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I am a dangerous woman

(1980)

I am a dangerous woman

Carrying neither bombs nor babies

Flowers nor molotov cocktails.

I confound all your reason, theory, realism

Because I will neither lie in your ditches

Nor dig your ditches for you

Nor join your struggle

For bigger and better ditches.

I will not walk with you nor for you,

I won't live with you

And I won't die for you

But neither will I try to deny you

Your right to live and die.

I will not share one square foot of this earth with you

While you're hell-bent on destruction

But neither will I deny that we are of the same earth,

Born of the same Mother

I will not permit

You to bind my life to yours

But I will tell you that our lives

Are bound together

And I will demand

That you live as though you understand

This one salient fact.

I am a dangerous woman

because I will tell you, sir,

whether you are concerned or not,

Masculinity has made of this world a living hell

A furnace burning away at hope, love, faith, and justice,

A furnace of My Lais, Hiroshimas, Dachaus.

A furnace which burns the babies

You tell us we must make.

Masculinity made Femininity

Made the eyes of our women grow dark and cold,

sent our sons - yes sir, our sons -

To War

Made our children go hungry

Made our mothers whores

Made our bombs, our bullets, our "Food for Peace,"

our definitive solutions and first strike policies

Yes sir

Masculinity broke women and men on its knee

Took away our futures

Made our hopes, fears, thoughts and good instincts

'irrelevant to the larger struggle.'

And made human survival beyond the year 2000

an open question.

Yes sir

And it has possessed you.

I am a dangerous woman

because I will say all this

lying neither to you nor with you

I am dangerous because

I won't give up, shut up, or put up

with your version of reality.

You have conspired to sell my life quite cheaply

And I am especially dangerous

Because I will never forgive nor forget

Or ever conspire

To sell yours in return.

Sono una donna pericolosa

(traduzione di Maddalene Crippa)

Sono una donna pericolosa

Non porto bombe nè bambini in grembo

Non porto fiori nè miscugli incendiari

Porto scompiglio nella tua ragione, nelle tue teorie,

nel tuo realismo

Perchè non giacerò nelle tue trincee

Nè scaverò trincee per te

Nè mi unirò alla tua lotta armata

Per trincee più belle e più grandi

Non camminerò con te nè per te,

Non vivrò con te, nè morirò per te

Ma neppure cercherò di negarti

Il tuo diritto a vivere e morire

Non dividerò con te neppure un centimetro di

questa terra

Finchè tu sei maledettamente proteso verso la distruzione

Ma neppure negherò che siamo fatti della stessa terra

nati dalla stessa Madre

non ti permetterò di legare la mia vita alla tua

Ma ti dirò che le nostre vite sono legate insieme

E esigerò che tu viva per comprendere

Questa cosa importante

[...]

Che sono una donna pericolosa

Perchè devi sapere, signore, che

Sono una donna pericolosa

Perchè non tacerò niente di tutto questo

Non colluderò con te

Non avrò fiducia in te nè ti disprezzerò

Sono pericolosa perchè non rinuncerò, non tacerò

Nè mi adatterò alla tua versione della realtà

Tu hai congiurato per svendere la mia vita

E io sono molto pericolosa

Perchè non potrò perdonare nè dimenticare

Nè mai congiurerò per svendere la tua

in cambio.

Caro m'è ‘l sonno e più l'esser di sasso

mentre che il danno e la vergogna dura

non veder, non sentir m'è gran ventura

però non mi destar, deh parla basso

Così Michelangelo rispose a un sonetto di elogio della statua, scritto da Giovan Battista Strozzi, che si concludeva con il verso «déstala, se noi credi, e parleratti».

La statua è una figura della tomba di Giuliano de' Medici, nella Sagrestia nuova della chiesa di San Lorenzo a Firenze. rappresenta allegoricamente la Notte


El alma tenias Un'anima tu avevi

El alma tenias

tan clara y abierta,

que yo nunca pude

entrarme en tu alma.

Busqué los atajos

angustos, los pasos

altos y difficiles...

A tu alma se iba

por caminos anches.

Preparé alta escala

- sonaba altos muros

guardàndote el alma-,

pero el alma tuya

estaba sin guarda

de tapíal ni cerca.

Te busqué la porta

estrecha del alma,

pero no teneba,

de franca que era,

entradas tu alma.

En dónde empezaba?

Acàbaba, en dònde ?

Me quedè por siempre

sentado en las vagas

lindes de tu alma.

Un'anima tu avevi

cosi chiara ed aperta

ch'io non potetti mai

nella tua anima entrare.



Andavo in cerca di aditi angusti,

d'alti e difficili passaggi...

Si andava alla tua anima

per aperti cammini.



Preparai un'alta scala

- sognavo di alte mura

che le fossero a guardia -,

però l'anima tua

era senza riparo

di muri e di recinti.



E ricercai la stretta porta

della tua anima,

ma non aveva accessi,

così franca com'era,

la tua anima.



Dov'è che cominciava?

Dov'è che aveva termine?

E rimasi per sempre seduto

sulle vaghe frontiere della tua anima.

If thou must love me, let it be for nought

Except for love's sake only. Do not say

I love her for her smile--her look--her way

Of speaking gently,--for a trick of thought

That falls in well with mine, and certes brought

A sense of ease on such a day--

For these things in themselves, Beloved, may

Be changed, or change for thee,--and love, so wrought,

May be unwrought so. Neither love me for

Thine own dear pity's wiping my cheek dry,--

A creature might forget to weep, who bore

Thy comfort long, and lose thy love thereby!

But love me for love's sake, that evermore

Thou may'st love on, through love's eternity.

Se devi amarmi per null'altro sia

Che per amore. Mai non dire

"L'amo per il suo sorriso – il suo sguardo - il suo modo

Gentile di parlare - per il suo modo di pensare

Che si accorda a mio e che un giorno

Mi resero sereno". Mio amato, queste cose,

Possono in sè mutare o mutare per te. – E così fatto

Un amore può sfarsi. E ancora non amarmi

Per la pietà che le mie guance asciuga., -

Può scordare il pianto chi ebbe

Il tuo conforto a lungo, e può perdere il tuo amore!

Amami solo per amore dell'amore,

che cresca in te, in un eternità d'amore.

A word is dead

A word is dead

When it is said,

Some say.

I say it just

Begins to live

That day

Sulla spiaggia riservata

le suorine

mostrano biancori

stupefatti.

Tocca al maestrale

togliere d’imbarazzo

il mare.


Residuo Residuo
Residuo

Carlos Drummond de Andrade

Di tutto è rimasto un poco,

Della mia paura. Del tuo ribrezzo.

Dei gridi blesi. Della rosa

è rimasto un poco.

È rimasto un poco di luce

captata nel cappello.

Negli occhi del ruffiano

è restata un po' di tenerezza

(molto poco)

Poco è rimasto di questa polvere

che ti coprì le scarpe

bianche. Pochi panni sono rimasti,

pochi veli rotti,

poco, poco, molto poco.

Ma d'ogni cosa resta un poco.

Del ponte bombardato,

delle due foglie d'erba,

del pacchetto

- vuoto - di sigarette, è rimasto un poco

Che di ogni cosa resta un poco.

