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I l dibattito sollevato in questi giorni dalla legge per la tutela della lingua friulana presentata dall'assessore regionale all'Istruzione, Roberto Antonaz (di Rifondazione comunista) mi ha riportato alla mente una vicenda ormai lontana. Che, però, vale la pena raccontare per comprendere l'importanza della questione. Nel 1971 due deputati, Mario Lizzero, «Andrea» come partigiano, udinese e pugnace comunista, e Francesco Compagna, vecchio amico per me, repubblicano, piombarono a casa mia chiedendomi se accettavo di dirigere una indagine conoscitiva del Servizio Studi della Camera sullo stato delle minoranze linguistiche in Italia. Ero sorpreso. Mi spiegarono che, anche se non me ne rendevo conto, un mio libro di anni prima era l'unico in cui si parlasse della questione. E che, comunque, bisognava finalmente attuare l'art. 6 della Costituzione sulla tutela delle minoranze linguistiche. Accettai. Cominciò una storia già essa travagliata, dovette intervenire Sandro Pertini, presidente della Camera, a difendere, contro il governo dell'epoca, il diritto del Parlamento a promuovere indagini conoscitive su questa e ogni altra materia. L'indagine si concluse nel 1974, ma per vario tempo restò a dormire.

Da varie parti, le dirigenze centrali dei partiti erano ostili anche alla sola idea di conoscere lo stato delle cose. C'era una situazione paradossale. Localmente, dai comuni albanesi o neogreci alle aree slovene o friulane, politici del luogo e, debbo aggiungere subito, la Chiesa, erano schierate per destare o ridestare le tradizioni minoritarie. Le dirigenze nazionali erano timorose, anzi apertamente ostili, da Aldo Moro al gruppo dirigente del Pci.

Anche localmente le cose erano turbolente. L'autorevole gruppo dei parlamentari comunisti sardi si ribellava all'idea di promuovere la tutela del sardo: questo, dicevano, avrebbe «ghettizzato» l'Isola. Anche in Friuli non tutto era rose e fiori. La buona borghesia non condivideva l'impegno dei deputati e della Chiesa. Lizzero, nel 1974, mi trascinò a cercare di spiegare che le minoranze non erano il diavolo. Nella sala successe un pandemonio. Poi, col terremoto, le cose cambiarono e i friulani riscoprirono l'orgoglio, anche linguistico, per la loro cultura. Anche in Sardegna lentamente le cose maturavano. Perfino nel Pci. Nel 1977 o 1978 Giovanni Berlinguer mi propose di aprire un convegno a Sassari sul sardo e le lingue di minoranza. Sopravvissi.

I dubbi però restavano. Intanto, finalmente, l'indagine conoscitiva venne pubblicata, con una sintesi affidata a me e a Gianbattista Pellegrini. Che esistessero in Italia minoranze linguistiche era difficile da negare. Ma sul piano legislativo si segnava il passo. Lizzero e Chiarante ottennero che la segreteria del Partito comunista mi ascoltasse. Entrai con molta emozione nella sala della riunione. Non ero comunista, ma avevo un rispetto profondo — e lo conservo — per quel che il Partito comunista sapeva essere, ma questo è altro discorso. Fui interrogato a lungo, con curiosità, forse con interesse. Estraneo al Partito, non ho mai saputo che esito ebbe la riunione. Certo è che poco tempo dopo senatori e deputati comunisti furono autorizzati a predisporre un disegno di legge in materia, su cui si impegnarono in fasi successive Lizzero, sempre, Beppe Chiarante, Marino Raicich, poi indipendenti e socialisti come Silvana Schiavi Facchin e Loris Fortuna.

Ma l'ostilità diffusa permaneva. Un buon testo di legge approvato dalla Camera nel 1989 venne insabbiato nel passaggio al Senato. Dopo l'approvazione si scatenò una violenta campagna di stampa guidata da un gruppo di storici torinesi e napoletani e riecheggiata largamente: la tutela delle minoranze fu presentata come una imposizione dei «dialetti». Ovviamente non era così, oltre tutto la legge non imponeva niente, ma solo apriva la possibilità, a chi lo richiedesse, di introdurre nel suo curricolo scolastico lo studio di un'ora di una delle lingue che Consigli regionali e Comuni avessero dichiarate degne di essere «lingua minoritaria», sulla base di pareri degli specialisti. Sabino Cassese calcolò all'epoca che sarebbero stati necessari parecchi anni, sei o sette, stante quella legge, tra la richiesta di una congrua maggioranza di genitori perché nella scuola dei figli si aprisse quella possibilità e la sua realizzazione.

Mentre a Roma si discuteva, la Comunità, poi Unione Europea mandava severi richiami perché anche l'Italia, come i restanti Stati, si adeguasse ai principi di tutela del diritto umano di parlare e studiare la propria lingua, anche se minoritaria. Di legislatura in legislatura si andò avanti tergiversando, finché nel 1999, cinquant'anni dopo la Costituzione, una legge dal testo non brillante fece un primo passo in questa direzione. Quella verso cui, dopo un altro decennio, accenna a muoversi la Regione Friuli.

Ambiente e paesaggio sono la stessa cosa, perché comprendono lo stesso complesso di elementi che normalmente chiamiamo oggetti, e che di fatto include quasi tutto quello che vediamo. Allo stesso tempo sono cose profondamente differenti. I logici direbbero che sono termini che hanno lo stesso significato, ma non lo stesso senso, perché si riferiscono a maniere differenti con cui le medesime cose si presentano. Nel mondo astratto della geometria non vi è però spazio per la storia, e tutto è sempre osservato con lo stesso sguardo. Al contrario, storia e ambiente sono diversi pur essendo la stessa cosa perché quel che è storicamente mutato è proprio la maniera di guardarla.

Che esista l'ambiente non è per nulla scontato.

L'ambiente non è affatto la natura. Perché questa diventi quello, è necessario che l'elemento umano, si chiami fuori e si opponga al resto, si isoli in posizione frontale rispetto all'insieme circostante, si riconosca una specificità che possa fondare il proprio eccezionale statuto. Il passaggio dalla natura all'ambiente presuppone insomma la stessa rivoluzionaria separazione che in pittura, con la prospettiva, riguarda la sistematica distinzione, in precedenza sconosciuta, tra primo piano e sfondo. Oggi per noi essa è abituale, ma prima del Quattrocento, cioè prima dell'inizio della riduzione del mondo ad un unico gigantesco spazio, non lo era affatto.

Il paesaggio viene applicato come modello conoscitivo quando ci si rende conto che la conoscenza dell'ambiente è molto più complessa, sotto il profilo politico e sociale, di quanto oggi normalmente si riesca a ricordare.

L'artefice di tale operazione si chiamava Alexander von Humboldt, lo scienziato berlinese che nella prima metà dell'Ottocento riuscì con i suoi libri a convincere l'intera borghesia europea (ma anche quella russa ed americana) ad abbandonare la propria attitudine contemplativa nei confronti della natura e a dotarsi invece di un sapere finalmente in grado di garantirle la conoscenza e il dominio del mondo. La strategia politico-culturale di Humboldt, figura-chiave dell'Europa ancora alle prese con il potere di marca aristocratico-feudale, si fondava sul riconoscimento del carattere fondamentalmente estetico della cultura in possesso dei rappresentanti della società civile, fino ad allora esclusi, specie in Germania, dal sapere di governo, dalla conoscenza delle discipline necessarie al controllo delle formazioni statali. È proprio a questo pubblico, di cui ancora prima di Baudelaire Humboldt riconosce la pigrizia, che egli si rivolge parlandone lo stesso linguaggio, quello dei lettori dei romanzi di Bernardin de Saint Pierre o di Chateaubriand e delle opere dei poeti e, appunto, dei conoscitori delle opere pittoriche dei paesaggisti olandesi e italiani. Il suo scopo era di trasformare tale cultura, di matrice letteraria e pittorica, in cultura scientifica, mutandone insomma dall'interno il significato. E proprio per questo il paesaggio (che per Humboldt era quello dei dipinti dell'Everdingen e del Ruysdael, oltre che dei Carracci) venne concepito come il primo stadio della conoscenza dell'ambiente, e come schema del mondo inteso come un'armonica totalità di tipo estetico-sentimentale, espresso attraverso un'originaria impressione sull'animo e cui è estranea ogni analisi razionale.

Con Humboldt il paesaggio entra dunque a far parte dei modelli conoscitivi della cultura occidentale soltanto sulla base di un vero e proprio processo di politicizzazione del dato estetico, funzionale al passaggio dall'assetto aristocratico- feudale a quello borghese o civile che si voglia dire del quadro europeo. Ed è urgente ricordare adesso tutto questo perché oggi avviene esattamente l'oppo- sto: dalla politicizzazione dell'estetico si è passati, nei confronti dell'ambiente e della sua analisi e gestione, all'estetizzazione del politico, con il conseguente rovesciamento dell'impostazione ottocentesca e la riduzione dell'ambiente al paesaggio stesso (cioè alla forma del prescientifico modello adoperato all'inizio per tentare di afferrare la complessità di quest'ultimi).

Prova ne sia la Convenzione Europea del Paesaggio adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa il 19 luglio del 2000, la cui filosofia ispiratrice è appunto basata sulla dichiarata sostituzione del paesaggio al territorio e all'ambiente come ambito per l'applicazione di politiche di salvaguardia, riqualificazione, gestione e progettazione all'interno dei singoli Stati. Il problema al riguardo consiste nel fatto che l'idea di paesaggio si fonda sul concetto di equilibrio, di armonia, sulla pacifica coesistenza degli elementi e sulla coerenza dei loro rapporti. Al contrario oggi l'ambiente è sottoposto a pratiche sempre più squilibranti, violente e distruttive che si traducono in effetti disastrosi. Si pensi soltanto alla crescente scarsità delle fonti energetiche e insieme ai sempre più evidenti cambiamenti climatici: entrambi sono dovuti alla globalizzazione, che per il momento non è nient'altro che l'estensione all'intero pianeta della rivoluzione industriale iniziata in Inghilterra un paio di secoli fa, e fondata sull'uso di combustibile fossile. Come dunque pensare il collasso, la crisi, il disastro? Aveva ragione Gregory Bateson: l'ecologia è qualcosa che prima di tutto riguarda la nostra mente, i modelli di pensiero con cui tentiamo di venire a patti con il mondo. E oggi abbiamo un disperato ed urgente bisogno di modelli nuovi.

Postilla

Il testo riassume la lectio magistralis svolta nell'ambito delle manifestazioni di Scienza e Ambiente, nell'aula absidale di Santa Lucia a Bologna. Al termine di due ore di rara intensità culturale, Franco Farinelli - allievo di Lucio Gambi - ha discusso coi presenti riprendendo i suoi rilievi alla Convenzione Europea del Paesaggio (punto di riferimento ormai acriticamente generalizzato delle attuali legislazioni in materia). In essa la sostituzione del "territorio" col "paesaggio" rimanda ad una valenza ideologica pericolosa che espunge la politica delle relazioni e della realtà a favore dell'estetica e della percezione individuale. In questo rovesciamento assoluto rispetto ad Humboldt (e a Kant...), il modello del paesaggio appare 'debole' dal punto di vista cognitivo, in quanto non adeguato ad interpretare e quindi anche a fornirci strumenti contro le alterazioni dell'ambiente e i disastri sul territorio.

Al termine, un'esortazione per tutti: " Il maggiore pericolo per la sopravvivenza dell'umanità sta nella nostra mancanza di coraggio di pensare cose nuove. Ci vuole rigore, fantasia...insomma quello che una volta si chiamava passione."

Giovanni Astengo, Tutela e Valorizzazione dei Beni Culturali e Ambientali, in Per la Salvezza dei Beni Culturali in Italia. Atti della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del Patrimonio Storico, Archeologico, Artistico e del Paesaggio, Casa Editrice Colombo, Roma 1967, Vol. I, pp. 488-504

[…]

PRINCIPÎ PER LA TUTELA ELA VALORIZZAZIONE DEI BENI AMBIENTALI

1. - Nella prospettiva critica dei diversi atteggiamenti assunti nel tempo dall'uomo verso il suo ambiente - volta a volta contestato od assunto ad immagine di civiltà, guastato o custodito, abbandonato al disordine dell'agire indiscriminato ovvero ordinatamente strutturato per la vita comunitaria - è possibile, al di là di ogni singolo atteggiamento, una fondamentale continuità storica di coscienti attribuzioni di significato. In primo luogo, i rapporti uomo-ambiente si pongono, per la condizione medesima dell'umana presenza, in termini “culturali” elementari permanenti, intuitivi, consci ed inconsci, e per ciò stesso dotati della massima generalità, prima ancora d'ogni ulteriore apporto di specifici significati semantici e simbolici personalmente o collettivamente “aggiunti”. Paesaggio naturale, paesaggio umanizzato, paesaggio urbano: tutto ciò appartiene di fatto alla storia, nelle forme più disparate dei singoli apporti, in ragione della presenza stessa dell'uomo.

Presenza tuttavia non sempre qualificante. Se incontestabile appare il senso “storico” dell'agire umano nell'ambiente di natura, non sempre “civile” può dirsi il risultato dell'opera. Interviene qui, come successivo e complesso apporto di significato dotato di validità scientifica, la fondamentale revisione cui l'uomo è capace di sottoporre il proprio operato, nella sua qualità di soggetto di conoscenza, e conoscenza critica: al di là dei possibili errori di giudizio, e contro i sempre rinnovati tentativi di sopraffazione, i risultati dell'agire storico nella natura - gli ambienti “umanizzati” nell'accezione più estesa - possono essere riconosciuti come valori “civili”, e tendere così a tradursi gradualmente in, “beni culturali”, e cioè in patrimonio comune, in apporto testimoniale d'ampiezza universale -ovvero, contestati, ridursi ai meri valori economici ed emozionali della loro materiale consistenza in incessante divenire.

Ed è necessario notare come complesso ed articolato sia il contenuto di “civiltà” di cui tale processo è capace: poiché civile è certamente il Bene riconosciuto, in ragione del valore spirituale di cui esso è fatto testimone, ma altrettanto civile ne è la condizionante premessa intellettiva di conoscenza scientifica e di giudizio sistematico, come civili, ed in definitiva generatrici dell'intero processo, sono le conseguenze operative della tutela e della acquisizione culturale e spirituale alla disponibilità comune. Questi tre momenti appartengono indissolubilmente ad una unica ispirazione e valgono ad un medesimo intento, che appunto è il Bene culturale; nella fattispecie, l'ambiente civile, testimone della storia e dello spirito umano, e come tale riconosciuto, custodito, comunicato.

In questo senso si deve qui insistere sul significato preminente e prioritario che assume, a premessa di ogni decisione operativa, il riconoscimento della validità del concetto unitario di ambiente civile inteso come manifestazione culturale coerente della presenza umana; al di sopra delle pur innegabili e profonde differenze strutturali, dei contenuti eterogenei, delle diverse origini, finalità, tendenze specifiche, gli ambienti trasformati dall'opera dell'uomo, come del resto, negli stessi termini, i luoghi rimasti o restituiti, allo stato di natura, che l'uomo conosce e le cui suggestioni egli sa tradurre in immagine fantastica - tutti questi ambienti, già per se riuniti dalla loro mera continuità spazio-temporale, possono venir qualificati in sistema razionale unitario, se si riconosce la loro appartenenza ad un omogeneo tessuto di apporti testimoniali della cultura umana, che l'uomo operando ha impresso nell'ambiente e che può, ad un dato momento, riconoscere e valutare. E tale unità culturale del Bene d'ambiente deve identicamente affermarsi, non solo per ciò che è testimonianza di civiltà storica d'antica origine, ma anche per il significato culturale del nostro quotidiano intervenire nell'ambiente civile, le cui espressioni assumono quindi, come devono, il valore di segni del nostro tempo per il futuro.

2. - In tale prospettiva, l'ambiente civile si presenta come primo incontro, conoscitivo e critico, d'ogni uomo con la propria civiltà: bene culturale e testimonianza per eccellenza, dunque, di immediata e del tutto generale capacità di comunicazione.

Poiché esso si struttura, tuttavia, nei suoi termini di evidenza materiale e di, condizionamenti operativi, come un contesto organizzato con preminenti fini e valori economici, ogni riconoscimento scientifico di significato culturale, in quanto procede da motivi ispiratori e tende a finalità specifiche di ordine essenzialmente diverso, non può, a condizione di ridursi all'inutile, non essere dotato di strumenti efficaci d'acquisizione, tutela e comunicazione anche ove ciò richieda, come in effetti richiede, l'attenuazione e la subordinazione di ogni altro diverso e pur anche legittimo godimento. In altri termini, l'interesse culturale per un ambiente deve potersi manifestare con efficacia nei confronti d'ogni interesse diversamente finalizzato.

3. - Si deve qui subito precisare che, nei suoi termini concettuali, una struttura giuridica d'intervento nei confronti dei Beni d'ambiente, che sia realmente atta a disciplinare ogni uso a fini della disponibilità comune, deve necessariamente delinearsi come sistema complesso, capace di agire con provvedimenti eterogenei, in tempi diversi, con estensioni d'efficacia “cautelare”, in grado di operare anche nei confronti di altre normative in atto.

Occorre, come è ovvio, poter predisporre con assoluta efficacia ed immediatezza interventi per la tutela di un Bene ambientale una volta che esso sia stato criticamente riconosciuto ed ufficialmente dichiarato; sia a divieto di ogni alterazione proposta, che a ripristino integrale nei confronti delle manomissioni effettuate, che infine per il risanamento sociale, non meno che tecnico, delle strutture degradate nel tempo; ed a tali fini occorrerà anche intervenire con adatti strumenti di incentivazione o di storno nei confronti dei diversi interessi in gioco, onde orientarne e disciplinarne preventivamente le tendenze. E deve essere altrettanto evidente che tale azione, nei suoi aspetti sia repressivi che operativi, si estenderà con eguale efficacia, oltre il perimetro proprio degli eventuali Centri focali d'interesse storico, paesistico, artistico, all'intero tessuto connettivo ambientale che li accoglie ed in definitiva li determina spazialmente. Ma l'azione di tutela, oltre ad esercitarsi per la custodia del Bene riconosciuto, deve poter investire e sostenere l'intero articolato processo, sia nel preliminare momento del riconoscimento scientifico di valore culturale che nella conseguente azione comunicatrice.

Troppo sovente, infatti, si è dovuto assistere impotenti alla repentina deturpazione, quando non alla totale distruzione di ambienti di evidente ed incontestabile significato culturale, soltanto perché le procedure giuridiche per l'istituzione dei vincoli di tutela non consentivano interventi di tipo “cautelare” durante il loro faticoso svolgersi; in termini di paradosso, si potrebbe anche sostenere che tali deturpazioni venivano affrettate, se non determinate, appunto dalla manifesta intenzione di istituire essi vincoli, e dalla conseguente “corsa ai ripari” dei singoli interessi che ne sarebbero risultati in qualche modo disciplinati. Si è anche constatato, che non meno sovente neppure la presenza di un Piano regolatore vigente è valsa ad esercitare una simile protezione “preventiva” dei valori ambientali e ciò (a parte ogni errore di valutazione dei beni da proteggere, od ogni riposta intenzione di allentare le maglie della protezione), in ragione della insufficiente correlazione stabilita tra le due normative.

Si deve dunque affermare che se la tutela del “Bene culturale e ambientale” vuol essere conseguita, questa deve anche essere per sua stessa natura, preventiva, e come tale non soltanto esercitarsi sul bene già riconosciuto e dichiarato per conservarlo, ma con egual efficacia anche proteggerne l'integrità, con salvaguardia cautelare, durante l'intero momento del suo riconoscimento scientifico e giuridico; ed inoltre, nei casi in cui tale riconoscimento avvenga in presenza di altre normative già in atto, anche nei confronti di queste essa dovrà potersi esercitare, come conseguenza del principio della priorità assoluta degli interessi culturali su ogni altra qualità propria o attribuita ai Beni d'ambiente. Infine, anche per quegli altri ambienti di notevole interesse culturale, per i quali i procedimenti di riconoscimento scientifico e di dichiarazione non siano ancora stati istituiti, dovrà egualmente predisporsi la possibilità di una difesa efficace, sulla premessa transitoria di uno studio globale delle caratteristiche ambientali, e della promozione della procedura per il loro riconoscimento come Beni culturali. Non meno necessaria appare infine l'esigenza di una estensione operante del sistema di protezione al momento finale della più generale comunicazione del Bene riconosciuto e ufficialmente dichiarato. Si pongono qui problemi di ordine diverso: l'azione di salvaguardia cautelare ha ormai esaurito il proprio compito e la tutela, espressa come difesa, conservazione e incentivazione è in atto; e tuttavia l'intero processo finora svolto è valso soltanto a costituire un Bene culturale isolato, chiuso al libero godimento, od al più offerto ad esso per unilaterali e precari accordi o concessioni. In questi termini, l'acquisizione del bene dovrà dirsi ancora sostanzialmente inefficace, in quanto non raggiunta rispetto al suo fine istituzionale di divulgazione culturale. Occorre dunque che l'efficacia dell'intervento proceda oltre, e, provvedendo con priorità alla tutela dei Beni d'ambiente, determini al tempo stesso le condizioni per l'acquisizione permanente e l'uso a fini della libera disponibilità comune e del pieno godimento pubblico. Non si vuole qui sostenere che tale acquisizione debba significare solo passaggio di proprietà, bensì, nella generalità dei casi, istituzione di vincoli d'uso. Anche a tale riguardo ci si può dunque, in definitiva, esprimere in termini di “azione tutelare”, se pure esercitata a fini non più di conservazione fisica, bensì di disponibilità d'uso del Bene ambientale. A ciò si potrà anche provvedere, oltre e meglio che con l'eventuale corresponsione di indennità compensative per eventuali vincoli, con la predisposizione di incentivi economici coerenti con la disponibilità al libero accesso, tra i quali potrebbero ricordarsi, in particolare, per gli ambienti naturali ed urbani l'adeguamento delle infrastrutture ;per l'ospitalità, la sistemazione delle strutture viarie storiche e così via; restando il provvedimento dell'effettiva acquisizione in proprietà riservato ai Beni di eccezionale interesse, oltre che alla legittima rivalsa nei confronti degli inadempienti.

4. - Si deve dunque riconoscere che un rapporto operante che si intenda stabilire verso un ambiente umano di dichiarato valore civile e testimoniale, ovvero, in altri termini, che la tutela dell'immagine storica di Bene culturale che l'uomo scientificamente riconosce, impressa dal suo stesso ordinato operare, nell'ambiente della sua vita civile, non può esprimersi efficacemente se non in termini di diritto positivo, con assoluta priorità d'intervento, senza eccezioni a nessun titolo, e con estensioni della più ampia portata.

Ma un tale rapporto, nella misura in cui si vuole che sia vivo e fecondò, e cioè non solo formalmente efficace, ma anche non mortificatore d'uso, non può non tenere in conto la complessa natura anche economica propria delle realtà ambientali riconosciute come bene - e conseguentemente, pure nell'operare ogni inevitabile attenuazione o negazione di godimento che contrasti con gli obiettivi della disponibilità al godimento pubblico non deve, per conseguire tale disponibilità contestare il contenuto di viva umanità del bene. In altri termini, la tutela del bene non riesce ad esprimersi in misura adeguata attraverso l'imposizione, essenzialmente inerte di differenti vincoli, singolarmente imposti sulle cose ma al di fuori di esse, tanto più che un tale procedimento, quando anche riesca nonostante tutto a”congelare” l'ambiente, ed inevitabilmente ogni cosa in esso, troppo sovente ne contesta il significato e lo rende “inutile”, senza con questo accentuarne come dovrebbe la libera comune disponibilità. Tutto ciò si traduce pertanto, in ultima analisi, in una irrimediabile passività volta al lento disfacimento, e dà luogo all'equivoco, non a torto temuto, secondo il quale non è possibile salvare e trasmettere se non i beni culturali “inutili” alla civiltà del momento: gli ambienti abbandonati, le città degradate, i paesaggi incolti, i”monumenti” isolati, tutto ciò, insomma, che “non serve più all’uomo operante nella realtà presente.

5. - Ben diversi devono essere il significato ed il peso della tutela sulle realtà ambientali riconosciute come bene di interesse comune. L’azione di tutela, per quanto categorica debba essere, deve inserirsi senza violenza, ma con fermezza nella stessa natura delle cose, consentendone anzi -ma, ad evitare ogni sopraffazione, preordinandone essa stessa - l'uso adatto a fini specifici compatibili con la tutela. In concreto, ciò può ottenersi se il vincolo imposto sull'ambiente, o meglio inserito in esso, non contesta ma disciplina le positive tendenze di sviluppo, ordinate razionalmente in programma, che nell'ambiente si manifestano, o che in esso ci si propone di inserire e di volontariamente suscitare con specifici atti. In tal senso, soltanto l'intervento territoriale pianificato nei suoi termini globali rende realmente possibili ed operanti la imposizione e l'esercizio di correlativi vincoli di tutela, quale che possa essere la procedura istituzionale di questi, nella misura in cui consente alle attenuate facoltà d'uso e di godimento singolo le necessarie e misurate alternative od integrazioni ai fini di un godimento comune. Ancora, soltanto la formazione e l'attuazione di un Piano consente l'esatta commisurazione del vincolo tutelare e di fissarne i caratteri e i limiti come pure di individuare eventuali alternative di sviluppo socio-economico che dalla stessa tutela del bene traggano ragion d'essere, sia in rapporto alla realtà dell'ambiente che all'esigenza finale della disponibilità comune. E del resto, l'esperienza insegnacome ogni altra normativa settoriale, sancita a sé, risulti di fatto sempre “sfuocata”, anche e soprattutto in presenza d'un Piano, per quanti tentativi si possono fare dall'esterno per rendernela compatibile: conseguenza inevitabile di procedure separate, di poteri ognuno autonomo nel proprio ordine, di finalità diverse quando non contraddittorie, e conseguentemente di compromessi abborracciati per il meno peggio a favore di tutti, e sopra ogni altro i del bene culturale stesso, pertanto deboli ed inefficaci, e di agevole sopraffazione e decadenza.

6. - Da questo punto di vista assume poi rilievo ed efficacia del tutto particolari la già accennata capacità, insostituibile, del Piano ad inquadrare in visione unitaria e finalizzata tutti gli eterogenei provvedimenti che con diversi intenti si rendono necessari per attuare una scelta razionale di sviluppo socio-economico e conseguentemente la correlativa disciplinata trasformazione del territorio: nella prospettiva di una ordinata gestione urbanistica con cui il piano abbia continuità di esecuzione, infatti, trova la più opportuna sede, e la più valida garanzia di validità operativa, il principio del rispetto dei significati e contenuti culturali dell'ambiente. Ben sappiamo infatti come le disposizioni di legge, i programmi, le incentivazioni per lo sviluppo delle attività industriali, per l'espansione delle aree residenziali destinate all'edilizia popolare, per gli insediamenti d'interesse turistico, per le infrastrutture primarie e secondarie ed in generale per tutte le opere “pubbliche” , diano quasi inevitabilmente luogo, nel loro attuarsi, ad incongruenze, contraddizioni, sproporzioni faticosamente conciliabili, o del tutto inconciliabili, sia quando l'inconsistenza delle norme in atto, ovvero la carente volontà di osservarle, offrano via libera al disordine delle iniziative singole, sia anche quando il Piano, pur presente ed operante, di fatto urti contro questioni di competenza, di contraddizioni in contenuto ed in termini, di prestigio, o peggio; e ciò anche ove ogni provvedimento, ogni norma, ogni incentivo di per sé fossero buoni ed utili: di fatto, tutti si manifestano insufficienti a considerare in visione globale la realtà dell'ambiente oggetto della loro disciplina d'intervento.

Ciò in generale: ove poi l'ambiente, in cui tale sovrapposizione di iniziative si attua, manifesti quei valori paesistici, naturali o di civiltà che lo costituiscono in Bene culturale, un disordine come quello sopra descritto si tradurrebbe inevitabilmente come ampiamente si è tradotto in molti luoghi in vera e propria distruzione del bene stesso. Anche da questo punto di vista occorre dunque, positivamente, non un vincolo di mera conservazione allo status quo, inevitabilmente destinato ad essere deriso, combattuto e sopraffatto, riducendosi infine alla protezione accanita di qualche muro e di qualche riposta valletta; non questo, ma una gestione urbanistica globale degli interventi, che in presenza di un Piano finalizzato anche, ed anzi prevalentemente, alla tutela dei beni ambientali, sappia tradurne le prescrizioni e le indicazioni in una successione di atti operativi coerenti.

