato a uno degli alti pini a ombrello, leggendo un libbriccino trafugato dalla biblioteca di zia Irene: Baudelaire, Les Fleurs du mal. Ma questo successe, come dicevo, qualche mese più tardi. A Roccaraso accaddero altri eventi, nuovi e drammatici, inaspettati nel loro svolgimento.
A luglio, nel 1943, cadde il fascismo. Mussolini fu chiamato da Vittorio Emanuele III e portato via con un’ambulanza, verso il domicilio coatto dell’Albergo Campo Imperatore, sul Gran Sasso. In tutto il paese furono abbattuti i simboli del fascismo: i fasci, gli emblemi del Duce. All’inizio fu, anche a Roccaraso, una gran festa. Tutti quelli che avevano ascoltato Radio Londra clandestinamente, con le radioline a galena, uscirono trionfanti e diventarono dei leader. Si discuteva di politica. Parole inusitate (come Partito d’Azione, socialisti e comunisti, Comitato di liberazione nazionale) entrarono nel nostro linguaggio.
Nel frattempo, sulle montagne e sugli altipiani era cominciata (e si sviluppo in modo consistente dopo l’8 settembre e il tentativo dell’Italia di uscire dalla guerra) un’azione clandestina di soccorso ai paracadutisti atterrati dagli aerei abbattuti, ai prigionieri inglesi e americani evasi dai campi di concentramento, ai primi partigiani che nelle boscaglie dell’Abruzzo s’erano arroccati. Ci fu, probabilmente, anche qualche colpo di mano contro i militi fascisti o le scarse truppe tedesche. Cominciarono le rappresaglie. Come sapemmo più tardi Pietransieri, colpevole d’aver dato asilo a prigionieri e partigiani, fu distrutta, la popolazione trucidata.
I giovani e gli uomini adulti erano fuggiti suoi monti. Ogni tanto, pattuglie tedesche guidate da qualche fascista immarcescibile facevano rapidi rastrellamenti. Ma una volta l’azione avvenne in grande stile. La ricordo ancora, con precisione.
Ci eravamo appena seduti a tavola. A casa nostra si era preparata una splendida minestra di pasta e fagioli, con le cotiche di maiale. Mangiavano con noi i Santasilia. Papà e Gino Santasilia, dopo un periodo di permanenza alla macchia erano tornati alla base: avevano entrambi assolto gli obblighi militari, credevano d’essere al sicuro. Arrivano in paese due camion tedeschi, da cui scendono correndo pattuglie di SS, brandendo mitra minacciosi, con i cinturoni guarniti di bombe a mano. Una pattuglia salì correndo le scale, irruppe nella nostra casa. Eravamo tutti atterriti. Mia mamma andò incontro agli SS e, parlando in tedesco, con grande tranquillità chiese loro se potevano aspettare che avessimo finito di mangiare e che papà avesse potuto preparare la valigia. Questo atteggiamento fugò in noi ogni paura.
La valigia era pronta. Gli uomini furono scortati fuori, in piazza. Alcuni camion li portarono via, nella direzione di Rivisondoli, Sulmona, Roma, il Nord. Il giorno dopo sapemmo che non li avevano portati al Nord: si erano fermati a Rivisondoli. Le SS li avevano affidati alla milizia territoriale tedesca, a un corpo del Genio. Erano accantonati un una scuola, dormivano per terra su mucchi di paglia. Dovevano scavare trincee.
Trascorsi alcuni giorni alcuni cominciarono ad avanzare ragioni e pretesti per essere esentati da quella corvée. Il primo fu mio zio Franz Carignani: aveva l’ernia. Con lui tornò a casa Enzo Strongoli. Poi a papà fu riconosciuto un vizio cardiaco. In realtà non producevano molto. Non che battessero la fiacca, ma come manovali non valevano un gran che. Solo Gino Santasilia rimase lì, a Rivisondoli e nei dintorni, a scavar trincee contro le armate degli Alleati. Il lavoro lo prendeva sul serio, ci dava dentro con energia.
