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LA TERRA

E come vedo le grandi membra del mondo

consumarsi e rinascere,

come ci fu nel tempo un principio

del cielo e della terra:

così ci sarà delle cose una rovina infinita.

La terra e il fuoco periranno

e le acque e il vento e lo spazio.

Vedi la terra: parte ne brucia

la violenza ferma del sole,

parte ne batte il molto passare dei piedi

ed esala spire di polvere, nembi

volanti sul vigore del vento;

e la pioggia ne allaga le glebe, le piene

dei fiumi le rodono, scavano rive radenti.

E ogni cosa nutrita, cresciuta da lei

in lei finisce, madre del tutto e sepolcro.

(V, 243-246: 248-249: 251-259)

Traduzione di Enzio Cetrangolo

A me pare uguale agli dei

chi a te vicino così dolce

suono ascolta mentre tu parli

e ridi amorosamente. Subito a me

il cuore si agita nel petto

solo che appena ti veda, e la voce

si perde sulla lingua inerte.

Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,

e ho buio negli occhi e il rombo

del sangue alle orecchie.

E tutta in sudore e tremante

Come erba patita scoloro:

e morte non pare lontana

a me rapita di mente.

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Nel nostro mondo,

sovrastiamo gli Inferi,

guardando i fiori!

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L'uccello in gabbia

osserva, invidioso,

la farfalla.

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Nel nostro mondo, anche

le farfalle sono stanche

sono stanche di vivere.

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Il giorno irrompe -

il colore del cielo

si cambia d'abito.

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Nel mio villaggio

persino le mosche pungono

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Mi recherà qui un pesce

il fluire del ruscello?

Brume di primavera

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Pioggerella primaverile-

lecca, un topolino,

il fiume Sumida

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Ranocchietto ossuto,

non lasciarti sconfiggere!

Issa è qui, a incoraggiarti

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Più numerose le primavere

più i lunghi di'

recano lacrime e lamenti -

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la neve si scioglie:

nel villaggio frotte

di bambini

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Ad ogni cancello

la primavera comincia

dal fango sui sandali

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In questo mondo,

frenesia anche nella vita

della farfalla

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In questo mondo

contempliamo i fiori;

sotto, l’inferno

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Si sveglia

e sbadiglia, il gatto;

poi, l’amore

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Tra dio

e il mendicante sboccia

il fiore di u

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in un frullo

si libra

la grande lucciola

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Giovinezza:

rende bello persino

i morsi della pulce

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Anche per le pulci

è forse lunga la notte

e solitaria

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Vento d’autunno:

a sé mi paragona con gli occhi

il mendicante

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Perle di rugiada:

in ognuna vedo

il mio villaggio

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Kaki di montagna:

è la madre a morderne

le parti più aspre

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Un filo di fumo

disegna adesso

il primo cielo dell’anno

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Il mio paese:

benché sia piccolo,

i boschi sono miei.

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C'ero soltanto.

C'ero. Intorno

cadeva la neve.

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Che cosa sono gli haiku

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La quercia

sembra non curarsi

dei ciliegi in fiore.

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Vecchio stagno

tonfo di rana

suono d'acqua

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Sera:

tra i fiori si spengono

rintocchi di campana

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Passero amico,

risparmialo, il tafano

che gioca tra i fiori

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Stanchezza:

entrando in una locanda,

i glicini

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Stagione delle piogge:

i miei capelli di nuovo

intorno al pallido viso

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Erba estiva:

per molti guerrieri

la fine di un sogno

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Silenzio:

graffia la pietra

la voce delle cicale

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Separazione-

le spighe dell’orzo

tormentate tra le dita

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Un banano nel temporale;

il gocciolio dell’acqua nel catino

scandisce la mia notte

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Sono arrivato fino a qui

senza morire –

e finisce l’autunno

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Chiare cascate:

tra le onde si infilano verdi

gli aghi dei pini

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Su un ramo secco,

si posa un corvo,

crepuscolo autunnale.

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Che cosa sono gli haiku

Tramontata è la luna

e le Pleiadi a mezzo della notte;

anche giovinezza già dilegua,

e ora nel mio letto resto sola.

