I am a dangerous woman
(1980)
I am a dangerous woman
Carrying neither bombs nor babies
Flowers nor molotov cocktails.
I confound all your reason, theory, realism
Because I will neither lie in your ditches
Nor dig your ditches for you
Nor join your struggle
For bigger and better ditches.
I will not walk with you nor for you,
I won't live with you
And I won't die for you
But neither will I try to deny you
Your right to live and die.
I will not share one square foot of this earth with you
While you're hell-bent on destruction
But neither will I deny that we are of the same earth,
Born of the same Mother
I will not permit
You to bind my life to yours
But I will tell you that our lives
Are bound together
And I will demand
That you live as though you understand
This one salient fact.
I am a dangerous woman
because I will tell you, sir,
whether you are concerned or not,
Masculinity has made of this world a living hell
A furnace burning away at hope, love, faith, and justice,
A furnace of My Lais, Hiroshimas, Dachaus.
A furnace which burns the babies
You tell us we must make.
Masculinity made Femininity
Made the eyes of our women grow dark and cold,
sent our sons - yes sir, our sons -
To War
Made our children go hungry
Made our mothers whores
Made our bombs, our bullets, our "Food for Peace,"
our definitive solutions and first strike policies
Yes sir
Masculinity broke women and men on its knee
Took away our futures
Made our hopes, fears, thoughts and good instincts
'irrelevant to the larger struggle.'
And made human survival beyond the year 2000
an open question.
Yes sir
And it has possessed you.
I am a dangerous woman
because I will say all this
lying neither to you nor with you
I am dangerous because
I won't give up, shut up, or put up
with your version of reality.
You have conspired to sell my life quite cheaply
And I am especially dangerous
Because I will never forgive nor forget
Or ever conspire
To sell yours in return.
Sono una donna pericolosa
(traduzione di Maddalene Crippa)
Sono una donna pericolosa
Non porto bombe nè bambini in grembo
Non porto fiori nè miscugli incendiari
Porto scompiglio nella tua ragione, nelle tue teorie,
nel tuo realismo
Perchè non giacerò nelle tue trincee
Nè scaverò trincee per te
Nè mi unirò alla tua lotta armata
Per trincee più belle e più grandi
Non camminerò con te nè per te,
Non vivrò con te, nè morirò per te
Ma neppure cercherò di negarti
Il tuo diritto a vivere e morire
Non dividerò con te neppure un centimetro di
questa terra
Finchè tu sei maledettamente proteso verso la distruzione
Ma neppure negherò che siamo fatti della stessa terra
nati dalla stessa Madre
non ti permetterò di legare la mia vita alla tua
Ma ti dirò che le nostre vite sono legate insieme
E esigerò che tu viva per comprendere
Questa cosa importante
[...]
Che sono una donna pericolosa
Perchè devi sapere, signore, che
Sono una donna pericolosa
Perchè non tacerò niente di tutto questo
Non colluderò con te
Non avrò fiducia in te nè ti disprezzerò
Sono pericolosa perchè non rinuncerò, non tacerò
Nè mi adatterò alla tua versione della realtà
Tu hai congiurato per svendere la mia vita
E io sono molto pericolosa
Perchè non potrò perdonare nè dimenticare
Nè mai congiurerò per svendere la tua
in cambio.
Caro m'è ‘l sonno e più l'esser di sasso
mentre che il danno e la vergogna dura
non veder, non sentir m'è gran ventura
però non mi destar, deh parla basso
Così Michelangelo rispose a un sonetto di elogio della statua, scritto da Giovan Battista Strozzi, che si concludeva con il verso «déstala, se noi credi, e parleratti».
La statua è una figura della tomba di Giuliano de' Medici, nella Sagrestia nuova della chiesa di San Lorenzo a Firenze. rappresenta allegoricamente la Notte
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If thou must love me, let it be for nought
Except for love's sake only. Do not say
I love her for her smile--her look--her way
Of speaking gently,--for a trick of thought
That falls in well with mine, and certes brought
A sense of ease on such a day--
For these things in themselves, Beloved, may
Be changed, or change for thee,--and love, so wrought,
May be unwrought so. Neither love me for
Thine own dear pity's wiping my cheek dry,--
A creature might forget to weep, who bore
Thy comfort long, and lose thy love thereby!
But love me for love's sake, that evermore
Thou may'st love on, through love's eternity.
Se devi amarmi per null'altro sia
Che per amore. Mai non dire
"L'amo per il suo sorriso – il suo sguardo - il suo modo
Gentile di parlare - per il suo modo di pensare
Che si accorda a mio e che un giorno
Mi resero sereno". Mio amato, queste cose,
Possono in sè mutare o mutare per te. – E così fatto
Un amore può sfarsi. E ancora non amarmi
Per la pietà che le mie guance asciuga., -
Può scordare il pianto chi ebbe
Il tuo conforto a lungo, e può perdere il tuo amore!
Amami solo per amore dell'amore,
che cresca in te, in un eternità d'amore.
A word is dead
When it is said,
Some say.
I say it just
Begins to live
That day
Sulla spiaggia riservata
le suorine
mostrano biancori
stupefatti.
Tocca al maestrale
togliere d’imbarazzo
il mare.
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To make a prairie
To make a prairie it takes a clover and one bee,
One clover, and a bee,
And revery.
The revery alone will do
If bees are few.
Per fare un prato
Per fare un prato basta un filo d’erba e un’ape
Un filo d’erba e un’ape
E un sogno
Un sogno può bastare
Se le api sono poche
Water, is taught by thirst
Water, is taught by thirst.