La vita proseguì. Continuarono le gite, Luigi ad io accompagnavamo Maria Stella a raccogliere crochi, con la governante inglese. Il cibo non mancava. Mammà aveva barattato un paio di stivali da cavallo con mezzo maiale. Fu grande festa e gran lavoro quando fu macellato, quando le carni e le frattaglie furono trasformate in salsicce, lardo, prosciutto, sugna colata nelle vesciche e nei barattoli. E poi c’erano le patate, i fagioli, certi mastelli di marmellata di paese (alla quale attingevamo di nascosto, le sorelle ed io, intingendo indice e medio appaiati nel mastello). Finché non fummo sfollati: non deportati come accadde, in quegli anni, in tanti altri luoghi, ma sfollati, forzosamente. Cacciati da Roccaraso, che doveva essere rasa al suolo.
Un giorno arrivarono di nuovo le SS. Questa volta il messaggio era diverso. Tutti gli abitanti di Roccaraso dovevano andar via in due giorni. Avrebbero potuto portare con sé una valigia a testa. Autobus e camion requisiti dai tedeschi li avrebbero portati via, non si sapeva dove.
L’evento fu traumatico. In due giorni bisognava decidere e fare. Si decise di privilegiare la sussistenza: poiché non si sapeva dove i tedeschi ci avrebbero trascinati, si decise di riempire le valigie di cibi. Il resto, in un’accorta operazione notturna, fu nascosto. Gli uomini avevano scoperto, sotto la cantina della Rocca, scavata nella roccia, un’ulteriore cavità, raggiungibile dalla cantina con una botola. Lì furono nascoste le ricchezze nostre, e delle famiglie amiche. Anche una parte consistente del tesoro della chiesa. Nella cavità sotto la cantina fu poi scavata un’ulteriore buca, dove furono nascosti i gioielli: all’ultimo minuto mammà tirò fuori i suoi, non si sentiva di abbandonarli. La buca dei gioielli, il pavimento della cantina furono cementati: entrambi i pavimenti furono rifatti e sporcati con polvere di carbone.
I gioielli di mia mamma furono dissimulati all’interno di grandi gomitoli di lana di pecora, con i quali mammà lavorava
Gli autobus targati Roma che i tedeschi avevano requisito vennero puntuali a prelevarci. Passando con le nostre valigie tra sue file di militari con i mitra puntati fummo caricati e partimmo, per destinazione ignota. Il viaggio non dovette essere traumatico, visto che non ne ricordo nulla. Ricordo solo che ci scaricarono a Sulmona, accampati in una scuola. Quanto tempo saremmo rimasti lì? Nessuno poteva immaginarlo.
Nonna Sara stava a Roma. Come vedova di un ex ministro della guerra aveva ancora dei privilegi, e delle conoscenze. Riuscì ad ottenere che un’automobile del ministero, con autista, venisse a prelevarci a Sulmona. Con le nostre valigie piene di carne di porco un viaggio di molte ore ci portò a Roma. Tutti, eccetto papà: lui e Gino Santasilia erano rimasti a Sulmona, a trenta chilometri dai nostri beni sepolti nella rocca, pronti a tornare lì e recuperarli quando la tempesta fosse passata.
Arrivammo a Roma che doveva esser passata almeno una settimana dall’esodo forzoso da Roccaraso. Faceva evidentemente già caldo, perché i resti del mezzo maiale barattato contro un paio di stivali, e lungamente lavorato, erano marciti: si dovette buttare tutto.
Ci sistemammo, non male, a casa di Nonna Sara: il primo villino di via Giambattista Vico, affacciata su Piazzale Flaminio. La nonna aveva ricavato un appartamentino tutto per noi. Il bagno era separato dalla stanza di stiro da una tramezza vetrata. Stavo nella vasca quando, pochi mesi dopo il nostro arrivo a Roma, improvvisamente arrivò papà, con sei o sette sacchi di stracci: erano tutto ciò che era rimasto del nostro patrimonio domestico, dei corredi di nozze e dei regali accumulati. Scoppiò irrefrenabile il pianto della mamma.
