LA TERRA
E come vedo le grandi membra del mondo
consumarsi e rinascere,
come ci fu nel tempo un principio
del cielo e della terra:
così ci sarà delle cose una rovina infinita.
La terra e il fuoco periranno
e le acque e il vento e lo spazio.
Vedi la terra: parte ne brucia
la violenza ferma del sole,
parte ne batte il molto passare dei piedi
ed esala spire di polvere, nembi
volanti sul vigore del vento;
e la pioggia ne allaga le glebe, le piene
dei fiumi le rodono, scavano rive radenti.
E ogni cosa nutrita, cresciuta da lei
in lei finisce, madre del tutto e sepolcro.
(V, 243-246: 248-249: 251-259)
Traduzione di Enzio Cetrangolo
A me pare uguale agli dei
chi a te vicino così dolce
suono ascolta mentre tu parli
e ridi amorosamente. Subito a me
il cuore si agita nel petto
solo che appena ti veda, e la voce
si perde sulla lingua inerte.
Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue alle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
Come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.
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Nel nostro mondo,
sovrastiamo gli Inferi,
guardando i fiori!
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L'uccello in gabbia
osserva, invidioso,
la farfalla.
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Nel nostro mondo, anche
le farfalle sono stanche
sono stanche di vivere.
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Il giorno irrompe -
il colore del cielo
si cambia d'abito.
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Nel mio villaggio
persino le mosche pungono
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Mi recherà qui un pesce
il fluire del ruscello?
Brume di primavera
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Pioggerella primaverile-
lecca, un topolino,
il fiume Sumida
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Ranocchietto ossuto,
non lasciarti sconfiggere!
Issa è qui, a incoraggiarti
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Più numerose le primavere
più i lunghi di'
recano lacrime e lamenti -
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la neve si scioglie:
nel villaggio frotte
di bambini
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Ad ogni cancello
la primavera comincia
dal fango sui sandali
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In questo mondo,
frenesia anche nella vita
della farfalla
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In questo mondo
contempliamo i fiori;
sotto, l’inferno
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Si sveglia
e sbadiglia, il gatto;
poi, l’amore
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Tra dio
e il mendicante sboccia
il fiore di u
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in un frullo
si libra
la grande lucciola
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Giovinezza:
rende bello persino
i morsi della pulce
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Anche per le pulci
è forse lunga la notte
e solitaria
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Vento d’autunno:
a sé mi paragona con gli occhi
il mendicante
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Perle di rugiada:
in ognuna vedo
il mio villaggio
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Kaki di montagna:
è la madre a morderne
le parti più aspre
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Un filo di fumo
disegna adesso
il primo cielo dell’anno
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Il mio paese:
benché sia piccolo,
i boschi sono miei.
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C'ero soltanto.
C'ero. Intorno
cadeva la neve.
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La quercia
sembra non curarsi
dei ciliegi in fiore.
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Vecchio stagno
tonfo di rana
suono d'acqua
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Sera:
tra i fiori si spengono
rintocchi di campana
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Passero amico,
risparmialo, il tafano
che gioca tra i fiori
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Stanchezza:
entrando in una locanda,
i glicini
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Stagione delle piogge:
i miei capelli di nuovo
intorno al pallido viso
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Erba estiva:
per molti guerrieri
la fine di un sogno
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Silenzio:
graffia la pietra
la voce delle cicale
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Separazione-
le spighe dell’orzo
tormentate tra le dita
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Un banano nel temporale;
il gocciolio dell’acqua nel catino
scandisce la mia notte
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Sono arrivato fino a qui
senza morire –
e finisce l’autunno
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Chiare cascate:
tra le onde si infilano verdi
gli aghi dei pini
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Su un ramo secco,
si posa un corvo,
crepuscolo autunnale.
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Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l'anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero.
