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LA TERRA

E come vedo le grandi membra del mondo

consumarsi e rinascere,

come ci fu nel tempo un principio

del cielo e della terra:

così ci sarà delle cose una rovina infinita.

La terra e il fuoco periranno

e le acque e il vento e lo spazio.

Vedi la terra: parte ne brucia

la violenza ferma del sole,

parte ne batte il molto passare dei piedi

ed esala spire di polvere, nembi

volanti sul vigore del vento;

e la pioggia ne allaga le glebe, le piene

dei fiumi le rodono, scavano rive radenti.

E ogni cosa nutrita, cresciuta da lei

in lei finisce, madre del tutto e sepolcro.

(V, 243-246: 248-249: 251-259)

Traduzione di Enzio Cetrangolo

A me pare uguale agli dei

chi a te vicino così dolce

suono ascolta mentre tu parli

e ridi amorosamente. Subito a me

il cuore si agita nel petto

solo che appena ti veda, e la voce

si perde sulla lingua inerte.

Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,

e ho buio negli occhi e il rombo

del sangue alle orecchie.

E tutta in sudore e tremante

Come erba patita scoloro:

e morte non pare lontana

a me rapita di mente.

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Nel nostro mondo,

sovrastiamo gli Inferi,

guardando i fiori!

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L'uccello in gabbia

osserva, invidioso,

la farfalla.

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Nel nostro mondo, anche

le farfalle sono stanche

sono stanche di vivere.

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Il giorno irrompe -

il colore del cielo

si cambia d'abito.

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Nel mio villaggio

persino le mosche pungono

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Mi recherà qui un pesce

il fluire del ruscello?

Brume di primavera

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Pioggerella primaverile-

lecca, un topolino,

il fiume Sumida

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Ranocchietto ossuto,

non lasciarti sconfiggere!

Issa è qui, a incoraggiarti

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Più numerose le primavere

più i lunghi di'

recano lacrime e lamenti -

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la neve si scioglie:

nel villaggio frotte

di bambini

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Ad ogni cancello

la primavera comincia

dal fango sui sandali

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In questo mondo,

frenesia anche nella vita

della farfalla

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In questo mondo

contempliamo i fiori;

sotto, l’inferno

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Si sveglia

e sbadiglia, il gatto;

poi, l’amore

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Tra dio

e il mendicante sboccia

il fiore di u

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in un frullo

si libra

la grande lucciola

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Giovinezza:

rende bello persino

i morsi della pulce

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Anche per le pulci

è forse lunga la notte

e solitaria

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Vento d’autunno:

a sé mi paragona con gli occhi

il mendicante

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Perle di rugiada:

in ognuna vedo

il mio villaggio

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Kaki di montagna:

è la madre a morderne

le parti più aspre

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Un filo di fumo

disegna adesso

il primo cielo dell’anno

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Il mio paese:

benché sia piccolo,

i boschi sono miei.

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C'ero soltanto.

C'ero. Intorno

cadeva la neve.

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Che cosa sono gli haiku

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La quercia

sembra non curarsi

dei ciliegi in fiore.

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Vecchio stagno

tonfo di rana

suono d'acqua

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Sera:

tra i fiori si spengono

rintocchi di campana

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Passero amico,

risparmialo, il tafano

che gioca tra i fiori

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Stanchezza:

entrando in una locanda,

i glicini

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Stagione delle piogge:

i miei capelli di nuovo

intorno al pallido viso

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Erba estiva:

per molti guerrieri

la fine di un sogno

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Silenzio:

graffia la pietra

la voce delle cicale

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Separazione-

le spighe dell’orzo

tormentate tra le dita

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Un banano nel temporale;

il gocciolio dell’acqua nel catino

scandisce la mia notte

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Sono arrivato fino a qui

senza morire –

e finisce l’autunno

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Chiare cascate:

tra le onde si infilano verdi

gli aghi dei pini

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Su un ramo secco,

si posa un corvo,

crepuscolo autunnale.

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Che cosa sono gli haiku

Tramontata è la luna

e le Pleiadi a mezzo della notte;

anche giovinezza già dilegua,

e ora nel mio letto resto sola.

Scuote l'anima mia Eros,

come vento sul monte

che irrompe entro le querce;

e scioglie le membra e le agita,

dolce amara indomabile belva.

Ma a me non ape, non miele;

e soffro e desidero.

Sai già d’usato, di messo all’asta, di riciclato,

di rovistato, di mezzo e mezzo,

di patteggiato, di concordato un tanto al pezzo;

sai di stantio, di maneggiato,

di cose dette, già strimpellate,

di verità vere a metà, vendute al chilo,

già fatte a fette, impacchettate,

tutto già visto, bollito, detto, confezionato.

Ti ho già assaggiato, centellinato, anche leccato,

Ti ho già provato, messo e rimesso, più del previsto rimuginato.

Ora ti vendo, tempo mio caro, tempo passato, fotografato,

ti cedo in stock, infiocchettato,

sei già all’incanto, in conto vendita, prezzo stracciato,

di mesi ed anni tempo attempato, tempo perduto,

risuscitato, mai ritrovato, tempo fermato;

ti ho già contato, messo in clessidra, rimisurato,

tempo mai dato, messo in deposito, mai riscattato;

ora rescindo, lascio e abbandono,

ti riconsegno, vendo o regalo, restituisco,

cedo in omaggio, dono o baratto,

pur ti pur di disfarmi del tuo pedaggio

pago penali, more, gabelle, tasse con l’aggio .

Ditemi il prezzo, l’affrancatura,

il saldo al netto, l’impiombatura,

ve lo spedisco, ve lo impacchetto,

ve lo rimetto tutto imballato,

con allegato, firma e saluto;

sulla causale: “ tempus inanus”,

da consegnare tutto d’un fiato,

espresso, urgente, anzi immediato;

il trapassato è già in giacenza,

quello recente, senza rimpianti, torna al mittente;

Ve lo rimando, scrivo “venduto”,

“reso”, “ridato”, “riconsegnato”.

Tengo alla fine un unico pezzo,

fatto di niente, senza peccato,

sopravissuto, salvo, scampato,

un pezzo intero, vivo, verace,

in cui confido, ricetto e spero;

tempo lasciato, tempo non tempo,

tempo in mistura, puro e inquinato,

hic et nunc dico, prego e ripeto,

tempo rispondi, fammi esaudito,

tempo clemente, duro, tiranno o indifferente,

fermo, inchiodato, svelto, fuggente,

[ora lo dico:] tempo trovato.

