Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
di Martin Niemöller
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari.
E fui contento perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei.
E stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno a protestare.
queste parole, declinate in diverse versioni e diverse lingue girarono il mondo negli anni in cui il nazismo da partito divenne regime
MARZO
di Salvatore Di Giacomo
Mo nu cielo celeste,
mo n’aria cupa e nera,
mo d’’o vierno ‘e tempesta,
mo n’aria ‘e Primmavera.
N’ auciello freddigliuso
aspetta ch’esce ‘o sole,
ncopp’’o tturreno nfuso
suspireno ‘e vviole.
Catarì!…Che buo’ cchiù?
Ntiénneme, core mio!
Marzo, tu ‘o ssaie, si’ tu,
e st’ auciello songo io.
ribelle che sonnecchi,
non cedere alle lusinghe,
non farti buono,
di sterco e di sangue
è il mondo che attorno
ti puzza,
resta insano,
questo è il tuo posto,
ragazzo sulle barricate,
con un sasso in mano.
Henry Scott Holland (Ledbury, 27 gennaio 1847 -17 marzo 1918) è stato un teologo e scrittore britannico. Era profondamente interessato alla giustizia sociale e fondò il Pesek (Politica, Economia, Socialismo, Etica e cristianesimo), che condannava lo sfruttamento capitalista della povertà urbana. Nel 1889, ha fondato la Christian Social Union (CSU).
Death is nothing
«Death is nothing at all. It does not count.
I have only slipped away into the next room.
Nothing has happened.
Everything remains exactly as it was.
I am I, and you are you, and the old life that we lived so fondly together is untouched, unchanged.
Whatever we were to each other, that we are still.
Call me by the old familiar name.
Speak of me in the easy way which you always used.
Put no difference into your tone.
Wear no forced air of solemnity or sorrow.
Laugh as we always laughed at the little jokes that we enjoyed together.
Play, smile, think of me, pray for me.
Let my name be ever the household word that it always was.
Let it be spoken without an effort, without the ghost of a shadow upon it.
Life means all that it ever meant.
It is the same as it ever was.
There is absolute and unbroken continuity.
What is this death but a negligible accident?
Why should I be out of mind because I am out of sight?
I am but waiting for you, for an interval, somewhere very near, just round the corner.
All is well.
Nothing is hurt; nothing is lost.
One brief moment and all will be as it was before.
How we shall laugh at the trouble of parting when we meet again! »
La morte non è niente
La morte non è niente
Piegati da un peso
che non sempre si vede
avanzano nel fango o nella sabbia del deserto,
chini, affamati,
uomini di poche parole dai pesanti caffettani,
adatti a tutte le stagioni,
donne vecchie dai volti sciupati
che portano qualcosa, un neonato, una lampada
- un ricordo- oppure l'ultimo tozzo di pane.
Può essere la Bosnia, oggi,
la Polonia nel settembre '39, la Francia
otto mesi più tardi, la Turingia nel '45,
la Somalia, l'Afghanistan o l'Egitto.
C'è sempre un carro, o almeno un carretto,
colmo di tesori (il piumino, la tazza d'argento
e il profumo di casa che presto svanisce),
un'auto senza benzina abbandonata nel fosso,
un cavallo (che sarà tradito), la neve, molta neve,
troppa neve, troppo sole, troppa pioggia,
e quel caratteristico curvarsi,
come verso un altro pianeta, migliore,
con generali meno ambiziosi,
meno cannoni, meno neve, meno vento,
meno Storia (purtroppo un simile pianeta
non esiste, resta solo il curvarsi).
Tascinando i piedi,
vanno lentamente, molto lentamente,
verso il paese da nessuna parte,
verso la città nessuno,
sul fiume mai.
Adam Zagajewski
Per iniziare l'anno nuovo riproponiamo a chi ci segue questa traduzione di Enzio Cetrangolo delle parti del poema De Rerum Natura che narrano della nascita del nostro mondo (V, 922-995: 1008-1016) . Auguri per un migliore 2016
Venuta dalla dalla dura terra fuori nei campi
Ogni parte aspira sempre
a congiungersi con l'intero
per sfuggire all'imperfezione;
L'anima sempre aspira
ad abitare un corpo
perché senza gli organi corporei
non può agire ne sentire.
Essa funziona dentro il corpo
come fa il vento
dentro le canne di un organo,
se una delle canne si guasta
il vento non produce più il giusto suono.
nella traduzione di Pietro Marchesani, la rubiamo dal blog di Paola Somma (http://amoscrivere1258.wordpress.com/)
Contributo alla statistica
Su cento persone:
ASSIDUA RICERCA
Ma i lutti e i pianti e le tormentate incertezze
le lucide menti
le lotte senza respiro
l’assidua ricerca del vero
hanno nutrita.