È rimasto un po' del tuo mento

nel mento di tua figlia.

Del tuo ruvido silenzio

un poco è rimasto, un poco

sui muri infastiditi,

nelle foglie, mute, che salgono.

È rimasto un po' di tutto

nel piattino di porcellana,

drago rotto, fiore bianco,

di rughe sulla tua fronte,

ritratto.

Se di tutto resta un poco,

perché mai non dovrebbe restare

un po' di me? Nel treno

che porta a nord, nella nave,

negli annunci di giornale,

un po' di me a Londra,

un po' di me in qualche dove?

nella consonante?

nel pozzo?

Un poco resta oscillando

alla foce dei fiumi

e i pesci non lo evitano,

un poco: non viene nei libri.

Di tutto rimane un poco.

Non molto: da un rubinetto

stilla questa goccia assurda,

metà sale e metà alcool,

salta questa zampa di rana,

questo vetro di orologio

rotto in mille speranze,

questo collo di cigno,

questo segreto infantile...

Di ogni cosa è rimasto un poco:

di me; di te; di Abelardo.

Un capello sulla mia manica,

di tutto è rimasto un poco;

vento nelle mie orecchie,

rutto volgare, gemito

di viscere ribelli,

e minuscoli artefatti:

campanula, alveolo, capsula

di revolver... di aspirina.

Di tutto è rimasto un poco.

E di tutto resta un poco.

Oh, apri i flacone di profumo

e soffoca

l'insopportabile lezzo della memoria.

Ma di tutto, terribile, resta un poco,

e sotto le onde ritmate,

e sotto le nuvole e i venti

e sotto i ponti e sotto i tunnel

e sotto le fiamme e sotto il sarcasmo

e sotto il muco e sotto il vomito

e sotto il singhiozzo, il carcere, il dimenticato

e sotto gli spettacoli e sotto la morte in scarlatto

e sotto le biblioteche, gli ospizi, le chiese trionfanti

e sotto te stesso e sotto i tuoi piedi già rigidi

e sotto i cardini della famiglia e della classe,

rimane sempre un poco di tutto.

A volte un bottone. A volte un topo.

(traduzione di Antonio Tabucchi)

De tudo ficou um pouco.

Do meu medo. Do teu asco.

Dos gritos gagos. Da rosa

ficou um pouco.

Ficou um pouco de luz

captada no chapéu.

Nos olhos do rufião

de ternura ficou um pouco

(muito pouco).

Pouco ficou deste pó

de que teu branco sapato

se cobriu. Ficaram poucas

roupas, poucos véus rotos

pouco, pouco, muito pouco.

Mas de tudo fica um pouco.

Da ponte bombardeada,

de duas folhas de grama,

do maço

- vazio - de cigarros, ficou um pouco.

Mas de tudo fica um pouco.

Fica um pouco do teu queixo

no queixo de tua filha.

De teu áspero silêncio

um pouco ficou, um pouco

nos muros zangados,

nas folhas, mudas, que sobem.

Ficou um pouco de tudo

no pires de porcelana,

dragão partido, flor branca,

de ruga na vossa testa,

retrato.

Se de tudo fica um pouco,

mas por que não ficaria

um pouco de mim? no trem

que leva ao norte, no barco,

nos anúncios de jornal,

um pouco de mim em Londres,

um pouco de mim algures?

na consoante?

No poço?

Um pouco fica oscilando

na embocadura dos rios

e os peixes não o evitam.

um pouco: não está nos livros.

De tudo fica um pouco.

Não muito: de uma torneira

pinga esta gota absurda,

meio sal e meio álcool,

salta esta perna de rã,

este vidro de relógio

partido em mil esperanças,

este pescoço de cisne,

este segredo infantil...

De tudo ficou um pouco

de mim; de ti; de Abelardo.

Cabelo na minha manga,

de tudo ficou um pouco;

vento nas orelhas minhas,

simplório arroto, gemido

de víscera inconformada,

e minúsculos artefatos:

campânula, alvéolo, cápsula

de revólver... de aspirina.

De tudo ficou um pouco.

E de tudo fica um pouco.

Oh abre os vidros de loção

e abafa

o insuportável mau cheiro da memória.

Mas de tudo, terrível, fica um pouco,

e sob as ondas ritmadas,

e sob as nuvens e os ventos,

e sob as pontes e sob os túneis

e sob as labaredas e sob o sarcasmo

e sob a gosma e sob o vômito

e sob o soluço, o cárcere, o esquecido

e sob os espetáculos e sob a morte de escarlate

e sob as bibliotecas, os asilos, as igrejas triunfantes

e sob tu mesmo e sob teus pés já duros

e sob os gonzos da família e da classe,

fica sempre um pouco de tudo.

Às vezes um botão. Às vezes um rato.

To make a prairie

To make a prairie it takes a clover and one bee,

One clover, and a bee,

And revery.

The revery alone will do

If bees are few.

Per fare un prato

Per fare un prato basta un filo d’erba e un’ape

Un filo d’erba e un’ape

E un sogno

Un sogno può bastare

Se le api sono poche

a biography in english

una biografia in italiano

Water, is taught by thirst

Water, is taught by thirst.

Land - by the Ocean passed.

Transport - by throe -

Peace - by its battles told

Love, by Memorial Mold -

Birds, by the Snow.

L'acqua è insegnata dalla sete

L'acqua è insegnata dalla sete.

La terra, dagli oceani traversati.

La gioia, dal dolore.

La pace, dai racconti di battaglia.

L'amore da un'impronta di memoria.

Gli uccelli, dalla neve

The morns are meeker than they were -

The nuts are getting brown -

The berry's cheek is plumper -

The Rose is out of town.

The Maple wears a gayer scarf -

The field a scarlet gown -

Lest I should be old fashioned

I'll put a trinket on.

I mattini sono più miti di com'erano -

Le noci stanno diventando marroni -

La guancia della bacca è più paffuta -

La Rosa è fuori città.

L'Acero indossa una sciarpa più gaia -

Il campo una veste scarlatta -

Per non essere fuori moda

Mi metterò un ciondolo.

"Donna de Paradiso,

lo tuo figliolo è preso

Iesù Cristo beato.

Accurre, donna e vide

che la gente l'allide;

credo che lo s'osside,

tanto l'ò flagellato".

Como essere porria,

che non fece follia,

Cristo, la spene mia,

om l'avesse pigliato?".

"Madonna, ello è traduto,

Iuda sì ll'à venduto;

trenta denar' n'à auto,

fatto n'à gra mercato".

"Soccurri, Madalena,

ionta m'è adosso piena!

Cristo figlio se mena,

como è annunziato".

"Soccurre, donna, adiuta,

cà 'l tuo figlio se sputa

e la gente lo muta;

òlo dato a Pilato".

"O Pilato, non fare

el figlio meo tormentare,

ch'eo te pòzzo mustrare

como a ttorto è accusato".

"Crucifige, crucifige!

Omo che se fa rege,

secondo nostra lege

contradice al senato".

"Prego che mm'entennate,

nel meo dolor pensate!

Forse mo vo mutate

de que avete pensato".

"Traiàn for li latruni,

che sian soi compagnuni;

de spine s'encoroni,

ché rege ss'è clamato!".