Ciò posto, ne consegue che solo il Piano urbanistico è lo strumento effettivamente in grado di regolare la tutela, la destinazione, l'uso e la divulgazione dei beni culturali nel contesto globale del programma di sviluppo territoriale, e diventa quindi obbligatorio strumento operativo a tali fini, quali poi che possano essere le procedure specifiche e la fonte di promozione dei beni culturali. Recependo le indicazioni di carattere generale espresse nella dichiarazione ufficiale dei Beni, il Piano darà ad esse configurazione operativa, non solo, ma le assumerà al tempo stesso come principi condizionanti per la totalità degli interventi di sviluppo sul territorio. Conseguentemente i Piani dovranno essere analiticamente studiati e predisposti, come meglio si dirà in seguito, sia per l'acquisizione di una documentazione scientifica e critica sulla consistenza dei beni culturali esistenti, sia dal punto di vista della correlata normazione degli interventi, che dovrà essere, conviene qui insistere su tale fondamentale concetto, già a livello dei Piani generali programmata e progettata in termini esecutivi. In una parola, l'attuale scissione, giuridica, concettuale ed operativa tra Piani generali che investono obbligatoriamente l'intero territorio e piani particolareggiati la cui formazione è facoltativa e comunque localizzata ad episodi singoli, deve essere contestata e superata: sulla premessa di un programma di gestione, il Piano generale si deve attuare esclusivamente attraverso Piani esecutivi, e dunque non altrimenti che tramite essi si determina e struttura, superando ogni fase intermedia di norme, autonome e sufficienti, di tipo “regolamentare”. Il programma di gestione poi implica necessariamente il concetto dell'attuazione programmata nel tempo e nello spazio, cioè attraverso una coordinata successione di interventi pubblici e privati, nell'ambito di aree, e di esse sole, prescelte per l'urbanizzazione o per operazioni di ristrutturazione, o di risanamento conservativo, o comunque di opere di piano (quali i rimboschimenti, i parchi e i giardini), così come di strade, impianti e servizi: il tutto coordinato con la redazione di programmi annuali o poliannuali di esecuzione.

7. - Considerazioni come quelle che finora si sono svolte attestano, nel loro insieme, che i beni d'ambiente contengono ed esprimono significati tali da trascendere, per la loro complessità, sia l'ordine materiale della realtà che in ogni aspetto li costituisce, che anche ogni eventua1e attribuzione di valore “culturale” che si volesse considerare in astratto come simbolo di accezione idealistica, come “categoria del bello”, immaterialmente distaccata per il godimento estetico; e conseguentemente, si conferma l'insufficienza istituzionale d'ogni normativa specifica che non sia anche coerente con una visione e una disciplina globali dell'ambiente, considerato nei suoi termini reali di spazio umanizzato, di contesto d'attività economiche e di luogo per la vita civile.

8. - A corollario di tale affermazione si constata la inadeguatezza di certi provvedimenti, a qualsiasi titolo istituiti, che esprimono idealmente la tutela dell'ambiente in termini unicamente “geometrici”, dimensionali, in una parola formali: l'eventuale definizione di distanze, di coni visuali, di perimetri di rispetto o di altri caratteri tecnici della medesima categoria, appare di per se non più che secondaria ai fini d'una operante disciplina che non si proponga soltanto la “difesa passiva” del Bene d'ambiente. Non possiamo non riconoscere a questo, sia esso unità ecologica allo stato di natura o struttura insediativa umanizzata, ed anche soltanto, in essi, ad ogni oggetto o gruppo d'oggetti di singolari caratteri, una complessità che ne trascende dimensioni ed attributi spaziali propri; lo spazio culturalmente rilevante d'una struttura urbana, ad esempio, non si limita nelle città storiche, ad alcuni momenti archi- tettonici di respiro “monumentale”, e neppure al contesto edilizio ambientale, detto da taluni “minore”, in cui questi si inseriscono: nella città storica il tessuto architettonico complessivo si inserisce, determinandola si, ma solo fisicamente, in una continuità di spazi “vuoti” la cui qualificazione culturale tuttavia, autonomamente ed originalmente, lo trascende assumendo forza e caratteri propri: strade, piazzette, giardini, orti, porticati, aperture di visuale al paesaggio agricolo o verso la penombra dei cortili, quasi come a fondali e “quarte pareti”, continuità di passaggi pedonali attraverso i risvolti delle cortine murarie, e poi alberi, muretti, fontane, pavimentazioni, fino al più minuto corredo di questo spazio inedificato -ininterrottamente il significato culturale è qui impresso e testimoniato e si svolge e si muta in discorso continuo.

Discorso poi che prosegue oltre la cerchia delle mura, e certo non si esaurisce in una qualche parziale estensione visiva geometricamente determinabile, ma che è costituito dalla struttura delle vie storiche che collegavano la città al territorio agricolo, e da questo stesso, almeno nella misura in cui è sopravvissuto alla distruzione delle disseminazioni sub-urbane indiscriminate; dalla connessa struttura, difensiva e produttiva, degli abitati minori sparsi nel territorio, e così via; in una parola, dall'intero ambiente naturale gradualmente trasformato per la vita civile. Ora in tale visione non vi è definizione geometrica di vincolo tutelare, non vi è provvedimento di difesa passiva preso a se che valga a proteggere l'ambiente civile nel suo pieno significato culturale e testimoniale, e che valga quindi a restituirgli la pienezza del suo valore di Bene offerto all'arricchimento spirituale di tutti; e ciò anche soltanto per il fatto che di per sé ogni sezionamento protettivo operato sul territorio, per quanto rigido ed efficace, ne distrugge l'unità non soltanto culturale, ma anche socio-economica, determinando, con la disciplina ed i limiti spaziali instaurati, sproporzioni ed errori di insediamenti e di sviluppo.

Non si vuole qui certo contestare l'utilità di simili accorgimenti tecnici e disciplinari, ma soltanto restituire loro l'esatto significato di strumenti operativi “secondari”, settoriali, di un più ampio programma globale; le scelte e le definizioni di luoghi, perimetri, visuali e così via, è l'estrema conseguenza disciplinare non solo di una lettura conoscitiva e critica di carattere scientifico, che al più ne giustificherebbe le dimensioni ma non ne qualificherebbe il contenuto positivo, bensì soprattutto della formazione d'un programma organico d'uso dei Beni medesimi - in una parola, d'un Piano - nel contesto della realtà geografica, economica, umana e di natura in cui essi si allogano e che essi contengono, e dalla quale viene loro la giustificazione ultima dell'essere Beni, culturali e testimoniali, e cioè storicamente presenti, al di là della semplice consistenza materiale di cose fatte e trasformate con pregevoli tecniche, e di aggraziato aspetto.

9. – Tali considerazioni valgono espressamente, come è evidente, per gli ambienti naturali, umanizzati od urbani, cui siamo abituati ad attribuire significato “storico” in ragione del permanere in essi di strutture originarie non trasformate od il cui processo di modificazione siasi arrestato nel tempo, sia di forme d'organizzazione produttiva, di costume, di tradizioni d'antica immutata origine civile. Non possiamo tuttavia non ammettere che l'esigenza di tutela ambientale, in termini di analogia, non debba programmaticamente estendersi alla realtà dei nuovi insediamenti ed ad ogni altra trasformazione ambientale in atto o futura. Non si tratta qui della salvaguardia dei valori culturali d'un ambiente esistente, bensì, si potrebbe dire “inversamente”, dell'attribuzione di significato culturale e civile ad ambienti futuri: opera non più “conservatrice” ma creatrice, che trae tuttavia, com'è evidente, la sua ispirazione da un medesimo intento di promozione culturale. Si può dire che la qualificazione delle nuove strutture insediative, come degli ambienti, il cui ritorno allo stato di natura sia in atto, come dei nuovi paesaggi umanizzati, è impegno coerente della nostra civiltà che in essi trova, come si è detto all'inizio, il suo primo incontro conoscitivo e critico con l'uomo: “bene culturale e testimoniale per eccellenza di immediata e del tutto generale capacità di comunicazione” e, pertanto, si deve aggiungere, insostituibile. Ma vi è di più: se è ovvio che ogni intervento ammesso in ambienti di interesse culturale debba apportarvi con la propria elevata qualificazione un contributo positivo all'integrazione dei valori tra cui esso si inserisce, non meno ogni nuova struttura insediativa che venga ad occupare un ambiente ancora culturalmente indeterminato è indispensabile che insieme alla propria determini la qualificazione di esso, che trasformandosi l'accoglie; come del resto insegna la storia di certi paesaggi italiani “minori” nei quali attraverso i secoli la sapiente opera umana, su un supporto di natura talvolta indifferente, mentre ne utilizzava per la vita sociale ed economica le risorse, perseguiva al tempo stesso con costante e coerente gradualità l'attuazione d'una cosciente immagine trasfigurata.

Il nostro tempo testimonia, per contro, i brutali interventi, di deturpazioni e distruzioni massicce ed indiscriminate, operate nella fr~tta, si direbbe con deliberata volontà di calpestare ogni eventuale attribuzione di significati culturali: valga per tutti l'esempio ormai illustre della Riviera ligure; ma si potrebbero proporre, ad un attento esame, altre immagini di strutture insediative di recente formazione, soprattutto a destinazione turistica, nelle quali certo più sottile, ma in definitiva non meno perfido è il tentativo di snaturare l'ambiente, con inserimenti non più di volumi di volgare brutalità, ma di false scenografie di vaghi valori pittorici, di pseudo ricostruzioni di folklore, non meno estranei in definitiva all'ambiente originario di natura che li accoglie, ed altrettanto lontani da ogni intento di qualificazione culturale: come le coste sarde testimoniano con “illustri” esempi. ; Si direbbe quasi che la nostra civiltà abbia saputo esprimere la propria più autentica ispirazione culturale proprio nei settori di intervento che a prima vista meno apparirebbero capaci di determinare la qualificazione culturale degli ambienti di natura: si vuole qui alludere alle infrastrutture per la grande viabilità, agli insediamenti produttivi altamente specializzati, sia per le attività primarie che secondarie; ed in generale alle “grandi opere”: tra i numerosi inserimenti sforzati od insignificanti, quando non errati, si trovano pur esempi di sapiente organizzazione delle nuove strutture nel paesaggio, e talvolta anche di coerente rielaborazione ambientale all'intorno.

Occorre dunque rifarsi a rinnovati approfondimenti culturali e tecnici, integrare i grandi programmi d'espansione, preordinare conseguentemente nuove norme, affinché in ogni nuovo insediamento la ricerca degli equilibri economico-sociali non vada disgiunta dalla cosciente assunzione di inerenti significati culturali. In tali nuovi indirizzi programmatici e giuridici non può non assumere preminente ruolo ordinatore il principio dell'attuazione integrata delle nuove strutture insediative: alla progettazione dei Piani esecutivi globali, atti cioè a determinare tema e programma in ogni loro aspetto tecnico, economico, sociale, formale, dovrà seguire una attuazione non più dispersa per iniziative singole di arbitraria estemporaneità, ma ordinatamente svolta secondo le priorità e i tempi stabiliti, con precedenza assoluta all'attuazione dei sistemi infrastrutturali e procedendo poi per nuclei omogenei alla formazione di unità socialmente qualificate per la residenza, il lavoro, la vita di relazione. A parte la doverosa qualificazione formale cui i singoli contributi sapranno dar luogo nell'attuazione dei programmi, un simile processo integrale dovrebbe, se sistematicamente adottato, offrire le più adatte garanzie di qualificazione culturale, fondamentalmente perché esso stesso già costituisce apporto di fondamentale rilievo scientifico e metodologico.

10. - Questi beni ambientali, antichi o nuovi, riconosciuti, dichiarati e organicamente protetti sono poi, in definitiva, destinati alla conoscenza scientifica ed al godimento comune. Si pone dunque il problema; già accennato, della loro disponibilità concreta, che può essere nella fattispecie dei beni ambientali, di semplice “visione” dall'esterno, ovvero piuttosto di più intima e vissuta partecipazione che presuppone la concreta possibilità d'accesso e di libera disponibilità. Nella misura poi in cui i beni ambientali sono generalmente parte del territorio abitato dall'uomo, si pone la distinzione tra l'utilità culturale, almeno in parte resa possibile dal fatto stesso della loro presenza per gli abitanti, e le possibilità concrete di offrire ad altri utilità dello stesso tipo: là distinzione non è oziosa se vale a precisare che l'intento divulgativo si esprime nell'offrire una disponibilità dell'ambiente simile a quella che consentirebbe l'abitarvi, con il risultato di una partecipazione intima e totale, di un godimento d'ogni più minuto aspetto, di un abbandono alla suggestione ed alle analisi più approfondite che la sensibilità e la cultura personali sanno proporre.

Tutto ciò, a parte il problema di singole iniziative di carattere scientifico, pone i termini programmatici per una più estesa e generale valorizzazione dei Beni ambientali riconosciuti e tutelati; in ultima analisi, per l'abbandono delle superate posizioni del Bene gelosamente conservato ed esposto per dovere, frettolosamente, alla visione del pubblico, ed una ulteriore affermazione dell'esigenza di godimento comune per ogni bene culturale.

Programma di estrema complessità, ove si pensi anche soltanto agli infiniti esempi in cui l'indiscriminato abbandono di alti valori ambientali al godimento privatistico ne ha prodotto la irreparabile compromissione; ove si avverta come la spinta degli interessi particolari, e tanto più negli ambienti qualificati ai quali è più intensa l'aspirazione di partecipazione, riesca di fatto a travolgere e spezzare le più ferree prescrizioni disciplinari; ove si rifletta che l'accessibilità diretta, dall'interno, ai Beni ambientali comporterebbe già di per se l'esigenza di profonde trasformazioni nell'uso tradizionale dei Beni medesimi, e nella loro stessa realtà spaziale. Anche da questo punto di vista, dunque, se non esiste disciplina di “difesa passiva” capace anche soltanto di contenere l'urto di questo violento impadronirsi del Bene ambientale per goderlo se non per sfruttarlo, se per contro la disciplinata disponibilità è appunto obbiettivo finale dell'intera opera di recupero e di tutela del Bene, consegue la necessità di non provvedere alla difesa soltanto con provvedimenti passivi che al grado massimo della loro efficacia ne produrrebbero l'isolamento, ma di formare programmi e piani che nella doppia prospettiva della più qualificata tutela e della disponibilità comune producano preventivamente e con gradualità nel medesimo contesto ambientale le premesse per un accesso collettivo non sconvolgente, ma integrativo o sostitutivo di precedenti equilibri, ed apportatore di nuovi incentivi di sviluppo disciplinato.

Ma contemporaneamente dovrebbe provvedersi ad una graduale “educazione” al godimento dei beni ambientali: sia nei termini più elementari del rispetto e della cura nell'avvicinarli, sia soprattutto nel senso sopra accennato di un ampliamento ed approfondimento di visuale e di capacità conoscitiva, per cui la disponibilità del Bene non venga di fatto goduta soltanto con frettoloso riferimento ai momenti salienti, eccezionali, ma come graduale appercezione dell'intero tessuto connettivo ambientale, nei suoi tratti minori, nei suoi saporiti risvolti di spontaneità artigianale, nelle sue articolazioni di percorsi storici dimenticati.

(E merita qui un accenno particolare il tema della disponibilità comune dei beni archeologici: salvo meritorie eccezioni, la norma è la concessione in visione di beni archeologici mobili strappati alla realtà dei con testuali ambienti, essi pure, e prima ancora dei singoli oggetti, beni culturali ambientali. Per contro appare incontrovertibile che anche per i beni archeologici si provveda alla divulgazione, conservandoli nel contesto storico, civile e territoriale da cui trassero origine e ragion d'essere, portando invece ivi, come le infrastrutture, i sistemi di trasporto e gli strumenti di comunicazione sociale oggi consentono, la presenza conoscitrice ad ogni livello - e lasciando poi alla riprova dei fatti la ipotesi, che qui si intende sostenere, che la “lettura” di tali apporti culturali nel loro ambiente nativo riuscirebbe ben più efficace ed agevole a quanti, anche senza la dote di singolari specializzazioni scientifiche, vi si potrebbero in tal guisa liberamente accostare).

Proseguendo le considerazioni più sopra svolte, pare a questo punto che si debba affermare, come loro conseguenza, la necessità di un decentra-mento infrastrutturale nell'ambiente: sia per le umane dimensioni storiche delle strutture viarie e degli spazi urbani ed umanizzanti negli ambienti d'interesse culturale, la cui integrità è premessa d'ogni intervento, sia per l'assoluta esigenza di non produrre sconvolgimenti nei loro equilibri socio-economici e formali con l'inserimento di massicce strutture dimensionate alla domanda, ma sproporzionate alla misura della realtà d'ambiente, sia infine per gli intenti “educativi” sopra accennati, il sistema delle infrastrutture necessarie per l'accesso e la libera disponibilità in dimensioni idonee dovrebbe articolarsi nell'intero contesto ambientale, utilizzando a tal fine non soltanto le maggiori strutture insediative, ma gli abitati minori, restaurati e riqualificati anche socialmente, nell'assoluto rispetto delle forme e dei più intimi valori d'ambiente; i casolari sparsi, le reti viarie ed i manufatti storici, in modo da portare già nell'intimo dell'ambiente stesso le possibilità d'accesso, di visione di partecipazione.

11. - Considerata dai punti di vista sopra esposti, la realtà dei diversi ambienti d'interesse culturale esige molteplicità di concetti, di metodi e di norme per ogni momento dell'intervento di tutela.

E così, se per i Beni ambientali paesaggistici ed urbanistici la disponibilità per il godimento è certamente comune finalità della loro dichiarazione, le tecniche per il loro conoscimento scientifico evidentemente si differenziano. Per gli ambienti paesaggistici avranno preminente significato, nell'analisi conoscitiva, innanzitutto la definizione dell'unità ecologicamente coerente, sia per gli ambienti allo stato di natura che per i territori trasformati dall'uomo in paesaggio tecnico-artistico; in secondo luogo, si procederà alla definizione dei caratteri tipici, nel complesso contesto delle formazioni secondarie sempre presenti; ancora, avrà rilievo la determinazione dei dati di economia e socialità prevalenti, ed insieme delle loro carenze e deformazioni strutturali; dovranno essere individuati i”centri focali” d'interesse paesistico e di convergenza socio-economica, nonché le aree di possibile intervento correttivo, evolutivo o del tutto innovatore per il raggiungimento di nuovi equilibri; si analizzeranno i sistemi infrastruttuali in atto, correlati al loro significato storico e paesistico, ma insieme alle presenti strutture produttive ed insediative del territorio, ed a future possibilità di adeguamento a condizioni diverse, a diversi pesi di presenza umana permanente o transitoria; e così via.

Con diverso metodo dovrà invece affrontarsi la realtà degli ambienti urbanistici; in essi la complessità delle componenti sociali e produttive, gradualmente trasformantisi all'interno di strutture rimaste alle, dimensioni originarie, e commisurate pertanto a tipi di equilibrio socio-economico generalmente diverso, assume significato prevalente nell'analisi conoscitiva, ove si tenga conto delle finalità, non di mera conservazione fisica, ma di tutela in termini di vita civile integrata e risolta, che caratterizzano nelle proiezioni operative i procedimenti di riconoscimento dei Beni culturali d'ambiente.

L'indagine della realtà “civile” degli ambienti urbanistici, si vuole qui ribadire il concetto, è inseparabile da ogni tentativo di conoscimento scientifico di essi; ciò premesso, basterà ricordare per il resto come le tecniche oggi disponibili, di rilevazione grafica, fotografica, aerofotografica, di elaborazione meccanografica e così via, offrano adatti strumenti per una annotazione integrale e sistematica delle forme, estesa dai “centri” tradizionali . d'interesse storico alla continuità dei loro ambienti nella minuta consistenza del loro tessuto “corrente”. Contro ogni equivoco, si deve qui insistere infine sul fatto che il rilievo scientifico d'un ambiente urbanizzato è significativo nella misura in cui è integrale; in esso devono dunque trovar luogo e manifesta denuncia critica anche le deturpazioni, le sovrastrutture sbagliate, gli inserimenti contrastanti ed ogni altro; e ciò sia al fine di ottenere l'immagine dell'ambiente nella sua integrale continuità di spazio, sia al fine di una critica sistematica con intento operativo progettuale e disciplinare.

12. - Indagini così complesse., si deve dire, assumono pieno significato ed efficacia soltanto a. condizione di essere strettamente finalizzate. Occorre evitare l'equivoco della raccolta indiscriminata e compiaciuta, praticamente illimitata, di dati e nozioni “non orientati” ; anche se si deve ammettere la obbiettiva difficoltà di un simile preventivo dimensionamento.

Inoltre, se è vero che il conoscimento scientifico dei Beni ambientali è correlato ad interventi attivi di tutela nel quadro d'un programma globale di sviluppo nel territorio, la raccolta dei dati e la loro elaborazione deve poter fornire conclusioni tempestive a tal fine; si pone dunque l'esigenza di predisporre lo svolgimento già in sede di formazione dei Piani regolatori, od al più a partire dalla loro adozione per le operazioni successive di intervento particolareggiato; così da consentire, in sede progettuale, una esatta commisurazione degli interventi e delle discipline giuridiche da instaurare alla realtà degli ambienti oggetto di tutela; ed in sede poi di gestione urbanistica dei Piani approvati, la loro graduale articolazione operativa in funzione dei pro- grammi periodici di attuazione. A tal fine converrà orientare le ricerche e le indagini alla compilazione d'un inventario completo dei Beni ambientali, con schede predisposte anche alla sintesi meccanografica, ed in funzione di codici di generale validità, in modo da ottenere per ogni intervento in programma una immediata e sistematica conoscenza critica dei caratteri culturali condizionanti; a pena, altrimenti, di sfasature sistematiche dei tempi d'intervento rispetto ai programmi, e di faticosi recuperi; ed in modo anche da ottenere schede raggruppabili tra diversi Inventari al fine di verificare le connessioni esistenti tra Beni ambientali sostanzialmente coerenti, ma di complessa articolazione amministrativa; nonché infine per ogni particolare eventualità di elaborazioni scientifiche a fini speciali.

13. - Con analoga, e maggiore, complessità si pone l'esigenza d'una molteplicità di concetti di norme, di metodi per gli interventi di tutela. Una prima affermazione, che qui si vuole ribadire, presenta tuttavia carattere di assoluta generalità: i vincoli di tutela, ed i conseguenti interventi, devono avere portata “cautelare” e cioè devono poter manifestare piena efficacia preventiva: in altri termini, gli interessi culturali devono essere difesi anche durante le procedure istituzionali; se non anche, in qualche modo, prima di esse.

Ciò premesso, venendo ad un esame più specifico dei tipi di intervento per i diversi ambienti, pare che, quanto agli ambienti paesaggistici, naturali od umanizzati, debba assumere particolare evidenza anche a fini di tutela la connessione, identificata nel momento conoscitivo sopra descritto, tra significato culturale dichiarato e contestuale realtà socio-economica. Occorrerà, in sostanza, provvedere alla “copertura” delle unità territoriali con sistemi di vincoli protettivi e, in particolare, al di sopra di ogni eventuale ripartizione amministrativa interna dell'area ecologicamente coerente. E poiché l'immagine paesistica protetta è in definitiva, almeno per gli ambienti umanizzati, la risultante di processi storici mossi da intenti produttivi e sia pure arricchiti da articolazioni. fantastiche, la tutela dovrà avere riguardo al recupero degli equilibri sociali ed economici che avevano consentito le primitive strutturazioni. Discorso questo da intendersi in termini di analogia, rispetto alle attuali condizioni di vita civile; e che richiederà pertanto complessi sistemi di incentivazioni, sovvenzioni, interventi di restauro a spese pubbliche, impianto di nuovi sistemi di irrigazione, di sfruttamento colturale dei terreni “marginali” e così via - se si vuole che il paesaggio protetto non sia destinato all'immobilità, all'abbandono ed in definitiva al ritorno ad uno stato selvatico.

14. - Quanto agli ambienti urbanizzati, l'esigenza del vincolo cautelare si manifesta necessaria e inderogabile nei confronti di abbattimenti, ricostruzioni e d'ogni altro intervento di grandi dimensioni; ma forse più ancora verso le deturpazioni minute, verso cioè quegli interventi, che ancora oggi si sogliono considerare di “ordinaria amministrazione” e sono benevolmente accolti e spesso affidati all'esame di commissioni “minori”: chiusura di portali e finestre., apertura od allargamento di vani esistenti nelle cortine murarie ; apposizione di nuove insegne, troppo spesso “luminose”; taglio di archi; rifacimenti in stile di elementi costruttivi alterati; rifacimento delle coperture con tegole nuove, accompagnato, come sovente avviene, da sopraelevazioni parziali al fine di utilizzare gli originari sottotetti; copertura degli orti con bassi fabbricati; nuovi accessi carrai e apertura di garage e laboratori nelle cortine murarie di contenimento dei terrapieni; e così via, indefinitivamente. A tali minute alterazioni, tollerate ed indiscriminatamente ammesse, se non favorite “per il decoro e l'ornato urbano”, si deve purtroppo la sistematica squalificazione degli ambienti urbani storici che caratterizza il tipo di “tutela” oggi vigente; tutela, la meno culturalmente impegnata che si possa pensare, in definitiva ipocrita, e che costituisce la più adatta premessa per successivi cospicui e definitivi interventi di rifacimento integrale nel tessuto, ormai in tal modo degradato.

Ancora, particolare efficacia occorrerà attribuire alle estensioni di tutela fuori delle unità urbanizzate di interesse culturale, nel loro ambiente insediativo; e ciò sia al fine di conservarne. i caratteri ed i sistemi infrastrutturali originari, in quanto sopravvissuti, sia per contenere ed ordinare le nuove espansioni fuori le mura, per le quali è indispensabile che, già a livello di Piano regolatore generale, si provveda allo studio, alla stesura ed all'adozione di Piani particolari con articolazione ed efficacia esecutive, poiché l'esperienza ha dimostrato che non solo nelle città storiche senza Piano, ma anche là dove il Piano, operante, si limitava a prescrizioni di zonizzazione, di indici regolamentari, e simili, le espansioni urbane hanno frantumato oltre che tali generiche resistenze, l'intero ambiente, costituendo cinture suburbane di infima qualificazione.

Le specificazioni prescritte dovranno giungere alla definizione completa e categorica dei volumi ammessi, degli spazi urbani, dei materiali costruttivi d'impiego obbligatorio, dei programmi di attuazione e delle stesse tecniche d'impianto ed esercizio cantieristico. L'attuazione dovrà procedere gradualmente per nuclei aggruppati, evitando ogni disseminazione e dando luogo prima di tutto alla formazione delle infrastrutture, il cui costo sarà ripartito fra gli utenti nella misura dell'entità di loro utilizzazione; il che pone, tra l'altro, l'esigenza di piani finanziari esecutivi, quindi di programmi, e, in definitiva, di gestione.

In questo senso si può notare che il vincolo “cautelare” conserva la propria validità per l'intero periodo di attuazione dei Piani, al fine del coordinamento degli interventi nel tempo.

15. - Si è già detto sopra quanto incida sui problemi di tutela l’esigenza finale della divulgazione dei Beni ambientali. Basterà qui aggiungere, a generale conclusione, che non può esistere interruzione tra i diversi momenti dell'intervento tutelare verso gli ambienti di interesse culturale; per conseguenza, ogni insufficienza, ogni inefficienza per quanto limitate possano apparire, sono destinate a condizionare negativamente l'intero processo. La realtà ventennale di progressiva distruzione del patrimonio culturale negli ambienti italiani testimonia, attraverso appunto tutta una serie di insuccessi delle normative volta a volta proposte e tentate con le più sincere intenzioni, e sempre sconfitte, che la tutela della cultura, in ogni sua manifestazione, si può proporre soltanto in termini di cultura, e cioè con azione sistematica e cosciente di conoscimento, di normazione, di intervento, di comunicazione.

Pare che le regioni, gli enti locali e perfino gli organi dell’amministrazione statale per i beni culturali, “zitti, zitti, piano, piano”, serenamente ignorino, nell’esercizio delle competenze loro affidate in merito al controllo dell’osservanza delle disposizioni di tutela dei beni paesaggistici, buona parte delle relative norme dettate dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, approvato con il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, e incisivamente modificato e integrato con il decreto legislativo 24 marzo 2006, n.157 (d’ora in avanti: “Codice”). Per accertare l’effettiva sussistenza ed entità del fenomeno, occorrerebbe verificare, regione per regione, la legislazione, gli atti amministrativi regolamentari, gli altri atti amministrativi, gli strumenti di pianificazione, direttamente o indirettamente attinenti alla tutela del paesaggio, nonché i concreti comportamenti del sistema regionale-locale e degli organi dell’amministrazione statale per i beni culturali nell’effettuazione delle verifiche della rispondenza delle proposte di trasformazione interessanti beni paesaggistici alle relative disposizioni, nonché nel rilascio dei conseguenti atti abilitativi.

Questo scritto non si propone un siffatto obiettivo, ma soltanto quello, estremamente più limitato, di ricostruire ed esporre le norme, attualmente vigenti, relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, distinguendo, secondo una fondamentale opzione del “Codice”, quelle destinate a trovare applicazione “a regime” e quelle destinate invece ad applicarsi “in via transitoria”.

Preliminarmente, è il caso di rammentare che la Corte costituzionale ha chiarito, con ormai assai numerose pronunce, che il “Codice” contiene, contestualmente, disposizioni riconducibili sia alla “materia” denominata “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”, appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato (comma secondo, lettera s., dell’articolo 117 della Costituzione), sia alle “materie” denominate “governo del territorio” e “valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, appartenenti alla legislazione concorrente, in cui “spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” (commi terzo e quarto dell’articolo 117 della Costituzione).