Con l’altrui dolore
l’umano confronto
e le parole dette
sul pane, la casa, la pace per tutti
non bastarono
come le lacrime che lavano l’offesa
e l’ingiustizia dell’uomo sugli uomini.
Un canto ci voleva per tutti i petti
Postilla
Questa poesia l'avevamo scelta un paio d'anni fa (la trovate anche nell'archivio del vecchio eddyburg) tra quelle scritte negli anni Cinquanta da Franco Busetto, lucido comunista italiano e tenace combattente nella società e nelle istituzioni, negli anni della guerra e in quelli della pace. Sono state raccolte e pubblicate a cura di Franca Tessari e Mariuccia Gaffuri, Padova 2011, editrice Il Torchio.
E’ una poesia scritta negli anni anni in cui dagli orrori contro i quali si lottava non si potè uscire del del tutto perché , come ha scritto Busetto, «un canto ci voleva per tutti i petti», e non ci fu. Gli anni che stiamo attraversando sono solo "diversamente brutti". Speriamo che quel canto oggi ci sia... o magari domani.
Obra en marcha: Poesìa, 1965-1980 (Editorial Costarica, 1982, p.186), e dedicata a chi lotta per la difesa degli spazi pubblici
Alfonso Chase Le piazze sono i palazzi del popolo
Le piazze sono i palazzi del popolo
Sull’asfalto o la pietra
il passaggio è un coltello
e ogni labbro un grido
Da strada a strada il mondo cresce.
Credo che in ogni piazza
d’angolo in angolo e da strada a strada
il popolo si svela
Ci guardiamo ciascuno faccia a faccia
ognuno riconosce ciascun altro e diventa più forte
Prendi qualche parola dimenticata
e falla tua
così come quando fai l’amore
o senti l’aria.
La casa del popolo sono le piazze
e siamo lì tutti e nessuno.
Da "Vista con granellodi sabbia. Poesie (1957-1993)" ripreso dal sito www.gironi.it
Trovatori, Einaudi 2007. Segnalata da Vezio De Lucia il 25 aprile 2013
Andatelo a dire
“Andatelo a dire
ai caduti di ieri
che il loro morire
Assidua ricerca
Ma i lutti e i pianti e le tormentate incertezze
le lucide menti
le lotte senza respiro
l’assidua ricerca del vero
hanno nutrita.
Con l’altrui dolore
l’umano confronto
e le parole dette
sul pane, la casa, la pace per tutti
non bastarono
come le lacrime che lavano l’offesa
e l’ingiustizia dell’uomo sugli uomini.
Un canto ci voleva per tutti i petti
PostillaQuesta poesia L'abbiamo scelta tra quelle scritte negli anni Cinquanta da Franco Busetto, lucido comunista italiano e tenace combattente nella società e nelle istituzioni, negli anni della guerra e in quelli della pace. Sono state raccolte e pubblicate a cura di Franca Tessari e Mariuccia Gaffuri, Padove 2011, editrice Il Torchio.
E’ una poesia scritta negli anni anni in cui - come oggi(?) - dagli orrori contro i quali si lottava non si potè uscire del del tutto perché «un canto ci voleva per tutti i petti», e non ci fu.
Wislawa Szymborska,
Scrivere il curriculum
Che cos’è necessario?
E’ necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
il curriculum dovrebbe essere breve.
E’ d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo del valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.
E’ la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
Quando si dileguò la notte
la mimosa rimase
in mezzo al campo
fra le case stupite.
Era sola
fiorita
un firmamento di polline
tremante
nel gelo del mattino.
All’alzarsi del vento
che ondeggiava
fra i rami del fico
ancora nudo
e il melograno secco
rabbrividì all'inganno.
Una febbre di primavera
un errore maligno
fremendo nelle vene
del suo tronco
l’aveva destata anzi tempo
spinta a quel fragile tripudio.
E ora
sulla terra ancora nera
spoglia d'uccelli
gemeva luminosa
nel cuore dell'inverno.
La poesia, senza titolo, è la prima della poemetto "Primavera" nel libro: Piero Bevilacqua, Il vento nella città, introduzione di Alberto Asor Rosa, Roma, Donzelli 2010, €
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non é uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla é più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.
Nazim Hikmet
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno a protestare.