Scuote l'anima mia Eros,

come vento sul monte

che irrompe entro le querce;

e scioglie le membra e le agita,

dolce amara indomabile belva.

Ma a me non ape, non miele;

e soffro e desidero.

Sai già d’usato, di messo all’asta, di riciclato,

di rovistato, di mezzo e mezzo,

di patteggiato, di concordato un tanto al pezzo;

sai di stantio, di maneggiato,

di cose dette, già strimpellate,

di verità vere a metà, vendute al chilo,

già fatte a fette, impacchettate,

tutto già visto, bollito, detto, confezionato.

Ti ho già assaggiato, centellinato, anche leccato,

Ti ho già provato, messo e rimesso, più del previsto rimuginato.

Ora ti vendo, tempo mio caro, tempo passato, fotografato,

ti cedo in stock, infiocchettato,

sei già all’incanto, in conto vendita, prezzo stracciato,

di mesi ed anni tempo attempato, tempo perduto,

risuscitato, mai ritrovato, tempo fermato;

ti ho già contato, messo in clessidra, rimisurato,

tempo mai dato, messo in deposito, mai riscattato;

ora rescindo, lascio e abbandono,

ti riconsegno, vendo o regalo, restituisco,

cedo in omaggio, dono o baratto,

pur ti pur di disfarmi del tuo pedaggio

pago penali, more, gabelle, tasse con l’aggio .

Ditemi il prezzo, l’affrancatura,

il saldo al netto, l’impiombatura,

ve lo spedisco, ve lo impacchetto,

ve lo rimetto tutto imballato,

con allegato, firma e saluto;

sulla causale: “ tempus inanus”,

da consegnare tutto d’un fiato,

espresso, urgente, anzi immediato;

il trapassato è già in giacenza,

quello recente, senza rimpianti, torna al mittente;

Ve lo rimando, scrivo “venduto”,

“reso”, “ridato”, “riconsegnato”.

Tengo alla fine un unico pezzo,

fatto di niente, senza peccato,

sopravissuto, salvo, scampato,

un pezzo intero, vivo, verace,

in cui confido, ricetto e spero;

tempo lasciato, tempo non tempo,

tempo in mistura, puro e inquinato,

hic et nunc dico, prego e ripeto,

tempo rispondi, fammi esaudito,

tempo clemente, duro, tiranno o indifferente,

fermo, inchiodato, svelto, fuggente,

[ora lo dico:] tempo trovato.

Ritratto minimo

Per E.S.



La vita capìta in uno schiocco di dita.

GIUNONE

Tonda quel tanto che mi dà tormento,

La tua coscia distacca di sull'altra...

Dilati la tua furia un'acre notte!

Chi costruiva Tebe dalle sette porte?

Nei libri leggo i nomi dei re.

I re hanno trascinato i blocchi di pietra?

E tante volte distrutta Babilonia,

Chi di nuovo la riedificò?...

... La grande Roma

è piena di archi di trionfo. Chi li fece? Su chi

trionfarono i Cesari? La tanto decantata Bisanzio

aveva solo palazzi per i suoi abitanti?...

Il giovane Alessandro conquistò l'India,

egli, da solo?

Cesare sconfisse i Galli.

Non aveva neanche il cuoco con sé?

Filippo di Spagna pianse, quando la sua flotta

affondò. Nessuno pianse oltre di lui?

Federico II vinse la guerra dei sette anni.

Chi la vinse oltre di lui?

Ogni pagina una vittoria.

Chi preparò il banchetto per i vincitori?

Ogni dieci anni un grand'uomo!

Chi ne pagò le spese?...

Poiché dei mondi sognati

non incontrai che la creta

e delle stelle intraviste

non ho che il gelo

poiché la vicenda si compie

senza eroismo

senza bellezza

senza passione

io sono morta da tempo

e qui c'è qualcuno che scrive.

I LEONI SUL SAGRATO

C'è un luogo dove dormi

e il tuo respiro

io non lo sento, non lo sento mai.