"O figlio, figlio, figlio,

figlio, amoroso giglio!

Figlio, chi dà consiglio

al cor me' angustiato?

Figlio occhi iocundi,

figlio, co' non respundi?

Figlio, perché t'ascundi

al petto o' sì lattato?".

"Madonna, ecco la croce,

che la gente l'aduce,

ove la vera luce

déi essere levato".

"O croce, e que farai?

El figlio meo torrai?

E que ci aponerai,

che no n'à en sé peccato?".

"Soccurri, plena de doglia,

cà 'l tuo figliol se spoglia;

la gente par che voglia

che sia martirizzato".

"Se i tollit'el vestire,

lassatelme vedere,

com'en crudel firire

tutto l'ò ensanguenato".

"Donna, la man li è presa,

ennella croc'è stesa;

con un bollon l'ò fesa,

tanto lo 'n cci ò ficcato.

L'altra mano se prende,

ennella croce se stende

e lo dolor s'accende,

ch'è plu multiplicato.

Donna, li pè se prènno

e clavellanse al lenno;

onne iontur'aprenno,

tutto l'ò sdenodato".

"Et eo comenzo el corrotto;

figlio, lo meo deporto,

figlio, chi me tt'à morto,

figlio meo dilicato?

Meglio aviriano fatto

Ch'el cor m'avesser tratto,

ch'ennella croce è tratto,

stace desciliato!".

"O mamma, o' n'èi venuta?

Mortal me dà feruta,

cà 'l tuo plagner me stuta,

ché 'l veio sì afferato".

"Figlio, ch'eo m'aio anvito,

figlio, pat'e mmarito!

Figlio, chi tt'à firito?

Figlio, chi tt'à spogliato?".

"Mamma, perché te lagni?

Voglio che tu remagni,

che serve mei compagni,

ch'èl mondo aio acquistato".

"Figlio, questo non dire!

Voglio teco morire,

non me voglio partire

fin che mo 'n m'esc' el fiato.

C'una aiàn sepultura,

figlio de mamma scura

trovarse en afrantura

mat'e figlio affocato!".

"Mamma col core afflitto,

entro 'n le man' te metto

de Ioanni, meo eletto;

sia to figlio appellato.

Ioanni, èsto mea mate;

tollila en caritate,

àginne pietate,

cà 'l core sì à furato".

"Figlio, l'alma t'è 'scita,

figlio de la smarrita,

figlio de la sparita,

figlio attossecato!

Figlio bianco e vermiglio,

figlio senza simiglio,

figlio, e a ccui m'apiglio?

Figlio, pur m'ai lassato

Figlio bianco e biondo,

figlio volto iocondo,

figlio, perché t'à el mondo,

figlio, cusì sprezzato?

Figlio dolc'e placente,

figlio de la dolente,

figlio àte la gente

mala mente trattato.

Ioanni, figlio novello,

morto s'è 'l tuo fratello.

Ora sento 'l coltello

Che fo profitizzato.

Che moga figlio e mate

D'una morte afferrate,

trovarse abraccecate

mat'e figlio impiccato!".

Rogier van der Weyden, Deposizione (1435)

Museo del Prado, Madrid

"...il corpo della madre, esausto dal dolore, assume lo stesso andamento di quello del figlio, le mani si sfiorano. Sulla destra, una Maddalena che si contorce nello spasimo e sulla sinistra una Maria con il nasone rosso per il troppo pianto...e queste braccia che sostengono senza poter allievare il dolore, queste mani che non sanno più stringere."

Voci

Le voci dei ramarri sono rare

vengono per dolore

in quelle dei piccioni

rode il mal d’amore.

A cantare i pavoni

incrinano i tramonti…

Dicono tempesta

Dicono tempesta

dicono tifone

ma questa rabbia d’acqua e di vento

mi pare una voglia di aprirci i pugni

curiosità del buio

che ci portiamo dentro.

Dopo il temporale

Dopo il temporale

la farfalla sembra nuova

tenta una lumaca la sua strada

e la zucca un altro fiore.

Tra un po’ lei dice:

”Ecco, vedi, adesso come adesso

ti amo molto”.

Lo so dai passi.

Roccolo

Il capanno per spiare

una finestra sul cielo

e zitti.

Che vengano

che cantino

che si credano a casa loro

nella calma dei morti.

Soffiatina

Ali che abattono

becco ostinato

zampine che graffiano

a sgarbugliare i passeri.

e sul capino spaventato

una soffiatina leggera

come lo schiaffettino del vescovo.

Fiati

Arare.

Fiati d’uomini

e di cavalli

sulla nudità

dei lombrichi.

Talpa

Talpa

bestia sorella

soglia di luce

attraverso la terra.

Semafori

Tot morti? Tot feriti?

Ora si comincia a ragionare.

Gli incroci

caro signore

i semafori se li devono guadagnare.

Metrò

Marocchini cinesi persiani

algerini tailandesi

turchi indiani senegalesi.

E in mezzo noi

facce di figli di ladri d’obelischi.

Posto

Alle volte cambiamo passo

fino quasi a correre

come per tener posto

in una fila.

Fretta

Dove vado

così di fretta?

Cerco uno specchio.

Tre persone di fila

mi hanno sorriso.

Ritratti

Delle case che buttano giù

tengono alle volte un muro

colori prima nascosti

si vedono senza i luoghi.

Così i ritratti

di quelli che abbiamo conosciuto.

Altre poesie di Giancarlo Consonni

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Luna di bambù,

mentre carezza il suolo

della prima neve.

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Come in un sogno,

vorrei tenere in mano

la farfalla

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Ho fatto del mio braccio un cuscino,

e amo il mio corpo,

nel vago chiarore lunare.

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L’orchidea, di notte

nasconde nel profumo

lo splendore del fiore.

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Con i sandali

nelle mani felice

guado il fiume.

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Quale freschezza,

il rintocco lasciato

dalla campana.

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Si oscura la montagna,

e ruba il rosso

alle foglie dell'autunno

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Anatre color mandarino

estinguono ogni bellezza:

bosco invernale.

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Fiori di narciso:

una bella donna

ha mal di testa.

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Mentre taglia le risaie

il sole autunnale

splende sull’erba

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Piogge di prima estate:

nel mare azzurro si getta

l'acqua fangosa

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Sugli iris

lento planare

di un nibbio

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Che cosa sono gli Haiku

Come sei bella, amica mia, come sei bella!

Gli occhi tuoi sono colombe,

dietro il tuo velo.

Le tue chiome sono un gregge di capre,

che scendono dalle pendici del Gàlaad.

I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,

che risalgono dal bagno;

tutte procedono appaiate,

e nessuna è senza compagna.

Come un nastro di porpora le tue labbra

e la tua bocca è soffusa di grazia;

come spicchio di melagrana la tua gota

attraverso il tuo velo.

Come la torre di Davide il tuo collo,

costruita a guisa di fortezza.

Mille scudi vi sono appesi,

tutte armature di prodi.

I tuoi seni sono come due cerbiatti,

gemelli di una gazzella,

che pascolano fra i gigli.