Ritratto minimo

Per E.S.



La vita capìta in uno schiocco di dita.

GIUNONE

Tonda quel tanto che mi dà tormento,

La tua coscia distacca di sull'altra...

Dilati la tua furia un'acre notte!

Qual rugiada e qual pianto,

quai lacrime eran quelle

che sparger vidi dal notturno manto

e dal candido volto delle stelle?

E perchè seminò la bianca luna

di cristalline stelle un puro nembo

a l'erba fresca in grembo?

Perchè nell'aria bruna

s'udian quasi dolendo, intorno intorno

gir l'aure insino al giorno?

Fur segni forse de la tua partita,

vita de la mia vita?

La Chimera

Non so se tra roccie il tuo pallido

Viso m'apparve, o sorriso

Di lontananze ignote

Fosti, la china eburnea

Fronte fulgente o giovine

Suora de la Gioconda:

O delle primavere

Spente, per i tuoi mitici pallori

O Regina O Regina adolescente:

Ma per il tuo ignoto poema

Di voluttà e di dolore

Musica fanciulla esangue,

Segnato di linea di sangue

Nel cerchio delle labbra sinuose

Regina de la melodia:

Ma per il vergine capo

Reclino, io poeta notturno

Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero

Io per il tuo divenir taciturno.

Non so se la fiamma pallida

Fu dei capelli il vivente

Segno del suo pallore,

Non so se fu un dolce vapore,

Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:

Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti

E l'immobilità dei firmamenti

E i gonfii rivi che vanno piangenti

E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti

E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

Dino Campana

Una biografia di Dino Campana, con musica

Ne traggo qualche notizia sull’autore:

“Salvatore Esposito è nato a Bagnoli il 6 gennaio 1923: frequentò la scuola tecnico industriale: interruppe gli studi per otto anni durante i quali fu aggiustore meccanico, e, con l'occupazione alleata, fece il muratore al P. B. S.: riprese gli studi al liceo artistico, frequenta l' Architettura. È operaio dell'Ilva-Bagnoli. Le sue prime poesie le scrisse in napoletano sotto lo influsso di Salvatore Di Giacomo e di Ferdinando Russo. Conosce i classici meglio che i contemporanei.”

MILLECICATRICI

Il mio corpo è mille cicatrici

Cucite da mia madre

Con un filo di pianto

Ognuna e dolce come una bestemmia

Argentina nel mare della rabbia

Incontro d’amore

Piove cielo nel lago d’erba

le mani nascoste alle mani

Specchio

Guancia di carne

Su guancia di pane

Senza lacrime Immoto

Disfarmi

Fine d’anno

Capodanno vestito di flanella

Col sole sulle snelle ciminiere

E ottavini nell'ugola

Della sirena vorticosa

Mio padre

E' un fanciullo viziato

che mangia solo pastasciutta

e attende

un Messia riveduto

armato di fucile e bombe a mano

Ritratto

Ci viene addosso

Fermo alla sua sedia

Col dito teso

Quanto è lungo il braccio

Che plana sui disegni

L'irrequiete

Gambe da trampoliere

S artigliano al felpato linoleum

E urla le sue idee

Col naso adunco

Le spinge avanti a furia di spalla

Senza cravatta e senza rancore

Madre alla finestra

Fra me e l’azzurro

Madre

E oltre

Le case al sole

Ma quando t'inabissi alla seggiola

e il gatto ritorna ai tuoi piedi

Il sole

L’azzurro

Le case

Ritornano all'abbraccio dei miei occhi

Nero di marzo

Alla riva di casa fra rottami

Di un giorno inghirlandato

Di mimose e pensieri leggeri

L'onda del tempo mi ha scaraventato

E alla collina

S'è dissolta in languore

Sul balcone fiorito

Più non vibrano voci

Ora severi

I covoni di coke si fan cupi

li carroponte è fermo nell'attesa

La notte incombe triste alla cimasa

La rondine è tornata il petto nero

Nero d’ottobre

Il macinino del caffè ci culla

Come bambini dopo un lungo pianto

Scaturito così per un nonnulla

L'aquilone di un canto

Un uomo ha sciolto nella via

M’è parso alla penombra di morire

Confine

Confine diceva il cartello

cercai la dogana, non c'era

non vidi dietro il cancello

ombra di terra straniera.

il sito di Giorgio Caproni

una biografia

Taniello, ch'ave scrupole

mò che se vo' nzurà,

piglia e da Fra Liborio

va pe' se cunfessà.

«Patre - le dice - i' roseco,

i' pe nniente me mpesto;

ma po' dico 'o rusario,

e chello va pe cchesto...

Patre, ncuollo a li ffemmene

campo e ncoppa a 'o bordello;

ma sento messe e predeche...

e chesto va pe chello.

Iastemmo, arrobbo... 'O prossimo

spoglio e le dongo 'o riesto;

ma po' faccio 'a lemmosena...

e chello va pe' cchesto.

E mo, Patre, sentitela

st'urdema cannonata:

a sora vostra, Briggeta,

me l'aggio nsaponata...»

Se vota Fra Liborio:

«Guagliò, tu si’ Taniello?...

I' me nsapono a mammeta,

e chesto va pe cchello!»

NOTE

Nzurà= sposare

Roseco = molesto, brontolo

Me mpesto = mi arrabbio


Pied Beauty

La bellezza cangiante

Glory be to God for dappled things -

for skies as couple-coloured as a brindled cow;

for rose-moles all in stipple upon trout that swim;

fresh-firecoal chestnut-falls; finches’ wings;

landscapes plated and pieced - fold, fallow and plough;

and all trades, their gear and tackle and trim.

All things counter, original, spare, strange;

whatever is fickle, freckled (who knows how?)

with swift, slow; sweet, sour; adazzle, dim;

He fathers-forth whose beauty is past change:

praise Him.
Gloria a Dio per le cose che ha spruzzate:

i cieli bicolori, pezzati come vacche,

la striscia roseo-biliottata della

trota in acqua, il tonfar delle castagne

- crollo di tizzi giovani nel fuoco –

e l'ali del fringuello; per le toppe

dei campi arati e dissodati,

e tutti i traffici e gli arnesi, e tutto ch'è

fuor di squadra, difforme, impari e strambo,

tutto che muta, punto da lentiggini

(chissà come?) di fretta o di lentezza,

di dolce o d'aspro, di lucore o buio.