Si sarebbe tentati di ricondurre alla prima categoria, quella delle disposizioni appartenenti alla legislazione esclusiva dello Stato, aventi di conseguenza efficacia immediatamente precettiva e direttamente operativa, proprio, essenzialmente, le norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, e di ricondurre alla seconda categoria, quella delle disposizioni appartenenti alla legislazione concorrente, aventi efficacia di “principi” da rispettare nella produzione legislativa regionale (all’entrata in vigore della quale ultima peraltro resta subordinata la precettività erga omnes e l’operatività dei “principi” stessi), essenzialmente, le norme afferenti ai contenuti, ai procedimenti formativi e alle efficacie della pianificazione paesaggistica. Ma sarebbe una terribile semplificazione. Infatti, anche alcune delle norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici palesemente richiedono, per essere pienamente applicabili, l’assunzione di determinazioni da parte delle regioni, che non si vede come non possano (o debbano) essere espresse nella forma di legge (regionale).

Per esempio, le regioni devono, ai sensi dell’articolo 148 del “Codice”, promuovere l’istituzione e disciplinare il funzionamento delle commissioni per il paesaggio, “di supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica”, in assenza delle quali non potrebbero essere rilasciabili, per l’appunto, le autorizzazioni paesaggistiche, mentre diverse opzioni sulla loro composizione e sul loro funzionamento comportano diversificate conseguenze sui procedimenti di rilascio.

Ancora per esempio, le regioni, ove non intendano esercitare direttamente la funzione autorizzatoria paesaggistica, ma delegarne l’esercizio, devono farlo nell’osservanza del comma 3 dell’articolo 146 del “Codice”, essendo quindi tenute a effettuare tale delega “alle province o a forme associative e di cooperazione degli enti locali in ambiti sovracomunali all'uopo definite […], al fine di assicurarne l'adeguatezza e garantire la necessaria distinzione tra la tutela paesaggistica e le competenze urbanistiche ed edilizie comunali”. E’ bensì ammesso che le regioni possano “delegare ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche”, ma ciò soltanto nel caso in cui la pianificazione paesaggistica (ovvero la disciplina paesaggistica dettata dalla pianificazione ordinaria) sia stata determinata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti (il Ministero per i beni e le attività culturali e il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio), “e a condizione che i comuni abbiano provveduto al conseguente adeguamento degli strumenti urbanistici”. Si soggiunge che “in ogni caso, ove le regioni deleghino ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche, il parere della soprintendenza […] resta vincolante” (fermo restando, ritengo si debba intendere, che dalla definizione della disciplina dei “beni paesaggistici” operata dagli strumenti di pianificazione regionali, provinciali e comunali, d’intesa con le predette amministrazioni statali specialisticamente competenti, può derivare la sottrazione di taluni elementi territoriali riconosciuti quali “beni paesaggistici”, o parti di essi, al generale regime di necessaria sottoposizione delle trasformazioni in esse operabili all’ottenimento delle speciali autorizzazioni, venendo queste ultime, per così dire, “assorbite” negli ordinari provvedimenti abilitativi delle trasformazioni, finalizzati ad accertare la conformità delle trasformazioni medesime alle regole dettate dalla pianificazione paesaggistica e da quella, sottordinata, a essa adeguata).

Non risulta che in alcuna regione presentemente vigano disposizioni sulle deleghe della funzione autorizzatoria paesaggistica pienamente aderenti agli ora esposti dettati del “Codice”, talché ogni regione deve ritenersi impegnata a rivedere, più o meno profondamente (ma tendenzialmente in termini assai incisivi) la propria legislazione in argomento. La qual cosa, per il vero, non pare essere granché problematica, stante che quella che dianzi si è chiamata disciplina “a regime” dei procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici è previsto (comma 1 dell’articolo 159 del “Codice”) entri pienamente in vigore soltanto dopo il 1° maggio 2008, ovvero dopo la data, se antecedente, di approvazione di piani paesaggistici conformi alle relative disposizioni del medesimo “Codice”, o di adeguamento a tali disposizioni dei piani paesaggistici in essere. E nessuna regione si accinge ad approvare, in tempi brevi o anche soltanto medi, piani paesaggistici conformi alle pertinenti disposizioni del medesimo “Codice”, o varianti di adeguamento a tali disposizioni dei propri pregressi piani paesaggistici.

Anche l’unica regione che ha avviato, con grande solerzia ed eccezionale impegno culturale e politico, una propria pianificazione paesaggistica dopo l’entrata in vigore del “Codice”, attenendosi, seppure grazie a interpretazioni creative di rimarchevole intelligenza e saggezza, alle sue pertinenti disposizioni (ci riferiamo alla Sardegna), non potrà dirsi dotata in tempi brevi di un piano paesaggistico “concernente l’intero territorio regionale” (come esige il comma 1 dell’articolo 135 del “Codice”, con un disposto a cui la giurisprudenza della Corte costituzionale ha riconosciuto piena la dignità e la forza di principio fondamentale della legislazione dello Stato), avendo operato la scelta (sacrosanta!) di sottoporre prioritariamente e in tempi brevissimi a pianificata disciplina di tutela le parti più mortalmente a rischio del proprio territorio, cioè le fasce costiere e adiacenti.

Per cui i legislatori regionali possono tranquillamente procedere a rivisitare la vigente normativa delle proprie regioni, in argomento (anche) di procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, attenendosi pienamente ai precetti del “Codice”, e quindi, tra l’altro, subordinando alle dianzi indicate condizioni la vigenza della disciplina destinata a trovare applicazione “a regime”, e differenziando da questa la disciplina destinata piuttosto ad applicarsi “in via transitoria”. Invece, tra i suddetti legislatori regionali, non è mancato chi (errando, ed errando gravemente) ha preteso di stabilire l’immediata vigenza di una disciplina mutuata (più o meno fedelmente) da quella dettata dal “Codice” (nella sua versione originaria) come destinata a trovare applicazione “a regime”, prescindendo dalla condizione essenziale della vigenza di una pianificazione paesaggistica conforme a quella prefigurata dallo stesso “Codice”, e trovandosi oggi ancora più “spiazzato” (in conseguenza di alcune rilevanti innovazioni introdotte dal d.lgs. 157/2006).

Esposte queste corpose, ma necessarie, notazioni preliminari, è possibile dare conto assai sinteticamente (e omettendo talune disposizioni particolari e di dettaglio, seppure non prive di rilevanza) delle norme, relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici, attualmente vigenti, ma destinate a trovare applicazione soltanto “a regime”.

E’ stabilito (articolo 146 del “Codice”) che “i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo” di beni paesaggistici “hanno l'obbligo di sottoporre alla regione o all'ente locale al quale la regione ha delegato le funzioni [nel rigoroso rispetto del comma 3, dianzi riportato e commentato, dello stesso articolo che si va ora esponendo] i progetti delle opere che intendano eseguire, corredati della documentazione prevista, affinché ne sia accertata la compatibilità paesaggistica e sia rilasciata l'autorizzazione a realizzarli”. Che “l'amministrazione competente, acquisito il parere della commissione per il paesaggio […] e valutata la compatibilità paesaggistica dell'intervento […] trasmette al soprintendente la proposta di rilascio o di diniego dell'autorizzazione, corredata dal progetto e dalla relativa documentazione, dandone comunicazione agli interessati”. Che “il soprintendente comunica il parere entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data di ricezione della proposta”, e che tale parere, come già è stato detto, “è vincolante”, salvo il caso in cui la pianificazione paesaggistica sia stata determinata congiuntamente e concordemente dalle regioni e dalle amministrazioni statali specialisticamente competenti, e sia intercorso l’adeguamento a essa degli strumenti urbanistici comunali (ma comunque non qualora le regioni deleghino ai comuni il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche). Che “decorso inutilmente il termine per l'acquisizione del parere, l'amministrazione competente assume comunque le determinazioni in merito alla domanda di autorizzazione”. Che, decorsi inutilmente i termini stabiliti, “è data facoltà agli interessati di richiedere l'autorizzazione alla regione, che provvede anche mediante un commissario ad acta”, e che “laddove la regione non abbia affidato agli enti locali la competenza al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, la richiesta di rilascio in via sostitutiva è presentata alla soprintendenza competente”. Che “l'autorizzazione costituisce atto autonomo e presupposto del permesso di costruire o degli altri titoli legittimanti l'intervento edilizio”, per cui “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”.

Gli ultimi commi dell’articolo che si è appena sopra sunteggiato, riguardanti il divieto di rilascio di autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria e le relative eccezioni, l’impugnabilità delle autorizzazioni paesaggistiche, le speciali disposizioni dettate in relazione alle attività minerarie e a quelle di coltivazione di cave e torbiere, richiederebbero, ognuno, resoconti e commenti di entità pari a quella di tutto il presente scritto, per cui ci si guarda bene dall’inoltrarvisi.

Anche per procedere a esporre, altrettanto sinteticamente (e anche in questo caso omettendo talune disposizioni particolari e di dettaglio, seppure non prive di rilevanza, nonché disposizioni che richiederebbero peculiari e corposi commenti) le norme relative ai procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici che è prescritto trovino applicazione “in via transitoria”, fino al termine temporale di cui già precedentemente s’è detto, oppure al realizzarsi delle condizioni che pure già si sono precedentemente rammentate.

E’ stabilito (articolo 159 del “Codice”) che “l'amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione dà immediata comunicazione alla soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta dall'interessato nonché le risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti” e che “la comunicazione è inviata contestualmente agli interessati”. Che “la soprintendenza, se ritiene l'autorizzazione non conforme alle prescrizioni di tutela del paesaggio […], può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa documentazione” (formulazione che, alludendo espressamente a una valutazione “di merito”, palesemente vuole riproporre nel contesto del nuovo regime costituzionale e legislativo la possibilità di tale valutazione, la quale era stata negata nel previgente regime dalla giurisprudenza, che aveva sempre affermato essere il sindacato statale sulle autorizzazioni limitato ai profili di legittimità). Che “l'autorizzazione è rilasciata o negata entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla relativa richiesta e costituisce comunque atto autonomo e presupposto della concessione edilizia o degli altri titoli legittimanti l'intervento edilizio”, per cui “i lavori non possono essere iniziati in difetto di essa”. Che “decorso il termine di sessanta giorni dalla richiesta di autorizzazione è data facoltà agli interessati di richiedere l'autorizzazione stessa alla soprintendenza, che si pronuncia entro il termine di sessanta giorni dalla data di ricevimento”.

Come si è precedentemente fatto presente, stante la presente situazione della pianificazione paesaggistica in tutte le regioni italiane, non v’è dubbio che quella ora sunteggiata, e puntualmente sancita dall’articolo 159 del “Codice”, è la disciplina dei procedimenti di abilitazione delle trasformazioni interessanti beni paesaggistici che dev’essere applicata. E oserei sostenere che, trattandosi di disciplina da un lato riconducibile a “materia” appartenente alla legislazione esclusiva dello Stato, e quindi, almeno potenzialmente, avente efficacia immediatamente precettiva e direttamente operativa, e da un altro lato non richiedente, fattualmente, per trovare applicazione, l’assunzione di determinazioni regionali, è essa disciplina che presentemente dovrebbe essere fatto obbligo di osservare e praticare da parte delle amministrazioni presentemente riconosciute (dalle regioni, in base alla legislazione previgente) competenti al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche. E ciò anche laddove il legislatore regionale abbia preteso, come si è fatto presente dianzi, di stabilire l’immediata vigenza di una disciplina mutuata (più o meno fedelmente) da quella dettata dal “Codice” come destinata a trovare applicazione “a regime”.

Stando a quanto si sente dire in molti e vari luoghi d’Italia, sembra invece che le diverse amministrazioni agiscano nei modi più diversi, ma raramente in quelli che sinora si sono sostenuti corretti.

Non soltanto a fini di accertamento conoscitivo di tale complessa fenomenologia, ma anche, e soprattutto, allo scopo di esercitare le irrinunciabili funzioni statali di coordinamento e di indirizzo, e di perseguimento e concorso alla garanzia del rispetto della legalità nell’azione amministrativa da parte di ogni soggetto istituzionale, sarebbe altamente auspicabile che il Ministero per i beni e le attività culturali attivasse quella generale e puntigliosa verifica che si è prospettata e auspicata nel primo capoverso di questo scritto.

Per non rassegnarci all’ormai famosa battuta per cui, nel nostro Paese, di legale resta soltanto l’ora. E per non confermare il destino dell’Italia d’essere “non donna di province [oggi di regioni], ma bordello”.

Piero Bevilacqua, Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Donzelli editore, Roma 1996, pp. 9-14

La natura che è protagonista nei quattro capitoli qui proposti non rappresenta ovviamente il mondo fisico dei naturalisti e neppure la realtà polisemica e ambigua dei filosofi, per i quali essa è a un tempo il sostrato fisico su cui poggia la società, l'universo, la totalità dell'essere e altre cose ancora. Più semplicemente, essa è la natura degli storici: vale a dire l'ambito territoriale e spaziale, regionalmente delimitato, entro cui uomini e gruppi, formazioni sociali determinate, vengono svolgendo le proprie economie, in intensa correlazione e scambio con esso. Si potrebbe dunque dire che il senso prevalente del termine si riconosce nella parola - propria del lessico europeo contemporaneo - di ambiente, il quale trova i suoi corrispettivi fedeli nei lemmi di Umwelt, environment, medio ambiente, environnement'[1]. Più decisamente, tuttavia, di quanto non succeda nella letteratura ambientalista, o di quanto non accadeva nella ricerca storica tradizionale, l'ambiente non è solo il contenitore fragile e vulnerato della pressione antropica, né l'inerte fondale su cui campeggiano le magnifiche azioni degli uomini. Esso costituisce al contrario un soggetto indispensabile e protagonista, la controparte imprescindibile dell'agire sociale nel processo di produzione della ricchezza. Prima di ogni cosa la natura è l'insieme delle risorse date: acque e clima, suolo e piante, aria e animali, irradiazione solare ed energia. Sotto forma di pianure e colline, di fiumi e torrenti, di piantagioni e di boschi, di macchie e agricolture, tali risorse si presentano tuttavia a un tempo come forze naturali e prodotti storici, risultati del lavorio millenario dell'azione umana che ha piegato il mondo fisico ai propri bisogni.

Natura domesticata, dunque, fatta servire a compiti produttivi dalle società che hanno di volta in volta calcato il pianeta, e che da tempo è diventata, essa stessa, un elemento del processo storico, una componente interna alla vita sociale degli uomini. Tutto ciò fa parte ormai del fondo più ovvio della nostra cultura, soprattutto di quella italiana, così lungamente intessuta di idealismo storicista, di umanesimo retorico, e comunque di negazione del mondo naturale. Meno ovvio appare oggi riconoscere a questo prodotto storico che è la natura una sua relativa autonomia rispetto all'azione degli individui, una produttività indipendente dalle sollecitazioni del lavoro, una esistenza dinamica, libera e preesistente agli stessi condizionarmenti della tecnica. E invece proprio tale dato costituisce oggi lo stacco più netto rispetto alle convinzioni dominanti, alle elaborazioni ciel passato, per alcuni aspetti alle stesse culture ambientaliste.

La natura, dunque, come il secondo soggetto, il partner attivo, insieme al lavoro umano, nel processo di produzione della ricchezza. Sicché l'economia cessa di apparire l'edificio solitario dell'uomo tecnico, poggiato sulla base di un mondo fisico inerte, e viene a riproporsi quale attività di cooperazione fra lo sforzo muscolare e mentale degli uomini e le risorse dei pianeta. L'albero che cresce e dà frutti non è solo il risultato dei coltivatore che pianta il sente, fornisce il concime e cura lo sviluppo, ma è anche l'esito dei lavorio oscuro delle radici e della chimica del suolo, del libero e gratuito irraggiamento dei sole, del vento e della pioggia. E il seme piantato dal coltivatore, passato di mano in mano, trasformato e reso irriconoscibile rispetto alle sue origini, è stato rinvenuto millenni addietro sulla superficie della terra, spontaneo dono della natura. Dunque, anche sotto questo aspetto, i dati naturali, manipolati nel corso dei tempo dagli uomini, e perciò divenuti storici, sono protagonisti attivi della produzione materiale.

E non si creda che l'esemplificazione sia limitabile al mondo agreste, quello che più agevolmente ancora oggi facciamo coincidere con la realtà naturale meno contaminata dalla tecnica. In realtà, la natura fa la sua parte produttiva anche all'interno della fabbrica contemporanea. I metalli scavati nelle miniere e trasformati in materie prime dalla manipolazione industriale - e dal linguaggio degli economisti - continuano a svolgere decisivi compiti produttivi in virtù delle proprie caratteristiche naturali, valorizzate dalla tecnica, di durezza, flessibilità, resistenza. Anche nel mondo più vaporoso dei gas, che prendono parte a tanti processi dell'industria chimica, la natura è signora, o quanto meno è partner cooperante, grazie al comportamento naturale di quegli elementi, regolato da leggi fisiche, possibilità combinatorie, che gli uomini hanno scoperto e manipolano , ma non creano da sé. E così dicasi per i campi di forza e le energie, e fra queste il dio petrolio, cavato dalle viscere della terra e diventato il cuore pulsante che oggi agita il pianeta.

Forse anche queste verità ora incominciano ad apparire un po' ovvie, o per lo meno non tanto clamorose quanto un tempo. Pure, esse sono rimaste per alcuni secoli sepolte sotto il peso di giganteschi edifici culturali che le hanno rimosse o addirittura cancellate. Primo fra questi, per ampiezza di influenza intellettuale, l'edificio del pensiero economico classico, che almeno da Adam Smith a Marx ha di fatto consacrato il lavoro umano come unico protagonista del processo di valorizzazione, e perciò stesso come il solo responsabile della creazione di ricchezza[2].

E tuttavia l'intento, lo spirito informatore dei saggi qui presentati non è semplicemente volto a ridare visibilità al mondo fisico, a ricollocare la natura al centro della vita produttiva. Noti si tratta soltanto di ricordare agli storici che ricostruiscono le economie del passato quale ruolo abbiano avuto le risorse disponibili, il legnarne dei boschi, l'acqua, il carbone, nel favorire o deprimere il corso della crescita e dello sviluppo dei singoli paesi, come faceva, inascoltato, Karl Wittfogel oltre sessant'anni fa`[3]. Certo, anche tale obiettivo rientra nelle intenzioni perseguite da chi scrive. Riconoscere nel processo di produzione materiale della ricchezza l'esistenza e il ruolo dell'altro, di una realtà esterna all'uomo, non vincolata ai rapporti sociali vigenti, di valore collettivo e di portata universale, è davvero l'inizio di tana rivoluzione culturale appena avviata. E la ricerca storica potrà fornire ad essa un contributo non marginale.

Pure, agli storici è offerta la possibilità di andare anche oltre la ricostruzione del ruolo protagonista del mondo fisico nello svolgimento dei fenomeni economici. Il rapporto degli uomini con le risorse non si limita a produrre beni e merci: esso costituisce in realtà il centro dello svolgimento storico e perciò coinvolge l'insieme delle relazioni sociali, le culture delle popolazioni, le regolazioni del diritto, la politica. È anche questo più vasto mondo che si vuole dunque esplorare da un punto di vista inconsueto alla cultura dellOccidente.

Un primo obiettivo delle ricerche storiche che seguono è perciò quello di sottrarre il lavoro umano alla sua astratta solitudine. Non è solo dallo sforzo fisico e dall'abilità tecnica del lavoratore o della macchina che nascono i beni, ma da uno scambio manipolatorio di questi con il inondo fisico. È noto che Marx - ricorrendo a una terminologia medico-biologica - aveva dato un nome suggestivo a tale rapporto, lo aveva chiamato Stoffwechsel, scambio (o ricambio) materiale o organico. Sotto la pressione del lavoro la natura viene trasformata, cambiata in oggetti materiali che poi entreranno nella circolazione sociale della ricchezza. Ma la ricostruzione storica - così come tutta la complessiva rappresentazione culturale della società - ha dato normalmente conto solo di questa successiva vicenda: raccontando il processo di appropriazione dei pezzi di natura ormai divenuti merce, e i rapporti di produzione e politici fra le classi ai fini del possesso e della distribuzione di queste merci. Al contrario, la storia effettiva dello scambio, del duro rapporto fra uomini e risorse non è stata mai intrapresa: la sua rappresentazione culturale ha illuminato solo la faccia sociale del lavoro, perché alla natura non è stato riconosciuto alcun ruolo produttivo. Eppure, nella rimozione storica della realtà fisica si condensa una pratica molteplice di oscuramento. Perché da un lato è la ricchezza, diventata potere sociale, politico, e culturale che tende a far perdere le sue tracce, a cancellare la propria provenienza, a nascondere il meccanismo di dominio sugli uomini di cui è all'origine. Ma per altri versi è la natura sfruttata dal lavoro urgano, attraverso rapporti sociali determinati, che viene del tutto oscurata: realtà di cui non si dà storia e svolgimento, essendo ogni processo di crescita, sviluppo, differenziazione, rappresentato come interno alla società, che parla solo di sé come di una realtà semovente. Una presunzione ormai millenaria, che i costruttori della rappresentazione sociale - i ceti colti che hanno avuto diritto di parola e che ancora costituiscono una sorta di sfera separata e posta in alto, lontana dai luoghi sporchi e monotoni in cui quotidianamente la natura si trasforma in merce - hanno collaborato a far crescere. È anche attraverso il loro specifico sapere, prevalentemen e umanistico e retorico, che è venuta imponendosi una rappresentazione dell'universo sociale che ha messo in ombra e quasi cancellato dalla storia il sapere tecnico, le conoscenze applicate, la sapienza empirica accumulata: quelle forme di manipolazione originaria della natura che si sono espresse nel lavoro dei campi, nell'uso delle acque, nell'adattamento del territorio, nella cura delle piante, nello scavo delle miniere, nella fabbricazione dei manufatti.

A Marx, per la verità, non era sfuggito - com'è stato di recente ricordato - che il lavoratore, cambiando la natura, cambia al tempo stesso la propria natura (verändert zugleich seine eigene Natur)[4]. E dunque da quel rapporto, dalla specifica qualità di quello scambio, egli viene trasformato, reso diverso dalla nuova forma di dominio e di sfruttamento che impone alla realtà fisica, dai mezzi tecnici dispiegati, dalla natura delle risorse che utilizza. Ma oggi noi possiarno vedere che tale trasformazione costituisce un intero universo sociale, un mondo assai poco esplorato e quasi ignoto, assai più esteso e rilevante nelle società del passato, e che rischia ormai di uscire dall'orizzonte della nostra stessa capacità di percezione, a causa del carattere sempre più tecnicamente mediato dei beni materiali con cui entriamo in contatto. Pure, quel rapporto di scambio che cambia gli uomini, costituisce il motore primari(- di ogni società, per quanto estesa e complessa possa essere la schermatura di quella natura irriconoscibile che è la tecnica. Ma proprio per tale ragione, in un'epoca nella quale l'industria ha ornai cancellato la presenza della natura nelle merci, il sapere storico incomincia a fornire i suoi antidoti, riscoprendo in profondità le relazioni primarie nel processo di produzione della ricchezza. Esso è peraltro in grado di rammentare che da quella relazione originaria sorge la prima e più profonda forma di cultura: quella che gli uomini, per l'appunto, sono costretti a elaborare, e a innovare continuamente, per piegare i dati materiali alle necessità della propria sopravvivenza. Osservazione empirica, invenzione tecnica, coordinamento organizzativo, gerarchia delle relazioni sociali e loro codificazione, procedono da questo impulso originario.

Certo, per sventare ogni trappola deterministica non bisogna mai dimenticare che il meccanismo della vita sociale e la costruzione delle classi, le loro dinamiche ed evoluzioni, non si esauriscono in quella relazione primaria. Esiste una storia degli uomini tra loro che costituisce il continente forse più vasto e più ricco delle umane vicende, e che può tranquillamente dimenticarsi dei suoi legami e della sua dipendenza dalla natura. E la storia, per l'appunto, come già si è accennato, al pari degli altri saperi sociali si è fondata, per così dire, su questa dimenticanza: come se la società altro non fosse che un'edificazione autonoma, un continuo processo di accumulazione sui propri dati costitutivi, svincolata da ogni legame e dipendenza dalle condizioni materiali su cui continuamente, in realtà, essa si riproduce. E non è certo difficile capirne il perché. Come è accaduto nel passato, e come continua ad accadere a tutt'oggi, esistono gruppi sociali e classi capaci di creare e godere prosperità comandando e pagando il lavoro altrui, lo scambio materiale con le risorse realizzato da ceti sottoposti, o sfruttando risorse che appartengono a paesi lontani, semplicemente facendo viaggiare beni, uomini e merci. La vicenda del commercio mondiale è stata in buona parte questa: ed essa non ha mai costretto i mercanti delle città a sporcarsi le mani nella terra o nelle miniere. È sufficiente d'altronde richiamare alla mente una verità sociale ben nota. Che cosa è la ricchezza se non il possesso, l'accumulazione e l'uso di beni prodotti da altri, quei beni che i ceti operai e contadini sono obbligati, essi sì, a produrre tramite il loro duro e diuturno scambio con la natura? E quanta storia autonoma è stata prodotta dall'alto di quel dominio sociale! La storia, per l’appunto, che gli storici si sono incaricati di raccontare, disincarnata da ogni legame con le oscure origini materiali del possesso e ciel potere.

E tuttavia quell'ambito per così dire primario della realtà sociale conserva un rilievo davvero non marginale per illuminare con nuova ampiezza i processi del passato, per aprire nuovi spiragli nella comprensione dei meccanismi della vita associata, dei processi di trasformazione materiale e di doininio. La necessità di produrre ricchezza in un delimitato territorio determina infatti l'elaborazione di forme specifiche di cultura, che marcano poi profondamente i saperi tecnici locali, le mentalità diffuse delle popolazioni, i loro comportamenti prevalenti, dando spesso vita a norme non scritte, a regole, patti, istituzioni che fanno poi la stoffa del processo storico. Si tratta di un ambito di realtà materiali c culturali, che hanno durate lunghe, difficili da rilevare e da misurare, che subiscono continuc rielaborazioni e adattamenti per effetto di eventi successivi e dell'incontro con altre culture, c che spesso compongono, nel loro sviluppo temporale, un arcipelago di durate diverse, stratificate. Tutte, a ogni modo sono produzioni storiche: e perciò deperibili e soggette a distruzione, come gli edifici e le civiltà.

L'Italia, nella sua straordinaria e antica varietà regionale mostra un campionario di grande interesse di tali realtà. E la loro esplorazione offre l'opportunità di portare nuovi punti di vista, contributi inediti alla storia e alla cultura nazionale.

[1]Una vasta ricognizione storico-semantica del termine è in L. Spitz, Milieu and ambiance an assay in historkal semantics, in «Philosophy and Phenomenological Research», iii, 1942-43.

[2]Si veda la radicale demolizione teorica che di quell'edificio ha compiuto, privilegiando il ruolo rimosso della natura, H. Immler, Natur in der ökonomisthen Theorie, Opladen 1955. Sul ruolo cooperativo della mura nel processo economico cfr. dello stesso autore Vom Wert dei Natur. Zur ökologischen Reform von Wirtschaft und Gesellschaft, Opladen 1990. Del primo dei due testi ho dato conto nel mio articolo :Natura e lavoro. Analisi e riflessioni intorno a un libro, in «Meridiana" 1994, 20.

[3]Cfr. K. A. Wittfogel, Die natürlichen Ursachen der Wirtschaftgeschichte in «Archiv fur Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1932, 67.

[4]Cfr. G. Böhhme-J. Grebe, Soziale Naturwissenchaft Uber die Wissenschaftliche Bearbeitung des Stoffwechsels Mensch-Natur, in Soziale Naturwissenschaft. Wege zu einerErweiterung dei Okologie a cura cli G. Böhme e E. Schramm, Frankfurt a. M. 1954, p. 30. Sullo sviluppo storico del concetto, M. Dencke, Zur Tragfähigkeit des Stoffwechselbegriffs, ivi. pp. 42 sgg.

Non c'è esempio migliore del significato che assume negli Stati Uniti l'espressione «sviluppare un'area» (to develop an area). Per «svilupparla» si distrugge radicalmente ogni forma di vegetazione naturale; si ricopre il terreno così liberato con uno strato di cemento (o, nel migliore dei casi, si semina un'erbetta rada che riveste i parchi pubblici delle città); se esiste anche una fascia dl litorale, la si rinforza con un bell'argine di cemento; i corsi d'acqua vengono sistemati a terrazze (o meglio ancora, se possibile, in apposite tubazioni); si avvelena a fondo tutto quanto con potentissimi anticrittogamici e infine si vende il terreno al miglior offerente, cioè a un consumatore istupidito e addomesticato dall'assuefazione alla vita cittadina.

Il curioso mostriciattolo (al quale nessuno augura lunga vita) uscito dalla Commissione senatoriale, in tema di cognomi, invita a riflettere sul significato e la storia di un istituto secolare connaturato al nostro vivere come lo sono il giorno e la notte. Secondo la proposta, i genitori hanno quattro possibilità: imporre al figlio il cognome del padre, o quello della madre, o ambedue in ordine padre-madre, o madre-padre. Poiché i figli, i nipoti, e gli altri discendenti potrebbero fare, a loro volta, difformi libere scelte, il percorso generazionale diventerebbe una gimkana onomastica della quale non si capiscono né il significato né l’utilità. Eppure nel mondo occidentale - e in paesi all’avanguardia nella tutela dei diritti individuali - convivono senza traumi sistemi distinti nella trasmissione del nome: gli islandesi danno ai figli un cognome formato dal nome di battesimo del padre e da un suffisso che significa "figlio di" o "figlia di"; gli anglosassoni impongono il nome del padre (la madre già ha perduto il suo cognome col matrimonio, assumendo quello del marito); in area ispanica e portoghese i figli hanno il doppio cognome, in ordine padre-madre nella prima e madre-padre nella seconda. L’ansia omologatrice dell’Unione europea, per fortuna, non si è ancora intromessa in questo delicato campo.