Poi papà ci raccontò. I tedeschi avevano raso al suolo Roccaraso (ecco la nuova ragione del toponimo) per fare terra bruciata su di un probabile direttrice dell’avanzata delle truppe alleate. Ma prima avevano cercato i tesori, che certamente le famiglie abbienti avevano dovuto lasciare. Sette giorni di ricerche e di sondaggi avevano impiegato. Poi, alla fine, forse aiutati dalla spiata di qualche roccolano, avevano scoperto le cantine murate. Tutto avevano portato via: compreso l’autografo del Bollettino della Vittoria. Erano rimasti solo i sacchi di stracci, accuratamente raccolti e portati a casa da papà. Eravamo diventati quasi poveri. Ancora non sapevamo che nella villa di Ottaviano, dove erano stati depositati i mobili, i quadri, i tappeti (l’altra parte del patrimonio domestico) erano state accantonate le truppe marocchine che con gli alleati risalivano lo stivale. Faceva freddo, non c’era di meglio per riscaldarsi che bruciare quella legna stagionata. Così finirono le suppellettili della casa del Corso. Così finirono i nostri beni.
La nostra vita cambiò di nuovo. Ripresi gli studi regolari: prima al Collegio San Giuseppe Demerode, a piazza di Spagna, poi al Ginnasio Liceo Tasso, di grande fama. Al Demerode mi ricordo un singolare episodio di convivenza conflittuale. Tra gli studenti interni c’era un ragazzo che si chiamava Zamboni: in realtà era un ragazzo ebreo, il cui nome (forse Zabban) era così camuffato per nasconderlo ai fascisti. Lo sapevamo tutti. Lo sapeva anche un ragazzino fascista che, a causa del suo essere fascista, veniva rincorso e svillaneggiato nelle ore di ricreazione. Non fece mai la spia. Del Tasso mi ricordo l’amicizia con un ragazzino molto intelligente, amante della musica classica e della letteratura, figlio del chirurgo Cerletti. Ricordo anche un’atmosfera di sommesso antifascismo, che trapelava dalle lezioni di qualche nostro maestro.
Nutrirci era diventato difficile, e anche coprirci. Ricordo due risorse che si rivelarono essenziali, una in alto e una in basso nella gerarchia sociale, ma entrambe preziose: il Cardinale Maglione di Casoria e Maria Ruocco di Venafro.
Il Cardinale Maglione era Segretario di Stato del Vaticano. Era molto influente. Tra l’altro, era l’uomo che aveva imbastito e concluso i Patti Lateranensi, che avevano assicurato la convivenza, e nella sostanza l’alleanza, tra Fascismo e Vaticano. Era un uomo potente. Era nato a Casoria, nel paese d’origine della mia famiglia. Papà lo conosceva bene: era un vecchio amico di famiglia. Tramite suo fu concesso a papà di andare talvolta ad approvvigionassi allo spaccio del Vaticano: alcuni bellissimi tagli di stoffa, zucchero, torroncini di fichi secchi, sigarette, a volte qualche tavoletta di cioccolata: tutto questo costituiva il dono che, di tanto in tanto, arrivava grazie all’intercessione del Cardinale Maglione.
Maria Ruocco era la moglie, sfiancata dalla fatica e dai parti, di un manovale di Venafro che aveva lavorato con papà quando l’impresa svolgeva un appalto di strade e ponti in quella zona. Era arrivata a Roma con i figli, il marito era sperduto in qualche fronte della guerra. Mammà la incontrò accampata in una scuola dove si raccoglievano gli sfollati poveri, che le buone signore per bene assistevano. Non sapeva dove andare. Nella casa di via Giambattista Vico c’erano delle stanze nello scantinato dove Maria con i suoi figli (uno dei quali lattante) furono sistemati. Maria ogni tanto andava in campagna, dai contadini, a scambiare merci cittadine (o soldi) con olio, farina, a volte carne, uova: era la “borsa nera”. Una parte di queste merci preziose venivano da noi, contribuivano a nutrirci. Ancora più prezioso diventò l’aiuto di Maria quando arrivarono gli americani, e la borsa nera divampò con ricchezza.