Quegli le esprime - lode a Lui - ch'è sola

bellezza non mutabile.

Gerard Manley Hopkins

“Pied Beauty”

da:Eugenio Montale, “Quaderno di traduzioni”

Edizioni della Meridiana, 1948

other poetries of G.M. Hopkins

a biography in english

ALLE FRONDE DEI SALICI

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull'erba dura di ghiaccio, al lamento

d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento

Salvatore Quasimodo

Una biografia di Salvatore Quasimodo

E venne un tempo

che le tentazioni diventarono così potenti

che pochi resistettero

La loro coscienza cominciò a turbarli

Un’ombra c’è in ciascuno di noi,

un altro me stesso che ci perseguita e tormenta

che s’insinua nella nostra coscienza

furtivamente come un ladro di notte

insistendo ferendo e amareggiando

”Sei tu lo stesso - domanda – sei tu lo stesso

che proclamava la nuova primavera

il vero amore e pane per tutti

che negava che la felicità fosse fatta

col sudore e col sangue d’altri uomini

che cercava nel suo popolo

la forza e la ragione.

Sei tu lo stesso - domanda –

che oggi si vende a chi paga di più

sei tu lo stesso”

Sono proprio io. Lo stesso

che sparava pallottole di giustizia

che durante le marce si fermava sul bordo del sentiero

per un fiore o il sorriso d’un bambino

che nelle notti chiare in cima alle montagne

tendeva la mano per cogliere le stelle

che lasciava lo spirito vagare nello spazio

e là, come un tamburo

annunciava il nuovo canto.

Sono lo stesso, ma oggi

i bambini fuggono quando passo

e gli specchi riflettono un’anima torpida

sfigurata corrotta.

Ah, in quale momento del percorso

i nostri passi si smarrirono?

Dovunque tentiamo di nasconderci

il nostro antico giuramento ci perseguita.

Devo imparare di nuovo

a perturbare l’universo, a rifiutare

il conforto dei palazzi

a dividere con i diseredati

il desiderio di virtù.

Il mio altro me stesso me lo insegnerà

Il testo portoghese (e francese)

Reggono ma per poco

gli sguardi amorosi,

cincie presto buttate

a saggiare i dirupi.

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Nulla scompone l’agave.

Urge dentro

l’unico fiore.

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Il respiro giusto

nel tempo assegnato.

Altro non è dato sapere

di chi ha costruito i sentieri.

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Oltre i terrazzi il ponentino

soffia nei pini

passi di danza.

I cipressi sono già sulle punte.

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Tace il ramarro.

Urla il suo verde.

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Non si mostra

il gatto selvatico.

Dalle forre

inarca

lamenti d’amore.

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Sull’acqua

si accoccola appena.

Vento o mare il gabbiano

sa l’arte

di farsi cullare.

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Come per accordo

con la signora

dell’ombrellone accanto

ci salutiamo

un anno sì un anno no.

Non si può

chiedere tutto

all’estate.

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Stare presso.

Questo

a noi è concesso.

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Donna e città

Città azzurra

città fredda

città mobile e ferma

con le facciate al sole,

ancor nell'ombra il piede delle case.

Ombra ai cancelli e ai pini

e al sonno di piccoli bambini

rimasti nella casa senza madre.

Città di corse e soste

alle otto del mattino,

studenti, impiegati, manovali

e donne col rossetto e il giornale.

Città che indugi e che prorompi

alla periferia

mentre mi allontano a lavorare,

città di tutti e mia.

Difficile é il mio tempo,

ma io non mi lamento.

Mai ti dirò:

- Torniamo indietro,

Torniamo donne a casa -

Tu, casa più grande della mia,

ancor feroce al tenero mio amore

come caverna al primordiale,

ti chinerai sul gioco dei bambini

con libere movenze

che la luce non rompe

che l'ombra non incrina,

Perché tu sei nel tempo

destinata a finire

il tuo cemento,

a fiorire la tua maternità,

città di tutti e mia,

città! Che l'architetto

fa di vetro

e noi di sangue.

Da Luigia Rizzo Pagnin, Il borghese agli agguati, Edizioni de “Il rinoceronte”, Padova, 1964

A SILVIA

Silvia, rimembri ancora

Quel tempo della tua vita mortale,

Quando beltà splendea

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

E tu, lieta e pensosa, il limitare

Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete

Stanze, e le vie dintorno,

Al tuo perpetuo canto,

Allor che all'opre femminili intenta

Sedevi, assai contenta

Di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri

Talor lasciando e le sudate carte,

Ove il tempo mio primo

E di me si spendea la miglior parte,

D'in su i veroni del paterno ostello

Porgea gli orecchi al suon della tua voce,

Ed alla man veloce

Che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

Le vie dorate e gli orti,

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

La vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

Un affetto mi preme

Acerbo e sconsolato,

E tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

Perché non rendi poi

Quel che prometti allor? perché di tanto

Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,

Da chiuso morbo combattuta e vinta,

Perivi, o tenerella. E non vedevi

Il fior degli anni tuoi;

Non ti molceva il core

La dolce lode or delle negre chiome,

Or degli sguardi innamorati e schivi;

Né teco le compagne ai dì festivi

Ragionavan d'amore.

Anche peria fra poco

La speranza mia dolce: agli anni miei

Anche negaro i fati

La giovanezza. Ahi come,

Come passata sei,

Cara compagna dell'età mia nova,

Mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? questi

I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi

Onde cotanto ragionammo insieme?

Questa la sorte dell'umane genti?

All'apparir del vero

Tu, misera, cadesti: e con la mano

La fredda morte ed una tomba ignuda

Mostravi di lontano.

Una biografia di Giacomo Leopardi

OCCHIAZZURRA

A te occhiazzurra questi canti deve

uno che ha sete e alle tue labbra beve;

che antichi come lui, come te nuovi,

se giri tutto il mondo non ne trovi.

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore

Sorge in sul primo albore

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,

Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:

Abisso orrido, immenso,

Ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

E la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell'umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

Perché reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

Perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

E lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir dalla terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

Il perché delle cose, e vedi il frutto

Del mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci

Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand'io ti miro

Star così muta in sul deserto piano,

Che, in suo giro lontano, al ciel confina;

Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono?

Così meco ragiono: e della stanza

Smisurata e superba,

E dell'innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti

D'ogni celeste, ogni terrena cosa,

Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse;

Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. Ma tu per certo,

Giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

Che degli eterni giri,

Che dell'esser mio frale,

Qualche bene o contento

Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perchè giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

È funesto a chi nasce il dì natale.