La storia del cognome - come identificativo di una famiglia e di una discendenza - è di grandissimo interesse sociale. Nel medioevo, smarrita la tradizione romana di indicare con nomi diversi l’individuo, la sua famiglia e la gens di appartenenza, la persona era normalmente identificata con un nome imposto al momento del battesimo. Questo era sufficiente in società poco strutturate, con popolazioni disperse, radi insediamenti, modeste città. Tuttavia questo semplice sistema diventa inadeguato alla fine del primo millennio quando la società ricomincia a crescere, sviluppandosi demograficamente, culturalmente ed economicamente. Comincia a farsi necessaria l’identificazione non equivoca delle persone, per l’applicazione delle norme giuridiche, per far funzionare la giustizia e l’amministrazione, per le transazioni economiche, i passaggi di proprietà, gli atti di successione. Necessità tanto più sentita in quelle società nelle quali il numero dei nomi utilizzati al battesimo era ristretto e le omonimie frequenti; necessità ineludibile man mano che cresceva la popolazione e si sviluppavano i centri urbani. Nelle classi nobiliari e aristocratiche si diffonde il desiderio di affermare l’identità della discendenza con un nome fisso e non con una complicata successione genealogica di individui. Questi sono identificati da un nome personale e da un cognome che riassume l’ascendenza, identifica la famiglia di appartenenza e viene trasmesso in via ereditaria. Un processo lungo e graduale che si diffonde lentamente nell’arco di un millennio.

In Toscana, l’uso dei cognomi diventa frequente nel XII secolo tra le grandi famiglie urbane, spesso di origine feudale; così in Piemonte e nelle Venezie. Anche in Francia, in Germania e in Inghilterra il processo inizia nell’XI o nel XII secolo. Più a nord, nell’Europa scandinava, l’utilizzo di un cognome (patronimico) stabile si afferma nel XVIII secolo, mentre ancor oggi in Islanda (come si è detto) ai figli è imposto un patronimico che varia di generazione in generazione.

La diffusione del cognome, come tante altre innovazioni culturali o sociali, ebbe un gradiente economico e geografico: prima nei ceti signorili e nobili, nelle élite mercantili e borghesi, poi nel volgo e tra i contadini; prima nelle città, poi nelle campagne; prima nelle regioni ad alta densità poi nelle aree meno popolate. I due medievisti Christiane Klapisch e David Herlihy, cui si deve un monumentale studio sul Catasto del 1427, hanno trovato che il 37 per cento dei contribuenti di Firenze avevano un cognome, contro il 20 per cento nelle altre città toscane e il 9 per cento nelle campagne. Questo a conferma del gradiente geografico. Tra i 100 contribuenti più ricchi, 88 (cioè quasi tutti) avevano un cognome, mentre tra i 1493 nuclei familiari più poveri (che non pagavano tributo: oggi si chiamerebbero "incapienti") solo 176 nuclei (il 12 per cento) avevano un cognome. E questo a conferma del gradiente economico. Sempre a Firenze, secondo il censimento del 1551, solo il 32 per cento dei capifamiglia uomini aveva un cognome, ma nel 1630 la proporzione era raddoppiata al 64 per cento, e nelle strade delle zone benestanti praticamente tutti avevano un cognome. Il Concilio di Trento, e l’obbligo della tenuta dei registri parrocchiali per iscrivervi battesimi, sepolture e matrimoni, dette una spinta decisiva alla diffusione dei cognomi, anche se in certe zone (per esempio nella diocesi di Perugia) questi si affermano solo nella seconda metà del ‘700. In epoca napoleonica, il cognome fisso ed ereditario diventa un obbligo in larga parte d’Europa.

Di cognomi c’è grande varietà nel nostro paese, arricchita nel tempo da variazioni lessicali (sorta di "mutazioni") o da processi migratori. I cognomi fissi sono anche una sorta di marcatore genetico che ha permesso agli studiosi interessanti analisi di genetica delle popolazioni. Cognomi con origini spesso legate a un patronimico; oppure al mestiere o alla professione esercitati; o alla toponomastica e all’origine geografica; o ancora a particolari caratteristiche personali (un difetto o una qualità fisica, o del carattere) di un qualche capostipite. Un terreno fertile di ricerca per i linguisti.

A volere essere cinici, potremmo dire che nell’era dell’informatica non c’è più bisogno del cognome fisso. La prima missiva che ogni neonato riceve proviene dall’agenzia delle entrate, e contiene il tesserino di plastica verde col codice fiscale. Si possono facilmente creare appositi algoritmi per collegare i vari codici personali in famiglie, discendenze, gruppi. Perché dunque aggrapparsi alla tradizione del cognome? Perché non permettere a ciascuno di identificarsi come meglio crede? In questa luce la proposta-mostriciattolo potrebbe anche essere tollerata. Eppure ha un senso dare un’identificazione alla discendenza familiare, per sottolinearne la continuità o affermare l’appartenenza. Che sarebbe compromessa dal cervellotico sistema proposto.

La legge italiana prevede saggiamente che la donna sposata conservi il suo cognome. Sembra sensato sperare che rafforzi la propria saggezza, disponendo che ai figli vengano trasmessi, come è giusto, entrambi i cognomi. E che l’ordine sia fisso, e una volta per tutte si decida se si vuol stare dalla parte degli spagnoli o dei portoghesi, dando il primo posto al cognome del padre come è tradizione dei fieri castigliani o cedendo cortesemente il passo alla madre secondo l’amabile usanza lusitana.

Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata dall’onda del Mare, l’Europa ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica, o la tua stessa Casa. Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità e così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te

A quello di Antonio Pedrini (1905), fanno seguito alcuni testi che si riferiscono prevalentemente al dibattito italiano che dalla seconda metà degli anni Venti del secolo scorso si è sviluppato per tutto il decennio successivo: Silvio Ardy (1928), Cesare Chiodi (1926), Alberto Calza Bini (1928) esprimono le tesi contrapposte sulla figura dell’urbanista e sulla sua formazione. Allo stesso periodo si riferiscono i testi di Eugenio Fuselli (1933) e di Giuseppe Bottai (1937), per diverse ragioni singolari rivelatori di un’epoca e delle sue logiche. Chiude questo gruppo di testi, e in qualche modo conclude il dibattito del decennio precedente, lo scritto di uno dei padri dell’urbanistica italiana, Luigi Piccinato, mentre un rapporto di Gaston Bardet (1940) testimonia la ricchezza delle esperienze e del dibattito che già allora si registravano in Francia.

Al periodo postbellico si riferisce un ulteriore gruppo di scritti. Un interessante resoconto del 1° congresso sull’insegnamento dell’urbanistica (1951), fittissimo di relazioni e di interventi vivaci e spesso caratterizzati da notevole spessore, dà il clima generale della dibattito. e gli interventi del geografo Bruno Nice (1950), del britannico William G. Holford (1950) e dello statunitense Henry S. Churchill (1963) esprimono i punti di vista di altri mondi verso i quali gli urbanisti italiani volgevano lo sguardo. La definizione ampia di un altro indimenticato maestro, Giovanni Astengo (1970), colloca in un quadro organico gli argomenti dell’urbanistica razionalista.

Tra gli scritti più recenti, ho scelto per ora alcuni scritti di un lucido studioso, Francesco Ventura (1999), con due mie postille, e di un generoso e intelligente urbanista “militante”, Silvano Bassetti (2001). Il testo di Ventura apre un significativo ponte tra l’argomento di cui si occupa questa cartella e la questione della Rendita, quello di Bassetti introduce al tema decisivo dei rapporti tra urbanistica e politica, su cui occorrerà lavorare.

Altri testi, per chi è interessato, sono disponibili nel sito di Fabrizio Bottini

Premessa – di Fabrizio Bottini

Un classico autore di urbanistica come Patrick Abercrombie, per un tema che, almeno nel lontano “dopoguerra” in cui si colloca questo articolo, è tutt’altro che classico: la pianificazione del territorio spiegata ai bambini. O qualcosa del genere. E a ben vedere nemmeno Abercrombie apre una frontiera del tutto nuova, visto che a Chicago il grande piano di Daniel Burnham era stato seguito, dieci anni prima, da un manualetto di animazione culturale per le scuole, con il preciso scopo di educare (e formare una futura base di consenso) le nuove generazioni alla città futura. Si trattava del cosiddetto Wacker’s Manual, dal cognome del promotore, ed è stato osservato dagli studiosi a questo proposito che nel corso del tempo “la città avrebbe avuto una cittadinanza illuminata e informata” sugli scopi del piano regolatore ( The Plan of Chicago 1909-1979, catalogo della Mostra, Chicago 1981).

L’idea di Abercrombie però va decisamente oltre, e non a caso prefigura forme di coinvolgimento generalizzato che troveranno spazio solo una generazione dopo, ovvero proprio nel quadro delle New Towns nella cui promozione il grande urbanista gioca un ruolo di primissimo piano, dalla partecipazione alla Commissione Barlow negli anni Trenta, al Greater London Plan che proprio sulle città satelliti e sull’esodo “socialmente consapevole” basa il suo impianto di decentramento.

Questo del 1921, in altre parole, è un esordio ufficiale e piuttosto organico del tema partecipativo, piuttosto che una declinazione sul tema delle scuole di urbanistica. E qui lascio volentieri al lettore la scoperta del perché.

The place in general education of civic survey and town planning, Town Planning Review, luglio 1921 (traduzione di Fabrizio Bottini)

I – Analizzare

È possibile che non si sia imparato dalla guerra tutto quanto che ci si aspettava da noi: ma fra le lezioni minori, forse non del tutto dimenticate, si può includere l’uso e l’interesse per la Mappa. Si dice che molti hanno imparato per la prima volta la geografia dell’Europa e del Medio Oriente durante quegli anni; ma è una definizione incompleta, perché non era la vecchia geografia fatta di nomi delle capitali, promontori e fiumi di una regione, che dovevamo studiare, ma una presentazione grafica e viva, realizzata attraverso l’aeroplano e immaginifiche viste a volo d’uccello, semplificazioni diagrammatiche e curve di livello. Allora abbiamo appreso, per ragioni militari, il valore delle valli fluviali, e osservato con stupore l’importanza strategica dei siti di vecchie città, i cui stessi nomi erano scivolati via dalla memoria. In altre parole, senza capire quanto stavamo facendo, studiavamo gli effetti delle Caratteristiche Fisiche Naturali, dei Mezzi Artificiali di Comunicazione, della Geologia Economica e della Persistenza Storica, sul modo di condurre una guerra a scala mondiale; ma non è ugualmente e generalmente riconosciuto come la padronanza di queste medesime cognizioni, necessarie ai combattenti per scopi militari, sia egualmente essenziale per le stesse persone, quando siano impegnate nello sviluppo in tempi di pace.

Non avrebbe dovuto essere lasciato alla guerra, l’insegnarci come leggere una mappa o una planimetria: e comunque, quanto raramente ci capitava, prima? Quanti guidatori di mezzi motorizzati potevano con fatica essere indotti a studiarsi un percorso sulla carta d’ordinanza prima di partire per un viaggio attraverso un territorio straniero, e contavano (lo fanno ancora) sulle ovvie strade principali e qualche occhiata al volo ai segnali stradali, perdendosi così piacevoli strade secondarie, e spesso allungando senza motivo il viaggio? O ancora, chi non ha presente un presidente di comitato, di autorità pubblica o impresa privata, che osserva saccente un piano che gli viene sottoposto per l’approvazione, e di cui è completamente incapace di afferrare il significato? Gli architetti, a dire il vero, sono spesso accusati di fare disegni troppo aridi; di assalire i sensi con l’odore della carta da lucido (come ha sperimentato Kips); di confonderti con sezioni che seguono linee a zig-zag su un piano; in altre parole, di proporre al pubblico i segni cabalistici di un’arte segreta. Si è sentito di un gruppo di seri uomini d’affari che, dovendo giudicare i meriti di due progetti per la decorazione di una nave, hanno deciso all’unanimità per l’autore di un intelligente schizzo prospettico, dove l’elemento più importante era uno squisitamente eseguito giovane, seduto su una poltrona di pelle, che soffiava anelli di fumo da una sigaretta. L’altro progetto, un elaboratamente disegnato prospetto, è stato scartato senza commenti.

Un piano, naturalmente, non è una cosa arida, né dovrebbe essere inintelligibile; ma forse l’errore non sta nell’uomo medio, ma nel modo in cui gli è stata insegnata la geografia a scuola: un modo che è ora felicemente superato, salvo in qualche costosa scuola privata.

Il metodo moderno di insegnamento della geografia, non si ferma alla lettura delle mappe, e non comporta solo terre lontane e liste di nomi: gli allievi sono indotti a volgere gli occhi verso il luogo in cui vivono. Al principio, questa osservazione ravvicinata può sembrare noiosa, se paragonata alle prospettive lontane, ma presto si scopre un campo di studi affascinante, con l’interesse aggiunto di vedere e toccare gli oggetti studiati, invece di leggerne una descrizione. Si fanno tentativi di ricostruire la propria città o villaggio in diversi periodi passati, considerarne l’esistenza anche in relazione al territorio circostante; poi di analizzare la città com’è oggi, la sua planimetria stradale, la struttura sociale, le varie attività e ambiti in cui si svolgono; e in particolare, sottolinearne i difetti. In altre parole, attraverso molte mappe e diagrammi preparati da diversi gruppi di scolari, essi sono in grado di ottenere un’immagine sfaccettata del luogo natio, a capire per la prima volta come si sia arrivati alla sua forma presente, e a comparare l’aspetto reale di un luogo con la sua rappresentazione planimetrica. Questo studio, cominciato a scuola, può essere continuato da Boy Scouts e Guide: cosa è più vicino agli obiettivi professati da queste organizzazioni, se non la conoscenza dei luoghi? Ma il bambino a scuola, e anche probabilmente lo Scout o Guida, essendosi a suo tempo imbarcato nello studio della propria geografia locale, scoprirà non solo di aver imparato come leggere una mappa, ma di sentire il bisogno di mappe più versatili ed esplicative quando, da adulto, inizierà ad avere serio interesse per il luogo dove abita e in cui lavora. Capirà rapidamente che le mappe di minor valore che possediamo sono quelle solite, dove la coloritura principale mostra le divisioni di contea, le città appaiono come circoli più o meno grandi, fiumi e ferrovie sono linee, e le montagne ombreggiature vermiformi. La prima mappa dovrebbe essere colorata, ombreggiata secondo le curve di livello, e in cui l’effetto delle aggiunte più recenti e artificiali, come le città, sia ridotto al minimo. Per fortuna questo tipo di mappa può essere acquistato alle scale più ridotte, ma quella ufficiale da 6 pollici omette le curve di livello sulle zone urbane, come se un cartografo super-coscienzioso fosse imbarazzato sul come tracciarle sopra un edificato continuo.

Ma il nostro giovane cittadino, allevato a capire le mappe, e che ha già fatti i suoi tentativi di disegnarsene, scoprirà presto che le sue esigenze superano l’ambito delle pubblicazioni governative, e che qualcun altro deve mettersi al lavoro. Gli sarà forse detto, dagli abitanti più anziani, che col tempo conoscerà la città tanto a fondo quanto loro, semplicemente andando su e giù; ma se ha padroneggiato la geografia a scuola, lui risponderà che esiste una conoscenza che sembra estesa, ma che è totalmente superficiale: il tipo di familiarità che la vostra lingua ha coi denti. È in contatto continuo con essi, conosce tutte le caratteristiche della loro superficie. Ma è sorprendente, quante insospettabili fessure il Dentista-Cartografo può scoprire. Recentemente è stata preparata, come parte della Analisi Urbana, quella che sembra una planimetria estremamente elementare, e che mostra gli edifici industriali nel centro di una città. Il risultato ha stupito chi conosceva la città, o almeno credeva di conoscerla, a fondo: un’area particolare, non lontana dal municipio, spiccava come quasi completamente industriale. L’ufficiale sanitario ha quindi deciso di non consentire la ricostruzione di nessuna delle abitazioni da demolire, e nello stesso modo in altri due settori questo semplice ritratto grafico di un fatto che era sfuggito alla comprensione dei vecchi abitanti, si è dimostrato in grado di influenzare il futuro di tutto il centro città.

Ancora, al cittadino si presentano informazioni su altri settori della vita urbana, nel modo più completo e descrittivo. A dire il vero, tanto complete e descrittive, e tanto concentrate e sgradevoli, che egli è totalmente incapace di digerirle: colonne di cifre, masse di statistiche, pagine di tabelle. Ma nessuna possibile acrobazia di immaginazione, può tradurre queste pagine stampate fitte in una forma visiva. Egli può sapere, per esempio, quante case a doppio affaccio ci sono nella sua città; può anche avere le statistiche del tasso di mortalità o di malattia, ma finché non le vede rappresentate graficamente e comparate, non ne afferrerà il significato.

La cosa più importante, è il bisogno di comparare i diversi aspetti della vita urbana: per esempio, il quadro dei trasporti con le aree residenziali e i distretti industriali e le statistiche sanitarie; i diagrammi di “accessibilità” non sono più sufficienti, quando mostrano una linea rossa per i percorsi del tram e una tratteggiata a croce per le ferrovie: i fattori tempo, distanza, frequenza e costo, devono essere mostrati graficamente.

Deve essere chiaro, da tutto questo, che il cittadino, per capire a fondo la sua città, richiede una Analisi Urbana. Questo non è il luogo per dilungarsi su scopi e caratteristiche di una analisi urbana o regionale (che includa il distretto circostante), ma semplicemente per sottolineare che non ne hanno bisogno solo gli esperti che governano la città, ma anche lo stesso cittadino, perché possa comprendere in profondità la natura dei problemi che i suoi esperti stanno tentando di risolvere.

Il problema di chi debba preparare questa Analisi è importante, e probabilmente il lavoro può essere profittevolmente suddiviso: l’amministrazione locale ha le informazioni, ottenute per esempio dall’ufficio igiene per la popolazione, le abitazioni, le statistiche sanitarie, i tassi di mortalità ecc.; dall’ingegnere municipale si hanno dati sul traffico, l’uso dei tram, e altre questioni di immediata importanza per lo sviluppo e il miglioramento della città. Ma ci sono numerose indagini, come quelle sui raggruppamenti sociali, gli studi archeologici, l’analisi delle bellezze naturali e degli edifici antichi, l’agricoltura, comparazioni geologiche e botaniche, che sono ugualmente necessarie se si vuole realizzare un quadro completo. Una Società Civica o Associazione Regionale volontaria, potrebbe ben affrontare questo lato del lavoro, appoggiandosi alla locale Università per aiuto e orientamento negli aspetti tecnici. Una società civica che condivida la produzione di queste ricerche, in armonia con l’amministrazione locale, assicura che i suoi membri proseguiranno attivamente il lavoro di studio del proprio vicinato iniziato a scuola.

Probabilmente, uno dei doni più preziosi che ci ha lasciato il periodo di guerra è l’applicazione della fotografia alla produzione di analisi aeree. Qui si ha l’opportunità di vedere la propria città da un punto di vista totalmente nuovo, ed è illuminante comparare l’aspetto della mappa ufficiale con la foto planimetrica ripresa dall’aeroplano, e questa, ancora, con una diagonale o prospettiva a volo d’uccello. Ogni città dovrebbe avere la propria ricognizione aerea, mostrata in vedute di grandi dimensioni, attentamente spiegata da indici. In più, in luoghi adatti in ogni parte della città, queste vedute e le relative mappe dovrebbero essere mostrate come guide per il pubblico, e come formazione alla lettura di mamme. Sino ad ora, sono solo le stazioni della metropolitana di Londra ad aver adottato (parzialmente) proprio questo tipo di guida locale. Non è eccessivo, sperare da una futura generazione formata in geografia, che sappia usare queste guide in una città nuova, invece del metodo esistente di seguire consigli come “terza svolta a sinistra, seconda a destra, cammini dritto fin quando vede un bar ...”. La metropolitana di Londra ha anche fatto uso di mappe illustrate che nessuno potrebbe accusare di essere aride: Macdonald Gill’s South Downs e Central London potrebbero sedurre anche un magistrato di campagna, a contemplare il loro umorismo.

II – Costruire

La pratica di leggere planimetrie facilmente, come la stampa, e lo studio delle condizioni esistenti da parte del grosso pubblico, così che i problemi locali possano essere affrontati in modo fermo, sono essenziali. Ma non bisogna fermarsi allo stadio di acquisizione della conoscenza: il passo successivo è l’uso immaginifico che se ne può fare. L’Analisi Urbana e Regionale non è un fine in sé: gli studi analitici devono essere seguiti da proposte costruttive. Dunque, nonostante possa suonare audace suggerirlo, lo studio del Miglioramento Urbano dovrebbe iniziare a scuola. Nessuno scolaro intelligente e dotato di immaginazione, mentre analizza proprio quartiere, saprà resistere al tentativo di migliorarlo, o profetizzarne il futuro. Il presidente del comitato di Analisi Urbana di Leeds, qualche tempo fa mise in palio un premio per le scuole, ad un esercizio di vera e propria “Urbanistica” e i risultati furono sorprendentemente interessanti. Ora, questo non significa suggerire che la tecnica urbanistica sia tanto semplice che anche un bambino la può padroneggiare, ma è certo che esiste una buona quantità di urbanistica che consiste nell’applicazione di buon senso, basato sulla conoscenza e illuminato dall’immaginazione, alle questioni di ogni giorno: questioni come andare e tornare dal lavoro, la necessità di campi da gioco e gli svantaggi di usare le strade come tali, il miscuglio di abitazioni e fabbriche, l’affaccio diretto delle case su strade strette attraverso cui tuonano giorno e notte tram e autocarri a motore, il disgusto di scoprire begli edifici cacciati in fondo a strade strette dove nessuno può vederli, l’entusiasmo per i begli edifici degnamente collocati, la comodità di stazioni ferroviarie ben collegate alla città che ci si aspetta debbano servire ... la lista dei problemi quotidiani della città non ha limiti. Ora, per armonizzare tutte le necessità di questi numerosi aspetti, e saldarle in un praticabile ed economico schema, occorre considerevole abilità di carattere tecnicamente vario, ma le idee principali, le linee essenziali, le soluzioni desiderabili, sono alla portata di tutti; e visto che proprio il cittadino è il giudice ultimo del piano – nessun piano sarà mai posto in esecuzione, se non ha il sostegno intelligente della cittadinanza in generale – gli conviene non solo essere egli stesso un urbanista dilettante, ma essere in grado di giudicare e capire in profondità i progetti predisposti dai suoi esperti incaricati.

Nelle scuole, si sono tenute con grande successo ed effetto lezioni sui principi generali di urbanistica. La relazione fra i trasporti quotidiani e la residenza, fino a tempi recenti pallidamente conosciuta dalle nostre Autorità Civiche, può essere afferrata al volo da un bambino di dieci anni; né lui o lei troveranno più difficile apprezzare un sistema di parchi con campi da gioco, ad una distanza di cinque o sei minuti a piedi; ancora, non mancheranno di capire l’errore di sistemare le case sotto le rupi incombenti delle “scure Sataniche officine”: il ruolo giocato dai venti, dalle altezze, dai livelli di fumo e di precipitazioni piovose nel determinare i siti residenziali può essere dimostrato con eguale facilità. Tutte queste cose interessano il benessere dell’abitante di città così da vicino che è difficilmente contestabile il fatto che i rudimenti dovrebbero essere insegnati a scuola: sono urgenti tanto quanto l’economia domestica.

Andando avanti negli anni, ci dovrebbe essere una Società Civica a cui affidare il compito di mantenere questo interesse, la critica, e anche la pratica amatoriale dell’urbanistica, fra un grande numero di cittadini. Se l’architettura era tanto apprezzata nel diciannovesimo secolo, l’urbanistica sarà egualmente compresa nel ventesimo. Non ci deve essere antagonismo fra le idee portate avanti dalle Società Civiche e i piani predisposti dalle amministrazioni locali; ma con ogni probabilità le prime stimoleranno le seconde, ed eviteranno loro di tenere semplicemente il passo con i bisogni immediati, con soli servizi municipali amministrati efficientemente, o un utilitarismo ad una sola dimensione.

C’è molto da dire in favore delle Società Civiche – o di associazioni commerciali, come accaduto in Canada o negli Stati Uniti, con le proposte di piani regolatori generali – sia che promuovano concorsi, sia che nominino una piccola Commissione. Ma se l’amministrazione locale è sufficientemente progressista da farlo, e si noti, di non limitare le sue proposte alle sole strade e traffico, ma coprire l’intero campo della vita civica dai centri di rappresentanza al risanamento dei quartieri degradati, agli orti, allora la Società Civica può orientare le sue energie all’educazione del pubblico, per una piena comprensione di cosa significano Miglioramento Urbano e Urbanistica.

Quando il grande e immaginifico piano per Chicago fu redatto e sontuosamente pubblicato dal Commercial Club, ci furono due percorsi distinti che il documento dovette prendere per produrre effetti significativi. Primo: doveva essere adottato dalle autorità cittadine, e costituire la base della futura politica di crescita e miglioramento. Questo fu fatto, e un opuscolo appena pubblicato mostra cosa è stato realizzato in dieci anni, verso l’attuazione di quel possente progetto. Seconda, e di eguale importanza, la necessità di rendere popolari il piano e la relazione esplicativa, altrimenti le autorità non avrebbero avuto sufficiente sostegno. Un Manuale del piano di Chicago fu preparato ad uso delle scuole, un piccolo e grazioso volume dove storia, sociologia, e progetti per il futuro sono posti in dovuta relazione, e il tutto compone un manuale per studenti e cittadini sui problemi urbani in generale, e quelli della loro città in particolare.

Dunque quello che è necessario, per la comunità in senso lato, è, primo, Conoscenza, conoscenza locale della città, la sua storia, i suoi difetti e bisogni, realizzabile solo attraverso l’Analisi Urbana o Regionale; secondo, Immaginazione, resa più acuta per valutare le possibilità della città, comprendere cosa significa Urbanistica, o meglio Disegno Urbano, per assicurarsi che l’esperto Urbanista incaricato non sia una “larva senza ali”, come l’ha descritto Mr. Branford, “niente meglio di un uomo comune non rinnovato con l’incarico di praticare la cruda anatomia di questa sfortunata città”.

Nota: per chi fosse interessato a questi temi, sono disponibili sul mio sito sia la versione italiana del "Preambolo" di Abercrombie al Greater London Plan, sia una raccolta pure tradotta di testi sulle "Planning Schools" a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta (f.b.)

“Beati gli antichi che non avevano antichità”: La battuta di Denis de Diderot al tempo della famosa quérelle tra antichi e moderni sembra essere diventata un’aperta convinzione in politici e amministratori, se appena consideriamo il modo come trattano i nostri beni archeologici, e in particolare le antichità di Roma, che pure sono state nei secoli la meta obbligata della cultura del mondo. Non è esagerato dire che esiste un partito preso contro l’archeologia (complici anche letterati, storici e critici d’arte): lo dimostra la miserabile entità dei fondi che vengono stanziati per la conservazione del nostro più antico e illustre patrimonio. L’ultimo episodio si è avuto alla Camera durante la discussione sulla legge finanziaria 1990, quando pochi volontari hanno presentato degli emendamenti per mettere in grado la Soprintendenza archeologica di proseguire l’opera meritoria, svolta tra l’82 e l’87, di restauro, consolidamento e scavo delle antichità romane.

Da tre anni sono infatti esauriti i fondi stanziati da una legge dell’81, che ha preso il nome dall’allora ministro dei beni culturali Biasini: che è stata anche il primo e l’ultimo provvedimento apprezzabile dello stato per riparare ai danni causati dall’orribile corrosione delle pietre antiche sotto l’impatto dell’inquinamento atmosferico. Con quei fondi, la soprintendenza ha condotto la più vasta campagna di restauro delle antichità mai tentata, ha provveduto al consolidamento dei maggiori complessi monumentali e ha eseguito scavi nel suburbio per acquisire una conoscenza approfondita del territorio ed evitare quindi distruzioni in caso di lavori e sterri per opere di urbanizzazione.

Con l’esaurimento dei fondi, quest’opera meritoria viene non solo interrotta, ma vanificata per l’impossibilità di svolgere l’indispensabile e continua attività di manutenzione, mentre non vengono rimossi alla fonte i veleni atmosferici, prima fra tutti le esalazioni del traffico; le più straordinarie vestigia dell’arte e dell’architettura romana finiranno con lo sfarinarsi in gesso tra poche generazioni. Per questo, nella discussione sulla legge finanziaria, il sottoscritto ha presentato un emendamento perché la soprintendenza romana venisse rifinanziata in modo adeguato (210 miliardi in tre anni).

“Onorevoli ministri”, ha detto ingenuamente, “quando vi riunite in consiglio voi potete ammirare dalle finestre di palazzo Chigi la Colonna Antonina che, in 514 metri quadri di rilievi, narra le gesta dell’imperatore filosofo: come non vi rendete conto che ogni giorno che passa questa meraviglia appena restaurata torna ad essere preda dell’inquinamento atmosferico, col rischio di andare perduta per sempre?”. Niente da fare: su 437 onorevoli presenti, 220 hanno votato no, 150 sì e 67 anime timorate si sono astenute. Così è successo anche per il successivo emendamento che stanziava qualche miliardo per dare il via agli espropri per la realizzazione del gran parco della via Appia Antica, invano vincolata a parco pubblico da un quarto di secolo.