La casa della nonna era una miniera di oggetti e di ricordi. Adoperavo spesso la scrivania a calatoia che era stata di nonno Armando: nei cassettini c’erano ancora i suoi pennini, fermagli, francobolli, monetine, piccoli blocchetti riempiti di appunti. C’era uno strano accendino, costruito con due bossoli di proiettile, d’ottone. Veniva a darmi ripetizione di matematica il fratello più grande del mio amico Maurizio Lucidi (che poi diventò un regista cinematografico abbastanza noto). Era un giovanottone allampanato, con cravatta e scarpe lucide. L’accendino gli piacque moltissimo. Faceva il gesto: “Signorina, permette che le accenda?”. Non mi ricordo che cosa mi promise purché glielo regalassi, ma resistetti.
In una vetrina (una specie di grande sarcofago di vetro) c’erano i trofei di guerra: le medaglia, le fotografie con il Capo Crow, i regali di Clemenceau e di Wilson, il Collare dell’Annunziata e così via. Sotto, in una cassa foderata di velluto rosso, c’era la sciabola di Maresciallo d’Italia.
Quello che mi piaceva di più, e che mi teneva avvinto per ore, erano i libri di zia Irene: la sorella di mammà che, sposata con l’ingegner Pierino Parisi, aveva lasciato lì parte della sua adolescenza. Così entrai in un mondo nuovo: da Via col Vento alla Saga dei Forsyte, da Cronin a Dos Passos, da Steinbeck a Maurois, cominciai a conoscere la realtà del mondo attraverso i romanzi. Cominciò allora anche il mio amore per la poesia, e il romanticismo. Tra i libri di zia Irene avevo scoperto una serie di minuscoli libriccini, rilegati di stoffe provenzali. I Fleurs du mal, che leggevo per far colpo su Maria Stella, facevano parte di quella serie.
Tra i tesori collocherei Angelina, la vecchia cuoca della nonna. Era di un paesino della Sabina. Cucinava bene, ma soprattutto aveva dei grandi barattoli di vetro sempre pieni di caramelle, che le regalava un suo nipote proprietario d’una drogheria, al paese. Credo che fosse Angelina la produttrice della migliore marmellata d’arance che abbia mai mangiato. Le arance venivano bucherellate, poi stavano per ore e ore sotto un filo d’acqua, nel piccolo acquaio di marmo nel corridoio della cucina. Una volta spurgate dell’amaro più forte venivano tagliate, con la buccia, a striscioline sottili e lungamente cotte con lo zucchero. Era squisita.
Nonna Carmela e zia Giannina, con i miei cugini Carignani, soggiornavano in quel periodo all’Hotel Imperiale, nell’ultimo tratto di Via Veneto verso piazza Barberini. Spesso andavo lì per giocare con Luigi. L’albergo era molto frequentato da ufficiali tedeschi. Un giorno sentimmo un gran botto. Ci affacciammo alla finestra. I tedeschi andavano di corsa verso piazza Barberini, alcuni seguiti da cani lupi; motociclette con sidecar arrivavano e ripartivano. Tutto quel chiasso ci stupì. Più tardi sapemmo che a via Rasella, una traversa di piazza Barberini, i partigiani avevano fatto esplodere una bomba al passaggio d’un plotone di soldati nazisti.
Dopo uno o due giorni la tragedia esplose in molte famiglie: si sparse subito la voce della rappresaglia. Per ogni tedesco ucciso i nazisti avevano ammazzato dieci prigionieri prelevati in fretta e furia, più qualcuno per aggiungere peso alla minaccia. Anche i miei genitori avevano amici a Regina Coeli o nella tremenda prigione di Via Tasso. Mia mamma era andata qualche volta in quest’ultima prigione, camera di tortura delle SS (come si seppe dopo), a cercare notizie di Filippo di Montezemolo, suo amico, ufficiale monarchico antifascista, arrestato e torturato. E’ uno di quelli che furono trucidati, all’indomani dell’attentato, prima del proclama, pubblicato con evidenza sul Messaggero, con cui si intimava agli attentatori di autodenunciarsi, minacciando di fare ciò che era già stato consumato.