Land - by the Ocean passed.
Transport - by throe -
Peace - by its battles told
Love, by Memorial Mold -
Birds, by the Snow.
L'acqua è insegnata dalla sete
L'acqua è insegnata dalla sete.
La terra, dagli oceani traversati.
La gioia, dal dolore.
La pace, dai racconti di battaglia.
L'amore da un'impronta di memoria.
Gli uccelli, dalla neve
The morns are meeker than they were -
The nuts are getting brown -
The berry's cheek is plumper -
The Rose is out of town.
The Maple wears a gayer scarf -
The field a scarlet gown -
Lest I should be old fashioned
I'll put a trinket on.
I mattini sono più miti di com'erano -
Le noci stanno diventando marroni -
La guancia della bacca è più paffuta -
La Rosa è fuori città.
L'Acero indossa una sciarpa più gaia -
Il campo una veste scarlatta -
Per non essere fuori moda
Mi metterò un ciondolo.
"Donna de Paradiso,
lo tuo figliolo è preso
Iesù Cristo beato.
Accurre, donna e vide
che la gente l'allide;
credo che lo s'osside,
tanto l'ò flagellato".
Como essere porria,
che non fece follia,
Cristo, la spene mia,
om l'avesse pigliato?".
"Madonna, ello è traduto,
Iuda sì ll'à venduto;
trenta denar' n'à auto,
fatto n'à gra mercato".
"Soccurri, Madalena,
ionta m'è adosso piena!
Cristo figlio se mena,
como è annunziato".
"Soccurre, donna, adiuta,
cà 'l tuo figlio se sputa
e la gente lo muta;
òlo dato a Pilato".
"O Pilato, non fare
el figlio meo tormentare,
ch'eo te pòzzo mustrare
como a ttorto è accusato".
"Crucifige, crucifige!
Omo che se fa rege,
secondo nostra lege
contradice al senato".
"Prego che mm'entennate,
nel meo dolor pensate!
Forse mo vo mutate
de que avete pensato".
"Traiàn for li latruni,
che sian soi compagnuni;
de spine s'encoroni,
ché rege ss'è clamato!".
"O figlio, figlio, figlio,
figlio, amoroso giglio!
Figlio, chi dà consiglio
al cor me' angustiato?
Figlio occhi iocundi,
figlio, co' non respundi?
Figlio, perché t'ascundi
al petto o' sì lattato?".
"Madonna, ecco la croce,
che la gente l'aduce,
ove la vera luce
déi essere levato".
"O croce, e que farai?
El figlio meo torrai?
E que ci aponerai,
che no n'à en sé peccato?".
"Soccurri, plena de doglia,
cà 'l tuo figliol se spoglia;
la gente par che voglia
che sia martirizzato".
"Se i tollit'el vestire,
lassatelme vedere,
com'en crudel firire
tutto l'ò ensanguenato".
"Donna, la man li è presa,
ennella croc'è stesa;
con un bollon l'ò fesa,
tanto lo 'n cci ò ficcato.
L'altra mano se prende,
ennella croce se stende
e lo dolor s'accende,
ch'è plu multiplicato.
Donna, li pè se prènno
e clavellanse al lenno;
onne iontur'aprenno,
tutto l'ò sdenodato".
"Et eo comenzo el corrotto;
figlio, lo meo deporto,
figlio, chi me tt'à morto,
figlio meo dilicato?
Meglio aviriano fatto
Ch'el cor m'avesser tratto,
ch'ennella croce è tratto,
stace desciliato!".
"O mamma, o' n'èi venuta?
Mortal me dà feruta,
cà 'l tuo plagner me stuta,
ché 'l veio sì afferato".
"Figlio, ch'eo m'aio anvito,
figlio, pat'e mmarito!
Figlio, chi tt'à firito?
Figlio, chi tt'à spogliato?".
"Mamma, perché te lagni?
Voglio che tu remagni,
che serve mei compagni,
ch'èl mondo aio acquistato".
"Figlio, questo non dire!
Voglio teco morire,
non me voglio partire
fin che mo 'n m'esc' el fiato.
C'una aiàn sepultura,
figlio de mamma scura
trovarse en afrantura
mat'e figlio affocato!".
"Mamma col core afflitto,
entro 'n le man' te metto
de Ioanni, meo eletto;
sia to figlio appellato.
Ioanni, èsto mea mate;
tollila en caritate,
àginne pietate,
cà 'l core sì à furato".
"Figlio, l'alma t'è 'scita,
figlio de la smarrita,
figlio de la sparita,
figlio attossecato!
Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio,
figlio, e a ccui m'apiglio?
Figlio, pur m'ai lassato
Figlio bianco e biondo,
figlio volto iocondo,
figlio, perché t'à el mondo,
figlio, cusì sprezzato?
Figlio dolc'e placente,
figlio de la dolente,
figlio àte la gente
mala mente trattato.
Ioanni, figlio novello,
morto s'è 'l tuo fratello.
Ora sento 'l coltello
Che fo profitizzato.
Che moga figlio e mate
D'una morte afferrate,
trovarse abraccecate
mat'e figlio impiccato!".
Rogier van der Weyden, Deposizione (1435)
Museo del Prado, Madrid
"...il corpo della madre, esausto dal dolore, assume lo stesso andamento di quello del figlio, le mani si sfiorano. Sulla destra, una Maddalena che si contorce nello spasimo e sulla sinistra una Maria con il nasone rosso per il troppo pianto...e queste braccia che sostengono senza poter allievare il dolore, queste mani che non sanno più stringere."