Duecentodieci miliardi in tre anni per la salvezza di Roma antica sono l’equivalente del costo di una decina di chilometri di nuova autostrada, quelle autostrade così spesso inutili e dannose per le quali i miliardi si stanziano e si spendono a migliaia. Queste sono le priorità alla rovescia dei nostri politici e dei nostri benpensanti, come quei dannati danteschi che camminano con la testa girata all’indietro: sì che ’l pianto degli occhi / le natiche bagnava per lo fesso. Così che la soprintendenza archeologica di Roma dispone oggi di un paio di miliardi, tanto quanto basta per tener pulito il Colosseo e tagliar l’erba del Foro Romano.

Mancanza di fondi, furti, crolli, esportazioni clandestine: stiamo allegri, nel 1992 cadono le barriere doganali nella Comunità europea, e già c’è chi va predicando che le nostre leggi sono troppo severe, che i beni culturali sono merci e come tali devono essere sottoposti a leggi del mercato e del commercio e quindi circolare liberamente. Esultano i mercanti e si rifanno vive quelle teste fine che da anni sostengono che lo stato italiano debba disfarsi del “superfluo”, cioè vendere all’estero i materiali conservati nei depositi dei musei per fare un po’ di quattrini e risanare il bilancio. (Un insano disegno di legge del governo prevede l’alienazione dei beni demaniali, terreni, immobili, foreste eccetera, compresi evidentemente i beni culturali, dal momento che non dice nulla in contrario). I beni culturali sono invece l’unica “merce”, per usare questo termine degradante, che non deve circolare, perché sono legati, integrati e intimamente connessi all’area culturale, al contesto territoriale che li ha prodotti e dal quale derivano senso, sostanza e valore. Mettiamocelo bene in testa.

Titolo originale: Progress hits Home – Traduzione di Fabrizio Bottini

NON POSSO FARCI NIENTE se voglio vivere nel passato: quel tempo di quarant’anni fa, quando c’erano ancora grandi spazi aperti per metterci i sogni, e sopra di essi un po’ di tenebre, la notte. C’era tranquillità, diritto di nascita per tutti noi animali, e in qualche modo c’era più tempo, in una giornata, di quanto non ce ne sia oggi. Il mondo apparteneva alle persone che lo abitavano.

Noi nostalgici marciamo arditi verso la battaglia, ansiosi di schierarci contro i carri armati della storia umana che avanzano. Le nostre primaverili inclinazioni a credere nel lieto fine ci hanno sempre impedito di vedere la putrida carcassa della verità che ci stava di fronte: “progresso” è solo un altro modo per dire ladrocinio. Ora i nostri cuori sono pieni della forza della rettitudine. Leviamo le braccia, pronte: le nostre spade di plastica multicolori luccicano verdi e rosse al sole. Le corrispondenze di guerra dal fronte interno ci fanno ridere del nostro funesto narcisismo. Non lo sapete, che non è possibile vincere? E poi, perchè vorreste? Noi non siamo come tutte le altre specie che hanno abitato la medesima nicchia ecologica per centinaia di migliaia di anni senza aver bisogno di case da otto stanze dove ne bastavano tre. Solo noi non trasmettiamo quei misteriosi feromoni che rallentano la procreazione quando si è raggiunto il limite di sostentamento della terra.

I nostri percorso cerebrali sono stati formati da milioni di anni di esistenza in comune coi nostri simili, dove i quotidiani incontri e riti e preghiere ci hanno fatto quel che siamo, una sola cosa. Poi qualche anno fa, uno più uno meno, hanno tirato fuori la feticizzazione della proprietà privata, e l’automobile, il mettere la produzione proprio in cima alla catena dei diritti, e il gioco è fatto: niente più spazi per trovarsi e niente più passeggiate e respirare l’aria e guardare il cielo e fabbricare miti a spiegare queste esperienze. Adesso si guida dentro a un viscido parcheggio e poi si entra circospetti da Walgreens per il giornale e qualche Rolaids e poi si fa retro marcia dopo aver rassicurato il premuroso addetto (in fondo l’ha chiesto) che oggi va tutto bene, egualmente preoccupati per il suo benessere psicologico (dopo tutto, l’abbiamo chiesto). Ci si allontana da quel posto che un tempo era un marciapiede molto usato di fronte a una banca, un caffè, un negozio di scarpe, dove i nostri genitori che non avevano un’automobile ma abitavano qui vicino, venivano a piedi. Mani invisibili sono arrivate, hanno spostato tutto come pedine su una scacchiera, e non si sa con chi prendersela. Nessun altro sembra essersene accorto.

Questa zona si chiamava Montrose. Nel 1973, capitò che la Interstate 77 venisse collegata alla Route 21, e la testa della gente cominciarono a girare pensieri. “Non c’era niente lì, era tutto vuoto”, ha spiegato con orgoglio uno di questi primi pensatori a un giornale. Vuoto: solo spazio, erba, niente che la gente potesse comprare. Centocinquanta ettari di inutilità. A suo tempo, più o meno in sei giorni, fu creato il mondo. Fra il 1970 e il 1990 la quantità di metri quadrati commerciabili – progettati, approvati, realizzati – a Montrose è aumentata, da diecimila a cinquecentomila. Le previsioni per la fine del primo decennio del nuovo secolo sono per altri trecentocinquantamila. (“ Le imprese non hanno né corpi che possano essere puniti, né anime per sentirsi responsabili, e quindi fanno quello che vogliono”; Edward Thurlow, Lord Chancellor, 1731-1806). Dall’argilla, perfettamente modellati, saltano su la West Market Plaza, Rosemont Commons – un nome adeguato per quella perfetta menifestazione degli ideali comuni, il Wal-Mart della città – Shops of Fairlawn, Builders Square, e Market Square, un centro commerciale costruito dietro a un altro centro commerciale, Sam’s Club, Bed, Bath & Beyond, Super Kmart, Cost Plus World Market (proprio così), Cellular One, Pier 1, Borders, T.J. Maxx, MC Sports, Old Navy, Pet Fair, Comp USA, Sears, The Home Depot, Taco Bell, Chipotles, Red Lobster, Romano's Macaroni Grill, Cracker Barrel, Boston Market, Bob Evans, Ruby Tuesday, Friendly's, Baja Fresh, sempre di più e di più sin quando si stramazza, sazi, col cuore che batte debole, inconsapevoli del cielo che sta sopra o della terra che sta sotto o di qualunque altra cosa, salvo strisciare ancora verso Camry e aspettare che il semaforo sulla Cleveland-Massillon Road segnali svolta a sinistra per poter arrancare fino a casa, e infine trasportare il contenuto di un paio di dozzine di borse di plastica dentro la casa, che in qualche modo assorbirà il tutto.

La mia generazione è schiacciata da una tristezza che non sa di provare. La promessa è stata sussurrata melodiosamente nelle nostre orecchie in qualche momento dopo il piacere dei grandi tesori nascosti sotto la pellicola dei cibi precotti e prima il profondo velluto del sonno nelle soffici tutine dei nostri pigiami. La realtà, come abbiamo ormai scoperto, non è come ci avevano garantito. La differenza è così geologica che rischiamo di romperci il collo tentando di vedere l’intero torreggiante aggeggio. La velocità del cambiamento si è presa qualcosa: non possiamo più disprezzarla come storia vecchia e decrepita. Ciò che è andato perso stava qui solo trenta o quarant’anni fa, e dunque sta scritto nelle pagine della nostra vita. Ma ancora non si sa cosa si potrebbe fare. Ogni annuncio arriva già confezionato nel fatto compiuto: questo se ne va, questo arriva, guarda qui, guarda là, piangi in solitudine, è tutto fatto. Il campo da golf, la strada, i negozi, tagliare, trapanare, strappare. Il tuo villaggio in New England giusto di fianco alla nuova città che cresce sempre più alta, sempre più larga. Il tuo centro cittadino che perde un’altra casa vecchia di un secolo e guadagna un altro drugstore superfluo in fondo a quel parcheggio che sembra un Oceano Indiano. Vecchie fattorie con appesi i cartelloni di quanto verrà: quaranta enormi case in stile architettonico Frankenstein disancorate dal paesaggio che galleggiano sull’assenza di alberi. L’antica cima della montagna ora centro turistico e seconde case. L’ufficio postale in stile Beaux Arts sostituito da Popeyes Chicken and Biscuits. Un venerabile campo di battaglia fertilizzato dal sangue umano, ora un centro commerciale. La strada sterrata asfaltata. Quella asfaltata a due corsie ora ne ha quattro; quella che ne aveva quattro, sei. L’incrocio senza semaforo ora ha la sua segnaletica. La marcia dei tempi avanza, le sue armate più numerose ogni giorno che passa.

Qualunque cosa fosse qui all’Alba del Tempi alla fine riceve il suo benservito, a favore di qualcosa che qualcuno possa trasformare in soldi. Ha preso le forme di un’assuefazione: non possiamo resistere. Alla fine ricadiamo, la testa che pulsa sorda, cifre e parolacce incomprensibili che ci colano giù dal mento: l’America ha asfaltato 6,3 milioni di chilometri di strade, l’equivalente di 157 giri attorno all’equatore; per ogni 5 nuove auto costruite, viene ricoperto d’asfalto un pezzo di terra grande come un campo da football; ogni anno in questo paese si edificano 1,2 milioni (sì: milioni) di ettari di spazio aperto; si perdono terre agricole al ritmo di un ettaro al minuto; una persona che ha appena raggiunto la mezza età cresciuta, diciamo, nella Rockland County, New York, viveva in un posto con 7.000 ettari di terre agricole, ora ce ne sono 100: ma provate a riguardare le statistiche fra qualche minuto. Possiamo solo compilare statistiche e levarci di torno, sconcertati. Nessuno sa cosa farci. Non c’è niente da fare. I giornali si riempiono di storie di avvenimenti incredibili; a quanto pare nessuno le legge. Ogni tanto c’è il resoconto di qualche monumentale battaglia davvero vinta, che è costata anni di sudati sforzi, e il premio consiste in una edificazione un po’ ridotta, una fattoria salvata, qualche ettaro che non sarà disboscato, un campo di battaglia della Guerra Civile tutelato, anche se con qualche concessione da fare, un Wal-Mart cancellato. Nel frattempo, altrove vengono su file di case, centri salute, ospedali, supermercati, e altri 2.378 Wal-Mart.

Questi grossi numeri entrano nel cervello solo da una parte, e di fatto è impossibile elaborarli. Siamo fatti per roba più piccola: quello che vediamo nei pochi metri che ci stanno attorno, quello che ci comunica sensazioni. Lo spazio emotivo per prendere il fiato, l’appartamento libero che potrebbe essere affittato a qualcuno che ci faccia grosse cose artistiche, gli angoli quietamente nascosti della città che non sono da un giorno all’altro venduti e passati di mano una mezza dozzina di volte nelle settimane successive, prima di essere trasformati nell’ennesimo quartiere alla moda per ricchi: c’è solo la sensazione che queste cose se ne siano andate per non tornare mai più, ma la nostra tristezza non cerca le ragioni. Cos’è, se non uno sguardo alle galassie lassù, incapace di capire davvero le distanze, di sapere che quel pianeta sta aumentando di altri 3 miliardi di persone? E non è molto più facile tentare di capire anche solo cosa sarà questo paese con 120 milioni di persone in più, anche se ce li immaginiamo tutti in gara per il nostro parcheggio davanti all’ufficio postale. Non parliamo del fatto che non potremo mai più visitare l’adorata spiaggia della nostra infanzia, dato che è diventato impossibile avvicinarsi (e inoltre no, non è semplice nemmeno pensare ai 2 milioni in più di sgattaiolanti esseri umani che presto si asfalteranno il loro pezzettino di Gran Bretagna, o i 3-8 milioni aggiunti all’Australia; né, di certo, i 300 milioni destinati all’India). Forse l’unica cosa che chiunque fra noi può cogliere, è la vista delle ruspe giù in fondo alla strada, che spianano l’ex campo da fieno per iniziare ad evocare la visione da sogno di trentasette nuove “case” color grigio talpa con finiture bianche e aperture sbadiglianti per parecchie auto. È qui che possiamo cominciare a vedere il futuro. È fatto di lutto costante e infelice abitudine.

C’era una volta, quando solo il re poteva mettere le sue fortificazioni sul crinale più alto; ora qualunque re in possesso di un fuoristrada può fare lo stesso. Sembra una cosa che va contro natura, ma ultimamente ce ne sono un sacco. Non credo che avrò mai la soddisfazione di acciuffarne uno, di questi ego-in-cima-a-un-palo che pensano di farsi una dimora fuoritaglia sulla collina che fu il mio conforto, ma se potessi lo prederei a cazzotti con un pezzo di Alan Devoe, da Phudd Hill, 1937:

Tanto verdi queste colline, così tonde, così tante, che fanno pensare ad enormi tumuli per una dimenticata e antica razza di uomini. Ci ho camminato sopra ed estratto da quella terrosità senza tempo la pace più profonda che sia possibile conoscere.

Io ci andavo continuamente, e ci ho riprovato l’altra sera, mentre l’oscurità scendeva nel suo antico modo su una terribilmente fredda giornata d’inverno. Su per un vecchio sentiero di taglialegna, nessuna impronta sulla neve salvo quelle dei roditori e del cane che mi stava appena davanti, ma la vista del crinale da cui sono stati strappati tutti gli alberi incombeva troppo insistente e ho avuto uno sprazzo di memoria da due anni fa. Ero salita, con un tempo migliore, su fino in cima al crinale sul lato opposto rispetto alla mia casa, dove è molto più ripido di qui, e una volta arrivata mentre mi stavo chiedendo come avrei fatto a scendere senza rompermi una gamba, ho trovato un collare da cane. Era la prova schiacciante che un altro alieno aveva sfidato questa quota, che sembrava appartenere solo a sé stessa. Ora in quello che pensavo fosse il sicuro crepuscolo di un gelido gennaio, un’auto mi attraversava il campo visivo mentre guardavo verso l’alto. Eravamo in una categoria diversa, rispetto al vecchio collare. Mi ha scosso nel profondo. Era il guardiano, nel giro di controllo – contro quale tipo di incursioni non posso nemmeno immaginare – della “proprietà”, perché è quello che è diventato, questo maestoso posto che si possedeva da sé. Non c’era ancora niente che avesse bisogno di protezione lì, solo terra grattata e le linee di confine che avevano consentito a vari successivi compratori di passarsi l’un l’altro appezzamenti di sedici ettari con vista su due catene di montagne per somme di denaro sempre più stravaganti. Dopo l’altra sera, ecco un altro posto dove non andrò più. Quando cominceranno a costruire, l’antica oscurità della notte sul fianco della collina sarà spazzata via da luci rumore e scarichi dei motori. La “ Proprietà Privata” vince “ la pace più profonda che sia possibile conoscere”.

Mi agito un po’, tanto per la forma. Il responsabile comunale per l’edilizia mi informa che non ci sono norme particolari per le costruzioni sui pendii, nessun obbligo di valutazione di impatto ambientale per alloggi unifamiliari. Non ho risposte intelligenti da dargli, e l’unica cosa che mi viene, sorda, è “Bene, questa è l’America, per voi”. Si agita: “Non vorrete che qualcuno vi venga a dire cosa dovete fare col vostro terreno, no?”. Sospetto che non gli piacerebbe la mia idea secondo cui a dire il vero lo vorrei; mi è venuto in mente che non esiste una cosa come “la tua terra”, non più di quanto non ci sia un punto in un maglione che si può levare senza conseguenze. È buffo, come il rumore di un’escavatrice di pozzi annunci la scomparsa di una galassia. Noi siamo tra i fortunati, ad avere ancora lì la Via Lattea quando usciamo nel portico sul retro, ma ci resterà solo ancora per un po’. Solo qualche casa in più lungo la via, solo qualche quartiere in più nella città vicina, e se ne sarà andata, dopo miliardi di anni. In pratica, potete cominciare a contare i giorni.

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Titolo originale: Residential and Industrial Decentralization– Estratto e tradotto per eddyburg_Mall (http://mall.lampnet.org) da Fabrizio Bottini

Il concentramento della popolazione nelle aree urbane a subito un rapido incremento nel secolo scorso. La popolazione delle città è cresciuta in parte per le nascite fra la popolazione indigena. Ma l’invenzione e produzione entro le città di macchinari agricoli e altri apparecchi che fanno risparmiare lavoro hanno reso possibile una crescita della popolazione urbana a scapito di quella rurale. Le maggiori occasioni sociali e produttive delle città hanno condotto un flusso continuo di popolazione dalla campagna. Inoltre, circa tre quarti [1]degli immigrati in America dall’Europa si sono stabiliti nelle città. Poche amministrazioni hanno pianificato in modo intelligente per questa rapida crescita urbana. Sono stati stipati edifici sul terreno, e affollate persone dentro gli edifici. La vita urbana è divenuta per molti versi scomoda, insicura, malsana.

Quando una città cresce, vengono eretti nuovi edifici sui lotti delle vecchie case, oppure le abitazioni degli originali abitanti cittadini o semi-rurali vengono “convertite” a uso urbano per molte famiglie. Spesso accade anche che vengano utilizzati a scopo di abitazione granai o altri edifici di servizio, oppure che le vecchie case vengano distrutte e sostituite da casamenti in affitto. Ogni lavoratore impiegato nelle varie attività locali desidera essere vicino al posto di lavoro. Le strutture per i trasporti pubblici non vengono realizzate prima che ne sia dimostrato il bisogno, e quindi la popolazione si affolla in un’area ristretta, abituandosi a vivere con strade lastricate e senza alberi, in case spoglie, monotone e deprimenti. Si abitua a condurre un’esistenza separata dalla natura. La responsabilità della proprietà di casa è avvertita da pochi. Il senso di cittadinanza e responsabilità morale per mali sofferti da chi sta vicino si indeboliscono. Il prodotto è una razza sempre più artificiale, egoista, apatica.

Nell’interesse sia dell’igiene che della moralità pubblica, la casa a cottage è di gran lunga preferibile all’abitazione in casamento d’affitto. Quando una popolazione urbana vive in casamenti d’affitto, ci sono grandi quantità di persone affollate entro un’area limitata, il che comporta un continuo traffico, attraverso le strade del quartiere, di abitanti e visitatori, e per la consegna di merci. Il traffico è rumoroso, il che logora i nervi degli inquilini più sensibili. Solleva anche una notevole quantità di polvere composta di sostanze minerali e organiche dannose per la salute di chi le respira. I corridoi, cantine e cortili in comune dei casamenti d’affitto sono strumento di trasmissione di molte delle malattie delle famiglie qui riunite. Il pericolo si riduce in qualche misura realizzando finestre a illuminare e ventilare i passaggi, ma non viene eliminato, perché molte parti restano lontane dai raggi del sole, e sono aerate in modo inadeguato. La tubercolosi è responsabile di quasi un decimo di tutti i decessi negli Stati Uniti, stroncando la vita di solito fra le età di venti e quarant’anni, nel periodo di maggior produttività. Il bacillo tubercolare può sopravvivere per settimane al di fuori del corpo umano, in una stanza umida, senza sole, in un corridoio, in una cantina. Il casamento d’affitto contiene di frequente i germi della tubercolosi in gran numero, ed essi possono essere trasportati dalla polvere del corridoio ai polmoni della vittima. La casa in affitto può così ad un tempo ridurre la vitalità, attraverso una relative assenza di luce solare e aria pura, e contemporaneamente offrire abbondanti occasioni per la trasmissione delle più diffuse e pericolose malattie.

I casamenti, inoltre, non assicurano la riservatezza essenziale per un elevato sviluppo umano, mentale e morale. Gli alloggi sono realizzati vicini gli uni agli altri, così che gli affari dell’una famiglia sono facilmente visibili dalle finestre degli appartamenti circostanti. La riservatezza si può ottenere soltanto chiudendo le finestre o le tende, a sacrificio dunque di luce e aria, che sono elementi indispensabili per la massima salute funzionale. É difficile ottenere un po’ di solitudine anche nelle migliori delle case ad appartamenti, dove si è vicini ai suoni di strumenti musicali o ad altri rumori delle molte famiglie circostanti. Ma la più grave controindicazione del casamento in affitto è quella di rendere impossibile la supervisione dei bambini da parte dei genitori. Il bambino per la propria salute deve giocare fuori casa. Ma quando il bambino delle case in affitto esce dal proprio appartamento, esce dal controllo dei genitori, può accompagnarsi a qualsiasi altra persona, desiderabile o no, che il casamento o la strada del quartiere possono aver portato qui. Anche la scelta dei giochi, come quella dei compagni di gioco, è sottratta al controllo dei genitori, e il tempo è spesso trascorso in modi pericolosi.

La casa a cottage non ha nessuno di questi svantaggi. Sulle vie di queste abitazioni la quantità di traffico necessaria, e di conseguenza il rumore e la polvere, sono molto inferiori a quanto si verifica nei quartieri dei casamenti in affitto. Non c’è un corridoio comune attraverso il quale condividere le malattie delle famiglie dei vicini. Ciascuna abitazione è isolate in uno spazio aperto. Anche incendi e occasionali incidenti diminuiscono, nella casa a cottage. Aumenta la quantità di riservatezza, perché le famiglie dei vicini vivono separate, e possono avere al tempo stesso solitudine, aria e luce. Ma la cosa più importante è l’occasione offerta alle madri, principali responsabili dell’educazione dei giovani della razza, di sovrintendere ai loro bambini, che possono giocare in un cortile aperto, con compagni scelti dalla mamma, e a giochi approvati o controllati, mentre lei sta al lavoro in cucina. L’alloggio a cottage rende anche possibile per il capofamiglia coltivare un orto nelle ore libere dal lavoro, cosa che oltre a distrarre in gran parte dei casi dalle occupazioni quotidiane, mette a disposizione verdure fresche, ad un costo inferiore rispetto a quello dell’acquisto al mercato, e offre l’occasione per un’educazione dei bambini alla natura. Non meno importante, il fatto che l’abitazione a cottage quando è in proprietà tende a sviluppare nella famiglia un senso di responsabilità, sia per la propria casa che per il quartiere dove è collocata. Questo senso di responsabilità si riflette nella politica locale, a vantaggio della comunità, rendendo i cittadini più coscienziosi sia nei comportamenti privati che in quelli pubblici.

Esistono due gruppi di politiche sociali particolarmente importanti, come strumenti per indurre i lavoratori industriali delle nostre città ad abitare in case a cottage. La prima si può chiamare decentramento produttivo; la seconda, decentramento residenziale. La strategia del decentramento industriale comporta misure per spostare fabbriche e laboratori dalla città verso il suburbio o l’aperta campagna. Il decentramento residenziale comprende le strategie per spostare gli abitanti delle città verso i sobborghi, o i centri minori, villaggi, campagne. Una politica di decentramento residenziale può, quindi, includere tutte le azioni che penalizzano la realizzazione di casamenti d’affitto in città – per esempio leggi che richiedano a questi complessi di essere antincendio, consentendo al tempo stesso la costruzione di abitazioni unifamiliari con struttura in legno- o promuovono mezzi di trasporto rapidi ed economici, o riducono il prezzo d’acquisto dei terreni suburbani, facilitano i prestiti a basso tasso di interesse per la costruzione di un cottage, favoriscono le tendenze di “ritorno alla terra”.

Le occasioni industriali offerte dalle città costituiscono una delle cause principali della loro rapida crescita in America. Gli imprenditori hanno collocate i propri impianti nei centri urbani principalmente perché si trovavano vicini al mercato del lavoro, alle infrastrutture di trasporto, ai consumatori. Verso le città si spostano sia il disoccupato che l’ambizioso, grazie alle possibilità di impiego regolare, che appaiono maggiori. Questa popolazione industriale è in gran parte la causa del malsano affollamento nelle città americane. Se si potessero spostare queste industrie dalle città ora sovraffollate, verso spazi aperti, se si potessero indurre anche le nuove imprese a stabilirsi in aperta campagna, e se la popolazione industriale potesse essere attirata dalle città verso nuovi villaggi industriali, i caratteristici mali del sistema della casa in America sarebbero grandemente ridotti.

Ci sono molti elementi di carattere economico favorevoli al decentramento produttivo. I terreni per le industrie in città sono molto costosi; si possono ottenere spazi per usi produttivi nei sobborghi o in aperta campagna a costi bassissimi: spesso a nessun costo. Si possono scegliere le comunità dove le tasse sono inferiori a quelle della città, e spesso un consiglio eletto di amministrazione rurale troverà vantaggioso concedere i terreni e esentare dalle tasse per un certo periodo di anni, per un’industria che si insediasse. Le infrastrutture di trasporto per i prodotti di alcuni settori sono senza dubbio migliori nelle città, me questo vantaggio relativo, a favore della collocazione urbana, può scomparire quando vengano realizzati particolari tratti ferroviari all’esterno delle città, a connettere con la rete nel suo insieme. In un centro urbano, gran parte delle attività deve mettere in conto una grande quota del proprio bilancio ogni anno al trasporto di merci da e per gli scali ferroviari, in spese per gli autisti dei veicoli, in sprechi per i danni che comporta un eccesso di movimentazione, ecc.: tutte spese che potrebbero essere eliminate del tutto se lo stabilimento industriale fosse situato su un tracciato di derivazione, dove è possibile caricare le merci sui vagoni direttamente. Il costo del lavoro è più ridotto nelle comunità rurali, se I lavoratori sono meno sindacalizzati che nelle città, o se il costo della vita è inferiore. Se al decentramento produttivo si accompagna quello residenziale, se gli abitanti dei casamenti d’affitto della città si spostano in case a cottage con giardino, salute, soddisfazione, efficienza, stabilità del lavoro possono essere superiori nel villaggio industriale a quanto siano in città, con conseguente riduzione delle perdite derivate all’impresa dall’irregolarità e rilassatezza sul lavoro.

Un programma di decentramento produttivo non è facilmente applicabile a tutti i settori. La sua attuazione dipende dal tipo di industria, dalle dimensioni degli spazi che occupa in città, dalla disponibilità di manodopera, e da vari altri fattori. Le attività che si rivolgono ai soli abitanti di una città, come lavanderie, sartorie, altri laboratori di abbigliamento o macinazione, devono restare, per essere vicine al consumatore, e comunque saranno le ultime a muoversi. Le attività stagionali devono restare vicine a una grande disponibilità di lavoro, e in genere non possono spostarsi verso le comunità rurali, almeno finché non si imporrà un efficiente sistema nazionale di scambi del lavoro. Anche le industrie che hanno già investito molto negli immobili urbani troveranno difficile tagliare le radici e ristabilirsi in aperta campagna. Dunque il processo di decentramento produttivo è necessariamente lento, ma l’obiettivo è comunque importante, e può essere promosso a scala nazionale e statale, da commissioni per il miglioramento dell’abitazione, da camere di commercio suburbane o rurali.

Un decentramento industriale non accompagnato da quello residenziale è di scarso valore per quanto riguarda il problema dell’abitazione. Graham Romeyn Taylor, nel suo Satellite Cities, espone una quantità di casi nel Middle West, in cui i lavoratori industriali sono rimasti abitanti delle città, e si spostano quotidianamente verso il posto di lavoro. Ciò è allo stesso tempo disagevole e inutile. L’esperienza dimostra che è possibile realizzare villaggi industriali in modo coordinato, applicando i migliori principi urbanistici alla loro costruzione, e vi si possono alloggiare i dipendenti in case igieniche, artistiche, riservate. Ma per farlo, è essenziale o che l’impresa acquisti centinaia di ettari attorno ai propri impianti, oppure che ciò sia fatto da qualche organizzazione particolare di cittadini. In America è stato sperimentato in modo estensivo solo il primo metodo.

L’esperienza dimostra che chi usa il lavoro può acquistare grandi appezzamenti di terreno a prezzi unitari molto bassi, e con la collaborazione di competenti urbanisti pianificarli e organizzarli con una rete di strade residenziali curvilinee, servite da centri sociali e commerciali, a un basso costo per lotto. É possibile progettare dei cottages per tutta l’area, o solo per una sua parte, realizzandoli contemporaneamente, acquistando i materiali all’ingrosso da un commerciante o fabbricante, pure a basso prezzo, e offrendo così abitazioni unifamiliari ben attrezzate in un gradevole villaggio industriale, a un affitto che il lavoratore possa permettersi di pagare.

Quando un datore di lavoro si impegna a dare casa ai propri dipendenti in questi villaggi, è cosa saggia per lui realizzare alcune abitazioni da affittare, e altre da vendere con pagamenti-rateazioni agevolate, su un periodo dentellale o più lungo. Si dovranno anche lasciare alcuni lotti inedificati, che sarà poi possibile cedere in modi agevolati a dipendenti che desiderano progettarsi e costruirsi la casa. Il datore di lavoro dovrà badare a consentire ai dipendenti di scegliere, se vogliono affittare o comprare, e non dovrà obbligare, direttamente o indirettamente, a vivere nelle proprie case. Se hanno la possibilità di abitare ovunque desiderano, i dipendenti non avranno occasione di sentirsi vittime di paternalismo, o in qualunque modo obbligati a dipendere dal datore di lavoro. Chi rispetta l’individualità del dipendente in questo modo, probabilmente non avrà problemi sindacali.