Valore

Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.

Considero valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle.

Considero valore il vino finche' dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si e' risparmiato, due vecchi che si amano.

Considero valore quello che domani non varra' piu' niente e quello che oggi vale ancora poco.

Considero valore tutte le ferite.

Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi,

provare gratitudine senza ricordare di che .

Considero valore sapere in una stanza dov'e' il nord, qual'e' il nome del vento che sta asciugando il bucato.

Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca,

la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.

Considero valore l'uso del verbo amare e l'ipotesi che esista un creatore.

Molti di questi valori non ho conosciuto.

Chi è Erri De Luca

Un sito franco-italiano dedicato a Erri De Luca

Una presentazione di

VERSI PER M. T. IN MORTE DEL MARITO

Prima che il tempo violi

i suoi verdi confini

io vorrei darti

la dolcezza dell'ombra prenatale

un clima strano di favole, di canti

un acceso passaggio di stagione

col sole allegro che dilaga

sulla grigia distesa

o l'onda lunga

che segue la tempesta

e placata si allarga sulla riva

a lenire l'asprezza che è passata.

O forse procurarti un talismano

per la fatica tremenda del viandante

che cerca invano di farsi pellegrino.

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PER ALBERTO BURRI

Vivere più di quanto tu non mostri

nelle brevi suture dei tuoi sacchi

nei neri torti in un preciso orrore

nei grandi bianchi spaccati dall'arsura

o fermarsi stremati

e non morire.

Questa è la tua lezione

amico caro di un'età che è morta

con gli enigmi banali e i suoi pudori?

Mi dici con affetto - e tu ci vivi –

che la vecchia saggezza è noncuranza

per il mondo che incombe e i suoi furori.

Vivo sperando sia, ma forse sbaglio,

un segno di viltà dell'esistenza.

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VERSI PER ENRICO E ELENA CERNIA

Vola da noi per sempre il verde canto

e sembra che la morte sia distante

dalla nuvola grigia che confonde

il muto andar degli anni.

Ma poi la giostra sgangherata dei balocchi

scarica nella notte il suo bagaglio:

richiami acuti, gialli, disperati

di una vita malata che si sfalda

fra un colpo e l'altro di un eguale maglio.

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PER MIA MOGLIE NELLE TENTAZIONI DEL DECLINO

Fiore di rosa

facile rima,

amore che non muore

ma riposa

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IL MERIDIANO DI TAORMINA

Ricordi il meridiano che portò

nel tuo rosso uno scontento

un'attesa di futuri rinnovati

nostalgie di stagioni appena mosse

dalla sabbia spazzata dalla duna ?

Io ti aspettavo, ero alla tua portata

ma tu sognavi adagio il chiar di luna.

30-4-75

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Forse ho capito

quanto nel mistero

possa lasciare tua virtù sepolto

perché vivendo lasci sospesa un'eco

(l' arcano che disteso riverbera

dal pozzo abbandonato)

l'ombra - o la traccia? -

di una vita cresciuta come il grano

profetica ed eguale

nel respiro leggero della terra;

o in tumulto d'immagini ingombranti

forse la tua presenza è il capogiro:

il ferino che è in te, che ti conduce

confonde ogni momento le mie carte

porta buio nell'alba

o una luce inattesa all'imbrunire.

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LAGO DI FONDI

Nella luce morente che ci chiama

il tuo sorriso breve e la speranza

prolungano nell'acqua

l'ombra invadente

del verde tra le rive.

Potrei lasciarti

ma devo dirmi ancora:

ciò che non muore in me

dentro di te, vive.

Forse saprai domani

quanta nell'ombra con pazienza,

attento io scopra nel mio canto

la luce che tu dissipi vivendo.

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DA UNA `VALLE VENETA

Brevi miraggi vissuti nei rimpianti

dei giorni ambigui che ho patito per te

il gioco delle alzavole agli stampi

i capricci dorati dei pivieri

l'aspro richiamo dei chiurli dalle valli

l'alta maestà del falco pellegrino

e poi, di sera l'airone cinerino

verso mare

che compare d'incanto

e poi scompare.

Piango e gli affido il tempo che separa

lo stato umano dall'acuta stagione, da quei giorni.

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VERSI PER ANTONIO CEDERNA

Alofite è una pianta che il salmastro

risparmia nella furia del calore:

una traccia superstite di verde

che adatta la sua vita alla violenza;

il deserto non muta nel suo orrore.

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RIMPIANTO PER NICCOLO GALLO

.. . Chi ha avuto da te quest'alta lezione

di decenza quotidiana ...

e. montale, da "La bufera"

L'autunno e le sue erbe

i concerti sommessi degli uccelli

invitano insistenti ad una vita

dove "la siepe" è il limite:

un eterno, per noi che rimuoviamo

- indifesi dal mistero del nulla –

il maestoso rigore dell'inverno.

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A UN AMICO RITROVATO

PER E. SALZANO

Mutua quod nobis ter quínquagena dedisti

ex opibus tantis, quas gravis arca premit,

esse tibi magnus, Telesine, videris amicus.

Tu magnus, quod das? immo ego, quod recipis.

MARZIALE, III, LXI

Hai lasciato un varco nel tuo disprezzo

ed io vi sono entrato a vele spalancate

a mare fresco

ed ho trovato

‘barbara dolce dagli occhi tintinnanti’

la tua muta ‘sbandata già dal sonno’

assorti in giochi irripetibili

sicuri dietro il cristallo terso

del loro universo.

Una serenità da luce estiva

mi ha riportato al tempo dei furori

quando felicemente

avventavamo i ladri, gli ipocriti, i bugiardi

quando davamo a Dio

inesistendo Cesare.

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PER MIO FIGLIO

Passo ogni sera il fiume:

sulle mie spalle

il peso dei rimorsi

(le rapine che prevede il presente)

gli spazi senza suoni, senza rime.

Ma tu mi vieni incontro

una sordina modifica il mio timbro

i tuoi occhi ritardano il tramonto

la tua vita, enigma complicato, mi redime.

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A NANNI, RICORDANDO PAPÀ

Forse dobbiamo ancora tornare alle radici

per trovare un motivo che assolva

l'aridità del suo tempo, la sua rabbia.

Per capire con calma e decifrare

i segnali scadenti del passato.