Voci
Le voci dei ramarri sono rare
vengono per dolore
in quelle dei piccioni
rode il mal d’amore.
A cantare i pavoni
incrinano i tramonti…
Dicono tempesta
Dicono tempesta
dicono tifone
ma questa rabbia d’acqua e di vento
mi pare una voglia di aprirci i pugni
curiosità del buio
che ci portiamo dentro.
Dopo il temporale
Dopo il temporale
la farfalla sembra nuova
tenta una lumaca la sua strada
e la zucca un altro fiore.
Tra un po’ lei dice:
”Ecco, vedi, adesso come adesso
ti amo molto”.
Lo so dai passi.
Roccolo
Il capanno per spiare
una finestra sul cielo
e zitti.
Che vengano
che cantino
che si credano a casa loro
nella calma dei morti.
Soffiatina
Ali che abattono
becco ostinato
zampine che graffiano
a sgarbugliare i passeri.
e sul capino spaventato
una soffiatina leggera
come lo schiaffettino del vescovo.
Fiati
Arare.
Fiati d’uomini
e di cavalli
sulla nudità
dei lombrichi.
Talpa
Talpa
bestia sorella
soglia di luce
attraverso la terra.
Semafori
Tot morti? Tot feriti?
Ora si comincia a ragionare.
Gli incroci
caro signore
i semafori se li devono guadagnare.
Metrò
Marocchini cinesi persiani
algerini tailandesi
turchi indiani senegalesi.
E in mezzo noi
facce di figli di ladri d’obelischi.
Posto
Alle volte cambiamo passo
fino quasi a correre
come per tener posto
in una fila.
Fretta
Dove vado
così di fretta?
Cerco uno specchio.
Tre persone di fila
mi hanno sorriso.
Ritratti
Delle case che buttano giù
tengono alle volte un muro
colori prima nascosti
si vedono senza i luoghi.
Così i ritratti
di quelli che abbiamo conosciuto.
Altre poesie di Giancarlo Consonni
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Luna di bambù,
mentre carezza il suolo
della prima neve.
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Come in un sogno,
vorrei tenere in mano
la farfalla
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Ho fatto del mio braccio un cuscino,
e amo il mio corpo,
nel vago chiarore lunare.
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L’orchidea, di notte
nasconde nel profumo
lo splendore del fiore.
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Con i sandali
nelle mani felice
guado il fiume.
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Quale freschezza,
il rintocco lasciato
dalla campana.
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Si oscura la montagna,
e ruba il rosso
alle foglie dell'autunno
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Anatre color mandarino
estinguono ogni bellezza:
bosco invernale.
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Fiori di narciso:
una bella donna
ha mal di testa.
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Mentre taglia le risaie
il sole autunnale
splende sull’erba
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Piogge di prima estate:
nel mare azzurro si getta
l'acqua fangosa
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Sugli iris
lento planare
di un nibbio
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Come sei bella, amica mia, come sei bella!
Gli occhi tuoi sono colombe,
dietro il tuo velo.
Le tue chiome sono un gregge di capre,
che scendono dalle pendici del Gàlaad.
I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,
che risalgono dal bagno;
tutte procedono appaiate,
e nessuna è senza compagna.
Come un nastro di porpora le tue labbra
e la tua bocca è soffusa di grazia;
come spicchio di melagrana la tua gota
attraverso il tuo velo.
Come la torre di Davide il tuo collo,
costruita a guisa di fortezza.
Mille scudi vi sono appesi,
tutte armature di prodi.
I tuoi seni sono come due cerbiatti,
gemelli di una gazzella,
che pascolano fra i gigli.
Prima che spiri la brezza del giorno
e si allunghino le ombre,
me ne andrò al monte della mirra
e alla collina dell’incenso
.Tutta bella tu sei, amica mia,
in te nessuna macchia.
Vieni con me dal Libano, o sposa,
con me dal Libano, vieni!
Osserva dalla cima dell’Amana,
dalla cima del Senìr e dell’Ermon,
dalle tane dei leoni,
dai monti dei leopardi.
Tu mi hai rapito il cuore,
sorella mia, sposa,
tu mi hai rapito il cuore
con un solo tuo sguardo,
con una perla sola della tua collana!
Quanto sono soavi le tue carezze,
sorella mia, sposa,
quanto più deliziose del vino le tue carezze.
L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi.
Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,
c’è miele e latte sotto la tua lingua
e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano.
Giardino chiuso tu sei,
sorella mia, sposa,
giardino chiuso, fontana sigillata.
I tuoi germogli sono un giardino di melagrane,
con i frutti più squisiti,
alberi di cipro con nardo,
nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo
con ogni specie d’alberi da incenso;
mirra e aloe
con tutti i migliori aromi.
Fontana che irrora i giardini,
pozzo d’acque vive
e ruscelli sgorganti dal Libano.
Notizie a Giuseppina dopo tanti anni
Che speri, che ti riprometti, amica,
se torni per così cupo viaggio
fin qua dove nel sole le burrasche
hanno una voce altissima abbrunata,
di gelsomino odorano e di frane?
Mi trovo qui a questa età che sai,
né giovane né vecchio, attendo, guardo
questa vicissitudine sospesa;
non so più quel che volli o mi fu imposto,
entri nei miei pensieri e n'esci illesa.
Tutto l'altro che deve essere è ancora,
il fiume scorre, la campagna varia,
grandina, spiove, qualche cane latra
esce la luna, niente si riscuote,
niente dal lungo sonno avventuroso.