Fra i nostri due riposi

è la città spavalda

strade, fragori, alterchi, gente e tetti

e come due leoni sul sagrato

remoti e fermi, chiusi in una forma,

noi vigiliamo la nostra distanza.

CONFESSIONE

E scrivo male

perché ho tanta pena

e parlo piano

perché non mi ascolti

e piango zitta

perché mi vergogno.

CHANSONNETTE

Colui che amo

sa che lo chiamo

lo chiamo piano

lo chiamo invano

nella mia mano

sta la sua mano

finché lo chiamo

cosí pian piano

E se lo chiamo

con voce forte

le nostre mani

scioglie la morte.

LE TUE MANI

Le tue mani

sono sottili e chiare

mani gentili e deboli

carezzevoli alla fronte

use ad asciugar lagrime

ad aprirsi in elemosina.

Mani come le tue

conoscono tutto lo sporco soffrire

di tutti i mondi.

Hanno stretto le grate aspre

e graffiato le porte chiuse

e sanguinato di ferite ignobili.

Hanno giocato e perduto.

Hanno raccolto un premio

e dissipato,

compiuta una fatica

e disperso il vantaggio,

carezzato l'amore

e ucciso.

LA ZOLLA

lo sono la tua zolla

calda e oscura

dove fermenta la seminagione

che inonda l'acqua

e il sole brucia e assecca.

Sono la zolla verde

che darà il frutto della tua stagione

sono la zolla nera

che poi l'aratro gelido discosta.

Verde una spiga nuova

vicino a me trema nel vento e aspetta.

No more be griev'd at that which thou hast done

No more be griev'd at that which thou hast done:

Roses have thorns, and silver fountains mud:

Clouds and eclipses stain both moon and sun,

And loathsome canker lives in sweetest bud.

All men make faults, and even I in this,

Authorising thy trespass with compare,

Myself corrupting, salving thy amiss,

Excusing thy sins more than thy sins are;

For to thy sensual fault I bring in sense, -

Thy adverse party is thy advocate, -

And 'gainst myself a lawful plea commence:

Such civil war is in my love and hate,

That I an accessary needs must be

To that sweet thief which sourly robs from me.

Non essere piú presa da pena per quello che hai fatto:

Hanno spine, le rose, e fango l'argentea sorgente:

Le nuvole e le eclissi intorbidano luna e sole,

li cancro ripugnante vive nel bocciuolo piú tenero.

È umano commettere errori, ne commetto uno io stesso

Quando mi provo a discolparti facendo paragoni,

Corrompendo me stesso per porgere unguento al tuo male,

Scusando i tuoi peccati piú di quanto non converrebbe;

Poiché un senso vado trovando ai tuoi falli sensuali,

- Diventa tuo avvocato chi dovrebbe invece accusarti, -

Intento in piena regola una causa contro di me:

Tale guerra civile tra amore e rabbia infuria in me,

Che non posso non diventare complice necessario

Di quella dolce ladrona che acerbamente mi depreda.

William Shakespeare

Sonetto XXXV

da “40 sonetti di Shakespeare”

Traduzione di Giuseppe Ungaretti

Arnoldo Mondadori Editore, 1966

Qual rugiada e qual pianto,

quai lacrime eran quelle

che sparger vidi dal notturno manto

e dal candido volto delle stelle?

E perchè seminò la bianca luna

di cristalline stelle un puro nembo

a l'erba fresca in grembo?

Perchè nell'aria bruna

s'udian quasi dolendo, intorno intorno

gir l'aure insino al giorno?

Fur segni forse de la tua partita,

vita de la mia vita?

La Chimera

Non so se tra roccie il tuo pallido

Viso m'apparve, o sorriso

Di lontananze ignote

Fosti, la china eburnea

Fronte fulgente o giovine

Suora de la Gioconda:

O delle primavere

Spente, per i tuoi mitici pallori

O Regina O Regina adolescente:

Ma per il tuo ignoto poema

Di voluttà e di dolore

Musica fanciulla esangue,

Segnato di linea di sangue

Nel cerchio delle labbra sinuose

Regina de la melodia:

Ma per il vergine capo

Reclino, io poeta notturno

Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,

Io per il tuo dolce mistero

Io per il tuo divenir taciturno.