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C'e' una meta
per il vento dell'inverno
il rumore del mare
Anonimo
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Se manca il sake
velata
è la bellezza dei ciliegi in fiore …
Anonimo
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Oh, mondine -
di non fangoso
c'è solo il vostro canto
Raizan (1654-1716)
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Passerotti -
Sui pannelli di carta
delle porte scorrevoli,
l’ombra di foglie di bambù
Takarai Kikaku (1661-1707)
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Simile a pianta che non ha più fiori,
ormai tronco, posso contorcermi.
- Salici piangenti –
Chiyojo (1703-1775)
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Dallo zefiro
sospinta è la fanciulla…
irata beltà –
Kato Kyotai (1732-1792)
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Il sole dell’occaso
se ne sarà andato a gonfiare
le acque di primavera?
Takai Kito (1741-1789)
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Nebbie della sera.
Assorto il pensiero indugia
sui ricordi indistinti di un tempo –
Takai Kito (1741-1789)
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Alla stagione delle piogge,
leva il capo
un’erba senza radici
Muratami Kijo (1865-1938)
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Stupore:
una margherita si frange,
suono di mezzanotte
Shiki (1867-1902)
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Raggi scarlatti
È come se ci fossero
- cielo d’autunno
Kyoshi (1874-1959)
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Soffioni,
occhi di primavera ridenti
sul litorale sabbioso.
Ah, soffioni!
Ogivara Seisensui (1884-1976)
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Peonia
petalo a petalo
palpiti,
ti apri,
ti ricomponi
Ogiwara Seisensui (1884-1976)
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La sera, borsa di ghiaccio
bianco
il silenzio tra noi
Ogiwara Seisensui (1884-1976)
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Minuscolo, un fazzoletto di giardino:
malata, vi cade,
immensa,
una foglia
Tomiyasu Fusei (1885-1979)
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Mezzodì di piena estate:
la morte ci spia,
gli occhi socchiusi
Iida Dakotsu (1885-1962)
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Sotto i miei passi
Solo il fruscio si sente
Di foglie secche.
Hisajo (1890-1946)
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Nell’ombra del verde fogliame,
pagliuzze d’oro sinistro:
gli occhi di un gatto tutto inchiostro
Kawataba Bosha (1900-1941)
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Non c’è mia moglie
Per due notti –e due notti
La via lattea
Kusatao (1901-1983)
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Chiudo gli occhi
al tepore della fiamma
lontana
di un antico amore
Hino Soio (1901-1956)
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Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
CORNO INGLESE
Il vento che stasera suona attento
- ricorda un forte scotere di lame -
gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l'orizzonte di rame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D'alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento che nasce e muore
nell'ora che lenta s'annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.
FALSETTO
Esterina, i vent'anni ti minacciano,
grigiorosea nube
che a poco a poco in sé ti chiude.
Ciò intendi e non paventi.
Sommersa ti vedremo
nella fumea che il vento
lacera o addensa, violento.
Poi dal fiotto di cenere uscirai
adusta più che mai,
proteso a un'avventura più lontana
l'intento viso che assembra
l'arciera Diana.
Salgono i venti autunni,
t'avviluppano andate primavere;
ecco per te rintocca
un presagio nell'elisie sfere.
Un suono non ti renda
qual d'incrinata brocca
percossa!; io prego sia
per te concerto ineffabile
di sonagliere.
La dubbia dimane non t'impaura.
Leggiadra ti distendi
sullo scoglio lucente di sale
e al sole bruci le membra.
Ricordi la lucertola
ferma sul masso brullo;
te insidia giovinezza,
quella il lacciòlo d'erba del fanciullo.
L'acqua' è la forza che ti tempra,
nell'acqua ti ritrovi e ti rinnovi:
noi ti pensiamo come un'alga, un ciottolo
come un'equorea creatura
che la salsedine non intacca
ma torna al lito più pura.
Hai ben ragione tu!
Non turbare
di ubbie il sorridente presente.
La tua gaiezza impegna già il futuro
ed un crollar di spalle
dirocca i fortilizî
del tuo domani oscuro.
T'alzi e t'avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo s'incide
contro uno sfondo di perla.
Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t'abbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t'afferra.
Ti guardiamo noi, della razza
di chi rimane a terra.
Da OSSI DI SEPPIA
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Non rifugiarti nell'ombra
di quel fólto di verzura
come il falchetto che strapiomba
fulmineo nella caldura.
E' ora di lasciare il canneto
stento che pare s'addorma
e di guardare le forme
della vita che si sgretola.
Ci muoviamo in un pulviscolo
madreperlaceo che vibra,
in un barbaglio che invischia
gli occhi e un poco ci sfibra.