Uccelli
il vento è un'aspra voce che ammonisce
per noi stuolo che a volte trova pace
e asilo sopra questi rami secchi.
E la schiera ripiglia il triste volo,
migra nel cuore dei monti, viola
scavato nel viola inesauribile,
miniera senza fondo dello spazio.
Il volo è lento, penetra a fatica
nell'azzurro che s'apre oltre l'azzurro,
nel tempo ch'è di là dal tempo; alcuni
mandano grida acute che precipitano
e nessuna parete ripercuote.
Che ci somiglia è il moto delle cime
nell'ora - quasi non si può pensare
né dire - quando su steli invisibili
tutt'intorno una primavera strana
fiorisce in nuvole rade che il vento
pasce in un cielo o umido o bruciato
e la sorte della giornata è varia,
la grandine, la pioggia, la schiarita.
Il Giudice
"Credi che il tuo sia vero amore? Esamina
a fondo il tuo passato" insiste lui
saettando ben addentro
la sua occhiata di presbite tra beffarda e strana.
E aspetta. Mentre io guardo lontano
ed altro non mi viene in mente
che il mare fermo sotto il volo dei gabbiani
sfrangiato appena tra gli scogli dell'isola,
dove una terra nuda si fa ombra
con le sue gobbe o un'altra preparata a semina
si fa ombra con le sue zolle e con pochi fili.
"Certo, posso aver molto peccato"
rispondo infine aggrappandomi a qualcosa,
sia pure alle mie colpe, in quella luce di brughiera.
"Piangere, piangere dovresti sul tuo amore male inteso"
riprende la sua voce con un fischio
di raffica sopra quella landa passando alta.
L'ascolto e neppure mi domando
perché sia lui e non io di là da questo banco
occupato a giudicare i mali del mondo.
"Può darsi" replico io mentre già penso ad altro,
mentre la via s'accende scaglia a scaglia
e qui nel bar il giorno ancora pieno
sfolgora in due pupille di giovinetta che si sfila il grembio
per le ore di libertà e l'uomo che le ha dato il cambio
indossa la gabbana bianca e viene
verso di noi con due bicchieri colmi,
freschi, da porre uno di qua uno di là sopra il nostro tavolo.
L'India
Tace ora, mi chiedo se oppressa dal suo Karma,
(so della sua vita, del nome che le dà, e del senso)
mentre mostra a lungo lo schermo
sul selciato una moltitudine
stecchita in una posa tra sonno e morte
levarsi a stento in preghiera e spulciarsi nell'alba.
Né forse la colpisce il primo aspetto
ma un altro più recondito, e vede
una giustizia di diverso stampo
in quella sofferenza di paria
orrida eppure non abbietta, e nella sua che le scende addosso.
"Avere o non avere la sua parte in questa vita"
riemerge in parole il suo pensiero - ma solo un lembo.
E io ne tiro a me quella frangia
ansioso mi confidi tutto l'altro,
attento non mi rubi niente
di lei, neppure l'amarezza, ed attendo.
S'interrompe invece. Seguono altre immagini dell'India
e nel loro riverbero le colgo
un sorriso estremo tra di vittima e di bimba
quasi mi lasci quella grazia in pegno
di lei mentre si eclissa nella sua pena
e l'idea di se stessa le muore dentro.
"Perché porti quel giogo, perché non insorgi"
mi trattengo appena dal gridarle,
soffrendo perché soffre, certo,
ma più ancora perché lascia la presa
della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo;
"Ascoltami" comincio a mormorarle
e già penso al chiarore della sala dopo il technicolor
e a lei che sul punto di partire
mi guarda da dietro la lampada
della sua solitudine tenuta alzata di fronte.
"Mario" mi previene lei che indovina il resto. "Ancora
levi come una spada, buona a che?,
lo sdegno per le cose che ti resistono.
Uomo chiuso all'intelligenza del diverso,
negato all'amore: del mondo, intendo, di Dio dunque"
e indulge a una smorfia fine di scherno
per se stessa salita sul pulpito, e quasi si annulla.
"Davvero vorrei tu avessi vinto"
le dico con affetto incontenibile, più tardi,
mentre scorre in un brusio d'api, nel film senza commento, l'India.
Il poeta e senatore a vita Mario Luzi si era permesso di dire che il treppiede lanciato a Berlusconi aveva fatto ricordare, a lui novantenne, un analogo incidente occorso al cavalier Mussolini, e di suggerire che i gravi momenti di tensione generano episodi di violenza
Souvent, pour s'amuser, les hommes d'équipage
prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
qui suivent, indolents compagnons de voyage,
le navire glissant sur les gouffres amers.
A peine les ont-ils déposés sur les planches,
que ces rois de l'azur, maladroits et honteux,
laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
comme des avirons traîner à côté d'eux.
Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!
Lui, naguère si beau, qu'il est comique et laid!
L'un agace son bec avec un brûle-gueule,
L'autre mime, en boitant, l'infirme qui volait!
Le Poëte est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l'archer;
exilé sur le sol au milieu des huées,
ses ailes de géant l'empêchent de marcher.
.............................................
Spesso, per dilettarsi, gli uomini della ciurma
catturano gli albatros, grandi uccelli marini
che seguono, indolenti compagni di viaggio,
la nave che scivola sugli amari flutti .
Appena deposti sulle assi della tolda
questi re dell'azzurro, maldestri e vergognosi
lasciano pietosamente le .grandi ali bianche
trascinarsi come remi accanto a sè.