Non so se la fiamma pallida

Fu dei capelli il vivente

Segno del suo pallore,

Non so se fu un dolce vapore,

Dolce sul mio dolore,

Sorriso di un volto notturno:

Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti

E l'immobilità dei firmamenti

E i gonfii rivi che vanno piangenti

E l'ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti

E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti

E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

Dino Campana

Una biografia di Dino Campana, con musica

Ne traggo qualche notizia sull’autore:

“Salvatore Esposito è nato a Bagnoli il 6 gennaio 1923: frequentò la scuola tecnico industriale: interruppe gli studi per otto anni durante i quali fu aggiustore meccanico, e, con l'occupazione alleata, fece il muratore al P. B. S.: riprese gli studi al liceo artistico, frequenta l' Architettura. È operaio dell'Ilva-Bagnoli. Le sue prime poesie le scrisse in napoletano sotto lo influsso di Salvatore Di Giacomo e di Ferdinando Russo. Conosce i classici meglio che i contemporanei.”

MILLECICATRICI

Il mio corpo è mille cicatrici

Cucite da mia madre

Con un filo di pianto

Ognuna e dolce come una bestemmia

Argentina nel mare della rabbia

Incontro d’amore

Piove cielo nel lago d’erba

le mani nascoste alle mani

Specchio

Guancia di carne

Su guancia di pane

Senza lacrime Immoto

Disfarmi

Fine d’anno

Capodanno vestito di flanella

Col sole sulle snelle ciminiere

E ottavini nell'ugola

Della sirena vorticosa

Mio padre

E' un fanciullo viziato

che mangia solo pastasciutta

e attende

un Messia riveduto

armato di fucile e bombe a mano

Ritratto

Ci viene addosso

Fermo alla sua sedia

Col dito teso

Quanto è lungo il braccio

Che plana sui disegni

L'irrequiete

Gambe da trampoliere

S artigliano al felpato linoleum

E urla le sue idee

Col naso adunco

Le spinge avanti a furia di spalla

Senza cravatta e senza rancore

Madre alla finestra

Fra me e l’azzurro

Madre

E oltre

Le case al sole

Ma quando t'inabissi alla seggiola

e il gatto ritorna ai tuoi piedi

Il sole

L’azzurro

Le case

Ritornano all'abbraccio dei miei occhi

Nero di marzo

Alla riva di casa fra rottami

Di un giorno inghirlandato

Di mimose e pensieri leggeri

L'onda del tempo mi ha scaraventato

E alla collina

S'è dissolta in languore

Sul balcone fiorito

Più non vibrano voci

Ora severi

I covoni di coke si fan cupi

li carroponte è fermo nell'attesa

La notte incombe triste alla cimasa

La rondine è tornata il petto nero

Nero d’ottobre

Il macinino del caffè ci culla

Come bambini dopo un lungo pianto

Scaturito così per un nonnulla

L'aquilone di un canto

Un uomo ha sciolto nella via

M’è parso alla penombra di morire

Confine

Confine diceva il cartello

cercai la dogana, non c'era

non vidi dietro il cancello

ombra di terra straniera.

il sito di Giorgio Caproni

una biografia

Taniello, ch'ave scrupole

mò che se vo' nzurà,

piglia e da Fra Liborio

va pe' se cunfessà.

«Patre - le dice - i' roseco,

i' pe nniente me mpesto;

ma po' dico 'o rusario,

e chello va pe cchesto...

Patre, ncuollo a li ffemmene

campo e ncoppa a 'o bordello;

ma sento messe e predeche...

e chesto va pe chello.

Iastemmo, arrobbo... 'O prossimo

spoglio e le dongo 'o riesto;

ma po' faccio 'a lemmosena...

e chello va pe' cchesto.

E mo, Patre, sentitela

st'urdema cannonata:

a sora vostra, Briggeta,

me l'aggio nsaponata...»

Se vota Fra Liborio:

«Guagliò, tu si’ Taniello?...