Prima che spiri la brezza del giorno

e si allunghino le ombre,

me ne andrò al monte della mirra

e alla collina dell’incenso

.Tutta bella tu sei, amica mia,

in te nessuna macchia.

Vieni con me dal Libano, o sposa,

con me dal Libano, vieni!

Osserva dalla cima dell’Amana,

dalla cima del Senìr e dell’Ermon,

dalle tane dei leoni,

dai monti dei leopardi.

Tu mi hai rapito il cuore,

sorella mia, sposa,

tu mi hai rapito il cuore

con un solo tuo sguardo,

con una perla sola della tua collana!

Quanto sono soavi le tue carezze,

sorella mia, sposa,

quanto più deliziose del vino le tue carezze.

L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi.

Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,

c’è miele e latte sotto la tua lingua

e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano.

Giardino chiuso tu sei,

sorella mia, sposa,

giardino chiuso, fontana sigillata.

I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,

con i frutti più squisiti,

alberi di cipro con nardo,

nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo

con ogni specie d’alberi da incenso;

mirra e aloe

con tutti i migliori aromi.

Fontana che irrora i giardini,

pozzo d’acque vive

e ruscelli sgorganti dal Libano.

Notizie a Giuseppina dopo tanti anni

Che speri, che ti riprometti, amica,

se torni per così cupo viaggio

fin qua dove nel sole le burrasche

hanno una voce altissima abbrunata,

di gelsomino odorano e di frane?



Mi trovo qui a questa età che sai,

né giovane né vecchio, attendo, guardo

questa vicissitudine sospesa;

non so più quel che volli o mi fu imposto,

entri nei miei pensieri e n'esci illesa.



Tutto l'altro che deve essere è ancora,

il fiume scorre, la campagna varia,

grandina, spiove, qualche cane latra

esce la luna, niente si riscuote,

niente dal lungo sonno avventuroso.

Uccelli

il vento è un'aspra voce che ammonisce

per noi stuolo che a volte trova pace

e asilo sopra questi rami secchi.

E la schiera ripiglia il triste volo,

migra nel cuore dei monti, viola

scavato nel viola inesauribile,

miniera senza fondo dello spazio.

Il volo è lento, penetra a fatica

nell'azzurro che s'apre oltre l'azzurro,

nel tempo ch'è di là dal tempo; alcuni

mandano grida acute che precipitano

e nessuna parete ripercuote.

Che ci somiglia è il moto delle cime

nell'ora - quasi non si può pensare

né dire - quando su steli invisibili

tutt'intorno una primavera strana

fiorisce in nuvole rade che il vento

pasce in un cielo o umido o bruciato

e la sorte della giornata è varia,

la grandine, la pioggia, la schiarita.

Il Giudice

"Credi che il tuo sia vero amore? Esamina

a fondo il tuo passato" insiste lui

saettando ben addentro

la sua occhiata di presbite tra beffarda e strana.

E aspetta. Mentre io guardo lontano

ed altro non mi viene in mente

che il mare fermo sotto il volo dei gabbiani

sfrangiato appena tra gli scogli dell'isola,

dove una terra nuda si fa ombra

con le sue gobbe o un'altra preparata a semina

si fa ombra con le sue zolle e con pochi fili.

"Certo, posso aver molto peccato"

rispondo infine aggrappandomi a qualcosa,

sia pure alle mie colpe, in quella luce di brughiera.

"Piangere, piangere dovresti sul tuo amore male inteso"

riprende la sua voce con un fischio

di raffica sopra quella landa passando alta.

L'ascolto e neppure mi domando

perché sia lui e non io di là da questo banco

occupato a giudicare i mali del mondo.

"Può darsi" replico io mentre già penso ad altro,

mentre la via s'accende scaglia a scaglia

e qui nel bar il giorno ancora pieno

sfolgora in due pupille di giovinetta che si sfila il grembio

per le ore di libertà e l'uomo che le ha dato il cambio

indossa la gabbana bianca e viene

verso di noi con due bicchieri colmi,

freschi, da porre uno di qua uno di là sopra il nostro tavolo.

L'India

Tace ora, mi chiedo se oppressa dal suo Karma,

(so della sua vita, del nome che le dà, e del senso)

mentre mostra a lungo lo schermo

sul selciato una moltitudine

stecchita in una posa tra sonno e morte

levarsi a stento in preghiera e spulciarsi nell'alba.

Né forse la colpisce il primo aspetto

ma un altro più recondito, e vede

una giustizia di diverso stampo

in quella sofferenza di paria

orrida eppure non abbietta, e nella sua che le scende addosso.

"Avere o non avere la sua parte in questa vita"

riemerge in parole il suo pensiero - ma solo un lembo.

E io ne tiro a me quella frangia

ansioso mi confidi tutto l'altro,

attento non mi rubi niente

di lei, neppure l'amarezza, ed attendo.

S'interrompe invece. Seguono altre immagini dell'India

e nel loro riverbero le colgo

un sorriso estremo tra di vittima e di bimba

quasi mi lasci quella grazia in pegno

di lei mentre si eclissa nella sua pena

e l'idea di se stessa le muore dentro.

"Perché porti quel giogo, perché non insorgi"

mi trattengo appena dal gridarle,

soffrendo perché soffre, certo,

ma più ancora perché lascia la presa

della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo;

"Ascoltami" comincio a mormorarle

e già penso al chiarore della sala dopo il technicolor

e a lei che sul punto di partire

mi guarda da dietro la lampada

della sua solitudine tenuta alzata di fronte.

"Mario" mi previene lei che indovina il resto. "Ancora

levi come una spada, buona a che?,

lo sdegno per le cose che ti resistono.

Uomo chiuso all'intelligenza del diverso,

negato all'amore: del mondo, intendo, di Dio dunque"

e indulge a una smorfia fine di scherno

per se stessa salita sul pulpito, e quasi si annulla.

"Davvero vorrei tu avessi vinto"

le dico con affetto incontenibile, più tardi,

mentre scorre in un brusio d'api, nel film senza commento, l'India.

Il poeta e senatore a vita Mario Luzi si era permesso di dire che il treppiede lanciato a Berlusconi aveva fatto ricordare, a lui novantenne, un analogo incidente occorso al cavalier Mussolini, e di suggerire che i gravi momenti di tensione generano episodi di violenza

Souvent, pour s'amuser, les hommes d'équipage

prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,

qui suivent, indolents compagnons de voyage,

le navire glissant sur les gouffres amers.

A peine les ont-ils déposés sur les planches,

que ces rois de l'azur, maladroits et honteux,

laissent piteusement leurs grandes ailes blanches

comme des avirons traîner à côté d'eux.

Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!

Lui, naguère si beau, qu'il est comique et laid!

L'un agace son bec avec un brûle-gueule,

L'autre mime, en boitant, l'infirme qui volait!

Le Poëte est semblable au prince des nuées

Qui hante la tempête et se rit de l'archer;

exilé sur le sol au milieu des huées,

ses ailes de géant l'empêchent de marcher.

.............................................

Spesso, per dilettarsi, gli uomini della ciurma

catturano gli albatros, grandi uccelli marini

che seguono, indolenti compagni di viaggio,

la nave che scivola sugli amari flutti .