Quant'è'è goffo e fiacco questo viaggiatore alato!
Lui, prima così bello, quant'è comico e brutto!
Uno tormenta il suo becco con un mozzicone acceso,
l'altro mima, zoppicando, l'infermo che volava.
Il Poeta assomiglia al principe delle nubi
che sfida la tempesta e sbeffeggia l'arciere;
esiliato al suolo in mezzo al baccano
le sue ali di gigante gli impediscono il cammino.
Una biografia di Claude Baudelaire
IO NON HO MANI
Io non ho mani
che mi accarezzino il volto,
(duro è l'ufficio
di queste parole
che non conoscono amori)
non so le dolcezze
dei vostri abbandoni:
ho dovuto essere
custode
della vostra solitudine:
sono
salvatore
di ore perdute.
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Pianefforte ’e notte
Nu pianefforte ’e notte sona luntanamente, e ’a museca se sente pe ll’aria suspirà.
È ll’una: dorme ’o vico ncopp’ a sta nonna nonna ’e nu mutivo antico ’e tanto tiempo fa.
Dio, quanta stelle ncielo! Che luna! E c’ aria doce! Quanto na bella voce vurria sentì cantà!
Ma sulitario e lento more ’o mutivo antico; se fa cchiù cupo ’o vico dint’ a ll’oscurità.
L’anema mia surtanto rummane a sta fenesta. Aspetta ancora. E resta, ncantannose, a penzà.
Chi è Salvatore Di Giacomo
'O VIENTO
Pe' mare, na dummeneca d'estate,
c' 'o cuttariello 'ncalma, sott' 'o sole...
LI' afa è accussì pesante
ca, si parie, te stancano 'e pparole.
Na cupola celeste e trasparente
me pare 'o cielo, ca cummoglia Napule
e se perde, luntano, senza fine.
Aunìte o sparpagliate
pe' Pròceta, Pusilleco, Surriento,
chesti vvele latine,
arze 'e calore e stanche,
nchiummate a mmare, senza n'ombra
pareno tanta palummelle janche
appezzàte ogneduna cu na spingula...
Che pace! Che silenzio
Stiso 'ncuperta, 'e spalle e 'o pietto 'a fore,
Penzo surtanto ca... nun penzo a niente...
Nu vuzzo 'e piscatore
vota nnanza « Donn' Anna »,
sotto a stu sole ardente...
(Sbatteno 'e terzarule lentamente
'rifaccia a sti vvele 'npanna...)
A ttemmone, 'o cchiù viecchio marenare,
c' 'a cicca mmocca, meglio d' 'o ffumà,
mo guarda a mmare,
mo dà n' uocchio e mo mbrusunèa c' 'o viento ;
pecchè, p' 'a gente 'e mare,
'o viento è comme a ‘na perzona viva
ne sanno 'a voce, 'e mmosse, 'o tradimento;
ne sanno 'e bbon' azione e 'a nfamità...
Ogge, è cchiù infamo e dispettuso ancora
Nun ce aggio avuto sciorta !
... Ma che cuntrora !
Che cuntrora schiattosa !
calma eterna 'ncopp' a st' acqua morta
nce nfonno 'a mano e quase nun s'è nfosa...
St' addore 'e fune 'e buordo e de lignamme,
vernice, « piccepaino »,
stu senzo 'e salimastro e de catramme,
ca quanno nun c' è viento, cchiù se sente,
me trase int' 'e ccervelle, acutamente...
Tengo n' arzura 'incanna...
(... Sbatteno 'e terzarule lentamente
'nfaccia a sti vvele 'npanna...)
Ma, a nu mumento a n' ato,
llà... fore Capre... ancora cchiù luntano,
‘na macchiulella blù,
ma accussì blù ca pare quase nera,
se stennie 'ncopp' all'acqua...
È n'ombra, è niente
te pienze tu ;
ma ll' ommo 'e mare, fisso,
cu ll' uocchio afflussiunato,
già, primm' 'e te, l' ha visto,
zitto eh' è isso è 'o viento...
... 'Oi lloco... 'Oi lloco...
Rèfola ca s'accosta chiano chiano,
se fa desiderà...
Pare cumm' a na femmena,
ca se ciancèa nu poco
primm' 'e se fa vasà...
Po 'a macchia blù se spanne ; e mo so' ttante
ca se ncrucèano mmiez"o golfo 'e Napule...
'O mare, fino a mmo, janco, abbagliante,
sott' a stu sole 'e fuoco,
cagna culore : mo è turchino - ardesia
nu velluto turchino - ardesia... 'Oi lloco...
Mpruvisamente,
comme schezzechiasse appena appena,
pare ca mille e mille àcene 'arena,
attuorno a nuie, chioveno a mmare e 'o pogneno,
'o stuzzicano, 'o smoveno....
'Aguanta 'a scotta... Forza...
L'arberatura schioppa... 'E vvele sbanneno,
ruciulèa sottaviento nu binocolo...
'O còttero va « orza »...
Nu poco ancora... N' atu ppoco ancora...
Pare eh' affonna, pare,
cu 'a murata 'int' all'acqua e a chiglia 'a fore...
... Che viento frisco!
... E quant' è bello, 'o mare
ca fragne a ppoppa e sciaqquettèa p' 'a prora...
Alle soglie d'autunno
in un tramonto
muto
scopri l'onda del tempo
e la tua resa
segreta
come di ramo in ramo
leggero
un cadere d'uccelli
cui le ali non reggono più.