Sai già d’usato, di messo all’asta, di riciclato,
di rovistato, di mezzo e mezzo,
di patteggiato, di concordato un tanto al pezzo;
sai di stantio, di maneggiato,
di cose dette, già strimpellate,
di verità vere a metà, vendute al chilo,
già fatte a fette, impacchettate,
tutto già visto, bollito, detto, confezionato.
Ti ho già assaggiato, centellinato, anche leccato,
Ti ho già provato, messo e rimesso, più del previsto rimuginato.
Ora ti vendo, tempo mio caro, tempo passato, fotografato,
ti cedo in stock, infiocchettato,
sei già all’incanto, in conto vendita, prezzo stracciato,
di mesi ed anni tempo attempato, tempo perduto,
risuscitato, mai ritrovato, tempo fermato;
ti ho già contato, messo in clessidra, rimisurato,
tempo mai dato, messo in deposito, mai riscattato;
ora rescindo, lascio e abbandono,
ti riconsegno, vendo o regalo, restituisco,
cedo in omaggio, dono o baratto,
pur ti pur di disfarmi del tuo pedaggio
pago penali, more, gabelle, tasse con l’aggio .
Ditemi il prezzo, l’affrancatura,
il saldo al netto, l’impiombatura,
ve lo spedisco, ve lo impacchetto,
ve lo rimetto tutto imballato,
con allegato, firma e saluto;
sulla causale: “ tempus inanus”,
da consegnare tutto d’un fiato,
espresso, urgente, anzi immediato;
il trapassato è già in giacenza,
quello recente, senza rimpianti, torna al mittente;
Ve lo rimando, scrivo “venduto”,
“reso”, “ridato”, “riconsegnato”.
Tengo alla fine un unico pezzo,
fatto di niente, senza peccato,
sopravissuto, salvo, scampato,
un pezzo intero, vivo, verace,
in cui confido, ricetto e spero;
tempo lasciato, tempo non tempo,
tempo in mistura, puro e inquinato,
hic et nunc dico, prego e ripeto,
tempo rispondi, fammi esaudito,
tempo clemente, duro, tiranno o indifferente,
fermo, inchiodato, svelto, fuggente,
[ora lo dico:] tempo trovato.
Ritratto minimo
Per E.S.
La vita capìta in uno schiocco di dita.
GIUNONE
Tonda quel tanto che mi dà tormento,
La tua coscia distacca di sull'altra...
Dilati la tua furia un'acre notte!
Chi costruiva Tebe dalle sette porte?
Nei libri leggo i nomi dei re.
I re hanno trascinato i blocchi di pietra?
E tante volte distrutta Babilonia,
Chi di nuovo la riedificò?...
... La grande Roma
è piena di archi di trionfo. Chi li fece? Su chi
trionfarono i Cesari? La tanto decantata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?...
Il giovane Alessandro conquistò l'India,
egli, da solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva neanche il cuoco con sé?
Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta
affondò. Nessuno pianse oltre di lui?
Federico II vinse la guerra dei sette anni.
Chi la vinse oltre di lui?
Ogni pagina una vittoria.
Chi preparò il banchetto per i vincitori?
Ogni dieci anni un grand'uomo!
Chi ne pagò le spese?...
Poiché dei mondi sognati
non incontrai che la creta
e delle stelle intraviste
non ho che il gelo
poiché la vicenda si compie
senza eroismo
senza bellezza
senza passione
io sono morta da tempo
e qui c'è qualcuno che scrive.
I LEONI SUL SAGRATO
C'è un luogo dove dormi
e il tuo respiro
io non lo sento, non lo sento mai.
Fra i nostri due riposi
è la città spavalda
strade, fragori, alterchi, gente e tetti
e come due leoni sul sagrato
remoti e fermi, chiusi in una forma,
noi vigiliamo la nostra distanza.
CONFESSIONE
E scrivo male
perché ho tanta pena
e parlo piano
perché non mi ascolti
e piango zitta
perché mi vergogno.