In altro metodo di decentramento industriale è stato tentato di Inghilterra. Un libro di Ebenezer Howard intitolato Garden Cities of Tomorrow, pubblicato la prima volta nel 1898 col titolo Tomorrow, auspica la realizzazone di città industriali a popolazione contenuta, attraverso società a dividenti limitati composte da cittadini interessati al bene pubblico. Howard raccomanda che tali città abbiano una popolazione non superiore a 32.000 abitanti. Ciascuna deve essere circondata da una cintura di terreni agricoli; la densità di case per ogni quartiere industriale deve essere contenuta. I terreni non sono di proprietà dell’industria che si trasferisce nella città giardino, ma di un comitato col compito di garantire che resti disponibile ai cittadini della comunità. Howard spera di promuovere la creazione di queste città giardino per decentrare l’industria, svuotare le città, assicurare ad ogni cittadino d’Inghilterra sia i vantaggi della vita rurale – aria pura, case unifamiliari, orti – che quelli della vita urbana – buone scuole, chiese, teatri, occasioni di incontro.

Nel 1901, sono stati acquisiti 1.544 ettari di terreno a cinquanta chilometri da Londra, a Letchworth. Sono stati pagati circa 100 sterline l’ettaro, dalla Garden City Pioneer Co., Limited. Subto dopo la Pioneer Co. si è sciolta, ed è stata istituita la First Garden City, Limited, ora proprietaria dei terreni su cui sorge la città. La costituzione di questa società offre dividendi del solo 5% sulle quote, che inoltre possono essere acquisite dai cittadini della Garden City se essi lo desiderano. Alle fabbriche è destinato un apposito quartiere, collocate in modo che i venti dominanti portino i fumi lontano dalle abitazioni. La zona delle fabbriche è nascosta da una collina al resto della città, e attraversata da una ferrovia che collega direttamente Londra a Cambridge. Ci sono già oltre trenta proprietari di fabbriche che sono stati convinti a stabilire i propri impianti in questa città.

Oltre i due terzi dell’area esterna sono destinati ad una cintura agricola permanente che offrirà derrate fresche alla città, condividendone la vita sociale. L’attuale popolazione è di 8.000 abitanti, alloggiati in cottages singoli, doppi o a schiera. Il numero Massimo di abitazioni edificabili per ettaro è di trenta, offrendo così a ciascuna casa un ampio giardino. Inoltre ogni abitante può prendere in affitto degli orti. I costi per le case e i terreni sono bassi, e i lavoratori dell’industria sono alloggiati molto meglio che in città. La cittadina è magnificamente progettata e ben tenuta, con gli abitanti dotati di senso civico. Applicando il piano di Howard’s si è realizzata una comunità industriale decentrata, che offre tutti i vantaggi del villaggio di proprietà dell’industriale, e nessuno dei suoi svantaggi. Questo metodo non è stato ancora tentato su larga scala, ma è promettente, e importante a sufficienza da meritarsi un serio tentativo anche in America sotto la guida di un organismo competente di cittadini consapevoli dell’urgenza del problema.

La politica del decentramento residenziale è importante per le nostre città, sia che l’industria si decentralizzi oppure no. Se le industrie si spostassero dalle città e i lavoratori le seguissero, il problema del decentramento residenziale per il resto della popolazione urbana diverrebbe relativamente semplice, perché si renderebbero disponibili grandi quantità di spazi, per una popolazione limitata. Comunque, che le industrie si spostino o no, è importante che le amministrazioni cittadine, convinte della superiorità relative dell’abitazione a cottage, promuovano questi alloggi attraverso norme particolari. Ovviamente, in genere il lavoratore cittadino non può vivere in una casa unifamiliare nei sobborghi, se non può spostarsi dall’abitazione al posto di lavoro in mezz’ora, o meno. E non può di norma abitare in un cottage se affitto, o pagamento di rate, interessi, ammortamento ecc, per acquistare la casa, gli costa di più – costo quotidiano del trasporto incluso – dell’affitto di una sistemazione equivalente in città. [2]

La questione è in qualche modo più compelssa di quanto non appaia da questo ragionamento, perché spesso ci sono vari membri della famiglia che lavorano in città, nel qual caso la posizione della casa deve essere scelta con riguardo ai bisogni di chi lavora più lontano o per più ore. Anche l’assenza di alcuni vantaggi sociali è di impedimento alla vita suburbana. Quindi uno degli elementi per la soluzione del problema sarà l’offerta di accesso a strutture per l’istruzione e la ricreazione, per tutte le età ed entrambi i sessi, agli abitanti dei sobborghi residenziali.

Per rendere accessibile l’abitare nel suburbio, è importante individuare mezzi di trasporto rapidi ed economici per tutte le zone esterne delle città adatte alla funzione di quartieri residenziali. É importante, per questa ragione e per il traffico veicolare, avere ampie strade radiali che collegano i poli commerciali, industriali e di incontro della città ai suburbi.

Il costo delle abitazioni suburbane che si realizzano di solito in America, è proibitivo per le classi lavoratrici. Le abitazioni vengono costruite singolarmente, a prezzi al dettaglio per quanto riguarda i materiali, il costo del lavoro, i prestiti, spesso da persone poco addentro ai metodi per ridurre i costi di costruzione; sono edificate su lotti dalle forme poco adatte, acquistati da speculatori fondiari a prezzi eccessivi, affacciati su strade eccessivamente larghe e costose da realizzare. Per ridurre i prezzi delle abitazioni, dunque, in primo luogo è necessario abbassare quelli dei terreni. Ciò si può ottenere in parte attraverso lo zoning, ad esempio destinando quartieri interamente alle abitazioni, cosa che contiene i valori speculativi dei terreni. Si può ottenere anche rendendo più economica la realizzazione delle strade, progettate più strette, semirurali, nei distretti solo residenziali, e predisponendo lotti edificabili in qualche modo meno profondi di quelli caratteristici delle città americane. I terreni possono anche essere resi più economici tassando nello stesso modo sia i terreni urbanizzati che quelli inutilizzati, per il loro valore potenziale. La bassa tassazione di oggi sui terreni inutilizzati serve da stimolo agli speculatori per mantenerli tali. Se la valutazione di queste superfici si incrementasse, i proprietari entrerebbero in concorrenza per vendere i propri terreni, riducendo così i costi per lotto edificabile. Il costo del denaro preso in prestito per ogni casa si può ridurre se a chiedere il prestito sono grosse entità, con grosse somme per grandi operazioni. Oppure, le somme possono essere concesse in prestito, a singoli o cooperative di inquilini, dalle amministrazioni statali o cittadine, seguendo l’esempio europeo, posto che questa politica ottenga buoni risultati tali da compensare i gli elementi negativi che caratterizzano i sistemi di sussidi pubblici. Gli insediamenti suburbani, comunque finanziati, devono essere progettati da esperti urbanisti e realizzati con tutte le economie di scala nell’acquisto di materiali e uso di manodopera.

Esistono quattro principali forme organizzative che possono essere utilizzate per le operazioni su vasta scala dell’insediamento suburbano: (1) il soggetto commerciale, che interviene a scopo di profitto per l’investitore; (2) il soggetto filantropico, che costruisce i quartieri principalmente a vantaggio degli abitanti, e non cerca alcun ritorno monetario dal proprio investimento; (3) il soggetto cooperativo, attraverso il quale gli abitanti organizzati realizzano l’insediamento nel proprio interesse collettivo; (4) il soggetto pubblico, che realizza la trasformazione per il vantaggio pubblico, in genere senza alcun fine di profitto monetario per l’investimento. Le linee di demarcazione fra questi quattro tipi di soggetto non sono nette. L’agenzia commerciale può essere filantropica, nel senso che può trovare un buon affare il fatto di tenere in considerazione il miglior interesse dell’inquilino o acquirente finale. Il soggetto filantropico, d’altra parte, tende ad essere sempre più commerciale, perché ritiene che una beneficenza finalizzata ad eliminare la povertà di chi la riceve debba essere gestita con criteri di impresa. Gran parte delle cosiddette compagnie filantropiche che realizzano insediamenti suburbani sono imprese a dividendi limitati concepite per versare il 5% sul capitale investito, destinando tutti i guadagni ulteriori agli occupanti delle abitazioni sotto forma di servizi di vario tipo. Le cooperative sono gestite secondo il principio filantropico del servizio, e al tempo stesso animate dal desiderio di massimo profitto per l’investimento, in termini di benessere degli inquilini associati. Si chiama “self- help through service”. Tutti i tipi di entità descritti sopra, possono essere promossi attraverso un’agenzia pubblica – sia statale che municipale – che metta a disposizione terreni a basso prezzo, esenzioni fiscali, prestiti a interesse ridotto, o altre agevolazioni, a chi sta costruendo case salubri per i ceti più poveri.

Esempi dell’organizzazione di tipo commerciale per la costruzione di cottage si possono trovare in qualunque città in crescita. Anche le società filantropiche a dividendi contenuti hanno realizzato molto, per l’affitto o la vendita, nelle città americane, come ad esempio la City and Suburban Homes Company, a Homewood, Brooklyn ; la Sanitary Improvement Co., Washington; la Goodyear Tire and Rubber Co., di Akron,Ohio; e la Modern Homes Company, di Youngstown, Ohio. I gruppi industriali, il cui scopo può essere sia filantropico che commerciale, hanno ampiamente costruito per i propri dipendenti, in molti paesi. Gli esempi del principio cooperativo sono rari in America, anche se questo tipo di struttura probabilmente verrà sperimentata a Billerica e East Walpole, Massachusetts, e a Hamilton, Ontario. L’abitazione cooperativa si è dimostrata decisamente un successo a Harborne, Hampstead, e in altri sobborghi giardino realizzati in forma associata in Inghilterra. Insediamenti suburbani di iniziativa pubblica sono stati sviluppati dal County Council di Londra, e da centinaia di amministrazioni municipali europee: come a Sheffield. Inghilterra, o Ulm, Germania. Sono intervenuti i governi nazionali o provinciali in Irlanda (Congested Districts Board), Nuova Zelanda e Germania.

Qualunque di questi tipi di ente può essere utilizzato, in determinate condizioni, per realizzare vantaggiosamente insediamenti suburbani. Il tipo commerciale è quello più comunemente attivo, perché la spinta del profitto è sempre uno stimolo alla costruzione di case nelle città in crescita. Ma le abitazioni realizzate per l’uomo di pochi mezzi sono costruite e progettate meno bene di quelle degli altri tipi di agenzie, dato che lo scopo è quello di garantire profitti immediati agli investitori. L’interesse dell’abitante è considerato solo per quanto fa guadagnare. Il tipo di organizzazione commerciale è inevitabile nella costruzione di case, finché resterà l’istituto della proprietà privata, ma nella maggior parte delle città deve essere affiancato da altre forme di agenzia.

L’entità filantropica, o società a dividendi limitati, può essere utilizzata per trarre vantaggio dalla sperimentazione di nuovi tipi costruttivi. Funzione principale della società filantropica, sperimentazione a parte, è quella divulgativa. Essa può prendere la forma di istruzione dei costruttori locali sui nuovi metodi, formazione degli inquilini per il buon mantenimento degli edifici, educazione degli occupanti al risparmio, attraverso nuove e facilitate forme di accesso alla proprietà. Probabilmente il ruolo più importante di questo tipo di agenzia è la scoperta di nuove tipologie di abitazione e la loro cessione in forme di pagamento agevolate agli occupanti. In questo modo, la City and Suburban Homes Company di Homewood, Brooklyn, ha costruito abitazioni su lotti da 12x30 metri e le ha messe in vendita a 2.500-3.000 dollari, terreno incluso. L’occupante può pagare in rate diluite su vent’anni, con versamenti mensili per tasse, interessi e ammortamento, pagando allo stesso tempo una polizza assicurativa pari a due terzi del valore del mutuo, in modo tale che in caso di morte, la compagnia sia tutelata per la vendita della casa, e la famiglia nel suo dirotto alla proprietà.

Negli Stati Uniti sinora non sono state utilizzate agenzie governative per la realizzazione di insediamenti suburbani, ma in Europa esistono vasti appezzamenti di terreni acquistati dalle municipalità, edificati con case a basso costo, e cedute in affitto dal comune ai lavoratori, oppure vendute con rateazioni agevolate di lungo periodo. Quest’ultimo metodo si è rivelato utile a evitare una dannosa speculazione sui terreni suburbani, e per promuovere la proprietà della casa anche fra i più poveri. Sinora, difficoltà costituzionali e una relativa inefficienza o disonestà da parte degli uffici municipali, hanno reso sconsigliabile l’applicazione di questo metodo nel nostro paese. É stato fatto un approccio simile comunque a Toronto, Canada, dove i titoli della compagnia a dividendi limitati vengono garantiti dalla municipalità.

L’organizzazione cooperativa, non ancora sperimentata su larga scala in America, ha caratteristiche particolari come strumento di promozione delle costruzioni suburbane. Secondo questo metodo, il potenziale abitante suburbano investe in quote di una cooperativa di abitazione. Si assicura un’opzione sui terreni del suburbio. Gli occupanti vengono selezionati dalle municipalità entro la cui circoscrizione ricade. Il denaro, sia in Inghilterra che in Germania, può essere preso a prestito dallo Stato a un interesse del 3 o 3½ per cento, e altri fondi si ricavano emettendo obbligazioni. I terreni, naturalmente, devono essere pianificati da esperti urbanisti, e si deve trarre vantaggio dalla realizzazione su grande scala. Quando le abitazioni sono pronte, gli appartenenti all’associazione cooperativa, tutti potenziali occupanti, entrano nelle case e pagano un affitto alla società. Il cui reddito è costituito dagli affitti pagati. Da questo reddito lordo si ricavano le spese di gestione, si pagano gli interessi dei prestiti governativi o delle emissioni, una percentuale è accantonata come capitale di riserva, e quindi vengono pagati gli interessi sulle quote di ciascun socio-abitante, a un tasso contenuto, di solito al 5%. Tutti i profitti netti rimanenti a questo punto possono essere distribuiti ai membri in funzione dell’affitto pagato all’associazione, ma non tornano sotto forma di denaro, piuttosto di quote del capitale, si che ciascuno ne possiede per 1.000 dollari, o il valore della propria abitazione.

Le decisioni sugli affari della cooperativa di abitazione suburbana sono strettamente democratiche. Ciascun membro ha a disposizione uno solo voto. Questa forma organizzativa è particolarmente stabile ed economica, perché ciascun componente ha il massimo interesse negli affari del complesso edilizio. Quindi non ci sono perdite in caso di spazi inutilizzati, perché se una casa è vuota, ogni membro è sollecitato a trovare un nuovo occupante. I costi di riparazione sono mantenuti al minimo, perché gli occupanti fanno attenzione alle proprietà condivise. Ci sono poche, o nessuna, perdite in termini di ritardi sugli affitti, perché le quote dell’occupante possono essere rilevate per eliminare il suo debito nei confronti dell’associazione. Inoltre, con questa forma organizzativa, tutti gli incrementi di valore dei suoli creati dalla comunità diventano proprietà dei membri abitanti.

Quindi il decentramento di attività e residenze è altamente desiderabile, ed è importante che l’America stimoli questo movimento attraverso particolari misure. È necessario istituire un’agenzia nazionale che fornisca informazioni a chi intende costruire, o alle persone che intende impiegare, sui meriti dei vari metodi di progettazione, finanziamento, organizzazione dei complessi suburbani. La stessa agenzia potrebbe costruire o ampliare la propria utenza attraverso la propaganda. Mostre di materiali per l’edilizia, di progetti costruttivi o urbanistici, sui costi e i tipi di organizzazione, regolamenti e metodi di lavoro delle imprese di costruzione. Attraverso la costituzione di un tale centro di informazioni e propaganda sia l’urbanista che il promotore di migliori complessi abitativi industriali o suburbani sarà in grado di agire con piena conoscenza dei risultati, positive o negative, degli esperimenti già condotti, traendone profitto. La sperimentazione a caso, che si risolve in inutili errori, potrà così essere evitata. In tal modo, con poca fatica e spesa, potranno notevolmente incrementarsi quantità ed efficienza dei progetti di decentramento.

Nota: curiosamente, sarà proprio uno dei giovani collaboratori di John Nolen, Earle Draper, a coniare vent'anni più tardi il termine "sprawl", a definire l'insediamento suburbano poco o mal pianificato; è scaricabile da fondo pagina un file PDF di questa traduzione con qualche immagine (f.b.)

here English version

[1]Nel 1910, il 72,1% della nostra popolazione nata all’estero viveva nelle città (amministrazioni con oltre 2.500 abitanti). Sunto del Tredicensimo Censimento, p. 200.

[2]Esistono varie combinazioni. Se si è meno malati nel suburbio si può pagare un affitto equivalente a quello della città più quanto si risparmia in parcelle del medico. Nel suburbio si possono pagare meno le verdure, bevande, abbigliamento, divertimenti ecc.; ciò che si risparmia in questo modo – se non c’è un corrispondente aumento del costo della vita suburbana e il reddito rimane uguale – può essere speso in affitto.

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1.Quanti sentono e seguono con intelletto d’amore il problema del deurbamento e i problemi connessi della casa, della campagna, dell’autarchia, hanno certamente appreso con intima soddisfazione che la prossima legge Urbanistica, già approvata dalle Commissioni legislative nel luglio u. s., “porrà l’Italia” secondo l’annuncio dato alcuni mesi fa dal Ministro Gorla “all’avanguardia tra le nazioni più progredite”, poiché “si prefigge attraverso il rinnovamento e ampliamento edilizio della città il miglioramento di vita nei centri minori e nelle campagne, per combattere la pericolosa corsa all’inurbamento”. L’art. 1 della legge, infatti dichiara: “Il Ministero dei Lavori Pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio della città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il deurbamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo”.

E la relazione dello stesso Ministro che ne accompagnava il disegno alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni chiariva:

”Concepita la disciplina urbanistica come fondamento di una sana convivenza sociale nella distribuzione delle forze produttive e dei nuclei demografici sul territorio nazionale, la legge urbanistica si appalesa come il mezzo più efficace per attuare quel deurbamento che è uno dei capisaldi della politica del Regime. Espressione di questa tendenza sono due nuovi istituti improntati alle vedute più moderne. L’uno è il “piano territoriale di coordinamento”, che quando venga posto in essere costituirà la trama entro la quale dovranno inquadrarsi i piani regolatori dei singoli Comuni, in modo da assicurarne l’armonica coesistenza. La creazione di tali piani territoriali è stata lasciata al criterio del Ministro de Lavori Pubblici, senza imporre prescrizioni rigide, ma segnando soltanto orientamenti e diretti, e di massima in quanto trattasi di provvedimenti di vasta portata da sperimentare con cautela.

L’altro istituto è quello del “piano regolatore generale” esteso alla totalità del territorio comunale, con che si eviteranno gli inconvenienti derivanti dall’attuale sistema, per il quale il piano regolatore generale è limitato al centro urbano ed alla zona di ampliamento”.

A sua volta il Ministro Gorla, parlando alla Commissione legislativa della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, soggiungeva “è vano fissare la gente là dove non vuole rimanere se non le si danno i primordiali servizi necessari”.

Così il legislatore mira a tradurre in precetti normativi la nuova dottrina urbanistica, la quale, come avvertì il Ministro Bottai, inaugurando nel 1938 il Congresso nazionale di urbanistica “non ha come esclusivo compito di ordinare la città, ma anche e specialmente i borghi e le campagne” o, come altrimenti si è espresso uno dei più profondi e appassionati cultori della materia, G. A. Calza Bini, “estende i suoi studi alla organizzazione di tutti i centri sociali, in città come nelle campagne, sui porti come sulle spiagge marine e sui fianchi dei monti”.

E non può non apprezzarsi questo contributo ideale e pratico che viene offerto dalla dottrina urbanistica e dal nuovo mandato legislativo per la realizzazione del deciso programma del Duce rivolto alla ruralizzazione del Paese, quale base prima e insostituibile della indipendenza economica e politica della Nazione, e alla sana politica del villaggio categoricamente ribadita dal Sottosegretario all’Interno G. Buffarini Guidi contro il tradizionale privilegio delle metropoli.

2. Concretamente quali norme la legge contiene, quali potestà specifiche essa attribuisce al Ministro dei LL. PP., quali mezzi offre diretti o influenti al fine del deurbamento?

Sembra mirarvi innanzi tutto la norma, che, all’antisociale distinzione della legge del ‘65 tra Comuni aventi popolazione superiore ai 10 mila abitanti e Comuni con popolazione inferiore, ai quali ultimi negava la facoltà di formare il piano regolatore, e alla irreale distinzione che quella stessa legge faceva fra Comuni nei quali si manifestasse la necessità di espansione e Comuni che tale necessità non avessero, pone una regola generale obbligante tutti i Comuni a formare il piano regolatore edilizio esteso all’intero territorio, piano che comprende (art. 8) così le norme di correzione e sistemazione dell’abitato esistente (piano regolatore della legge del ‘65) come le norme di edificazione nelle zone di espansione (piano di ampliamento della legge del ‘65), o, quanto meno, ad includere nel proprio regolamento edilizio un programma di fabbricazione con l’indicazione dei limiti di ciascuna zona e con precisazione dei tipi ed eventualmente delle direttrici di espansione (art. 34). Ogni lembo di territorio nazionale, anche il più remoto e rurale, potrà in tal modo rappresentare al suo popolo la bellezza e le comodità della nuova edilizia sorta secondo gli schemi concepiti dalla dottrina urbanistica associata alla scienza igienica e il cuore pulsante del Regime per la più elevata redenzione della vita rurale e del benemerito popolo delle campagne.

La relazione ministeriale, poi, spiegava, nel brano trascritto, che a tale scopo sono stati concepiti i due istituti del piano di coordinamento e del piano regolatore generale per tutto il territorio, e non del solo abitato. Dalle linee direttrici di cotesti piani, infatti, possono partire provvide iniziative ed opere, particolarmente stradali, idrauliche, e industriali, di immediato e sicuro effetto di valorizzazione e popolamento di campagne anche lontane.

L’art. l, inoltre, espressamente pone e definisce questo compito del Ministro dei Lavori Pubblici; compito non del tutto nuovo, come quello che già era implicito nelle sue funzioni di organo della politica generale del Governo, ma ora nettamente imposto e che dovrebbe concretarsi nell’indirizzare anche verso quel fine particolare l’azione propria e le opere da eseguirsi a cura del suo Ministero o degli istituti da esso diretti o dipendenti, e nel vigilare che quel fine sia fra le vedute precise dei regolamenti, dei piani, dei programmi costruttivi, delle opere degli enti locali.

3. Ma, se non erro, non vi si rinviene altra norma positiva a ciò diretta. Sia consentito domandarci allora se queste affermazioni di principio e questo mandato generico possano per sé soli apportare un contributo pratico realmente efficace pel conseguimento dello scopo idealmente prefisso del deurbamento. Si tratta evidentemente di principii solo direttivi e di un mandato di carattere discrezionale il cui effetto pratico dipenderà dall’applicazione di essi, e che potrà mancare, ove l’azione pratica non risponda.

Gli stessi piani e programmi edilizi d’altra parte non possono, per propria funzione, che rappresentare il puro quadro topografico d’insieme delle zone in cui i piani o i programmi suddividono, nella carta, il territorio di uno o più Comuni con la sola indicazione delle linee terminali e periferiche e della destinazione di ciascuna di quelle zone (abitato centrale da rettificare, zone di espansione di esso con la tipologia delle costruzioni, zone industriali, linee stradali o navigabili, ecc.) disegnando, quindi, per esclusione, le restanti parti del territorio riservate alla cultura agraria.

Da sé solo dunque il dettato della legge non sembra segnare passi positivi sulla strada del deurbamento.

4. Constatiamo intanto ogni giorno, e non senza preoccupazione, come nonostante gli sforzi di leggi, di provvedimenti di Governo, della più convincente dialettica della stampa, la corsa verso l’urbanesimo e l’abbandono che ne deriva , delle campagne non si arginano. Un’apposita legge, quella del 6 luglio 1939, pose come un reticolato giuridico alle facili invasioni delle città. Opere gigantesche di bonifica e appoderamento sono state compiute o sono in corso di esecuzione e nuove città sono sorte nel centro di territori redenti od accanto a nuove industrie, per volontà del Regime e con immane sforzo finanziario dello Stato. Il nuovo codice civile sanziona nuovi doveri per la conservazione e lo sviluppo della proprietà rurale. Un altro disegno di legge è davanti alle assemblee legislative contenente provvedimenti a favore dell’economia montana.

Nella realtà il problema resiste a questi reattivi vari.

D’altro canto la stessa legge urbanistica (reputo dovere della critica leale, e come tale collaboratrice, rilevarne gli aspetti che appaiono negativi) sembra dimenticare i suoi buoni propositi quando, nella indicazione del contenuto dei piani, dei programmi, dei regolamenti, non fa cenno alcuno ad elementi praticamente diretti al fine del deurbamento, mentre molto preoccupata, e pur giustamente, si manifesta dei riguardi tecnici, estetici, storici, monumentali, oltre che del traffico e dell’igiene. Autorizza la espropriazione per la precostituzione di un demanio comunale di aree disponibili per le future zone di espansione dell’abitato, per la formazione dei comparti, per la regolare lottizzazione delle aree, per rettifica dei confini nell’abitato e nelle zone di espansione di esso, ma, come mi riservo di esaminare in altro scritto, reca norme scarse o nulle dirette ad attenuarne il costo. Sembra voler incoraggiare un maggiore spreco di aree libere per giardino a scopi puramente estetici (art. 25). Modificando il primo schema, che sottoponeva all’obbligo della licenza del Podestà con le garanzie conseguenti qualsiasi costruzione nel territorio del Comune; la prescrive solo per le costruzioni entro l’abitato e le zone di espansione.

5. Se a me fosse lecito aggiungere al corredo, già immenso, delle approfondite elaborazioni nella materia una modesta idea, delineerei, sul terreno positivo, due nuove regole generali che considererei utilmente integratrici della legge urbanistica. M’incoraggia a farlo, oltre l’amore del tema, l’ultimo articolo della legge il quale, nel chiaro intento del legislatore di volerla perfezionare nell’immediata applicazione, autorizza il Governo ad introdurre nel regolamento anche norme integrative, fra le quali appunto penso possano trovare sede quelle che sottopongo al vaglio sapiente delle sedi competenti.

La prima statuirebbe : “ Ogni podere destinato a coltura agraria o almeno quello che abbia la estensione della unità colturale prevista dal nuovo codice civile quella, cioè, sufficiente a dar/lavoro ad una famiglia agricola (art. 846 c. c.) dev’essere dotato di una casa sana e sufficiente per le famiglie del proprietario e del lavoratore o dei lavoratori fissi del fondo e per gli altri bisogni della coltivazione”.

Non v’è bisogno di dimostrare, dal punto di vista economico, demografico e sanitario, che condizione prima per attrarre e trattenere nelle campagne lavoratori e proprietari è un alloggio accogliente dotato dei requisiti rispondenti alle esigenze maggiori della vita (acqua, luce, strade); che la presenza continua o frequente del proprietario e del lavoratore è, a sua volta, condizione essenziale per la migliore custodia, cura, coltivazione e produttività della terra; e che la vita in case e campagne salubri è fattore importante dello sviluppo della sanità e della moltiplicazione della razza.

Non v’è bisogno di dimostrare neppure che, mentre s’investono spese enormi per rifugi pubblici, antiaerei di carattere temporaneo e malsicuri, il disseminare di case abitabili il territorio nazionale nelle zone destinate all’agricoltura, fuori dei centri abitati, significa anche costruire i rifugi più sicuri e sani.

Dal punto di vista del contenuto giuridico, la norma non solo non incontra ostacolo nell’ordinamento generale, ma concorrerebbe ad attuare i principii cardinali posti, nei riguardi della funzione sociale e degli sviluppi della produzione fondiaria, negli articoli 836 e segg. del nuovo codice civile. Dal lato formale potrebbe osservarsi che una disposizione siffatta avrebbe sede più propria in una legge generale di riordinamento della proprietà fondiaria. Ma non appare estranea alla legge urbanistica, se è vero, com’è vero, che questa è ispirata alla dottrina urbanistica la quale spinge il suo sguardo ad ogni nucleo sociale, intende disciplinare l’edilizia anche per finalità del deurbamento da essa stessa dichiarato.

E posta questa regola, la licenza di costruzione del Podestà dovrebbe essere subordinata non al puro accertamento igienico ed estetico, ma anche alla rispondenza di essa alle varie esigenze pratiche cui per i fini della legge deve soddisfare.

6. La seconda regola stabilirebbe: “ Il piano regolatore comunale (almeno dei Comuni soggetti alla legge contro l’urbanesimo) deve stabilire larghe fasce di territorio, convenientemente collegate col centro abitato da comode vie di accesso, suddivise in lotti di 2000, 3000, 4000 mq., al di là delle immediate zone di espansione dell’abitato o intorno alle borgate periferiche. In ciascun lotto il proprietario ha obbligo di costruire, secondo gli allinea menti che il piano stabilirà, un fabbricato semirurale sufficiente per alloggiare almeno la famiglia del proprietari, la famiglia di un lavoratore rurale a modicissimo fitto, e possibilmente anche altri inquilini, preferibilmente lavoratori”.