18 agosto 1935
Ricordo un pomeriggio di settembre,
sul Montello. Io, ancora una bambina,
col trecciolino smilzo ed un prurito
di pazze corse su per le ginocchia.
Mio padre, rannicchiato dentro un andito
scavato in un rialzo del terreno,
mi additava attraverso una fessura
il Piave e le colline; mi parlava
della guerra, di sé, dei suoi soldati.
Nell'ombra, l'erba gelida e affilata
mi sfiorava i polpacci: sotto terra,
le radici succhiavan forse ancora
qualche goccia di sangue. Ma io ardevo
dal desiderio di scattare fuori,
nell'invadente sole, per raccogliere
un pugnetto di more da una siepe.
Milano, 22 maggio 1929
Ricordo che, quand'ero nella casa
della mia mamma, in mezzo alla pianura,
avevo una finestra che guardava
sui prati; in fondo, l'argine boscoso
nascondeva il Ticino e, ancor più in fondo,
c'era una striscia scura di colline.
Io allora non avevo visto il mare
che una sol volta, ma ne conservavo
un'aspra nostalgia da innamorata.
Verso sera fissavo l'orizzonte;
socchiudevo un po' gli occhi; accarezzavo
i contorni e i colori tra le ciglia:
e la striscia dei colli si spianava,
tremula, azzurra: a me pareva il mare
e mi piaceva più del mare vero.
Milano, 24 aprile 1929
E' bello camminare lungo il torrente:
non si sentono i passi, non sembra
di andare via.
Dall'alto del sentiero si vede la valle
e cime lontane ai margini
della pianura, come pallidi scogli
in riva a una rada - Si pensa
com'è bella, com'è dolce la terra
quando s'attarda a sognare
il suo tramonto
con lunghe ombre azzurre di monti
a lato - Si cammina lungo il torrente:
c'è un gran canto che assorda
la malinconia -
Milano, 9 agosto 1934
Venezia. Silenzio. Il passo
Di un bimbo scalzo
Sulle fondamenta
Empie d’echi
Il canale.
Venezia. Lentezza. Agli angoli
Dei muri sbocciano
Alberi e fiori:
come durasse
un’intera stagione il viaggio,
come se maggio
ora
li sdipanasse
per me.
Al pozzo di un campiello
Il tempo
Trova un filo d’erba tra i sassi:
lega con quello
il suo battito all’ala
di un colombo, al tonfo
dei remi.
22 ottobre 1933
Tristezza di queste mie mani
troppo pesanti
per non aprire piaghe,
troppo leggere
per lasciare un’impronta.-
tristezza di questa mia bocca
che dice le stesse
parole tue
altre cose intendendo-
e questo è il modo
della più disperata
lontananza.
16 ottobre 1933
O lasciate lasciate che io sia
Una cosa di nessuno
Per queste vecchie strade
In cui la sera affonda-
O lasciate lasciate ch’io mi perda
Ombra nell’ombra-
Gli occhi
Due coppe alzate
Verso l’ultima luce-
E non chiedetemi- non chiedetemi
quello che voglio
e quello che sono
se per me nella folla è il vuoto
e nel vuoto l’arcana folla
dei miei fantasmi-
e non cercate- non cercate
quello ch’io cerco
se l’estremo pallore del cielo
m’illumina la porta di una chiesa
e mi sospinge ad entrare-
Non domandatemi se prego
E chi prego
E perché prego-
Io entro soltanto
Per avere un po’ di tregua
E una panca e il silenzio
In cui parlino le cose sorelle-
Poi ch’io sono una cosa-
Una cosa di nessuno
Che va per le vecchie vie del mondo-
Gli occhi
Due coppe alzate
Verso l’ultima luce.
Milano, 18 ottobre 1930
Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d'un cancello angusto
al limitare d'un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all'irruente fuga
d'una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell'anima
e la porta dell'anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l'assalto è più duro.
E l'ultimo giorno
- io lo so -
l'ultimo giorno
quando un'unica lama di luce
pioverà dall'estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l'onda mostruosa,
l'urto tremendo,
l'urlo mortale
delle parole non nate
verso l'ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull'arcano cielo dell'ombra,
sarà
- tu lo sai -
la pace.
Milano, 10 febbraio 1931
LAMENTO PER IGNACIO SÁNCHEZ MEJÍAS
(1935)
Alla cara amica
Encarnación López Júlvez
1 - Il cozzo e la morte
Alle cinque della sera.
Eran le cinque in punto della sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.
Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l’ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combatton la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.
E una coscia con un corno desolato
alle cinque della sera.
Cominciarono i suoni di bordone
alle cinque della sera.
Le campane d’arsenico e il fumo
alle cinque della sera.
Negli angoli gruppi di silenzio
alle cinque della sera.
Solo il toro ha il cuore in alto!
alle cinque della sera.
Quando venne il sudore di neve
alle cinque della sera,
quando l’arena si coperse di iodio
alle cinque della sera,
la morte pose le uova nella ferita
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Alle cinque in punto della sera.
Una bara con ruote è il letto
alle cinque della sera.
Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie
alle cinque della sera.
Il toro già mugghiava dalla fronte
alle cinque della sera.
La stanza s’iridava d’agonia
alle cinque della sera.
Da lontano già viene la cancrena
alle cinque della sera.
Tromba di giglio per i verdi inguini
alle cinque della sera.
Le ferite bruciavan come soli
alle cinque della sera.
E la folla rompeva le finestre
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Ah, che terribili cinque della sera!