Certo, non basta più il racconto

che leniva, felice, i miei rancori:

“ all'armi siam fascisti!”

le oscure prepotenze provinciali

le necrofore bande

il rogo dei bei libri

e la paura nel vicolo a maestrale.

Ma la sua morte continua ad accadere.

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L'ALTA LEZIONE DI MARIO MELLONI

Non merita di amare

chi per amare

non ha reciso

le sue radici

amare.

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PER UN MINISTRO DC VISTO IN TELEVISIONE

Solo a chi mente

può venire in mente che

mentire si può naturalmente.

Non è barando che potrai colmare

l'abisso che divide

- vasto braccio di mare -

tutto l'astuto dire

dal tuo fare.

Il tuo silenzio è gioia a noi negata.

Misuro la pazienza tra le dita,

ti scaglio i miei pensieri

pattuglia rinnegata

mai tradita.

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Ti ho portato il mio pane

ed ho creduto che la rinuncia

suonasse sacrificio

all'orecchio tuo attento.

Ma tu hai pensato che ne fossi sazio...

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Certo,

ciò che ignori di me non è peccato.

È un peccato che ignori

ciò che di certo in me

ignora ogni peccato.

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NOTA

Le poesie di questo libretto hanno più di dodici anni. La morte improvvisa le ha lasciate così come si trovavano, in attesa di pubblicazione. Per tutti questi anni, dall’ottobre dell’81, ho sempre rimandato il momento di affrontarle e dare loro una sistemazione (come mettere via i vestiti rimasti appesi nell’armadio, le scarpe, i tanti oggetti disseminati ovunque che di colpo erano diventati altro e restavano lì, intoccati e intoccabili). Adesso mi capita sempre più spesso di pensare che se per un miracolo Peppe tornasse sarebbe molto più giovane di me e di fronte a lui possederei quella saggezza e quella maturità che tanto mi mancavano. E i versi di queste quasi cinquanta poesie sono diventati un dialogo con il passato.

Non sono in grado di farne una lettura critica, posso solo farne una storia. Legarle a degli anni che sembrano lontanissimi; eppure a volte tornano come un panorama a una svolta e noi siamo ancora lì con i nostri gesti e le nostre voci, le luci, gli alberi. Pellicola di un film che può essere proiettato all’infinito.

“Quasimòdo, chi è questo Quasimòdo?...”, il sorriso sarcastico di chi la sa lunga, lui che conosce a memoria le terzine di Dante e ama citare Carducci. Peccato non potergli dire: “Papà, uno che vincerà il Nobel!”.

Siedono uno di fronte all’altro sulle poltrone foderate di cinz sotto al quadro di Balla: un vaso di poinsezie e una collana riflessa nel vetro di un tavolo. Un quadro che a me pare orribile, come le tre oche di alabastro rosa sopra la mensola del termosifone. Intanto loro due parlano, si dovrebbero conoscere, in realtà non esistono due persone più diverse e già si detestano. Di uno mi piace la poesia e l’utopia, dell’altro la chiarezza e la durezza. La mia sofferenza nasce dall’amare queste due opposizioni. Oggi lo so, allora no. Ma il primo è il futuro, le porte che si spalancano una dietro l’altra. Le emozioni di un abbraccio nel buio di un cinema e le fontane scroscianti con i cavalli di pietra bianca pronti a spiccare il volo nell’azzurro di una mattina di vacanza. La felicità degli occhi negli occhi e le risate improvvise, irrefrenabili. L’altro è legato a troppe pagelle, righe nere di quaderno e lunghe, grigie domeniche. È una forza frenante. Sicuramente è destinato a perdere. Ha già perso.

Andavamo sulla Via Appia e Peppe portava in tasca le prime edizioni dello Specchio: Ungaretti, Cardarelli, Montale. Non è che Quasimodo gli piacesse molto. Io porto nella borsa un thermos con il caffè e dei panini, sono vestita di giallo e le biciclette sono appoggiate sul ciglio della strada. La giornata è limpida, piccole nuvole macchiano il cielo, il sole scalda l’erba fra i ruderi. Ventuno anni lui, diciotto io. Una Via Appia spesso ventosa, con le pecore che traversano a frotte seguite dai pastori dalle grandi mantelle gonfie d’aria.

Libretti logorati dall’uso che lui cavava fuori dalla tasca della giacca e mi leggeva con pazienza, le giuste scansioni dei versi. Ho difficoltà a capire, lui paziente mente rilegge e poi spiega, i versi si aprono dalle sue mani come ventagli.

Per quello detesto l’ironia di mio padre, io che pure lo amo moltissimo, detesto il gesto sprezzante che lascia ricadere il libro sul tavolo. “Quasimodo” lo correggo senza guardarlo. A me il verso ride la gazza nera sugli arancisembra bellissimo.

Libri con le pagine che si squinternavano: la guerra non è lontana, sembra ancora ombreggiare quella carta giallina disseminata di pagliuzze. Non sono mai più esistiti libri così preziosi, strappati al caotico e faticoso procedere, lento, del nuovo benessere. Benessere è avere la bicicletta, massimo benessere la vespa. Tre paia di sandali, due costumi da bagno. I biscotti per merenda, una tavoletta di cioccolata da mordere intera.

Un giorno mi perderò nei dedali assolati delle tue città di luce, o meridione... questa è sua. È la Sardegna da dove lo hanno portato via bambino e non è mai più ritornato. Ricordi il meridiano che portò nel tuo rosso uno scontento, un’attesa di futuri rinnovati... Questa era per me, ma era già dopo.

Dopo; subito prima che la poesia si appannasse confusa nei nuovi giorni. Ci piace andare alla ventura / guardando il calo senza paura / il cielo immenso senza orizzonti... Prima che gli amici si sparpagliassero un poco alla volta come pedine su una scacchiera, ognuno per comporre un suo gioco; e la felicità coniugale cominciasse a dare il suo suono di latta nel girolento in tondo dei balocchi. Un suono confortante e rassicurante tanto da ottundere le orecchie. Le biciclette si coprono di polvere finché un giorno non esistono più. Rubate, regalate, chi può dirlo ormai.