Sembrami intuitivo che queste fasce semirurali attrarrebbero non poca parte della popolazione operaia e media; avvicinerebbero molti lavoratori agricoli ai giardini, orti, terreni ove sarebbero chiamati a prestare la loro opera; assicurerebbero alle famiglie coabitanti una parziale indipendenza economica mercé la coltivazione dei terreni circostanti, insieme con un’abitazione a mite fitto, in contrade salubri semicampestri.

Nel piano regolatore, costituirebbero anch’esse speciali zone di espansione a carattere prevalentemente rurale.

7. Mi si presentano alla mente, nel formulare queste idee, le obiezioni che alcuni anni fa opponeva con ingegnoso calcolo geometrico Ugo Notari, il quale, postosi il problema se convenisse che gli abitati crescessero in estensione o in altezza, e rilevata la tendenza verso la prima osservava:

”Ecco un primo settore del gigantesco piano regolatore, sul quale dovrà essere combattuta 1a prima grossa battaglia. Le nuove case richiedono nuove aree, e le nuove aree, lentamente ma irresistibilmente, mangeranno la superficie coltivabile. La casa è così una irriducibile nemica del pane. Se noi vogliamo più grano per provvedere all’alimentazione delle nuove generazioni, dobbiamo sviluppare le nostre città e i nostri paesi in altezza, predisponendo tutta una nuova legislazione sulla proprietà fondiaria nel senso di conferire un movimento generale alla sopraelevazione delle case esistenti. Le nuove aree commerciali devono essere i tetti; le città e i paesi debbono avviarsi ad avere case ad otto a dieci piani”.

Non mi avventuro nella questione, che eccede la mia competenza e i fini di queste note, se negli abitati debbano preferirsi i grattacieli o i fabbricati medii o piccoli, ma è certo che, se dovesse seguirsi al cento per cento il ragionamento geometrico del Notari, dovrebbero abolirsi anche le abitazioni campestri, che sottraggono anch’esse terreno al pane. Ma è pur certo che questo senza di quelle non nascerebbe neppure nella più gran parte dei terreni destinati a produrlo.

Le difficoltà essenziali, invece, per la pratica applicazione delle due regole che traccio, sarebbero tutte e soltanto di carattere finanziario, poiché, come è noto, pochi o pochissimi dei proprietari di terre o aree hanno mezzi propri per adempiere l’obbligo di costruzione che verrebbe loro imposto. Ma se quelle due regole fossero riconosciute necessarie per lo scopo, non dovrebbero essere negati mezzi e accorgimenti atti a superare le difficoltà che si oppongono, e cioè:

a)sovvenzioni e facilitazioni più larghe possibile (esenzioni fiscali, contributi governativi, mutui a lunghissima scadenza e minimo tasso, ecc.) come per le costruzioni popolari o per le bonifiche;

b)espropriazione o sanzioni penali a carico degli inadempienti;

c) opere stradali e impianti di luce e acquedotti, e uffici pubblici periferici indispensabili per rendere possibile la vita nelle campagne.

Questi provvedimenti, che a lor volta integrerebbero le due regole, potrebbero avere sul regolamento della legge urbanistica una enunciazione di massima, con rinvio alle leggi speciali cui competerà di disporli.

Comunque non sarà vana l’attesa dei risultati dell’impegno assunto dalla legge urbanistica.

Le due eminenti coscienze che presiedono al Dicastero dei Lavori Pubblici, il Ministro Gorla e il Sottosegretario Carletti, che hanno già rivolto i loro studii sull’importante problema, hanno nella propria altissima competenza e lunga esperienza, la traccia più sicura delle vie da percorrere perchè questa sana finalità della legge non rimanga una proclamazione puramente letterale.

Essi hanno sopratutto nel loro spirito le consegne date dal Duce:

“I finanziamenti concessi al Consorzio fra istituti di case popolari debbono servire per la costruzione di nuove case anche nei Comuni rurali perchè dal provvedimento ne dovranno trarre vantaggio quegli autentici rurali, che lavorano duro, secco, sodo, in obbedienza e in silenzio”.

“Entro alcuni decenni tutti i rurali italiani devono avere una casa vasta e sana, dove le generazioni contadine possano vivere e durare nei secoli come base sicura e immutabile della razza”.

“Solo così si combatte il nefasto urbanesimo, solo così si possono ricondurre ai villaggi e ai campi gl’illusi e i delusi che hanno assottigliato le vecchie famiglie per inseguire i miraggi cittadini del salario in contanti e del facile divertimento”.

Antonio Tosi, Sulle appartenenze sociali nella città moderna, in Atti della Tavola Rotonda di studi urbanistici: Vita e Nuove Forme della Città, Centro di cultura dell’Università Cattolica, Passo della Mendola, 27 agosto - 1 settembre 1965

1. La sociologia urbana è in crisi. Nata in una prospettiva antiurbana giustificata sulla base dei pregiudizi degli intellettuali e dei disagi dei primi inurbati, si trova oggi a disporre di schemi inadeguati: proprio nel momento in cui la città ha raggiunto una dominanza che mai nessuna società aveva visto. Gli stereotipi sulla città vengono demoliti uno dopo l’altro, insieme ai loro correlati scientifici: soprattutto vengono attaccate alcune formulazioni ottenute deduttivamente dalla scuola psicosociale (Simmel e Wirth ne sono gli esponenti più noti e quindi più suscettibili di diventare i capri espiatori) e alcune conclusioni che i cultori della human ecology avevano ricavato dalla loro grande costruzione ideologica. Ma la mancanza di una teoria, o quanto meno di una impostazione metodologica capace di far pervenire ad una teoria, mette i moderni combattenti della crociata contro gli stereotipi nella condizione di poter alimentare altri stereotipi; l’accumulazione di ricerche empiriche non integrate teoreticamente può opporre al mito della città divoratrice di uomini il mito opposto, e altrettanto indimostrabile, della città come luogo di un progresso automatico. Che la conoscenza della città possa progredire attraverso queste vie è per lo meno discutibile.

Le proposizioni ricorrenti a proposito del tipo di rapporti sociali che caratterizzano la città insistono, riallacciandosi alla tradizione psicosociale, sull’impersonalità, l’isolamento, il declino delle appartenenze primarie, la dominanza delle organizzazioni formali accentuando in genere le connotazioni negative di questi caratteri.

Urbanisti fermi alla “sociologia” di Mumford, recenti critici della società di massa, nostalgici della piccola comunità e prefiguratori di partecipazioni democratiche “di base “, ecologi incapaci di abbandonare i loro postulati antisociologici, tutti si sono affezionati ad una serie di proposizioni circa l’interazione in ambiente urbano che vengono solitamente imputate a Wirth. É soprattutto per questo consenso sul riferimento che prendiamo l’avvio da Wirth: anche se è doveroso precisare che in realtà le proposizioni wirthiane erano di tipo ipotetico: prudenti e molto meno ruralistiche e pessimistiche di quelle dei suoi seguaci.

Il vantaggio della formulazione wirthiana consiste nella sua preoccupazione di mettere in rapporto il sistema di organizzazione sociale urbano - il tipo di rapporti sociali e di istituzioni - con un tipo di base demografica, una tecnologia e un ordine ecologico da una parte, e con un set di atteggiamenti, idee e costellazioni di personalità dall’altra. L’urbanesimo è dal punto di vista demografico emergenza di comunità infeconde ed eterogenee. Sul piano dell’ordine sociale è sostituzione di contatti secondari a contatti primari, cui si accompagna un indebolimento dei legami di parentela, il declino del significato del vicinato, il venir meno delle basi tradizionali di solidarietà sociale, il trasferimento di attività industriali, educative e ricreative ad istituzioni specializzate; cui si accompagna, dal momento che l’azione individuale è inefficace e l’efficienza si raggiunge solo in gruppi, una moltiplicazione di associazioni volontarie, La moltiplicazione del numero di persone in interazione, che rende impossibile contatti pieni tra persone, ha conseguenze sulla personalità e il comportamento collettivo urbano: la personalità urbana – “schizoide” - intrattiene contatti impersonali, superficiali, transitori e segmentali, che conducono alla riserva, all’indifferenza, ad una prospettiva blasee e all’immunizzazione del proprio io contro le richieste degli altri. La superficialità, anonimità, e carattere transitorio delle relazioni sociali urbane rendono conto della sofisticazione e razionalità degli abitanti della città. La libertà dal controllo emozionale personale dei gruppi intimi li lascia in uno stato di anomia. A tutto ciò. si accompagna un aumento di disorganizzazione personale, malattie mentali, suicidio, delinquenza, corruzione, disordine.

2. Si tratta, come è noto, di ipotesi sostenute da diverse ricerche empiriche (che peraltro non giustificano il pessimismo con cui molti le propongono). Ma, soprattutto recentemente, si è andato sviluppando negli Stati Uniti un cospicuo orientamento di ricerca che è risultato in una reinterpretazione della vita sociale urbana. Questa reinterpretazione, che in parte sembra contrastare con le ipotesi accennate, ha fondato la sua critica proprio su quello studio delle “appartenenze “ dell’abitante urbano su cui i teorici della disorganizzazione sociale avevano costruito le loro ipotesi. É interessante, anche se il tentativo comporta il rischio di grosse semplificazioni, riassumere i risultati di queste ricerche:



a) i rapporti primari. L’appartenenza a gruppi informali è nella città fenomeno quasi universale: soltanto un piccolo segmento della popolazione è privo di tali appartenenze. In particolare è pressoché universale l’amicizia, fuori da ogni contesto organizzativo: l’abitante urbano è raramente isolato del tutto da relazioni con amici singoli o circoli di amici. E forse ancor più importanti sono le relazioni parentali: la famiglia coniugale è di fondamentale importanza (l’abitante della città tende a spender la maggior parte delle sue serate nel seno della famiglia); e importante è perfino la famiglia estesa (le visite a parenti sono il tipo più corrente di “riunione”; inoltre queste relazioni vanno al di là delle chiacchiere occasionali: l’aiuto reciproco tra i membri di una famiglia estesa sembra essere una risorsa molto importante per la famiglia singola);



b) la partecipazione formale. A parte la partecipazione religiosa gli abitanti della città appartengono ad una sola - o a nessuna - associazione. Gli individui di basso e medio livello sociale appartengono al massimo ad un’altra associazione (di solito connessa al lavoro per gli uomini, ai bambini o alla religione per le donne): soltanto nei livelli superiori si trova spesso colui che appartiene a molte associazioni. Se poi si studia la frequenza alle attività associative, si trova che una cospicua quota di appartenenze è costituita da “appartenenze di carta”;

c) l’appartenenza locale. La situazione è a questo proposito molto più differenziata. Per il vicinato la gamma varia da aree locali in cui molte persone sono “intensi vicini”, ad altre in cui la maggior parte della gente conosce appena alcuni dei suoi vicini. Il medio abitante della città ha alcune relazioni informali di vicinato, ma esse non sono per lui molto significative: egli apprezza molto il vicino che è “una brava persona e ti lascia stare”. Anche l’identificazione e la partecipazione alla comunità locale offrono una vasta gamma di situazioni: tuttavia se la maggioranza delle persone identificano la loro area di residenza come “la loro vera casa”, coloro che preferirebbero vivere altrove, possono variare da una percentuale minima a più di metà dei residenti in una determinata area.

Queste tendenze nell’importanza e nell’attribuzione di significatività alle proprie appartenenze suggeriscono l’infondatezza di due importanti ipotesi della sociologia urbana tradizionale, che si reggevano sulla convinzione che nella città i rapporti sociali fossero soprattutto organizzati e formali:

a) con il declinare della comunità primaria e del vicinato ci si aspetta che l’amicizia sia più strettamente correlata all’organizzazione di lavoro: le ricerche citate mostrano invece che i compagni di lavoro costituiscono una parte minore delle relazioni primarie dell’individuo quando egli è fuori dal lavoro. In generale le relazioni di lavoro sono isolate dalla partecipazione primaria libera dell’abitante urbano;

b) contrariamente a quanto ci si può aspettare, la partecipazione culturale al divertimento organizzato è poco importante per gli adulti urbani. La maggior parte di essi partecipa con moderata frequenza a manifestazioni ricreative di massa (in concreto si tratta soprattutto di spettacoli cinematografici): la vera importanza dei mezzi di divertimento di massa è nella casa. Televisione e radio sono estremamente importanti, ma nel contesto della partecipazione familiare.

Se questi sono i risultati relativi a settori molto urbanizzati della città americana, ricerche condotte in altri Paesi rilevano un’analoga importanza delle appartenenze primarie di contro ad una debolezza di implicazioni in organizzazioni formali. Certamente se passiamo dalla situazione americana ad altri contesti culturali in cui il processo di urbanizzazione si è sviluppato secondo modalità diverse o non ha ancora raggiunto punte estreme, le conclusioni di Greer richiedono di essere per lo meno specificate: in nessun caso tuttavia è possibile sostenere che l’isolamento, l’anomia, e la formalizzazione dei rapporti siano i caratteri tipici della vita sociale urbana.

Uno studio di Oeser e Hammond a Melbourne ci offre un quadro simile a quello descritto da Greer: l’ordine sociale della città australiana è centrato sull’unità d’abitazione monofamiliare, sulla famiglia coniugale, parenti selezionati, il lavoro, e i mass media, questi ultimi consumati in casa. Le ricerche del Center for Urban Studies e soprattutto quelle dell’Institute of Community Studies arrivano a risultati convergenti per diversi quartieri di Londra: a Pimlico viene scoperta un’organizzazione sociale strettamente intessuta che è “proprio l’opposto dell’immagine scolastica dell’anomia urbana”; a Bethnal Green, Young e Willmott trovano la “famiglia estesa” e una ricca vita locale: gli abitanti sono “attaccati a mamma e papà, ai mercati, ai pubs e al quartiere, al Club Row e al London Hospital”, l’accentuazione del legame madre-figlia produce un tipo di three-generation family,. la scoperta di situazioni simili in quartieri diversi quanto a collocazione nell’area metropolitana e a caratterizzazione socio-economica e culturale, convince Willmott che non si tratta di persistenza anacronistica di vecchie forme di vita sociale, ma di tendenze generalizzabili.

Una ricca vita sociale, centrata sui rapporti parentali e di amicizia, e in molti casi comprendente una intensa vita di vicinato, si può rintracciare in diversi quartieri di Parigi e di altre città francesi. Ipotesi simili sembra si possano avanzare anche per la situazione italiana, anche se le ricerche in, proposito sono per il momento insufficienti per permettere adeguate generalizzazioni.



3. Questi pochi cenni bastano a mostrare come, nelle città, la vita di relazione sia centrata su intensi e frequenti rapporti personali -soprattutto con i parenti e gli amici -e suggeriscono la possibilità che, all’interno di questa generale tendenza, si possano riscontrare importanti differenze entro una società e tra diverse società. E’ però opportuno, prima di provvedere all’individuazione di alcune differenze culturali che qualificano la generale ricchezza di rapporti interpersonali entro la città, richiamare alcune ragioni storiche della nascita e della sopravvivenza degli stereotipi sull’anomia, l’isolamento, il significato dei rapporti formali, e i loro presupposti logici: e quindi la loro eventuale capacità di descrivere entro certi limiti alcune situazioni storiche e culturali particolari.

Nel definire la città alcuni dei primi studiosi antiurbani ricorrevano a termini negativi, concettualizzando l’urbano come il non-rurale: si parlava di anomia, indebolimento del gruppo primario, ecc. Queste definizioni, oltre a riflettere nostalgie ruralistiche, assumevano che ciò che è astratto e impersonale non è reale ( per cui reale è il legame che consiste nel salutare il vicino, e non lo spartire con lui, magari senza saperlo, un pregiudizio contro i meridionali). Oggi, con lo sviluppo dell’urbanesimo, la definizione negativa è insufficiente, in quanto è la cultura urbana quella dominante, e questa cultura è condivisa anche dai sociologi. Ma il pensare alla città in termini negativi continua a pesare sulla sociologia urbana favorendo l’errore logico antico: teorizzare sul fatto che nella città sono assenti alcuni caratteri (per di più mitizzati) della campagna.

Molti dei concetti teorici impiegati erano, in parte a causa dell’errore precedente, tali da frapporre enormi difficoltà alla possibilità di verifica. Due di essi, il concetto di continuum rurale-urbano e l’ipotesi secondo cui i caratteri dell’interazione urbana dipendono principalmente dalla dimensione e dalla densità dell’aggregato ( espresse in termine di popolazione ) erano fondamentali per le impostazioni sotto esame: ed entrambi sono da tempo sottoposti a severe critiche di carattere metodologico. Si trattava di impostazioni che procedevano per “tipi ideali”, ma con una certa tendenza a reificarli: ne risultava un postulato di incompatibilità tra tipi “opposti”, così che ci si aspettava che in una società caratterizzata da rapporti secondari non vi fosse posto per rapporti primari. Sembra certo che questo uso improprio della categoria “tipo ideale” fosse connesso a quell’atteggiamento ideologico, sostanzialmente antiurbano, che incoraggiava a interpretare la situazione presente sul metro di una situazione passata (idealizzata).

Goode lo mette chiaramente in rilievo a proposito delle teorie sulla famiglia moderna. È probabile che molti errori nell’interpretazione delle trasformazioni della famiglia siano imputabili alla tendenza a misurare il cambiamento sulla base di un tipo ideale del passato. Secondo Goode la famiglia classica della nostalgia occidentale è un mito. Così come la famiglia coniugale è un tipo ideale: abbiamo visto che in Inghilterra e negli Stati Uniti la famiglia delle classi meno elevate -probabilmente la meno estesa delle famiglie - riconosce un campo di parentela più largo di quello che si inscrive nell’unità nucleare. E almeno sotto questo aspetto il modello di tipo ideale non riesce a render conto della realtà e della teoria sociale: i legami tra certe categorie di parenti sono così forti che il sistema familiare “ non può essere limitato alla unità nucleare senza l’impiego della forza politica». La contrapposizione tra i due tipi per misurare la trasformazione sulla base delle caratteristiche imputate al primo è anche responsabile delle ingiustificate apprensioni sulla crisi della famiglia: il pessimismo di coloro che, non ritrovando nella famiglia moderna alcuni lineamenti cui erano abituati, ritenevano che fosse la famiglia a sparire e non quei lineamenti, si fondava su quell’atteggiamento retrospettivo cui abbiamo accennato.

Certamente nel processo di urbanizzazione si possono individuare degli aspetti negativi: soprattutto in un processo di urbanizzazione rapida o in generale nelle prime fasi del processo, è facile notare manifestazioni patologiche. È la città di queste prime fasi - quella in cui slums, delinquenza e malattie sono più frequenti - che gli antichi sociologi urbani prendevano come base della loro teorizzazione. Essi non conoscevano la città dei suburbia, del baby-boom e del benessere, su cui teorizzano i sociologi urbani revisionisti: è insomma possibile che le divergenze tra pessimisti e ottimisti dipendano in parte da differenze nei rispettivi oggetti di studio.

Tuttavia il problema non è così semplice. Perché, vi abbiamo accennato, è in certe caratteristiche metodologiche che va ricercata la peculiarità delle ipotesi della vecchia sociologia urbana. Certo nelle prime fasi dell’urbanizzazione la città può essere più facilmente descritta nei termini delle vecchie ipotesi: ma è la “idealizzazione” (negativa) di questo tipo di città che diventa discutibile. Dubbi sul pessimismo relativo alla città erano già stati sollevati dagli inizi: studiosi come Adna Weber non erano affatto convinti che la città portasse alla rovina morale. Gli stessi ecologi classici credevano all’esistenza di processi anabolici-catabolici e di successioni alternate di processi di disorganizzazione e organizzazione.

Ma era la disorganizzazione che in definitiva veniva sottolineata: sul piano metodologico si assumeva che non un’organizzazione, ma la disorganizzazione sociale esisteva nella città, e come conseguenze della disorganizzazione venivano interpretati i fenomeni urbani. A parte gli errori metodologici che di fatto erano presenti in tale tipo di analisi, ci interessa qui mettere in rilievo come la teoria della disorganizzazione sociale si fondasse su una particolare concezione derivata da Cooley e Mead dei legami tra rapporti sociali e stati psicologici. Si assumeva in particolare che l’assenza di “stretti” rapporti con gli altri portasse ad un io ambiguo e a uno stato psicologico confuso, e che una rete di rapporti sociali poteva essere mantenuta solo se si mantenevano stretti rapporti sociali fondati su stati psicologici stabili. Poiché gli abitanti della città - soprattutto delle aree centrali - non avevano stretti rapporti sociali, ma quei rapporti “formali” che, non essendo “reali”, non erano capaci di produrre una rete di appartenenza consistente e quindi un io consistente, essi dovevano essere particolarmente esposti a malattie mentali, al suicidio, ecc. Il pessimismo degli studiosi della città si rivolgeva all’aspetto trasformante del processo di urbanizzazione - quello che privava gli abitanti della città dei loro rapporti - ed era particolarmente accentuato in quanto particolarmente profonde erano le trasformazioni che essi osservavano.

Ma ben presto divenne chiaro che non il processo di urbanizzazione in sé, con la sua azione trasformante, provoca conseguenze negative, ma il modo in cui il , processo viene affrontato. Non la trasformazione, ma la trasformazione inattesa sconvolge i processi psicologici. Una trasformazione “ordinata” può sostenere una particolare struttura sociale piuttosto che distruggerla. Nei Paesi sottosviluppati - nota un rapporto delle Nazioni Unite - molte delle cosiddette conseguenze dell’industrializzazione (e dell’urbanizzazione) non sono le conseguenze dell’industrializzazione stessa, ma piuttosto della preservazione - o della tentata preservazione - di modi di vita preindustriali in un ambiente estraneo e inappropriato. In definitiva la negatività con cui il processo di urbanizzazione si manifesta è inversamente proporzionale alla capacità di affrontarlo: dipende dall’attrezzatura sociale di cui la società dispone, e in particolare dai modi di orientamento in essa diffusi.

Di conseguenza il pessimismo sul processo di urbanizzazione in sé - per quel che riguarda i rapporti sociali e gli stati psicologici connessi - non si giustifica. La ragione è duplice. Innanzitutto quella semplice relazione tra stati psicologici e struttura sociale, tra mancanza di rapporti stretti e ambiguità dell’io, non è necessaria: i moderni studi sulla struttura sociale urbana lo dimostrano abbondantemente. Inoltre non è neppur vero che nella città i rapporti sociali “stretti” sono scarsi: ed è l’illustrazione di questo secondo aspetto che costituisce l’oggetto del- la nostra discussione. Già Whyte aveva mostrato come gli abitanti degli slums fossero tutt’altro che privi di rapporti sociali significativi. In seguito - ne abbiamo accennato - le ricerche che hanno contestato l’anomia e l’isolamento degli abitanti della città si sono moltiplicate. Sulla base di queste ricerche è facile mostrare che nelle città i rapporti personali sono estremamente intensi e significativi per la maggior parte degli abitanti; si configurano secondo modalità in parte coincidenti, in patte diverse rispetto al passato; sono inseriti in un mondo di organizzazioni e si caratterizzano in relazione ad altri tipi di appartenenze; e soprattutto l’equilibrio tra i diversi tipi di rapporti sociali varia enormemente secondo le situazioni e i gruppi sociali svelando l’enorme differenziazione della realtà urbana. Mentre la vecchia sociologia urbana si riferiva alla città come ad un’entità omogenea limitandosi ad individuarvi la “presenza” o la “assenza” di certi caratteri.



4. Le appartenenze sociali degli abitanti della città assumono diverse configurazioni secondo il grado di urbanizzazione che una società o un suo settore ha raggiunto. Inoltre le configurazioni variano con le diverse caratteristiche strutturali e culturali delle diverse aree urbane o di loro settori. Sotto questo secondo aspetto le differenze possono essere considerate indi- pendenti dal grado di urbanizzazione, anche se questo è di per sé una variabile culturale, e anche se le differenze interne ad una società emergono con chiarezza nelle fasi più avanzate del processo di trasformazione: quando la società è divenuta “urbana” e il confronto - piuttosto che con il “rurale” - diviene sempre più confronto tra diversi tipi di “urbano”.

Nota Axelrod che a Detroit “l’appartenenza e la partecipazione a gruppi formali non erano distribuite casualmente nella popolazione, ma erano correlate a quelle che son considerate alcune delle caratteristiche fondamentali e differenziatrici nella nostra società”.Osservazioni analoghe vengono fatte praticamente da tutti coloro che studiano le appartenenze sociali. Secondo Chombart de Lauwe gli abitanti della città “sono divisi in più possibilità di scelta nelle loro relazioni. Un equilibrio deve stabilirsi tra i rapporti di vicinato e i rapporti di parentela, i rapporti di lavoro, e le amicizie elettive che costituiscono reti più o meno importanti secondo le famiglie”: secondo l’importanza che si attribuisce all’una o all’altra scelta, o secondo la possibilità che si ha di trovare rapporti attraverso l’uno di questi canali, la comunicazione con gli altri uomini prende una figura particolare. Tra i più importanti caratteri che selezionano, in funzione di un particolare equilibrio, i rapporti sociali di una persona o di una famiglia sono il suo status sociale ( espresso soprattutto in termini di reddito e istruzione) , la sua età, il suo sesso.

In relazione ai rapporti primari con parenti e amici i fattori di differenziazione agiscono sul contenuto dei rapporti più che sulla loro quantità. Fermo restando il fatto che i rapporti con amici e parenti sono frequenti e significativi per qualunque categoria di abitanti della città, è possibile ad esempio che i membri delle classi elevate possano trovare più facilmente i loro amici tra i compagni di associazione. Greer ritiene inoltre che negli strati socio-economici superiori - dove l’amicizia è spesso strumentale per fini economici - gli amici possano coincidere maggiormente con i compagni di lavoro. La stessa possibilità viene proposta per le donne lavoratrici non sposate, per le quali il lavoro sostituisce la parentela come ambito sociale predicibile. Infine è probabile che gli amici ( specialmente i gruppi di amici) siano più importanti per i giovani che per altre classi di età per le quali la famiglia può essere più significativa. Per i rapporti con i parenti l’interpretazione è problematica: se da una parte molte famiglie operaie hanno stretti rapporti con i parenti, dall’altra è possibile che per esse la situazione vari notevolmente secondo il tipo di quartiere. Sembra credibile l’ipotesi di Vieille secondo cui soltanto le famiglie borghesi possono sempre intrattenere rapporti con la famiglia estesa, mentre le famiglie operaie possono essere costrette a limitare i rapporti alla famiglia coniugale e quindi a centrare gran parte della loro vita di relazione sui rapporti di vicinato.

L ‘implicazione in rapporti a base locale sembra più sensibile all’influenza dei fattori di differenziazione accennati. E’ probabile innanzitutto che le donne abbiano con i vicini rapporti più frequenti anche se spesso si tratta di rapporti superficiali e che ai bambini il vicinato fornisca un ambiente significativo per la loro educazione e socializzazione, e che di conseguenza in qualunque tipo di situazione le donne e i bambini costituiscano la base del mantenimento di una certa quantità di vita di vicinato nella città moderna. Ma è in termini di status e classe sociale che si spiegano le principali differenze nell’importanza relativa dei rapporti coi vicini rispetto ad altri tipi di rapporto. Gli studi citati che hanno rintracciato una più o meno accentuata importanza dei rapporti con i vicini in Inghilterra, in Francia e in Italia, sono ricerche su aree abitate da popolazioni a basso livello socio-economico: soprattutto in Francia gli studiosi della vita sociale della città sembrano concordi nel ritenere che le relazioni di vicinato sono molto più sviluppate negli ambienti operai, mentre le classi borghesi sono più orientate verso amicizie elettive. La stessa tendenza, per motivi che vedremo, non sembra riscontrabile negli Stati Uniti, dove, in particolare, l’identificazione con l’area di residenza e la partecipazione in essa alle attività associative possono essere maggiori in aree di medio o alto livello socio-economico.

Soprattutto è la partecipazione ad attività associative che mostra una forte dipendenza dai fattori di differenziazione accennati. Fermo restando che appartenenza e partecipazione in associazioni sono relativamente scarse in qualunque categoria di abitanti della città, sesso, età e status sociale selezionano i tipi e le dimensioni dell’implicazione associativa: è possibile che i giovani siano più orientati ad attività ricreative che “politiche” e le donne, la cui attività associativa è in assoluto più scarsa di quella degli uomini, si orientino di preferenza ad attività in associazioni religiose, caritative, educative (e quindi tendenzialmente più localistiche); mentre tra le appartenenze più diffuse presso gli uomini vi sono quelle connesse al lavoro (soprattutto appartenenze a sindacati). Ma soprattutto è dallo stato sociale che dipende la partecipazione ad associazioni: sembra che l’appartenenza e l’impegno aumentino passando dagli strati inferiori a quelli superiori (definiti in termini di reddito, professione, istruzione). In particolare presso gli strati socio-economici superiori sono più diffusi i membri “attivi” egli appartenenti a più associazioni (appartenenze multiple).

In sostanza possiamo concludere che l’abitante della città trova tra le sue appartenenze sociali un equilibrio che varia secondo l’età, il sesso, lo status sociale. É soprattutto il ruolo dello status sociale che è stato individuato con chiarezza: in generale le persone di status elevato partecipano ad attività formali (connesse al lavoro e al tempo libero) più di quelle di status modesto che sono coinvolte in modo più significativo in reti informali di vicinato. Più problematica appare la dipendenza dalle variabili accennate dei rapporti con amici e parenti, che sono comunque frequenti e significativi per qualunque categoria di abitanti delle città.