I' me nsapono a mammeta,

e chesto va pe cchello!»

NOTE

Nzurà= sposare

Roseco = molesto, brontolo

Me mpesto = mi arrabbio


Pied Beauty

La bellezza cangiante

Glory be to God for dappled things -

for skies as couple-coloured as a brindled cow;

for rose-moles all in stipple upon trout that swim;

fresh-firecoal chestnut-falls; finches’ wings;

landscapes plated and pieced - fold, fallow and plough;

and all trades, their gear and tackle and trim.

All things counter, original, spare, strange;

whatever is fickle, freckled (who knows how?)

with swift, slow; sweet, sour; adazzle, dim;

He fathers-forth whose beauty is past change:

praise Him.
Gloria a Dio per le cose che ha spruzzate:

i cieli bicolori, pezzati come vacche,

la striscia roseo-biliottata della

trota in acqua, il tonfar delle castagne

- crollo di tizzi giovani nel fuoco –

e l'ali del fringuello; per le toppe

dei campi arati e dissodati,

e tutti i traffici e gli arnesi, e tutto ch'è

fuor di squadra, difforme, impari e strambo,

tutto che muta, punto da lentiggini

(chissà come?) di fretta o di lentezza,

di dolce o d'aspro, di lucore o buio.

Quegli le esprime - lode a Lui - ch'è sola

bellezza non mutabile.

Gerard Manley Hopkins

“Pied Beauty”

da:Eugenio Montale, “Quaderno di traduzioni”

Edizioni della Meridiana, 1948

other poetries of G.M. Hopkins

a biography in english

ALLE FRONDE DEI SALICI

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull'erba dura di ghiaccio, al lamento

d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento

Salvatore Quasimodo

Una biografia di Salvatore Quasimodo

E venne un tempo

che le tentazioni diventarono così potenti

che pochi resistettero

La loro coscienza cominciò a turbarli

Un’ombra c’è in ciascuno di noi,

un altro me stesso che ci perseguita e tormenta

che s’insinua nella nostra coscienza

furtivamente come un ladro di notte

insistendo ferendo e amareggiando

”Sei tu lo stesso - domanda – sei tu lo stesso

che proclamava la nuova primavera

il vero amore e pane per tutti

che negava che la felicità fosse fatta

col sudore e col sangue d’altri uomini

che cercava nel suo popolo

la forza e la ragione.

Sei tu lo stesso - domanda –

che oggi si vende a chi paga di più

sei tu lo stesso”

Sono proprio io. Lo stesso

che sparava pallottole di giustizia

che durante le marce si fermava sul bordo del sentiero

per un fiore o il sorriso d’un bambino

che nelle notti chiare in cima alle montagne

tendeva la mano per cogliere le stelle

che lasciava lo spirito vagare nello spazio

e là, come un tamburo

annunciava il nuovo canto.

Sono lo stesso, ma oggi

i bambini fuggono quando passo

e gli specchi riflettono un’anima torpida

sfigurata corrotta.

Ah, in quale momento del percorso

i nostri passi si smarrirono?

Dovunque tentiamo di nasconderci

il nostro antico giuramento ci perseguita.

Devo imparare di nuovo

a perturbare l’universo, a rifiutare

il conforto dei palazzi

a dividere con i diseredati

il desiderio di virtù.

Il mio altro me stesso me lo insegnerà

Il testo portoghese (e francese)

Reggono ma per poco

gli sguardi amorosi,

cincie presto buttate

a saggiare i dirupi.

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Nulla scompone l’agave.

Urge dentro

l’unico fiore.

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Il respiro giusto

nel tempo assegnato.

Altro non è dato sapere

di chi ha costruito i sentieri.

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Oltre i terrazzi il ponentino

soffia nei pini

passi di danza.

I cipressi sono già sulle punte.

---------------------------------

Tace il ramarro.

Urla il suo verde.

----------------------------------

Non si mostra

il gatto selvatico.

Dalle forre

inarca

lamenti d’amore.

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Sull’acqua

si accoccola appena.

Vento o mare il gabbiano

sa l’arte

di farsi cullare.