E la Sardegna ricompare un’estate dal piroscafo con i suoi odori e le palme alte e polverose sul lungomare di Cagliari. La Morris sobbalza sull’asfalto per arrivare al Poetto, sembra di risentire lo stridere del tram che scaricava tate e bambini insieme alle grandi borse del pranzo da mangiare al fresco dei capanni. La sabbia bianca scotta i piedi, non serve neanche fare il bagno, subito si ricomincia a sudare. Non si resiste, perfino il panino lo abbiamo mangiato a mollo nell’acqua e nell’acqua Peppe fuma con il mare celeste che gli arriva alla cintola. La barca ricorda, la barca di quando erano piccoli che a furia di remi arrivava laggiù, alla Sella del Diavolo. “Ma va ...”. La Sella del Diavolo si staglia laggiù un poco sulfurea, dura nel sole. Lui fuma Gitanes senza filtro, tabacco nero che lascia un buon odore nelle sue mani. Quante? Venti lui dice. Ma mente, sono molte di più.

Qui, dice, venivamo a giocare con i cugini. Dall’alto dei bastioni Cagliari è solo vento e sole. “Ma i palazzi dove sono?”, le tanto magnificate magioni degli avi. Palazzo Aymerich, palazzo Sanjust. Templi familiari di cui ha favoleggiato per anni. Lungo la via in salita le case perdono pezzi di intonaco e i balconi di ferro sono arrugginiti dal maestrale. Una adolescente si fa vento con un ventaglio, ha i capelli raccolti sulla nuca per il caldo e contro un lontano frammento di mare è bella come una piccola maga sospesa nel vuoto del balcone. Sorride. Una delle cugine che è nata dopo la guerra, una delle tante che non ha mai incontrato. Le scale sono buie, i gradini cadono a pezzi. Palazzi, questi?

Forse è stato di ritorno da quel viaggio che ha ricominciato a scrivere poesie. Quando abbiamo cambiato casa e sono cominciati i nuovi silenzi e le nuove luci. Ora le fasi dell’anno si avvertono come una sonda che arrivi al cuore delle stagioni e il freddo e il caldo hanno una violenza con cui bisogna fare quotidianamente i conti. E di colpo il tempo cambia passo. Anche la felicità coniugale ha un sussulto, si deve adeguare, plasmare come una cera sui nuovi suoni. Scarpette si allineano in bagno: bambini corrono, cadono, gridano. Si ammalano, ritagliano figurine di carta. I tuoni squassano la casa e i passi sono come topi giù per le scale. Lui si alza che è ancora buio armeggiando piano, la porta si richiude in un soffio. Se fa freddo si intabarra in un plaid e nel vuoto del primo mattino siede alla scrivania che è stata del suo grande antagonista (“Quasimòdo, chi è questo Quasimòdo?”). Sui fogli si fa strada la sua scrittura minuta, ordinata. Cancella, straccia. Se una bambina appena sveglia gli scivola accanto imbronciata tra la poltrona e il divano, la consola e le dà un foglio per disegnare. La luce si allunga tra gli alberi esili del giardino. Altri, ancora sorretti da tre pali, disegnano figure geometriche nell’aria grigio-azzurra. Luci e ombre a seconda delle stagioni.

Filastrocca di noi bambini

per non giocare con i cerini

per non giocare con i serpenti

e per restare sempre contenti.

Filastrocca lunga e severa

per ricordarti mattina e sera

d’essere buone care e felici

anche mangiando burro e alici.

Filastrocca di questo natale

giocar insieme senza far male...

E poi c’erano le fotografie. Una passione così antica che è difficile darle un’età. Mentre la caccia, anche se a Cagliari da bambino guardava incantato zio Pepi cavare dagli anfratti della giacca macchiata di sangue lepri e pernici, è una scoperta nuova . II gioco delle alzavole agli stampi / i capricci dorati dei pivieri / l’aspro richiamo dei chiurli dalle valli...La caccia con il suo odore di freddo e di cani e le pavoncelle che planano a ventaglio nella piccola valle davanti casa. La valle del Poussin, lui dice. La tramontana scuote gli alberi, li tira con forza fino a spezzarli e il gelo spiffera da ogni angolo della casa. Un anno la neve, tanta che non si poteva uscire con la macchina. La notte siamo andati a piedi a trovare degli amici sulla via di Grottarossa, il vento aveva accumulato picchi bianchi e bizzarri e il cielo era invaso dalla luna. Il silenzio si apriva meraviglioso davanti ai nostri passi mentre la casa diventava sempre più buia e lontana. La neve aveva buttato giù i pali della luce, era solo tutto bianco e blu.

Il vento caldo, il vento forte

porta la neve, sbatte le porte

porta l’estate, la primavera

c’è la mattina, soffia la sera...

Lontano il tempo dei furori quando felicemente / avventavamo i ladri, gli ipocriti, i bugiardi / quando davamo a Dio / inesistendo Cesare... Da quelle mattine sempre più precoci (le cinque, le quattro, ma dove arriveremo?) è poi nata la lacerazione. I deboli e il denaro sono diventati sempre più inconciliabili. Passo ogni sera il fiume: / sulle mie spalle / il peso dei rimorsi / (le rapine che prevede il presente) / gli spazi senza suoni, senza rime... Fotografie scattate una via l’altra a segnare un percorso a zig zag. Plitivice, Praga, Osije. Bambini che saltano alla corda. La Francia. Il Guggenheim di New York. Il mercato della carne a Mosca. La statua di Gorkij. E poi ancora e ancora: le macchine fotografiche appese al collo mentre la cassetta di cuoio rigido gli sega le spalle pesante di obiettivi e di pellicole. Ha sempre la vecchia Rollei; la Closter, la prima (la Closet, come la chiamavano gli amici), è invece sparita. Ma tutto quell’ingombro sembra non avvertirlo, occupato solo a inquadrare e scattare, un fotogramma via l’altro.

Il fucile Winchester, la coppia di Lebeaux che olia con cura guardando con un occhio solo dentro la canna. L’alta maestà del falco pellegrino / e poi, di sera / l’airone cinerino / Terso mare / che compare d’incanto / e poi scompare... Vicino a Osije il vecchio casino di caccia degli Esterhàzy aveva un pianoforte in camera da letto e una stufa di maioliche verdi. Nel bosco un cervo dagli occhi folli aveva incrociato il sentiero, gli zoccoli battevano paurosi la terra e le grandi corna si aprivano come ali la strada tra gli alberi. Poi all’imbrunire quelle medesime corna avevano cozzato sorde nel campo di mais mentre i cervi in amore si disputavano le femmine. Passa nell’aria un nulla ed è la strage.