Eran le cinque a tutti gli orologi!
Eran le cinque in ombra della sera!
2 - Il sangue versato
Non voglio vederlo!
Di’ alla luna che venga,
ch’io non voglio vedere il sangue
d’Ignazio sopra l’arena.
Non voglio vederlo!
La luna spalancata.
Cavallo di quiete nubi,
e l’arena grigia del sonno
con salici sullo steccato.
Non voglio vederlo!
Il mio ricordo si brucia.
Ditelo ai gelsomini
con il loro piccolo bianco!
Non voglio vederlo!
La vacca del vecchio mondo
passava la sua triste lingua
sopra un muso di sangue
sparso sopra l’arena,
e i tori di Guisando,
quasi morte e quasi pietra,
muggirono come due secoli
stanchi di batter la terra.
No.
Non voglio vederlo!
Sui gradini salì Ignazio
con tutta la sua morte addosso.
Cercava l’alba,
ma l’alba non era.
Cerca il suo dritto profilo,
e il sogno lo disorienta.
Cercava il suo bel corpo
e trovò il suo sangue aperto.
Non ditemi di vederlo!
Non voglio sentir lo zampillo
ogni volta con meno forza:
questo getto che illumina
le gradinate e si rovescia
sopra il velluto e il cuoio
della folla assetata.
Chi mi grida d’affacciarmi?
Non ditemi di vederlo!
Non si chiusero i suoi occhi
quando vide le corna vicino,
ma le madri terribili
alzarono la testa.
E dagli allevamenti
venne un vento di voci segrete
che gridavano ai tori celesti,
mandriani di pallida nebbia.
Non ci fu principe di Siviglia
da poterglisi paragonare,
né spada come la sua spada
né cuore così vero.
Come un fiume di leoni
la sua forza meravigliosa,
e come un torso di marmo
la sua armoniosa prudenza.
Aria di Roma andalusa
gli profumava la testa
dove il suo riso era un nardo
di sale e d’intelligenza.
Che gran torero nell’arena!
Che buon montanaro sulle montagne!
Così delicato con con le spighe!
Così duro con gli speroni!
Così tenero con la rugiada!
Così abbagliante nella fiera!
Così tremendo con le ultime
banderillas di tenebra!
Ma ormai dorme senza fine.
Ormai i muschi e le erbe
aprono con dita sicure
il fiore del suo teschio.
E già viene cantando il suo sangue:
cantando per maremme e praterie,
sdrucciolando sulle corna intirizzite,
vacillando senz’anima nella nebbia,
inciampando in mille zoccoli
come una lunga, scura, triste lingua,
per formare una pozza d’agonia
vicino al Guadalquivir delle stelle.
Oh, bianco muro di Spagna!
Oh, nero toro di pena!
Oh, sangue forte d’Ignazio!
Oh, usignolo delle sue vene!
No.
Non voglio vederlo!
Non v’è calice che lo contenga,
non rondini che se lo bevano,
non v’è brina di luce che lo ghiacci,
né canto né diluvio di gigli,
non v’è cristallo che lo copra d’argento.
No.
Io non voglio vederlo!!
3 - Corpo presente
La pietra è una fronte dove i sogni gemono
senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati.
La pietra è una spalla per portare il tempo
Con alberi di lagrime e nastri e pianeti.
Ho visto piogge grigie correre verso le onde
alzando le tenere braccia crivellate
per non esser prese dalla pietra stesa
che scioglie le loro membra senza bere il sangue.
Perché la pietra coglie semenze e nuvole,
scheletri d’allodole e lupi di penombre,
ma non dà suoni, né cristalli, né fuoco,
ma arene e arene e un’altra arena senza muri.
Ormai sta sulla pietra Ignazio il ben nato.
Ormai è finita. Che c’è? Contemplate la sua figura:
la morte l’ha coperto di pallidi zolfi
e gli ha messo una testa di scuro minotauro.
Ormai è finita. La pioggia entra nella sua bocca.
Il vento come pazzo il suo petto ha scavato,
e l’Amore, imbevuto di lacrime di neve,
si riscalda in cima agli allevamenti.
Cosa dicono? Un silenzio putrido riposa.
Siamo con un corpo presente che sfuma,
con una forma chiara che ebbe usignoli
e la vediamo riempirsi di buchi senza fondo.
Chi increspa il sudario? Non è vero quel che dice!
Qui nessuno canta, né piange nell’angolo,
né pianta gli speroni né spaventa il serpente:
qui non voglio altro che gli occhi rotondi
per veder questo corpo senza possibile riposo.
Voglio veder qui gli uomini di voce dura.
Quelli che domano cavalli e dominano i fiumi:
gli uomini cui risuona lo scheletro e cantano
con una bocca piena di sole e di rocce.
Qui li voglio vedere. Davanti alla pietra.
Davanti a questo corpo con le redini spezzate.
Voglio che mi mostrino l’uscita
per questo capitano legato dalla morte.
Voglio che mi insegnino un pianto come un fiume
ch’abbia dolci nebbie e profonde rive
per portar via il corpo di Ignazio e che si perda
senza ascoltare il doppio fiato dei tori.
Si perda nell’arena rotonda della luna
che finge, quando è bimba dolente, bestia immobile;
si perda nella notte senza canto dei pesci
e nel bianco spineto del fumo congelato.
Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti
perché s’abitui alla morte che porta.
Vattene, Ignazio. Non sentire il caldo bramito.
Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!
4 - Anima assente
Non ti conosce il toro né il fico,
né i cavalli né le formiche di casa tua.