----------------------------------

Come per accordo

con la signora

dell’ombrellone accanto

ci salutiamo

un anno sì un anno no.

Non si può

chiedere tutto

all’estate.

------------------------------------

Stare presso.

Questo

a noi è concesso.

------------------------------------

Donna e città

Città azzurra

città fredda

città mobile e ferma

con le facciate al sole,

ancor nell'ombra il piede delle case.

Ombra ai cancelli e ai pini

e al sonno di piccoli bambini

rimasti nella casa senza madre.

Città di corse e soste

alle otto del mattino,

studenti, impiegati, manovali

e donne col rossetto e il giornale.

Città che indugi e che prorompi

alla periferia

mentre mi allontano a lavorare,

città di tutti e mia.

Difficile é il mio tempo,

ma io non mi lamento.

Mai ti dirò:

- Torniamo indietro,

Torniamo donne a casa -

Tu, casa più grande della mia,

ancor feroce al tenero mio amore

come caverna al primordiale,

ti chinerai sul gioco dei bambini

con libere movenze

che la luce non rompe

che l'ombra non incrina,

Perché tu sei nel tempo

destinata a finire

il tuo cemento,

a fiorire la tua maternità,

città di tutti e mia,

città! Che l'architetto

fa di vetro

e noi di sangue.

Da Luigia Rizzo Pagnin, Il borghese agli agguati, Edizioni de “Il rinoceronte”, Padova, 1964

A SILVIA

Silvia, rimembri ancora

Quel tempo della tua vita mortale,

Quando beltà splendea

Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,

E tu, lieta e pensosa, il limitare

Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete

Stanze, e le vie dintorno,

Al tuo perpetuo canto,

Allor che all'opre femminili intenta

Sedevi, assai contenta

Di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi

Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri

Talor lasciando e le sudate carte,

Ove il tempo mio primo

E di me si spendea la miglior parte,

D'in su i veroni del paterno ostello

Porgea gli orecchi al suon della tua voce,

Ed alla man veloce

Che percorrea la faticosa tela.

Mirava il ciel sereno,

Le vie dorate e gli orti,

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.

Lingua mortal non dice

Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,

Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia

La vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme,

Un affetto mi preme

Acerbo e sconsolato,

E tornami a doler di mia sventura.

O natura, o natura,

Perché non rendi poi

Quel che prometti allor? perché di tanto

Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,

Da chiuso morbo combattuta e vinta,

Perivi, o tenerella. E non vedevi

Il fior degli anni tuoi;

Non ti molceva il core

La dolce lode or delle negre chiome,

Or degli sguardi innamorati e schivi;

Né teco le compagne ai dì festivi

Ragionavan d'amore.

Anche peria fra poco

La speranza mia dolce: agli anni miei

Anche negaro i fati

La giovanezza. Ahi come,

Come passata sei,

Cara compagna dell'età mia nova,

Mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? questi

I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi

Onde cotanto ragionammo insieme?

Questa la sorte dell'umane genti?

All'apparir del vero

Tu, misera, cadesti: e con la mano

La fredda morte ed una tomba ignuda

Mostravi di lontano.

Una biografia di Giacomo Leopardi

OCCHIAZZURRA

A te occhiazzurra questi canti deve

uno che ha sete e alle tue labbra beve;

che antichi come lui, come te nuovi,

se giri tutto il mondo non ne trovi.

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore

Sorge in sul primo albore

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,

Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:

Abisso orrido, immenso,

Ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

E la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell'umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

Perché reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

Perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

E lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

E forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir dalla terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

Il perché delle cose, e vedi il frutto

Del mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci

Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand'io ti miro

Star così muta in sul deserto piano,

Che, in suo giro lontano, al ciel confina;

Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono?

Così meco ragiono: e della stanza

Smisurata e superba,

E dell'innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti

D'ogni celeste, ogni terrena cosa,

Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse;

Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. Ma tu per certo,

Giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

Che degli eterni giri,

Che dell'esser mio frale,

Qualche bene o contento

Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perchè giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

È funesto a chi nasce il dì natale.

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