Pure, lo senti, nel gioco d'aride onde
che impigra in quest'ora di disagio
non buttiamo già in un gorgo senza fondo
le nostre vite randage.
Come quella chiostra di rupi
che sembra sfilaccicarsi
in ragnatele di nubi;
tali i nostri animi arsi
in cui l'illusione brucia
un fuoco pieno di cenere
si perdono nel sereno
di una certezza: la luce.
a K.
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida
scorta per avventura tra le petraie d'un greto,
esiguo specchio in cui guardi un'ellera i suoi corimbi;
e su tutto l'abbraccio d'un bianco cielo quieto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto s'esprime libera un'anima ingenua,
o vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella mia memoria grigia
schietto come la cima d'una giovinetta palma...
Mia vita, a te non chiedo lineamenti
fissi, volti plausibili o possessi.
Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso
sapore han miele e assenzio.
Il cuore che ogni moto tiene a vile
raro è squassato da trasalimenti.
Così suona talvolta nel silenzio
della campagna un colpo di fucile.
Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Ciò che di me sapeste
non fu che la scialbatura,
la tonaca che riveste
la nostra umana ventura.
Ed era forse oltre il telo
l'azzurro tranquillo;
vietava il limpido cielo
solo un sigillo.
O vero c'era il falòtico
mutarsi della mia vita,
lo schiudersi d'un'ignita
zolla che mai vedrò.
Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza
per me si chiamò: l'ignoranza.
Se un'ombra scorgete, non è
un'ombra - ma quella io sono.
Potessi spiccarla da me,
offrirvela in dono.
RIVIERE
Riviere,
bastano pochi stocchi d'erbaspada
penduli da un ciglione
sul delirio del mare;
o due camelie pallide
ne i giardini deserti,
e un eucalipto biondo che si tuffi
tra sfrusci e pazzi voli
nella luce;
ed ecco che in un attimo
invisibili fili a me si asserpano,
farfalla in una ragna
di fremiti d'olivi, di sguardi di girasoli.
Dolce cattività, oggi, riviere
di chi s'arrende per poco
come a rivivere un antico giuoco
non mai dimenticato.
Rammento l'acre filtro che porgeste
allo smarrito adolescente, o rive:
nelle chiare mattine si fondevano
dorsi di colli e cielo; sulla rena
dei lidi era un risucchio ampio, un eguale
fremer di vite
una febbre del mondo; ed ogni cosa
in se stessa pareva consumarsi.
Oh allora sballottati
come l'osso di seppia dalle ondate
svanire a poco a poco;
diventare
un albero rugoso od una pietra
levigata dal mare; nei colori
fondersi dei tramonti; sparir carne
per spicciare sorgente ebbra di sole,
dal sole divorata...
Erano questi,
riviere, i voti del fanciullo antico
che accanto ad una rósa balaustrata
lentamente moriva sorridendo.
Quanto, marine, queste fredde luci
parlano a chi straziato vi fuggiva.
Lame d'acqua scoprentisi tra varchi
di labili ramure; rocce brune
tra spumeggi; frecciare di rondoni
vagabondi...
Ah, potevo
credervi un giorno o terre,
bellezze funerarie, auree cornici
all'agonia d'ogni essere.
Oggi torno
a voi più forte, o è inganno, ben che il cuore
par sciogliersi in ricordi lieti - e atroci.
Triste anima passata
e tu volontà nuova che mi chiami,
tempo è forse d'unirvi
in un porto sereno di saggezza.
Ed un giorno sarà ancora l'invito
di voci d'oro, di lusinghe audaci,
anima mia non più divisa. Pensa:
cangiare in inno l'elegia; rifarsi;
non mancar più.
Potere
simili a questi rami
ieri scarniti e nudi ed oggi pieni
di fremiti e di linfe,
sentire
noi pur domani tra i profumi e i venti
un riaffluir di sogni, un urger folle
di voci verso un esito; e nel sole
che v'investe, riviere,
rifiorire!
DORA MARKUS
1
Fu dove il ponte di legno
mette a Porto Corsini sul mare alto
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all'altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s'affondava
una primavera inerte, senza memoria.
E qui dove un'antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d'Oriente,
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.
La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare,
e i suoi riposi sono anche piú rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco,
d'avorio; e così esisti!
2
Ormai nella tua Carinzia
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl'irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell'acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.
La sera che si protende
sull'umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d'oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.
La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d'oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l'armonica guasta nell'ora
che abbuia, sempre piú tardi.
E scritta là. Il sempreverde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino...
Ma è tardi, sempre piú tardi.