CHANSONNETTE
Colui che amo
sa che lo chiamo
lo chiamo piano
lo chiamo invano
nella mia mano
sta la sua mano
finché lo chiamo
cosí pian piano
E se lo chiamo
con voce forte
le nostre mani
scioglie la morte.
LE TUE MANI
Le tue mani
sono sottili e chiare
mani gentili e deboli
carezzevoli alla fronte
use ad asciugar lagrime
ad aprirsi in elemosina.
Mani come le tue
conoscono tutto lo sporco soffrire
di tutti i mondi.
Hanno stretto le grate aspre
e graffiato le porte chiuse
e sanguinato di ferite ignobili.
Hanno giocato e perduto.
Hanno raccolto un premio
e dissipato,
compiuta una fatica
e disperso il vantaggio,
carezzato l'amore
e ucciso.
LA ZOLLA
lo sono la tua zolla
calda e oscura
dove fermenta la seminagione
che inonda l'acqua
e il sole brucia e assecca.
Sono la zolla verde
che darà il frutto della tua stagione
sono la zolla nera
che poi l'aratro gelido discosta.
Verde una spiga nuova
vicino a me trema nel vento e aspetta.
No more be griev'd at that which thou hast done:
Roses have thorns, and silver fountains mud:
Clouds and eclipses stain both moon and sun,
And loathsome canker lives in sweetest bud.
All men make faults, and even I in this,
Authorising thy trespass with compare,
Myself corrupting, salving thy amiss,
Excusing thy sins more than thy sins are;
For to thy sensual fault I bring in sense, -
Thy adverse party is thy advocate, -
And 'gainst myself a lawful plea commence:
Such civil war is in my love and hate,
That I an accessary needs must be
To that sweet thief which sourly robs from me.
Non essere piú presa da pena per quello che hai fatto:
Hanno spine, le rose, e fango l'argentea sorgente:
Le nuvole e le eclissi intorbidano luna e sole,
li cancro ripugnante vive nel bocciuolo piú tenero.
È umano commettere errori, ne commetto uno io stesso
Quando mi provo a discolparti facendo paragoni,
Corrompendo me stesso per porgere unguento al tuo male,
Scusando i tuoi peccati piú di quanto non converrebbe;
Poiché un senso vado trovando ai tuoi falli sensuali,
- Diventa tuo avvocato chi dovrebbe invece accusarti, -
Intento in piena regola una causa contro di me:
Tale guerra civile tra amore e rabbia infuria in me,
Che non posso non diventare complice necessario
Di quella dolce ladrona che acerbamente mi depreda.
William Shakespeare
Sonetto XXXV
da “40 sonetti di Shakespeare”
Traduzione di Giuseppe Ungaretti
Arnoldo Mondadori Editore, 1966
Qual rugiada e qual pianto,
quai lacrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto
e dal candido volto delle stelle?
E perchè seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
a l'erba fresca in grembo?
Perchè nell'aria bruna
s'udian quasi dolendo, intorno intorno
gir l'aure insino al giorno?
Fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
Non so se tra roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora de la Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina O Regina adolescente:
Ma per il tuo ignoto poema
Di voluttà e di dolore
Musica fanciulla esangue,
Segnato di linea di sangue
Nel cerchio delle labbra sinuose
Regina de la melodia:
Ma per il vergine capo
Reclino, io poeta notturno
Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
Io per il tuo dolce mistero
Io per il tuo divenir taciturno.