Appena deposti sulle assi della tolda

questi re dell'azzurro, maldestri e vergognosi

lasciano pietosamente le .grandi ali bianche

trascinarsi come remi accanto a sè.

Quant'è'è goffo e fiacco questo viaggiatore alato!

Lui, prima così bello, quant'è comico e brutto!

Uno tormenta il suo becco con un mozzicone acceso,

l'altro mima, zoppicando, l'infermo che volava.

Il Poeta assomiglia al principe delle nubi

che sfida la tempesta e sbeffeggia l'arciere;

esiliato al suolo in mezzo al baccano

le sue ali di gigante gli impediscono il cammino.

Una biografia di Claude Baudelaire

IO NON HO MANI

Io non ho mani

che mi accarezzino il volto,

(duro è l'ufficio

di queste parole

che non conoscono amori)

non so le dolcezze

dei vostri abbandoni:

ho dovuto essere

custode

della vostra solitudine:

sono

salvatore

di ore perdute.

Chi è David Maria Turoldo


I

Siamo gli uomini vuoti

Siamo gli uomini impagliati

Che appoggiano l'un l'altro

La testa piena di paglia. Ahimè!

Le nostre voci secche, quando noi

Insieme mormoriamo

Sono quiete e senza senso

Come vento nell'erba rinsecchita

O come zampe di topo sopra vetri infranti

Nella nostra arida cantina



Figura senza forma, ombra senza colore,

Forza paralizzata, gesto privo di moto;

Coloro che han traghettato

Con occhi diritti, all'altro regno della morte

Ci ricordano - se pure lo fanno - non come anime

Perdute e violente, ma solo

Come gli uomini vuoti Gli uomini impagliati..

II

Occhi che in sogno non oso incontrare

Nel regno di sogno della morte

Questi occhi non appaiono:

Laggiù gli occhi sono

Luce di sole su una colonna infranta

Laggiù un albero ondeggia

E voci vi sono

Nel cantare del vento

Più distanti e più solenni

Di una stella che si spegne.



Non lasciate che sia più vicino

Nel regno di sogno della morte

Lasciate anche che porti

Travestimenti così deliberati

Pelliccia di topo, pelliccia di cornacchia, doghe incrociate

In un campo

Comportandomi come si comporta il vento



Non più vicino -

Non quel finale incontro

Nel regno del crepuscolo

III

Questa è la terra morta

Questa è la terra dei cactus

Qui le immagini di pietra

Sorgono, e qui ricevono

La supplica della mano di un morto

Sotto lo scintillio di una stella che si va spegnendo.



E' proprio così

Nell'altro regno della morte

Svegliandoci soli

Nell'ora in cui tremiamo

Di tenerezza

Le labbra che vorrebbero baciare

Innalzano preghiere a quella pietra infranta.

IV

Gli occhi non sono qui

Qui non vi sono occhi

In questa valle di stelle morenti

In questa valle vuota

Questa mascella spezzata dei nostri regni perduti



In quest'ultimo dei luoghi d'incontro

Noi brancoliamo insieme

Evitiamo di parlare

Ammassati su questa riva del tumido fiume

Privati della vista, a meno che

Gli occhi non ricompaiano

Come la stella perpetua

Rosa di molte foglie

Del regno di tramonto della morte

La speranza soltanto Degli uomini vuoti.

V

Qui noi giriamo attorno al fico d'India

Fico d'India

fico d'India

Qui noi giriamo attorno al fico d'India

Alle cinque del mattino.

Fra l'idea

E la realtà

Fra il movimento

E l'atto

Cade l'Ombra



Perché Tuo è il Regno



Fra la concezione

E la creazione

Fra l'emozione

E la responsione

Cade l'Ombra



La vita è molto lunga



Fra il desiderio

E lo spasmo

Fra la potenza

E l'esistenza

Fra l'essenza

E la discendenza

Cade l'Ombra

Perché Tuo è il Regno



Perché Tuo è

La vita è

Perché Tuo è il



E' questo il modo in cui finisce il mondo

E' questo il modo in cui finisce il mondo

E' questo il modo in cui finisce il mondo

Non già con uno schianto ma con un lamento.

I

We are the hollow men

We are the stuffed men

Leaning together

Headpiece filled with straw. Alas!

Our dried voices, when

We whisper together

Are quiet and meaningless

As wind in dry grass

Or rats' feet over broken glass

In our dry cellar

Shape without form, shade without colour,

Paralysed force, gesture without motion;

Those who have crossed

With direct eyes, to death's other Kingdom

Remember us -- if at all -- not as lost

Violent souls, but only

As the hollow men

The stuffed men.

II

Eyes I dare not meet in dreams

In death's dream kingdom

These do not appear:

There, the eyes are

Sunlight on a broken column

There, is a tree swinging

And voices are

In the wind's singing

More distant and more solemn

Than a fading star.

Let me be no nearer

In death's dream kingdom

Let me also wear

Such deliberate disguises

Rat's coat, crowskin, crossed staves

In a field

Behaving as the wind behaves

No nearer --

Not that final meeting

In the twilight kingdom

III

This is the dead land

This is cactus land

Here the stone images

Are raised, here they receive

The supplication of a dead man's hand

Under the twinkle of a fading star.

Is it like this

In death's other kingdom

Waking alone

At the hour when we are

Trembling with tenderness

Lips that would kiss

Form prayers to broken stone.

IV

The eyes are not here

There are no eyes here

In this valley of dying stars

In this hollow valley

This broken jaw of our lost kingdoms

In this last of meeting places

We grope together

And avoid speech

Gathered on this beach of the tumid river

Sightless, unless

The eyes reappear

As the perpetual star

Multifoliate rose

Of death's twilight kingdom

The hope only

Of empty men.

V

Here we go round the prickly pear

Prickly pear prickly pear

Here we go round the prickly pear

At five o'clock in the morning.

Between the idea

And the reality

Between the motion

And the act

Falls the Shadow

For Thine is the Kingdom

Between the conception

And the creation

Between the emotion

And the response

Falls the Shadow

Life is very long

Between the desire

And the spasm

Between the potency

And the existence

Between the essence

And the descent

Falls the Shadow

For Thine is the Kingdom

For Thine is

Life is

For Thine is the

This is the way the world ends

This is the way the world ends

This is the way the world ends

Not with a bang but a whimper.

Chi è Thomas S. Eliot

Pianefforte ’e notte

Nu pianefforte ’e notte sona luntanamente, e ’a museca se sente pe ll’aria suspirà.



È ll’una: dorme ’o vico ncopp’ a sta nonna nonna ’e nu mutivo antico ’e tanto tiempo fa.

Dio, quanta stelle ncielo! Che luna! E c’ aria doce! Quanto na bella voce vurria sentì cantà!

Ma sulitario e lento more ’o mutivo antico; se fa cchiù cupo ’o vico dint’ a ll’oscurità.

L’anema mia surtanto rummane a sta fenesta. Aspetta ancora. E resta, ncantannose, a penzà.

Chi è Salvatore Di Giacomo

'O VIENTO

Pe' mare, na dummeneca d'estate,

c' 'o cuttariello 'ncalma, sott' 'o sole...