Ma forse sarebbe più giusto fare una cronaca secca. Raccontare di quando le disgraziate vicissitudini familiari seguite alla guerra avevano prosciugato ogni fonte di reddito e per guadagnare era andato nel cantiere dello zio ricco a fare il marcatempo. Diciannove anni, appena iscritto all’università. E subito si era schierato dalla parte degli operai finché quello zio, fiutata l’aria, non lo aveva pregato di restarsene a casa. Allora si era messo a vendere i libri di Einaudi a rate. Da Einaudi, a Via degli Uffici del Vicario, poteva capitare di incontrare Pavese, Calvino, Emilio Cecchi. E poteva anche capitare che uno di loro ti invitasse nella sua casa piena di libri. So poco della sezione comunista che frequentava, so molto dei circoli del cinema dove era di casa. I film da cineteca li aveva visti tutti, quelli nuovi, quelli importanti, non aspettava mai la seconda visione.

La storia del marcatempo doveva ripetersi ancora, essere dalla parte dei più deboli era come una malattia endemica. Tutto sarebbe stato più semplice se fosse rimasto uno fra loro. Più faticoso, ma meno lacerante. Invece io l’ho traghettato dall’altraparte, non l’hoportato perché ho voluto portarlo, ma perché erodall’altra parte. Molto più semplice che venisse lui. Tanto prima o poi tutto si sarebbe aggiustato, avremmo fatto tornare i conti.

I conti non sono mai tornati ma per molti anni la nostra gioventù, i bambini, i libri, hanno tenuto insieme la giostra sgangherata dei balocchi.Quelle domeniche a tutto tondo sono state l’accordo che legava fra loro le note. Mai più esisteranno domeniche come quelle, il pallone che vola in alto, le grida, le corse, la terra battuta, l’erba e la polvere. L’urlo: gol! L’andare e venire dei bambini tra cani, crostate, tazze di tè, fette imburrate di pane. Tramontana e gerani, porte a vetri che sbattono e voci confuse insieme. Tante, da ogni parte. finché siamo stati giovani.

Nel 1968quando sono successi i fatti di Praga eravamo in Sardegna in vacanza. L’autunno seguente è andato al Congresso del Partito Comunista a Bologna. Non ricordo se era già iscritto o si è iscritto subito dopo. Una decisione che doveva liberarlo di tanti fantasmi ma avrebbe fatto saltare tutti i conti. Viene al tramonto da ponente il vento / e mi porta chiarezza / e molti mali...Ora nel silenzio dell’alba non ci sono più solo poesie, ora scrive lunghi promemoria, programmi, prende appunti che chiude in una cartellina scura. Insegna la domenica mattina in Sezione. Aiutava tutti. Anche i questuanti che avrebbero stroncato un bue.

I libri si sono moltiplicati. Li leggeva e li mandava alle biblioteche dei più sperduti e dimenticati paesi d’Italia. I più deboli tornavano a essere i privilegiati. E la cultura umanistica insegnava che senza conoscenza non c’è salvezza. Lui cominciava dalla conoscenza.

Quella mattina che è morto c’era il sole. È stato come un cataclisma, come se fossimo stati due ragazzi con tutta la vita davanti e le ombre e l’affetto avessero potuto durare in eterno insieme ai sogni e alla rabbia. Non c’erano più parole, non c’era più niente. Di colpo si è sfasciato il castello di carte. Vola da noi per sempre il verde canto / e sembra che la morte sia distante.. Ma poi la giostra sgangherata dei balocchi / scarica nella notte il suo bagaglio: / richiami acuti, gialli, disperati...

C’è nell’ “Allegria” di Ungaretti una poesia che aveva ritrovato negli ultimi tempi, da quando aveva cominciato a sentire quel cuore come un artiglio nel petto. Un cuore che aveva cominciato a mordicchiare la sua vita e si era già portato via le robuste Gitanes dal tabacco nero. Le partite a pallone. Le lunghe nuotate al largo.

Morire come le allodole assetate sul miraggio.

O come la quaglia

passato il mare

nei primi cespugli

perché di volare

non ha pii voglia.

Ma non vivere di lamento

come un cardellino accecato.

Una poesia che apparteneva a quei primi libretti scalcagnati dalle pagine gialline. Se ne è andato con quella poesia in tasca.

Questo libretto era pronto così, in attesa di un editore che lo volesse pubblicare. Perché lo leggessero altri. perché attraverso la poesia conoscessero il suo amore per i versi e quello per la tagliola.

Alcune delle poesie che compaiono qui nella sezione “Un pascolo nel tempo” erano già comprese nella raccolta dello stesso titolo pubblicata nel 1972. Molte sono state però ritoccate, talvolta smontate e rimontate, a formare nuove composizioni.

Rosetta Loy

DA « PIANISSIMO »

1

Padre che muori tutti i giorni un poco

e ti scema la mente e più non vedi

con allargati occhi che i tuoi figli

e di te non t'accorgi e non rimpiangi;

se penso la fortezza con la quale

hai vissuto, il disprezzo ch'hai portato

a tutto ciò che è piccolo e meschino,

sotto la rude scorza

l'istintiva poesia della tua anima;

il bene ch'hai voluto alla tua madre,

a tua sorella ingrata, a nostra madre

morta;

tutta la vita tua sacrificata;

e poi ti guardo così come sei

io mi torco in silenzio le mani.

Contro l'indifferenza della Vita

vedo inutile anch'essa la Virtù;

e provo forte come non ho mai

il senso della nostra solitudine.

Io voglio confessarmi a tutti, padre

che ridi se mi vedi e tremi quando

d'una qualche premura ti lo segno,

di quanto fui codardo verso te.

Benché il rimorso mi si alleggerisca

che più giusto sarebbe mi pesasse

sul cuore, inconfessato.

Io giovinetto imberbe ti guardai

con ira, padre, per la tua vecchiezza.

Stizza contro te vecchio mi prendeva...

Padre che ci hai tenuto sui ginocchi

nella stanza che s'oscurava, in faccia

alla finestra; e contavamo i lumi

di cui si punteggiava la collina

facendo a gara a chi vedeva primo;

perdono non ti chiedo con le lacrime

che mi sarebbe troppo dolce piangere,

ma con quelle più amare te lo chiedo

che non vogliono uscire dai miei occhi.

Un pensiero soltanto mi conforta

di poterti guardare a ciglio asciutto;

il ricordo che piccolo, pensando

che come gli altri uomini dovevi

morire pure tu, il nostro padre,

solo e zitto nel mio letto la notte

io di sbigottimento lagrimavo.