Non so se la fiamma pallida
Fu dei capelli il vivente
Segno del suo pallore,
Non so se fu un dolce vapore,
Dolce sul mio dolore,
Sorriso di un volto notturno:
Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
E l'immobilità dei firmamenti
E i gonfii rivi che vanno piangenti
E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Dino Campana
Una biografia di Dino Campana, con musica
Ne traggo qualche notizia sull’autore:
“Salvatore Esposito è nato a Bagnoli il 6 gennaio 1923: frequentò la scuola tecnico industriale: interruppe gli studi per otto anni durante i quali fu aggiustore meccanico, e, con l'occupazione alleata, fece il muratore al P. B. S.: riprese gli studi al liceo artistico, frequenta l' Architettura. È operaio dell'Ilva-Bagnoli. Le sue prime poesie le scrisse in napoletano sotto lo influsso di Salvatore Di Giacomo e di Ferdinando Russo. Conosce i classici meglio che i contemporanei.”
Il mio corpo è mille cicatrici
Cucite da mia madre
Con un filo di pianto
Ognuna e dolce come una bestemmia
Argentina nel mare della rabbia
Piove cielo nel lago d’erba
le mani nascoste alle mani
Guancia di carne
Su guancia di pane
Senza lacrime Immoto
Disfarmi
Capodanno vestito di flanella
Col sole sulle snelle ciminiere
E ottavini nell'ugola
Della sirena vorticosa
E' un fanciullo viziato
che mangia solo pastasciutta
e attende
un Messia riveduto
armato di fucile e bombe a mano
Ci viene addosso
Fermo alla sua sedia
Col dito teso
Quanto è lungo il braccio
Che plana sui disegni
L'irrequiete
Gambe da trampoliere
S artigliano al felpato linoleum
E urla le sue idee
Col naso adunco
Le spinge avanti a furia di spalla
Senza cravatta e senza rancore
Fra me e l’azzurro
Madre
E oltre
Le case al sole
Ma quando t'inabissi alla seggiola
e il gatto ritorna ai tuoi piedi
Il sole
L’azzurro
Le case
Ritornano all'abbraccio dei miei occhi
Alla riva di casa fra rottami
Di un giorno inghirlandato
Di mimose e pensieri leggeri
L'onda del tempo mi ha scaraventato
E alla collina
S'è dissolta in languore
Sul balcone fiorito
Più non vibrano voci
Ora severi
I covoni di coke si fan cupi
li carroponte è fermo nell'attesa
La notte incombe triste alla cimasa
La rondine è tornata il petto nero
Il macinino del caffè ci culla
Come bambini dopo un lungo pianto
Scaturito così per un nonnulla
L'aquilone di un canto
Un uomo ha sciolto nella via
M’è parso alla penombra di morire
Confine
Confine diceva il cartello
cercai la dogana, non c'era
non vidi dietro il cancello
ombra di terra straniera.
Taniello, ch'ave scrupole
mò che se vo' nzurà,
piglia e da Fra Liborio
va pe' se cunfessà.
«Patre - le dice - i' roseco,
i' pe nniente me mpesto;
ma po' dico 'o rusario,
e chello va pe cchesto...
Patre, ncuollo a li ffemmene
campo e ncoppa a 'o bordello;
ma sento messe e predeche...
e chesto va pe chello.
Iastemmo, arrobbo... 'O prossimo
spoglio e le dongo 'o riesto;
ma po' faccio 'a lemmosena...
e chello va pe' cchesto.
E mo, Patre, sentitela
st'urdema cannonata:
a sora vostra, Briggeta,
me l'aggio nsaponata...»
Se vota Fra Liborio:
«Guagliò, tu si’ Taniello?...
I' me nsapono a mammeta,
e chesto va pe cchello!»
NOTE
Nzurà= sposare
Roseco = molesto, brontolo
Me mpesto = mi arrabbio
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Gerard Manley Hopkins
“Pied Beauty”
da:Eugenio Montale, “Quaderno di traduzioni”
Edizioni della Meridiana, 1948
other poetries of G.M. Hopkins
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento
Salvatore Quasimodo
Una biografia di Salvatore Quasimodo
E venne un tempo
che le tentazioni diventarono così potenti
che pochi resistettero
La loro coscienza cominciò a turbarli
Un’ombra c’è in ciascuno di noi,
un altro me stesso che ci perseguita e tormenta
che s’insinua nella nostra coscienza
furtivamente come un ladro di notte
insistendo ferendo e amareggiando
”Sei tu lo stesso - domanda – sei tu lo stesso
che proclamava la nuova primavera
il vero amore e pane per tutti
che negava che la felicità fosse fatta
col sudore e col sangue d’altri uomini
che cercava nel suo popolo
la forza e la ragione.