LI' afa è accussì pesante

ca, si parie, te stancano 'e pparole.

Na cupola celeste e trasparente

me pare 'o cielo, ca cummoglia Napule

e se perde, luntano, senza fine.

Aunìte o sparpagliate

pe' Pròceta, Pusilleco, Surriento,

chesti vvele latine,

arze 'e calore e stanche,

nchiummate a mmare, senza n'ombra

pareno tanta palummelle janche

appezzàte ogneduna cu na spingula...

Che pace! Che silenzio

Stiso 'ncuperta, 'e spalle e 'o pietto 'a fore,

Penzo surtanto ca... nun penzo a niente...

Nu vuzzo 'e piscatore

vota nnanza « Donn' Anna »,

sotto a stu sole ardente...

(Sbatteno 'e terzarule lentamente

'rifaccia a sti vvele 'npanna...)

A ttemmone, 'o cchiù viecchio marenare,

c' 'a cicca mmocca, meglio d' 'o ffumà,

mo guarda a mmare,

mo dà n' uocchio e mo mbrusunèa c' 'o viento ;

pecchè, p' 'a gente 'e mare,

'o viento è comme a ‘na perzona viva

ne sanno 'a voce, 'e mmosse, 'o tradimento;

ne sanno 'e bbon' azione e 'a nfamità...

Ogge, è cchiù infamo e dispettuso ancora

Nun ce aggio avuto sciorta !

... Ma che cuntrora !

Che cuntrora schiattosa !

calma eterna 'ncopp' a st' acqua morta

nce nfonno 'a mano e quase nun s'è nfosa...

St' addore 'e fune 'e buordo e de lignamme,

vernice, « piccepaino »,

stu senzo 'e salimastro e de catramme,

ca quanno nun c' è viento, cchiù se sente,

me trase int' 'e ccervelle, acutamente...

Tengo n' arzura 'incanna...

(... Sbatteno 'e terzarule lentamente

'nfaccia a sti vvele 'npanna...)

Ma, a nu mumento a n' ato,

llà... fore Capre... ancora cchiù luntano,

‘na macchiulella blù,

ma accussì blù ca pare quase nera,

se stennie 'ncopp' all'acqua...

È n'ombra, è niente

te pienze tu ;

ma ll' ommo 'e mare, fisso,

cu ll' uocchio afflussiunato,

già, primm' 'e te, l' ha visto,

zitto eh' è isso è 'o viento...

... 'Oi lloco... 'Oi lloco...

Rèfola ca s'accosta chiano chiano,

se fa desiderà...

Pare cumm' a na femmena,

ca se ciancèa nu poco

primm' 'e se fa vasà...

Po 'a macchia blù se spanne ; e mo so' ttante

ca se ncrucèano mmiez"o golfo 'e Napule...

'O mare, fino a mmo, janco, abbagliante,

sott' a stu sole 'e fuoco,

cagna culore : mo è turchino - ardesia

nu velluto turchino - ardesia... 'Oi lloco...

Mpruvisamente,

comme schezzechiasse appena appena,

pare ca mille e mille àcene 'arena,

attuorno a nuie, chioveno a mmare e 'o pogneno,

'o stuzzicano, 'o smoveno....

'Aguanta 'a scotta... Forza...

L'arberatura schioppa... 'E vvele sbanneno,

ruciulèa sottaviento nu binocolo...

'O còttero va « orza »...

Nu poco ancora... N' atu ppoco ancora...

Pare eh' affonna, pare,

cu 'a murata 'int' all'acqua e a chiglia 'a fore...

... Che viento frisco!

... E quant' è bello, 'o mare

ca fragne a ppoppa e sciaqquettèa p' 'a prora...

La Vita

Alle soglie d'autunno

in un tramonto

muto

scopri l'onda del tempo

e la tua resa

segreta

come di ramo in ramo

leggero

un cadere d'uccelli

cui le ali non reggono più.

18 agosto 1935

Sventatezza

Ricordo un pomeriggio di settembre,

sul Montello. Io, ancora una bambina,

col trecciolino smilzo ed un prurito

di pazze corse su per le ginocchia.

Mio padre, rannicchiato dentro un andito

scavato in un rialzo del terreno,

mi additava attraverso una fessura

il Piave e le colline; mi parlava

della guerra, di sé, dei suoi soldati.

Nell'ombra, l'erba gelida e affilata

mi sfiorava i polpacci: sotto terra,

le radici succhiavan forse ancora

qualche goccia di sangue. Ma io ardevo

dal desiderio di scattare fuori,

nell'invadente sole, per raccogliere

un pugnetto di more da una siepe.

Milano, 22 maggio 1929

Amore di lontananza

Ricordo che, quand'ero nella casa

della mia mamma, in mezzo alla pianura,

avevo una finestra che guardava

sui prati; in fondo, l'argine boscoso

nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,

c'era una striscia scura di colline.

Io allora non avevo visto il mare

che una sol volta, ma ne conservavo

un'aspra nostalgia da innamorata.

Verso sera fissavo l'orizzonte;

socchiudevo un po' gli occhi; accarezzavo

i contorni e i colori tra le ciglia:

e la striscia dei colli si spianava,

tremula, azzurra: a me pareva il mare

e mi piaceva più del mare vero.

Milano, 24 aprile 1929

Sentiero

E' bello camminare lungo il torrente:

non si sentono i passi, non sembra

di andare via.

Dall'alto del sentiero si vede la valle

e cime lontane ai margini

della pianura, come pallidi scogli

in riva a una rada - Si pensa

com'è bella, com'è dolce la terra

quando s'attarda a sognare

il suo tramonto

con lunghe ombre azzurre di monti

a lato - Si cammina lungo il torrente:

c'è un gran canto che assorda

la malinconia -

Milano, 9 agosto 1934

Venezia.

Venezia. Silenzio. Il passo

Di un bimbo scalzo

Sulle fondamenta

Empie d’echi

Il canale.

Venezia. Lentezza. Agli angoli

Dei muri sbocciano

Alberi e fiori:

come durasse

un’intera stagione il viaggio,

come se maggio

ora

li sdipanasse

per me.

Al pozzo di un campiello

Il tempo

Trova un filo d’erba tra i sassi:

lega con quello

il suo battito all’ala

di un colombo, al tonfo

dei remi.

22 ottobre 1933

Sfiducia.

Tristezza di queste mie mani

troppo pesanti

per non aprire piaghe,

troppo leggere

per lasciare un’impronta.-

tristezza di questa mia bocca

che dice le stesse

parole tue

altre cose intendendo-

e questo è il modo

della più disperata

lontananza.

16 ottobre 1933

LargoTitolo primitivo: Vagabondaggio crepuscolare

O lasciate lasciate che io sia

Una cosa di nessuno

Per queste vecchie strade

In cui la sera affonda-

O lasciate lasciate ch’io mi perda

Ombra nell’ombra-

Gli occhi

Due coppe alzate

Verso l’ultima luce-

E non chiedetemi- non chiedetemi

quello che voglio

e quello che sono

se per me nella folla è il vuoto

e nel vuoto l’arcana folla

dei miei fantasmi-

e non cercate- non cercate

quello ch’io cerco

se l’estremo pallore del cielo

m’illumina la porta di una chiesa

e mi sospinge ad entrare-

Non domandatemi se prego

E chi prego

E perché prego-

Io entro soltanto

Per avere un po’ di tregua

E una panca e il silenzio

In cui parlino le cose sorelle-

Poi ch’io sono una cosa-

Una cosa di nessuno

Che va per le vecchie vie del mondo-

Gli occhi

Due coppe alzate

Verso l’ultima luce.