Era giugno. L’aria era tiepida, le finestre aperte. Quelle della casa della nonna davano su piazzale Flaminio; erano al primo piano. C’era attesa. Da tempo si diceva che gli Alleati, bloccati a Nettuno da mesi, sarebbero entrati a Roma stasera, no, domani, no, fra una settimana al massimo. Avevamo sentito colonne di camion tedeschi andare verso la Flaminia, attraversando il piazzale oppure scorrendo dal lungotevere. Poi, un lungo silenzio. Si cominciò a veder arrivare dal viale del Muro Torto una fila di soldati diversi, con gli elmetti a padella rovesciata: inglesi o australiani. Alcune camionette con la stella bianca (americani) arrivarono da Piazza del Popolo, quando un camion tedesco scese all’impazzata da Villa Borghese. Un ritardatario. Scoppi, raffiche: una scaramuccia proprio sotto casa. Ci fecero buttare per terra, dietro il avanzale.
La mattina dopo, gli alleati erano entrati a Roma, l’avevano liberata. Tripudio. Ricordo la folla a piazza del Popolo che assaliva le jeep e i camion con la stella bianca cerchiata, abbracciava i soldati in uniforme cachi che buttavano sigarette e razioni di guerra.
La carestia era finita. Gli Alleati portavano ogni ben di Dio. Le prime cibarie con cui festeggiammo la fine della fame erano delle scatolette incerate, di cartone verdognolo, nelle quali c’erano scatolette di ham and eggs, minestre in polvere, tavolette di cioccolata, pacchettini di sigarette: erano la quotidiana razione di guerra, di cui i soldati, giunti nella grande città, si liberavano senza rimpianto. Poi cominciarono le porzioni più grosse. Le scatole di minestra di piselli secchi in polvere diventò il cibo più diffuso: la pea soup divenne un sapore ricorrente: interessante all’inizio (sfamava, ed era diverso) insopportabile dopo alcuni mesi.
Cominciai a fumare, di nascosto. Sigarette, cioccolata e liquori erano i prodotti più diffusi alla borsa nera. E Maria di Venafro, con i suoi numerosi figli, era ben inserita nel commercio clandestino. Le novità erano i sapori, ma anche le confezioni: c’erano decine e decine di tipi diversi di pacchetti di sigarette, americane inglesi australiane francesi indiane. Mio cugino Luigi ed io ne facevamo collezione, raccogliendole per strada.
Nel linguaggio corrente entrò la politica. C’era stata la breve stagione tra la caduta del fascismo e l’8 settembre 1943, poi l’occupazione tedesca aveva rigettato la politica nella clandestinità, e la preoccupazione dominante era divenuta la sopravvivenza. L’unica abitudine “politica” era l’ascolto clandestino di Radio Londra, che trasmetteva strani messaggi in cifra, comprensibili solo agli oscuri militanti della lotta antifascista, e dava notizie sui fronti di guerra: a noi, ovviamente, interessava la lenta risalita dal sud dell’esercito alleato.
Dopo l’arrivo delle truppe alleate scoprii che la politica era vicina: mio cugino Alberto (il fratello maggiore di Luigi) era nella Resistenza come liberale o azionista, non ricordo. I miei genitori erano vicini ad esponenti della clandestinità antifascista monarchica. Ma papà diventò (o si scoprì) socialdemocratico: cominciò a partecipare alle riunioni, le assemblee, i comizi. Peppino Galasso mi raccontò molti anni dopo (quando lo conobbi come ministro per i Beni culturali) che mio padre era stato il primo che l’aveva avvicinato alla politica, portandolo al Teatro Eliseo ad una manifestazione alla quale partecipavano Togliatti e Nenni, Ruini e De Gasperi.
Ma per noi ragazzi la politica restava una cosa estranea, lontana. Non ne capivamo nulla. Non coglievamo il fermento che agitava la Capitale, in quei mesi che separarono il giugno del 1944 (la liberazione di Roma, ad opera dell’armata alleata) dall’aprile 1945 (la liberazione, ad opera dei partigiano del Comitato di liberazione italiana). A Roma, del resto, la mia famiglia ci rimase poco: appena fu possibile tornammo a Napoli, dove erano la nostra casa, i nostri averi residui, l’impresa di papà.