Sei tu lo stesso - domanda –
che oggi si vende a chi paga di più
sei tu lo stesso”
Sono proprio io. Lo stesso
che sparava pallottole di giustizia
che durante le marce si fermava sul bordo del sentiero
per un fiore o il sorriso d’un bambino
che nelle notti chiare in cima alle montagne
tendeva la mano per cogliere le stelle
che lasciava lo spirito vagare nello spazio
e là, come un tamburo
annunciava il nuovo canto.
Sono lo stesso, ma oggi
i bambini fuggono quando passo
e gli specchi riflettono un’anima torpida
sfigurata corrotta.
Ah, in quale momento del percorso
i nostri passi si smarrirono?
Dovunque tentiamo di nasconderci
il nostro antico giuramento ci perseguita.
Devo imparare di nuovo
a perturbare l’universo, a rifiutare
il conforto dei palazzi
a dividere con i diseredati
il desiderio di virtù.
Il mio altro me stesso me lo insegnerà
Il testo portoghese (e francese)
Reggono ma per poco
gli sguardi amorosi,
cincie presto buttate
a saggiare i dirupi.
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Nulla scompone l’agave.
Urge dentro
l’unico fiore.
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Il respiro giusto
nel tempo assegnato.
Altro non è dato sapere
di chi ha costruito i sentieri.
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Oltre i terrazzi il ponentino
soffia nei pini
passi di danza.
I cipressi sono già sulle punte.
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Tace il ramarro.
Urla il suo verde.
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Non si mostra
il gatto selvatico.
Dalle forre
inarca
lamenti d’amore.
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Sull’acqua
si accoccola appena.
Vento o mare il gabbiano
sa l’arte
di farsi cullare.
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Come per accordo
con la signora
dell’ombrellone accanto
ci salutiamo
un anno sì un anno no.
Non si può
chiedere tutto
all’estate.
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Stare presso.
Questo
a noi è concesso.
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Città azzurra
città fredda
città mobile e ferma
con le facciate al sole,
ancor nell'ombra il piede delle case.
Ombra ai cancelli e ai pini
e al sonno di piccoli bambini
rimasti nella casa senza madre.
Città di corse e soste
alle otto del mattino,
studenti, impiegati, manovali
e donne col rossetto e il giornale.
Città che indugi e che prorompi
alla periferia
mentre mi allontano a lavorare,
città di tutti e mia.
Difficile é il mio tempo,
ma io non mi lamento.
Mai ti dirò:
- Torniamo indietro,
Torniamo donne a casa -
Tu, casa più grande della mia,
ancor feroce al tenero mio amore
come caverna al primordiale,
ti chinerai sul gioco dei bambini
con libere movenze
che la luce non rompe
che l'ombra non incrina,
Perché tu sei nel tempo
destinata a finire
il tuo cemento,
a fiorire la tua maternità,
città di tutti e mia,
città! Che l'architetto
fa di vetro
e noi di sangue.
Da Luigia Rizzo Pagnin, Il borghese agli agguati, Edizioni de “Il rinoceronte”, Padova, 1964
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Né teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore.
Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.
Una biografia di Giacomo Leopardi
OCCHIAZZURRA
A te occhiazzurra questi canti deve
uno che ha sete e alle tue labbra beve;
che antichi come lui, come te nuovi,
se giri tutto il mondo non ne trovi.
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore
Sorge in sul primo albore
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
E la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
E lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se' queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perchè giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.