Milano, 18 ottobre 1930

La porta che si chiude

Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,

stanca, logora, scossa,

come il pilastro d'un cancello angusto

al limitare d'un immenso cortile;

come un vecchio pilastro

che per tutta la vita

sia stato diga all'irruente fuga

d'una folla rinchiusa.

Oh, le parole prigioniere

che battono battono

furiosamente

alla porta dell'anima

e la porta dell'anima

che a palmo a palmo

spietatamente

si chiude!

Ed ogni giorno il varco si stringe

ed ogni giorno l'assalto è più duro.

E l'ultimo giorno

- io lo so -

l'ultimo giorno

quando un'unica lama di luce

pioverà dall'estremo spiraglio

dentro la tenebra,

allora sarà l'onda mostruosa,

l'urto tremendo,

l'urlo mortale

delle parole non nate

verso l'ultimo sogno di sole.

E poi,

dietro la porta per sempre chiusa,

sarà la notte intera,

la frescura,

il silenzio.

E poi,

con le labbra serrate,

con gli occhi aperti

sull'arcano cielo dell'ombra,

sarà

- tu lo sai -

la pace.

Milano, 10 febbraio 1931

Chi è Antonia Pozzi

LAMENTO PER IGNACIO SÁNCHEZ MEJÍAS

(1935)

Alla cara amica

Encarnación López Júlvez

1 - Il cozzo e la morte

Alle cinque della sera.

Eran le cinque in punto della sera.

Un bambino portò il lenzuolo bianco

alle cinque della sera.

Una sporta di calce già pronta

alle cinque della sera.

Il resto era morte e solo morte

alle cinque della sera.

Il vento portò via i cotoni

alle cinque della sera.

E l’ossido seminò cristallo e nichel

alle cinque della sera.

Già combatton la colomba e il leopardo

alle cinque della sera.

E una coscia con un corno desolato

alle cinque della sera.

Cominciarono i suoni di bordone

alle cinque della sera.

Le campane d’arsenico e il fumo

alle cinque della sera.

Negli angoli gruppi di silenzio

alle cinque della sera.

Solo il toro ha il cuore in alto!

alle cinque della sera.

Quando venne il sudore di neve

alle cinque della sera,

quando l’arena si coperse di iodio

alle cinque della sera,

la morte pose le uova nella ferita

alle cinque della sera.

Alle cinque della sera.

Alle cinque in punto della sera.

Una bara con ruote è il letto

alle cinque della sera.

Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie

alle cinque della sera.

Il toro già mugghiava dalla fronte

alle cinque della sera.

La stanza s’iridava d’agonia

alle cinque della sera.

Da lontano già viene la cancrena

alle cinque della sera.

Tromba di giglio per i verdi inguini

alle cinque della sera.

Le ferite bruciavan come soli

alle cinque della sera.

E la folla rompeva le finestre

alle cinque della sera.

Alle cinque della sera.

Ah, che terribili cinque della sera!

Eran le cinque a tutti gli orologi!

Eran le cinque in ombra della sera!

2 - Il sangue versato

Non voglio vederlo!

Di’ alla luna che venga,

ch’io non voglio vedere il sangue

d’Ignazio sopra l’arena.

Non voglio vederlo!

La luna spalancata.

Cavallo di quiete nubi,

e l’arena grigia del sonno

con salici sullo steccato.

Non voglio vederlo!

Il mio ricordo si brucia.

Ditelo ai gelsomini

con il loro piccolo bianco!

Non voglio vederlo!

La vacca del vecchio mondo

passava la sua triste lingua

sopra un muso di sangue

sparso sopra l’arena,

e i tori di Guisando,

quasi morte e quasi pietra,

muggirono come due secoli

stanchi di batter la terra.

No.

Non voglio vederlo!

Sui gradini salì Ignazio

con tutta la sua morte addosso.

Cercava l’alba,

ma l’alba non era.

Cerca il suo dritto profilo,

e il sogno lo disorienta.

Cercava il suo bel corpo

e trovò il suo sangue aperto.

Non ditemi di vederlo!

Non voglio sentir lo zampillo

ogni volta con meno forza:

questo getto che illumina

le gradinate e si rovescia

sopra il velluto e il cuoio

della folla assetata.

Chi mi grida d’affacciarmi?

Non ditemi di vederlo!

Non si chiusero i suoi occhi

quando vide le corna vicino,

ma le madri terribili

alzarono la testa.

E dagli allevamenti

venne un vento di voci segrete

che gridavano ai tori celesti,

mandriani di pallida nebbia.

Non ci fu principe di Siviglia

da poterglisi paragonare,

né spada come la sua spada

né cuore così vero.

Come un fiume di leoni

la sua forza meravigliosa,

e come un torso di marmo

la sua armoniosa prudenza.

Aria di Roma andalusa

gli profumava la testa

dove il suo riso era un nardo

di sale e d’intelligenza.

Che gran torero nell’arena!

Che buon montanaro sulle montagne!

Così delicato con con le spighe!

Così duro con gli speroni!

Così tenero con la rugiada!

Così abbagliante nella fiera!

Così tremendo con le ultime

banderillas di tenebra!

Ma ormai dorme senza fine.

Ormai i muschi e le erbe

aprono con dita sicure

il fiore del suo teschio.

E già viene cantando il suo sangue:

cantando per maremme e praterie,

sdrucciolando sulle corna intirizzite,

vacillando senz’anima nella nebbia,

inciampando in mille zoccoli

come una lunga, scura, triste lingua,

per formare una pozza d’agonia

vicino al Guadalquivir delle stelle.

Oh, bianco muro di Spagna!

Oh, nero toro di pena!

Oh, sangue forte d’Ignazio!

Oh, usignolo delle sue vene!

No.

Non voglio vederlo!

Non v’è calice che lo contenga,

non rondini che se lo bevano,

non v’è brina di luce che lo ghiacci,

né canto né diluvio di gigli,

non v’è cristallo che lo copra d’argento.

No.

Io non voglio vederlo!!

3 - Corpo presente

La pietra è una fronte dove i sogni gemono

senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati.

La pietra è una spalla per portare il tempo

Con alberi di lagrime e nastri e pianeti.

Ho visto piogge grigie correre verso le onde

alzando le tenere braccia crivellate

per non esser prese dalla pietra stesa

che scioglie le loro membra senza bere il sangue.

Perché la pietra coglie semenze e nuvole,

scheletri d’allodole e lupi di penombre,

ma non dà suoni, né cristalli, né fuoco,

ma arene e arene e un’altra arena senza muri.

Ormai sta sulla pietra Ignazio il ben nato.

Ormai è finita. Che c’è? Contemplate la sua figura:

la morte l’ha coperto di pallidi zolfi

e gli ha messo una testa di scuro minotauro.