Non ti conosce il bambino né la sera
perché sei morto per sempre.
Non ti conosce il dorso della pietra,
né il raso nero dove ti distruggi.
Non ti conosce il tuo ricordo muto
perché sei morto per sempre.
Verrà l’autunno con conchiglie,
uva di nebbia e monti aggruppati,
ma nessuno vorrà guardare i tuoi occhi
perché sei morto per sempre.
Perché sei morto per sempre,
come tutti i morti della Terra,
come tutti i morti che si scordano
in un mucchio di cani spenti.
Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto.
Canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia.
L’insigne maturità della tua conoscenza.
Il tuo appetito di morte e il gusto della sua bocca.
La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria.
Tarderà molto a nascere, se nasce,
un andaluso così chiaro, così ricco d’avventura.
Io canto la sua eleganza con parole che gemono
e ricordo una brezza triste negli ulivi.
La vita e le opere di Federico Garcìa Lorca
Er deserto
Dio me ne guardi, Cristo e la Madonna
d'annà ppiú ppe ggiuncata a sto precojjo.
Prima... che pposso dí?... pprima me vojjo
fa ccastrà dda un norcino a la ritonna.
Fà ddiesci mijja e nun vedé una fronna!
Imbatte ammalappena in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com'un ojjo.
che ssi strilli nun c'è cchi tt'arisponna!
Dove te vorti una campaggna rasa
come sce ssi passata la pianozza,
senza manco l'impronta d'una casa!
L'unica cosa sola c'ho ttrovato
in tutt'er viaggio, è stata una bbarrozza
cor barrozzaro ggiú mmorto ammazzato.
26 marzo 1836
L'UMANITÀ
Venuta dalla dura terra fuori nei campi
la stirpe degli uomini era piú dura:
senza malanni del corpo,
al gelo, al caldo, a qualunque sorta di cibo,
poteva egualmente resistere, tanto
era dentro connessa di solide ossa e più grandi,
legata di fortissimi nervi le carni.
Trascinavano come bestie una vita sparsa e lunga.
Il curvo aratro non c'era,
nessuno sapeva far molle il suolo col ferro, aprirlo
ai virgulti e tagliare con la ronca
i rami secchi alle piante:
Un frutto che al sole e alla pioggia spuntasse,
dono terrestre, calmava quei petti. E mangiavano
sotto le querce le ghiande cadute,
gli àlbatri che allora crescevano
sempre e molti e piú grandi, e li vedi
che adesso diventano rossi soltanto d'inverno.
Così del duro cibo che offriva
la florida infanzia del mondo i poveri.mortali
si accontentavano.
Quando avevano sete i fumi li chiamavano
come la voce lontana dell’acqua
chiama ancora le bestie assetate sulle rupi.
E andavano per le grotte silvestri guardando
i ruscelli che bagnano i sassi muschiosi
e vanno verso l'erba del piano.
Non sapevano ancora trattare le cose col fuoco
e vestirsi il corpo delle spoglie
degli animali: ma stavano nelle macchie
e coprivano di cespugli le squallide membra
costretti dalla tempesta nelle fessure
delle montagne.
D'ogni costume, d'ogni legge ignoranti
non potevano curarsi del bene comune:
chi trovava una preda la teneva per sé,
da solo imparando il rischio della vita.
E Venere univa i corpi degli amanti
nelle foreste: la foia invincibile
menava dal maschio la femmina o la stessa forza
dell'uomo o un compenso che era
una manciata di ghiande o un bel frutto maturo.
Meravigliosamente erano agili nelle membra;
e armati di pietre o di grossi tronchi di alberi
cacciavano le belve per le boscaglie;
molte ne vincevano e altre poche scansavano
al riparo di qualche antro nascosto.
Di notte si mettevano per terra, nudi
sotto le foglie: e non cercavano
urlando per i campi la luce del giorno perduta
nelle ombre: ma sepolti nel silenzio del sonno
aspettavano che -il sole tornasse all'orizzonte:
avevano già visto da fanciulli la vicenda
del buio e della luce; e non c'era nessuna
meraviglia per loro, nessuna paura
che sparito per sempre il lume del sole
una infinita notte restasse sulla terra:
ben altro affanno avevano: c'erano le belve
a. rendere incerto, fatale il riposo.
E se un cinghiale appariva o un leone affamato
scappavano dai lor tetti rocciosi
e pallidi nel cuor della notte cedevano
agli ospiti feroci il giaciglio di fronde.
E come adesso allora i mortali
lasciavano in pianto il dolce lume della vita:
ciascuno era pasto alle belve: ciascuno
inghiottito dai denti vedeva il suo corpo
chiudersi vivo dentro un vivo sepolcro,
e le gole dei monti si riempivano di gemiti.
Chi poi straziato nel corpo riusciva a fuggire
tenendo le mani tremanti sulle piaghe
chiamava orribilmente la morte;
e morivano cosí spasimando e senza soccorso:
non sapevano cosa fossero le ferite.
E col tempo fecero le capanne, impararono
l'uso delle pelli per coprirsi e il sacramento
del focolare
La donna fu paga di un solo connubio,
e quando si videro assomigliati nei figli
cominciarono a ingentilirsi.
Il fuoco fece che i corpi intirizziti
non potessero piú stare sotto il cielo scoperto;
l'amore quietava le forze
e i fanciulli ammansivano con le carezze
la rude superbia dei padri.
(V, 922-995: 1008-1016)
traduzione di Enzio Cetrangolo