Di quello che i miei occhi ora non piangono

quell'infantile pianto mi consola,

padre, perché mi par d'aver lasciato

tutta la fanciullezza in quelle lacrime.

2

Esco dalla lussuria. M'incammino

per lastrici sonori nella notte.

Rimorso non mi punge o turba. Sono

solo tranquillo: immensamente.

Pure

qualche cosa è mutato in me, qualcosa

fuori di me. Ché la città mi pare

fatta paurosamente vasta e vuota;

una città di pietra che nessuno

abiti, dove la Necessità

sola conduca i traini e conti l'ore.

A queste vie simmetriche e deserte,

a queste case mute sono simile.

Partecipo alla loro indifferenza,

alla loro immobilità. Mi pare

d'esser sordo ed opaco come loro,

d'esser fatto di pietra come loro.

Il mio padre e la mia sorella sono

lontani, come divenuti estranei,

come sepolti già nella memoria.

Tra me e loro s'è frapposto il mio

peccato come immobile macigno.

E mi dicesser che mio padre muore

sento bene che adesso non potrei

piangere.

Son confinato fuori della vita,

una macchina io sesso che obbedisce,

come il traino e la strada necessario.

Ma non riesco a dolermene.

Cammino per lastrici sonori nella notte.

3

Il mio cuore si gonfia per te, terra,

come la zolla a primavera.

Io torno.

I miei occhi son nuovi: tutto quello

che vedo è come per la prima volta;

e l'aspetto più umile e consunto,

tutto m'intenerisce e mi dà gioia.

In te mi lavo come dentro un'acqua

dove si scordi tutto di se stesso.

La mia miseria lascio dietro me

come la biscia la sua vecchia pelle.

Terra, tu sei per me piena di grazia.

Finché vicino a te mi sentirò

così bambino, fin che la mia pena in te si scioglierà come la nebbia

nel sole

io non maledirò d'essere nato.

Io mi sono seduto qui per terra,

ambe le mani aperte sopra l'erba,

guardandomi amorosamente intorno.

E mentre così guardo mi si bagna

di calde dolci lacrime la faccia.

4

Taci, anima mia. Son questi i tristi

giorni in cui senza volontà si vive,

i giorni dell'attesa disperata.

Come l'albero ignudo a mezzo inverno

che s'attrista nell'ombra della corte,

io non credo di mettere più foglie

e dubito d'averle messe mai.

Camminando solo

tra la gente che m'urta e non mi vede,

mi pare d'esser da me stesso assente.

E m'accalco ad udire dov'è ressa,

sosto dalle vetrine abbarbagliato

e mi volgo al frusciare d'ogni gonna.

Per la voce d'un cantastorie cieco

per l'improvviso lampo d'una nuca

mi sgocciolan dagli occhi sciocche lacrime

mi s'accendon negli occhi cupidigie.

Ché tutta la mia vita nei miei occhi

ogni cosa che passa la. commuove

come debole vento un'acqua morta.

Non sono che uno specchio rassegnato

che riflette ogni cosa per la via.

In me stesso non guardo perché nulla

vi troverei.

E, venuta la sera, nel mio letto

mi stendo lungo come in una bara.

5

Nel mio povero sangue qualche volta

fermentano gli oscuri desideri.

Vado per la città solo, la notte;

e l'odore dei fondaci, al ricordo,

vince l'odor dell'erba sotto il sole.

Rasento le miriadi degli esseri

sigillati in se stessi come tombe.

E batto a porte sconosciute; salgo

scale consunte da generazioni.

La femmina che aspetta sulla soglia

l'ubriaco che rece contro il muro

guardo con occhi di fraternità.

E certe volte subito trasalgono,

nell'andito malcerto in capo a cui

occhi di sangue paiono i fanali,

le mie nari che fiutano il Delitto.

Mi cresce dentro l'ansia di morire

senza avere il godibile goduto

senza avere il soffribile sofferto.

La volontà mi prende di gettare

come un ingombro inutile il mio nome.

Con a compagna la Perdizione

a cuor leggero andarmene pel mondo.

6

A volte sulla sponda della via

colto da un infinito scoramento

mi seggo e dove vado mi domando,

perché cammino. E penso la mia morte

e vedo me già preso nella bara

troppo stretta, fantoccio inanimato.

Quant'albe nasceranno ancora al mondo

dopo di noi! Di ciò che abbiam sofferto,

di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore

non rimarrà il più piccolo ricordo.

Le generazioni passan come

onde di fiume...

Una mortale pesantezza il cuore

m'opprime. Inerte mi par d'esser fatto

come qualche antichissima rovina

e guardare succedersi le ore,

gli uomini mutare i passi, i cieli

all'alba colorirsi, scolorirsi

a sera:..

7

Magra dagli occhi lustri, dai pomelli

accesi,

la mia anima torbida che cerca chi le somigli

trova te che sull'uscio aspetti gli uomini.

Tu sei la mia sorella di quest'ora.

Accompagnarti in qualche osteria

di bassoporto

e guardarti mangiare avidamente!

E coricarmi senza desiderio

nel tuo letto.

Cadavere vicino ad un cadavere,

bere dalla tua vista l'amarezza

come la spugna secca beve l'acqua.

Toccare le tue mani, i tuoi capelli

che pure a te qualcuno avrà raccolto

in un piccolo ciuffo sulla testa!

e sentirmi

guardato dai tuoi occhi

ostili, poveretta, e tormentarti

domandandoti il nome di tua madre !

Nessuna gioia vale questo amaro

poterti fare piangere, potere

pianger con te!

8

Talora nell'arsura cittadina

un canto di cicala mi sorprende.

E subito ecco m'empie la visione

di campagne prostrate nella luce

e stupisco che ancora al mondo sian

alberi ed acque - le presenze buone

che bastavano un giorno a consolarmi...

Con questo

stupor sciocco l'ubriaco

riceve in viso l'aria della notte.

Ma poiché sento l'anima aderire

ad ogni pietra della città sorda

com'albero con tutte le radici,

sorrido a me smarritamente e come

in uno sforzo d'ali i gomiti alzo...

CAMILLO SBARBARo è nato a Santa Margherita Ligure il 12 gennaio 1888. - Opere: Resine (Caimmi, Genova, 1911); Pianissimo; Trucioli (Vallecchi, Firenze, 1920); Liquidazione (Ribet, Torino, 1928).

Una biografia completa di Camillo Sbarbaro

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