Ormai è finita. La pioggia entra nella sua bocca.

Il vento come pazzo il suo petto ha scavato,

e l’Amore, imbevuto di lacrime di neve,

si riscalda in cima agli allevamenti.

Cosa dicono? Un silenzio putrido riposa.

Siamo con un corpo presente che sfuma,

con una forma chiara che ebbe usignoli

e la vediamo riempirsi di buchi senza fondo.

Chi increspa il sudario? Non è vero quel che dice!

Qui nessuno canta, né piange nell’angolo,

né pianta gli speroni né spaventa il serpente:

qui non voglio altro che gli occhi rotondi

per veder questo corpo senza possibile riposo.

Voglio veder qui gli uomini di voce dura.

Quelli che domano cavalli e dominano i fiumi:

gli uomini cui risuona lo scheletro e cantano

con una bocca piena di sole e di rocce.

Qui li voglio vedere. Davanti alla pietra.

Davanti a questo corpo con le redini spezzate.

Voglio che mi mostrino l’uscita

per questo capitano legato dalla morte.

Voglio che mi insegnino un pianto come un fiume

ch’abbia dolci nebbie e profonde rive

per portar via il corpo di Ignazio e che si perda

senza ascoltare il doppio fiato dei tori.

Si perda nell’arena rotonda della luna

che finge, quando è bimba dolente, bestia immobile;

si perda nella notte senza canto dei pesci

e nel bianco spineto del fumo congelato.

Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti

perché s’abitui alla morte che porta.

Vattene, Ignazio. Non sentire il caldo bramito.

Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!

4 - Anima assente

Non ti conosce il toro né il fico,

né i cavalli né le formiche di casa tua.

Non ti conosce il bambino né la sera

perché sei morto per sempre.

Non ti conosce il dorso della pietra,

né il raso nero dove ti distruggi.

Non ti conosce il tuo ricordo muto

perché sei morto per sempre.

Verrà l’autunno con conchiglie,

uva di nebbia e monti aggruppati,

ma nessuno vorrà guardare i tuoi occhi

perché sei morto per sempre.

Perché sei morto per sempre,

come tutti i morti della Terra,

come tutti i morti che si scordano

in un mucchio di cani spenti.

Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto.

Canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia.

L’insigne maturità della tua conoscenza.

Il tuo appetito di morte e il gusto della sua bocca.

La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria.

Tarderà molto a nascere, se nasce,

un andaluso così chiaro, così ricco d’avventura.

Io canto la sua eleganza con parole che gemono

e ricordo una brezza triste negli ulivi.

La vita e le opere di Federico Garcìa Lorca

Er deserto

Dio me ne guardi, Cristo e la Madonna

d'annà ppiú ppe ggiuncata a sto precojjo.

Prima... che pposso dí?... pprima me vojjo

fa ccastrà dda un norcino a la ritonna.

Fà ddiesci mijja e nun vedé una fronna!

Imbatte ammalappena in quarche scojjo!

Dapertutto un zilenzio com'un ojjo.

che ssi strilli nun c'è cchi tt'arisponna!

Dove te vorti una campaggna rasa

come sce ssi passata la pianozza,

senza manco l'impronta d'una casa!

L'unica cosa sola c'ho ttrovato

in tutt'er viaggio, è stata una bbarrozza

cor barrozzaro ggiú mmorto ammazzato.

26 marzo 1836

Chi è G. G. Belli

L'UMANITÀ

Venuta dalla dura terra fuori nei campi

la stirpe degli uomini era piú dura:

senza malanni del corpo,

al gelo, al caldo, a qualunque sorta di cibo,

poteva egualmente resistere, tanto

era dentro connessa di solide ossa e più grandi,

legata di fortissimi nervi le carni.

Trascinavano come bestie una vita sparsa e lunga.

Il curvo aratro non c'era,

nessuno sapeva far molle il suolo col ferro, aprirlo

ai virgulti e tagliare con la ronca

i rami secchi alle piante:

Un frutto che al sole e alla pioggia spuntasse,

dono terrestre, calmava quei petti. E mangiavano

sotto le querce le ghiande cadute,

gli àlbatri che allora crescevano

sempre e molti e piú grandi, e li vedi

che adesso diventano rossi soltanto d'inverno.

Così del duro cibo che offriva

la florida infanzia del mondo i poveri.mortali

si accontentavano.

Quando avevano sete i fumi li chiamavano

come la voce lontana dell’acqua

chiama ancora le bestie assetate sulle rupi.

E andavano per le grotte silvestri guardando

i ruscelli che bagnano i sassi muschiosi

e vanno verso l'erba del piano.

Non sapevano ancora trattare le cose col fuoco

e vestirsi il corpo delle spoglie

degli animali: ma stavano nelle macchie

e coprivano di cespugli le squallide membra

costretti dalla tempesta nelle fessure

delle montagne.

D'ogni costume, d'ogni legge ignoranti

non potevano curarsi del bene comune:

chi trovava una preda la teneva per sé,

da solo imparando il rischio della vita.

E Venere univa i corpi degli amanti

nelle foreste: la foia invincibile

menava dal maschio la femmina o la stessa forza

dell'uomo o un compenso che era

una manciata di ghiande o un bel frutto maturo.

Meravigliosamente erano agili nelle membra;

e armati di pietre o di grossi tronchi di alberi

cacciavano le belve per le boscaglie;

molte ne vincevano e altre poche scansavano

al riparo di qualche antro nascosto.

Di notte si mettevano per terra, nudi

sotto le foglie: e non cercavano

urlando per i campi la luce del giorno perduta

nelle ombre: ma sepolti nel silenzio del sonno

aspettavano che -il sole tornasse all'orizzonte:

avevano già visto da fanciulli la vicenda

del buio e della luce; e non c'era nessuna

meraviglia per loro, nessuna paura

che sparito per sempre il lume del sole

una infinita notte restasse sulla terra:

ben altro affanno avevano: c'erano le belve

a. rendere incerto, fatale il riposo.

E se un cinghiale appariva o un leone affamato

scappavano dai lor tetti rocciosi

e pallidi nel cuor della notte cedevano

agli ospiti feroci il giaciglio di fronde.

E come adesso allora i mortali

lasciavano in pianto il dolce lume della vita:

ciascuno era pasto alle belve: ciascuno

inghiottito dai denti vedeva il suo corpo

chiudersi vivo dentro un vivo sepolcro,

e le gole dei monti si riempivano di gemiti.

Chi poi straziato nel corpo riusciva a fuggire

tenendo le mani tremanti sulle piaghe

chiamava orribilmente la morte;

e morivano cosí spasimando e senza soccorso:

non sapevano cosa fossero le ferite.

E col tempo fecero le capanne, impararono

l'uso delle pelli per coprirsi e il sacramento

del focolare

La donna fu paga di un solo connubio,

e quando si videro assomigliati nei figli

cominciarono a ingentilirsi.

Il fuoco fece che i corpi intirizziti

non potessero piú stare sotto il cielo scoperto;

l'amore quietava le forze

e i fanciulli ammansivano con le carezze

la rude superbia dei padri.

(V, 922-995: 1008-1016)

traduzione di Enzio Cetrangolo

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