ALLA MANIERA DI FILIPPO DE PISIS
NELL' INVIARGLI QUESTO LIBRO
...l'Arno balsamo fino.
Lapo Gianni
Una botta di stocco nel zig zag
del beccaccino -
e si librano piume su uno scrímolo.
(Poi discendono là, fra sgorbiature
di rami, al freddo balsamo del fiume.)
TEMPI DI BELLOSGUARDO
Oh come là nella corusca
distesa che s'inarca verso i colli,
il brusío della sera s'assottiglia
e gli alberi discorrono col trito
mormorio della rena; come limpida
s'inalvea là in decoro
di colonne e di salci ai lati e grandi salti
di lupi nei giardini, tra le vasche ricolme
che traboccano,
questa vita di tutti non piú posseduta
del nostro respiro;
e come si ricrea una luce di zaffiro
per gli uomini
che vivono laggiú: è troppo triste
che tanta pace illumini a spiragli
e tutto ruoti poi con rari guizzi
su l'anse vaporanti, con incroci
di camini, con grida dai giardini
pensili, con sgomenti e lunghe risa
sui tetti ritagliati, tra le quinte
dei frondami ammassati ed una coda
fulgida che trascorra in cielo prima
che il desiderio trovi le parole!
*
Derelitte sul poggio
fronde della magnolia
verdibrune se il vento
porta dai frigidari
dei pianterreni un travolto
concitamento d'accordi
ed ogni foglia che oscilla
o rilampeggia nel folto
in ogni fibra s'imbeve
di quel saluto, e piú ancora
derelitte le fronde
dei vivi che si smarriscono
nel prisma del minuto,
le membra di febbre votate
al moto che si ripete
in circolo breve: sudore
che pulsa, sudore di morte,
atti minuti specchiati,
sempre gli stessi, rifranti
echi del batter che in alto
sfaccetta il sole e la pioggia,
fugace altalena tra vita
che passa e vita che sta,
quassú non c'è scampo: si muore
sapendo o si sceglie la vita
che muta ed ignora: altra morte.
E scende la cuna tra logge
ed erme: l'accordo commuove
le lapidi che hanno veduto
le immagini grandi, l'onore,
l'amore inflessibile, il giuoco,
la fedeltà che non muta.
E il gesto rimane: misura
il vuoto, ne sonda il confine:
il gesto ignoto che esprime
sé stesso e non altro: passione
di sempre in un. sangue e un cervello
irripetuti; e fors'entra
nel chiuso e lo forza con l'esile
sua punta di grimaldello.
L'immagine è un quadro di Filippo De Pisis
Se chiamo
non vengono i miei morti
ma il treno si è fermato nel tramonto
fuori solo grilli e campi
e a un tratto
come da lontano una balera
un tango.
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Arrivavano all’alba
dalle campagne
il viso segnato dal sole
le mani nodose
e stavano ore
nere
in piedi
sulla piazza del mercato.
L’una era l’ora più vuota
contavano chine le uova invendute
le calze di seta svanite.
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Il paese era tutto un rammendo
ricambi di colli e polsini
giacche lise da rivoltare
un continuo disfare
vecchie vite
fianchi
corpetti ormai sfatti
e lei usciva da una scuola di taglio.
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A un mese
era stata colpita dalla polio.
Giorni e giorni ha passato sul balcone
sulle panchine della stazione
al parco delle scuole.
Mai riusciva ad arrivare
dove muore l’argine.
È rimasta ad aiutare in casa
ha curato la bambina di sua sorella.
Giocava di nascosto
una lira una cartella
con le vecchie della tombola
in una stanza buia
il muro annerito dalle stufe
lei nella luce.
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A Messa andava all’alba
chiusa nella spilla da balia
sul cuore il taschino degli aghi
la stanza ingombra di pizzi
di sete
di rasi
una nuvola bianca
con punte di rosa
in un vicolo scuro
tutti veli da sposa.
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Li cuciva sul rovescio
intere notti
curva sulla Singer a pedali
i palloncini a spicchi dei mercati
che nessuno da bambina le comprava
e lei lì a fissarli
come per portarli tutti a casa
gialli verdi rossi.
Le hanno consumato gli occhi.
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Persino le rosette
che sua madre portava dall’età di cinque anni
erano andate a suo fratello
e a sua cognata.
Lei non è tornata
a casa quella notte.
All’alba
sedeva ancora
muta
composta
in sala d’aspetto
di terza classe.
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Un fazzoletto in testa
uno più grande in mano
quattro capi
due nodi
i tagli dei geloni
e i sogni
caldi come le stagioni
sotto la neve.
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Versione di Giorgio Melchiori, Einaudi
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