5. Se vogliamo rintracciare i fattori specifici che spiegano la relazione tra categoria sociale (soprattutto lo strato sociale) e l’equilibrio tra appartenenze (lo vediamo in particolare a proposito dell’importanza dei rapporti con i vicini e della partecipazione locale) , è necessario prestare attenzione alle opportunità concrete di cui le diverse categorie dispongono. Tra di esse la configurazione del tempo libero e l’accesso ai mezzi di trasporto sono stati spesso indicati come significativi: una miglior collocazione o una maggior disponibilità di tempo libero o il possesso di un’auto aumentano la libertà di scegliere le proprie relazioni al di fuori del vicinato. Éevidente che queste ed altre opportunità sono diversamente distribuite tra le diverse categorie sociali, come diversa è d’altra parte la distribuzione di interessi e valori culturali che, in parte correlate con le opportunità, dovrebbero giocare nella scelta delle relazioni sociali.

Sono ancora Chombart de Lauwe e Greer che riferiscono a differenze culturali le differenze nell’equilibrio tra le appartenenze sociali. Greer suggerisce che i modi di vita delle popolazioni urbane sono differenziate lungo un continuum che va da un modo di vita “familistico” ad uno “urbano”. A quest’ultimo corrispondono vicinati in cui predominano persone singole, coppie senza figli, e famiglie con un figlio; all’estremo opposto troviamo unità di abitazione monofamiliari abitate da famiglie con diversi figli, dove il ruolo della donna è quello di moglie e madre invece che di partecipante alla forza di lavoro. Tra i due vi è una gamma di tipi intermedi. I due tipi non si differenziano quanto all’equilibrio tra appartenenze primarie e secondarie, ma piuttosto quanto al significato dell’area locale: nei vicinati familistici vi sono più rapporti di vicinato e maggior partecipazione (formale) locale; anche se - come vedremo - in nessun caso si stabiliscono quelle comunità primarie a base locale che alcuni teorici della partecipazione ritengono, o ritenevano, ideali.

Per Chombart de Lauwe vi è una evidente differenza culturale tra le famiglie operaie e quelle borghesi: una “divergenza di concezioni sulla solidarietà e la libertà”. Nei vicinati operai l’“apertura” è molto apprezzata: è più importante condividere con i vicini le pene e le gioie della vita quotidiana che preservare quella privacy che invece per le classi borghesi, che si rivolgono piuttosto ad amicizie elettive, è un valore preminente.

Dopo quanto si è detto sulle “opportunità concrete” delle diverse categorie sociali, non è certo il caso di ipotizzare la superiorità di una mitizzata cultura operaia rispetto a quella borghese o viceversa, odi quella familistica su quella urbana o viceversa. Per Chombart de Lauwe le diverse “concezioni sulla libertà e la solidarietà” sono legate alle diverse condizioni di vita; tra le quali egli indica anche alcune costrizioni materiali: nei quartieri operai i rapporti di vicinato sono imposti dalle difficoltà della vita quotidiana e dai costi dei mezzi di trasporto. Con l’elevazione dei livelli di vita i rapporti di vicinato diminuiscono fino a divenire praticamente inesistenti nelle famiglie borghesi: anche in queste classi però le amicizie non sono propriamente di elezione, ma sono rigidamente discriminate da proibizioni familiari, di casta, di classe. Si può ben dire che se le famiglie borghesi sono sfuggite alle imposizioni del vicinato, le loro relazioni sociali incontrano altre costrizioni ed ostacoli. Altri autori francesi e italiani concordano nel ritenere che la vita di vicinato si associa spesso alla miseria e al bisogno. Quanto alla possibile superiorità del modo di vita familistico rispetto a quello urbano o viceversa, tutta la sociologia urbana statunitense non è che una documentazione dei difetti - dell’uno o dell’altro “stile”.

Se si insiste qui sull’importanza dei fattori culturali nel determinare l’equilibrio tra le appartenenze sociali dell’abitante della città è solo perché si ritiene che con l’avanzare del processo di urbanizzazione e l’attenuarsi delle costrizioni materiali, la futura realtà urbana sarà sempre più differenziata in base a fattori culturali (il comportamento delle classi borghesi sopraccennato lo testimonia). Avremo una società urbana in cui saranno presenti diversi comportamenti tutti altrettanto urbani differenziati secondo variabili culturali. Greer e Chombart de Lauwe ci hanno offerto due esempi di come i comportamenti si potranno differenziare.

6. A questo punto sorge una domanda che è di importanza fondamentale in molti problemi di politica urbana: se le differenze nell’equilibrio che una persona trova tra le sue appartenenze sia rapportabile a differenze nel tipo di unità residenziale (quartiere o vicinato) in cui vive.

Sia Chombart de Lauwe che Greer "concordano nel ritenere che la scelta delle appartenenze sociali fa parte di un modo di vita e dipende perciò da quei fattori culturali e strutturali che configurano diversamente i modi di vita per diversi settori della popolazione. Sorge perciò il problema di individuare qual.i siano le variabili, i tipi di raggruppamento, i livelli di aggregati che differenziano significativamente i modi di vita in relazione alle conseguenze che essi possono avere per la scelta di rapporti sociali. Ora, da quanto abbiamo detto, sembra probabile che per la configurazione delle appartenenze siano innanzitutto significative alcune grosse differenziazioni che si possono riferire alla società globale ( come le classi sociali) o al background sociale in generale (come il sesso e l’età): è possibile cioè innanzitutto individuare modi di vita tipici delle classi inferiori, o dei giovani, o delle donne ( con le relative differenzi azioni interne) e ritenere che ad essi siano associati tipici equilibri tra le appartenenze.

Questi modi di vita possono essere rintracciati presso i membri della categoria di cui sono tipici, qualunque sia il tipo di unità residenziale in cui abitano: e quindi in un certo senso sono indipendenti dal tipo di unità residenziale. Sembra tuttavia innegabile che il tipo di comunità, quartiere, o vicinato in cui una persona risiede -assumendo esso stesso certe sue caratteristiche strutturali e culturali -possa influire sull’equilibrio delle appartenenze degli abitanti attraverso fattori locali (non riducibili cioè alle caratteristiche sociali dei singoli abitanti o dei loro gruppi di appartenenza). In altre parole l’area locale, che è sede di rapporti sociali, può diventare fattore che concorre con altri a determinare i rapporti sociali.

I due autori citati possono concordare anche su questo punto. Greer riferisce esplicitamente i due modi di vita, che ritiene significativi per le appartenenze, ad unità residenziali, proponendo l’ipotesi di un continuum che va da vicinati familistici a vicinati urbani. Chombart de Lauwe, che pure ritiene significativa (tra le altre) una differenza culturale di tipo non-locale come è quella tra operai e borghesi, in concreto riferisce quasi sempre la distinzione culturale ad una dimensione locale, illustrando la vita dèi “quartieri” operai e dei “quartieri” medi. È questa tendenza a riferire continuamente i modi culturali ad aree di residenza che ci fa supporre che l’unità di residenza abbia essa stessa un ruolo nel determinare le appartenenze: che cioè le differenze di comportamento tra un operaio e un borghese possano non essere completamente determinate dal fatto che essi appartengono a diverse classi, ma anche dal fatto che abitano in diversi quartieri.

Perché l’abitare in un quartiere piuttosto che in un altro possa avere un peso sul comportamento sociale è evidente: un quartiere prima che un ambiente fisico è un ambiente sociale che ha una sua struttura e cultura. Struttura e cultura che dipendono prima di tutto dalla composizione sociale della popolazione: i diversi gruppi che abitano il quartiere portano in esso i loro valori e stili di vita (che condividono con i membri degli stessi gruppi che abitano altrove) , determinando una struttura e una cultura che possono secondo i casi favorire certi tipi di appartenenza o certi altri (ad esempio rapporti di vicinato piuttosto che amicizie elettive) che possono variare o meno per i diversi gruppi che costituiscono la popolazione del quartiere. In certi casi l’area locale può diventare, secondo l’espressione di Greer, “un fatto sociale oltre che una sede geografica di attività”: è il caso dei vicinati familistici. Tuttavia qualunque sia il risultato, la struttura e la cultura che si costituiscono (a volte si tratta semplicemente di assenza di cultura o struttura riferibili al quartiere come tale) condizionano socialmente e psicologicamente il comportamento degli . abitanti. Questo in ogni caso.

Per capire di che condizionamento può trattarsi basta pensare alle probabilità di comportamento di un operaio in un quartiere borghese e viceversa. Bell osserva che a San Francisco le persone con occupazioni “devianti” rispetto al vicinato sono più spesso isolate dai loro vicini: sono di più i white collars che non i blue collars che riferiscono di essere isolati dai vicini nei vicinati blue collars) mentre nei vicinati white collars avviene il contrario.Ovviamente il condizionamento non ha lo stesso significato e le stesse conseguenze per tutti i gruppi sociali che abitano il quartiere. Certi gruppi sociali (come gli strati inferiori, le donne e i ragazzi) possono avere un “modo di vita” che - non comprendendo tra l’altro l’accesso ai mezzi di trasporto privati - li rende più “passivi” rispetto al condizionamento del quartiere, qualunque sia la cultura dominante nel quartiere: spesso l’alternativa che viene loro offerta non è tra rapporti coi vicini o amicizie elettive, ma tra rapporti nel quartiere e isolamento.

Se si può ammettere che l’area locale può svolgere un ruolo nel determinare le appartenenze sociali degli abitanti, piuttosto equivoca e in definitiva insostenibile risulta quella formulazione del problema che vorrebbe riferire il comportamento sociale degli abitanti (e quindi le loro appartenenze) alle caratteristiche fisiche del quartiere. Certamente un quartiere è costituito da una popolazione che risiede in un certo ambiente fisico (con certe attrezzature, una certa disposizione degli edifici, ecc.): ma non è l’ambiente fisico che spiega il comportamento degli abitanti (se non come condizionamento “negativo”), quanto piuttosto la struttura e la cultura della popolazione residente che “definiscono” l’ambiente fisico. Per cui in definitiva il problema si ridurrebbe a quello precedente dell’influenza dell’ambiente sociale del quartiere.

Gans ha proposto un’utile distinzione tra ambiente potenziale e ambiente effettivo. La forma fisica e la collocazione spaziale sono soltanto un ambiente potenziale in quanto forniscono possibilità di comportamento sociale. L’ambiente effettivo - o totale - è il prodotto di quei modelli fisici più il comportamento della gente che li usa, che varierà secondo la loro struttura sociale e cultura. Per Greer non sono le caratteristiche dell’ambiente che rendono “fatto sociale” oltre che sede di attività l’area locale, ma la cultura familistica tipica di certe popolazioni con certe composizioni sociali.

É in questa luce che vanno interpretati i risultati di molte ricerche che trovano certe relazioni tra tipo di rapporti sociali e collocazione del vicinato nel modello spaziale dell’area urbana. Si tratta di risultati parzialmente contrastanti, in quanto secondo i casi si può trovare che i residenti nella città centrale tendono a limitare i loro contatti all’interno della città stessa, mentre i residenti nei sobborghi hanno spesso relazione fuori della loro città o che gli abitanti dei vicinati suburbani hanno un maggior interesse per il vicinato. L’apparente contraddizione si spiega se si pensa che entro un’area suburbana o centrale vi possono essere vicinati diversi quanto a tipo di popolazione.

Questa precisazione ci permette di fare un’ulteriore considerazione sui rapporti tra spazio e vita sociale. É opinione ormai corrente che nella metropoli è diminuito il significato della localizzazione nello spazio come fattore di differenziazione della struttura sociale urbana. L’attività sociale dell’abitante della città è selettiva: egli oltre che tra i vicini può scegliere le sue relazioni sociali tra la vasta gamma di raggruppamenti con cui entra in contatto. Come l’unità residenziale, anche l’unità di lavoro, le unità ricreative, ecc., hanno loro caratteri strutturali e culturali che concorrono con quelli dell’unità residenziale a configurare le appartenenze sociali dell’abitante della città che entra in contatto con essi: trattandosi di unità le cui basi territoriali non coincidono, o non sono identificabili, ne risulta una perdita di significato dell’area (quella residenziale in particolare) nel differenziare la struttura urbana. Anderson arriva a differenziare dai “vicinati di partecipazione primaria” quelli “di partecipazione secondaria” e a integrare il concetto di vicinato con quello di “rete” di conoscenza e amicizia: “un’astrazione che può essere usata con o senza la dimensione spaziale così necessaria al concetto di vicinato”.

L’emergenza, accanto a reti “a maglia stretta” di reti “a maglia larga” -quelle in cui le persone in relazione con una determinata famiglia possono non avere relazioni tra di loro -non è che un aspetto di una tendenza da tempo individuata: una minor “coerenza” delle reti di rapporti, cui si accompagna una maggior indeterminatezza del rapporto tra reti sociali e territorio.

In generale le reti di rapporti sociali tendono a sfuggire alla possibilità di essere identificate con delle basi territoriali, perché le trame dei rapporti si stabiliscono sulla base di interessi e attività che non hanno un preciso riferimento topografico. In altre parole lo spazio tende ad essere una risorsa piuttosto che fattore di rapporti sociali.

Per gli Stati Uniti la tendenza è efficacemente illustrata da Webber in questi termini: “Le comunità, con cui egli (l’abitante della metropoli) si associa e a cui egli “appartiene”, non sono più soltanto le comunità di luogo in cui i suoi antenati erano rinchiusi; gli Americani stanno diventando più strettamente legati a varie comunità di interesse che a comunità di luogo, interessi basati su attività occupazionali, divertimento, relazioni sociali, o desideri intellettuali. I membri di comunità d’interesse entro una società in libera comunicazione non hanno bisogno di essere spazialmente concentrati (tranne, forse, durante le fasi formative dello sviluppo della comunità d’interesse), perché essi sono sempre più in grado di interagire l’un l’altro dovunque essi siano localizzati. Questo impressionante carattere dell’urbanizzazione contemporanea sta rendendo sempre più possibile per uomini di tutte le occupazioni di partecipare alla vita nazionale”.

Se la localizzazione spaziale perde di importanza nelle aree metropolitane, è però probabile che l’affermarlo non abbia lo stesso significato per diversi tipi di società urbana. Così come, in parte per gli stessi motivi, non ha ugual significato affermare in Italia piuttosto che negli Stati Uniti che la struttura urbana tende a differenziarsi in base a fattori culturali, in base agli “stili di vita”. L’immagine della metropoli i cui abitanti sono in grado di “interagire l’un con l’altro ovunque essi siano collocati” descrive meglio Detroit o Los Angeles che Parigi o Genova.

Per Greer lo stile di vita è diventato il più importante fattore di differenziazione della struttura urbana. A tal punto che, se è vero che in generale i vicinati più urbani si collocano nella città centrale e quelli più familistici nei suburbia, si possono ormai trovare vicinati urbani nelle aree suburbane e vicinati suburbani nella città centrale. Ma la rilevanza dello stile di vita è emersa quando i suburbia sono diventati accessibili a popolazioni di status sociale meno elevato: quando cioè un numero cospicuo di individui è stato in grado di scegliere la propria residenza nel tipo di vicinato in cui gli fosse possibile vivere secondo il suo “stile di vita”, uno stile che implicasse rapporti con i vicini o uno stile che li escludesse, scontata però la possibilità di aver accesso a rapporti con l’esterno qualora lo si desiderasse. Queste sono condizioni in cui è probabile che le differenze culturali relative alla struttura urbana si configurino a livello di vicinati piuttosto che direttamente secondo raggruppamenti della società globale. Il continuum familistico urbano ovviamente suggerisce una distinzione tra unità locali piuttosto che tra raggruppamenti sociali più vasti.

Invece la distinzione culturale di cui si serve Chombart de Lauwe - quella tra stili borghesi e operai - richiama innanzitutto una distinzione tra raggruppamenti sociali globali. Essendo l’accessibilità entro le città francesi limitata (soprattutto per certi strati sociali) , assume maggior importanza da una parte la differenziazione culturale in base a variabili generali (soprattutto di classe), dall’altra la rilevanza dell’area locale come fattore di condizionamento (soprattutto per certe classi sociali).

Ci si può attendere in definitiva una certa relazione tra diffusione dell’ accessibilità (intesa sia come possibilità di scegliere l’area di residenza che si preferisce, sia come possibilità di scegliere le proprie relazioni fuori dell’area in cui si risiede: e quindi come “libertà” dalla collocazione spaziale) e tendenza delle differenze culturali significative per la strutturazione urbana a porsi a livello di unità locali piuttosto che di raggruppamenti della società globale.

7. L’ analisi delle appartenenze sociali ci mostra l’emergenza nelle aree metropolitane di alcune tendenze che rendono inadeguate alcune diffuse ipotesi sulla formalizzazione e l’anomia della vita sociale urbana. Alla luce dei risultati degli studi sulle aree metropolitane americane, Greer può concludere che “l’implicazione dell’individuo comune nelle organizzazioni formali e nelle amicizie fondate sul lavoro è debole in ogni tipo di vicinato, i mass media sono per lo più importanti in un contesto familiare, la partecipazione in circoli parentali e amicali è potente, ma quella con i vicini e i gruppi della comunità locale varia enormemente secondo le aree. Anche se popolazioni altamente urbanizzate non sono tipiche della maggior parte degli abitanti della città, quelle che esistono deviano largamente dallo stereotipo dell’uomo atomistico e in stato di anomia: essi vivono le loro vite in relativo isolamento dal vicinato, dalla comunità, e dalle organizzazioni volontarie, ma trovano una compensazione attraverso un’implicazione intensiva in relazioni primarie con parenti e amici”.

Nei vicinati meno urbani, è maggiore l’implicazione dei suoi residenti nelle organizzazioni volontarie e maggiore il loro interesse per il vicinato e la comunità locale e la loro partecipazione ad essi. L’area locale diventa un fatto sociale, oltre che una sede geografica di attività.

Il quadro che emerge è quello di una società in cui la famiglia coniugale è estremamente potente tra tutti i tipi di popolazione. “Questa piccola struttura di gruppo primario è un’area fondamentale di implicazione; all’altro polo c’è il lavoro,’ un massiccio assorbitore di tempo, ma un’attività che raramente ha relazioni con la famiglia attraverso amicizie esterne con i compagni di lavoro. Invece la famiglia, la sua parentela, e il suo gruppo di amici, sono relativamente liberi, entro il mondo delle associazioni secondarie di larga scala. Burgess ha messo in evidenza che l’indebolimento di una comunità primaria risulta in un aumento della relativa dipendenza degli individui dalla famiglia coniugale come sorgente di relazioni primarie; lo stesso principio spiega la persistente importanza della parentela estesa e la proliferazione delle amicizie strette nell’America urbana. Nella metropoli la comunità, come solida falange di amici o conoscenti, non esiste; se gli individui devono avere una comunità nel vecchio senso di comunione, se la devono fare da sé. Queste condizioni sono a un estremo nei vicinati altamente urbani, là amicizie e parentela sono, relativamente, molto importanti nel mondo sociale dell’individuo medio. In altri tipi di vicinato la famiglia si identifica di solito, sia pur debolmente, con la comunità locale i essa “fa vicini”, ma entro limiti ristretti. Più o meno, il gruppo della famiglia coniugale se ne sta da solo; al di fuori c’è il mondo - organizzazioni formali, lavoro, e la comunità”.

Può darsi che non si possa ancora vedere in questo quadro un’immagine adeguata della vita sociale di molte città europee: quello che è certo è che questa è la tendenza rilevabile dovunque. D’altra parte anche per le città americane Greer ritiene necessario distinguere tra “tipi” diversi. Sono le tendenze comuni verso certi tipi di rapporto e, entro queste tendenze, le differenziazioni relative a certi raggruppamenti sociali e a certe variabili culturali che ci descrivono la situazione della vita sociale urbana della nuova città e fanno emergere nuovi tipi di problemi.

Se il quadro precedentemente delineato è corretto, possiamo concludere che non sono la scarsità di raggruppamenti primari in rapporto a quelli formali o la scarsità assoluta di rapporti significativi a caratterizzare la vita sociale degli abitanti della città moderna, ma la particolare configurazione che le reti di appartenenza assumono nelle loro reciproche relazioni. La base territoriale delle reti di rapporti sociali tende, lo abbiamo visto, a divenire indeterminata. Inoltre, è stato notato, il sistema di relazioni sociali nella città tende a diventare “incoerente”. Osserva Anderson che, mentre i “membri di una comunità primitiva si trovano tutti più o meno nella stessa trama di relazioni, nella comunità moderna ogni individuo ha il proprio ambito di rapporti e, di conseguenza, una particolare concezione della comunità a seconda del lavoro, della mobilità, della classe sociale, dei gruppi cui appartiene, dell’età, delle tendenze cosmopolite. La comunità come ambiente ove si hanno gli stessi interessi e si trova il maggior adempimento della propria vita, ha un significato diverso perfino per persone della stessa famiglia”. Dalla comunità in una “prospettiva locale” - vi abbiamo già accennato - si passa alla comunità in una “prospettiva globale”: i contatti al di fuori della comunità si moltiplicano ed ogni comunità si trova in un intreccio di comunità, mediante la partecipazione al quale può elaborare una propria trama di rapporti forniti di un certo grado di identità: questa costituisce la globalità.

Gli antichi sociologi urbani si erano resi conto della complessità delle reti sociali in cui sono implicati gli abitanti della città. Questa complessità comporta un’eclissi dei tipi tradizionali di comunità: certamente per gli abitanti di uno stesso quartiere può mancare una rete di relazioni sociali “coerente”, una implicazione di strutture particolari entro una struttura di insieme, e una “presa di coscienza sufficiente per gli interessati dei legami che li uniscono”. Quello che ha generato l’equivoco è stato il ritenere che esistesse una relazione tra “inconsistenza” delle reti sociali e isolamento. Ma tale relazione non ha bisogno di essere assunta.

Se un isolamento esiste nella società urbana non c’è l’isolamento degli individui, ma l’isolamento tra le loro reti di appartenenza. Le relazioni di lavoro sono isolate da quelle per il tempo libero e da quelle familiari, quelle associative da quelle primarie. Inoltre le relazioni emozionalmente più significative - quelle personali, a livello di piccoli gruppi - si isolano dalle altre, privatizzandosi: e ciò proprio nel momento in cui le appartenenze pubbliche significative tendono a centralizzarsi configurandosi a livello di grandi collettivi (partiti, comunità nazionali, ecc.). Come risultato, le relazioni intermedie - comunità locali e associazioni - si indeboliscono quanto a partecipazione significativa e divengono sempre più appannaggio di determinate élites. Non è chi non veda a questo punto come la nuova configurazione delle appartenenze sociali riproponga vecchi problemi “politici” e ne imponga di nuovi.

8. a) Il vecchio problema dei raggruppamenti intermedi non può essere posto nei termini in cui lo proponevano i teorici della partecipazione, democratica “di base”, che vedevano nella caratteristica primaria di tali raggruppamenti la salvaguardia della democrazia. Se è vero che poche sub-aree urbane corrispondono all’anonimità e alla frammentazione dello stereotipo, ancor meno sono quelle che corrispondono al tipo di comunità primaria su basi locali o connessa ai raggruppamenti organizzativi tipici della società moderna: né le une né le altre costituiscono la regola nella società moderna.

In ogni caso le sedi dei rapporti primari sono private: la famiglia e gli amici. In nessun caso si costituiscono comunità primarie in senso tradizionale o nel senso auspicato dai teorici della democrazia dal basso (che avrebbero una qualificazione pubblica): perché nessuno dei maggiori segmenti organizzativi della società urbana né le organizzazioni volontarie sono in grado di fornire la base per tale comunità. E perché l’area locale è funzionalmente debole. Certamente la struttura associativa locale varia secondo le situazioni. Negli Stati Uniti, secondo Greer è correlata al familismo, nel senso che meno urbano e più familistico è il vicinato, più vi è probabilità che si costituiscano rapporti primari su base locale (con i vicini): in questo caso la contiguità geografica, costituendo un campo per l’azione sociale, diventa la base di una interdipendenza, e poi di una partecipazione.

Nel caso di vicinati “localistici” o di settori di popolazione “localistici” (le donne, i bambini, e in certi casi gli strati inferiori) , o di problemi tendenzialmente locali (rapporti scuola-famiglia, attività per il benessere del quartiere, ecc.) , una azione a livello locale può essere più facilmente impostata e dare dei risultati. Purché si tenga presente che anche nei vicinati localistici quello che può emergere è pur sempre, secondo l’espressione di Janowitz, una community of limited liability: l’“investimento” dell’individuo è relativamente piccolo nella rete internazionale che costituisce il gruppo locale, e se le sue perdite sono troppo grandi, egli può uscirne tagliando i legami e la comunità non può trattenerlo. Quanto ai vicinati e ai settori sociali più urbanizzati, la popolazione è organizzata non in termini di comunità, ma in termini di organizzazione politica, mass media e cultura popolare. Con il progredire dell’urbanizzazione è probabile che l’organizzazione in termini di rapporti impersonali e astratti diventi la regola: nella società urbana i fuochi d’integrazione diventano sempre più l’organizzazione funzionale e l’articolazione di interessi attraverso le associazioni: con questi fuochi e con i mass media la partecipazione deve fare i conti.

Sul piano urbanistico, l’indicazione che può scaturire dalla situazione delineata è abbastanza semplice: non è necessario ipotizzare il livello locale come il livello privilegiato della partecipazione e dell’integrazione, con il rischio di indirizzare troppe energie partecipative ad attività di scarsa rilevanza politica: mentre è doveroso riconoscere la presenza di un nuovo valore presso settori sempre più vasti di popolazione, la libertà di avere relazioni sociali con chi e dove si preferisce. L’integrazione può essere raggiunta a livelli diversi dal quartiere, la partecipazione realizzata attraverso una gamma di strumenti teoricamente infinita.



b) Si sostiene comunemente che le associazioni volontarie in ambiente urbano sono sempre più importanti. Anche se diverse ricerche dimostrano che la loro importanza è minore di quel che si credeva, possiamo senz’altro condividere l’opinione corrente purché si chiarisca in che cosa consiste la loro rilevanza. Innanzitutto non si tratta di una loro capacità di essere strumenti di partecipazione locale, tranne come abbiamo visto nel caso di certi tipi di vicinati: a tal punto che Handlin le considera sotto questo aspetto una forma arcaica (dell’800 e del primo ‘900) di strumenti di azione sociale. Tanto meno le associazioni possono essere considerate importanti come luoghi di una partecipazione generale significativa. Lo abbiamo visto: la partecipazione ad associazioni è limitata ad una élite, costituita di solito da appartenenti a strati sociali piuttosto elevati quanto ad educazione e potere economico e a certe classi di età.

Possiamo allora ritenere che l’importanza delle associazioni in una società urbana consista semplicemente nel fatto che sono numerose, spesso grandi e dotate di un potere cospicuo. Se il numero di iscritti e partecipanti è limitato, vuol dire che la loro influenza - che può essere considerevole - si serve di reti di comunicazione che possono facilmente raggiungere i non-membri: si tratterà certamente di reti formali (in particolare. i mass media). Ciò non fa che confermare l’importanza particolare delle associazioni di grande dimensione. Sembra però che l’influenza delle associazioni possa contare anche su processi di comunicazione informale. Secondo Axelrod se la loro influenza diretta non tocca una grande parte della popolazione, la loro influenza indiretta può essere cospicua attraverso veicoli informali di comunicazione: “il men che massiccio carattere della partecipazione nelle organizzazioni formali suggerisce che nella misura in cui queste organizzazioni esercitano un’influenza persuasiva nella comunità urbana, ciò può avvenire attraverso i legami tra le loro minoranze di membri attivi da una parte e la sottostante rete di associazioni informali nella comunità nel complesso”: rete che abbiamo visto essere estremamente ricca.

Se l’importanza delle associazioni si pone in questi termini, è evidente che qualche dubbio può essere sollevato sulla loro capacità di essere strumento di democrazia: se le associazioni riescano a “distribuire il potere tra un gran numero di cittadini e a fornire un meccanismo sociale per il social change che si istituisce continuamente” o non siano piuttosto semi-organized stalemate che unificano una frammentaria e impotente base del sistema (americano) del potere, è problema ancora discusso tra i sociologi americani.

Non mancano importanti argomenti a favore del ruolo delle associazioni: diversi studiosi ne hanno indicato il contributo al funzionamento di un sistema democratico e hanno evidenziato i meccanismi che ne limitano le possibilità di abuso in senso antidemocratico. A noi interessa qui precisare il contributo che alla: soluzione del problema può portare lo studio delle appartenenze sociali: in particolare l’utilità di individuare le caratteristiche del joiner e di confrontarle con quelle dell’apatico, per mettere in evidenza come l’appartenenza e partecipazione a molte associazioni, è correlata con il livello sociale, l’età e il sesso, o l’area di residenza, che questa composizione potenzialmente conservatrice delle associazioni è aggravata dal fatto che le appartenenze sono in parte “multiple”, che le appartenenze sociali dell’apatico lo rendono suscettibile a certi tipi di rapporto con le associazioni, i suoi vertici, i suoi messaggi.



c) L’ enorme differenziazione che contraddistingue la vita sociale della nuova città aumenta la libertà dei suoi abitanti (soprattutto di alcuni di essi), ma acutizza certi problemi. In particolare, se è corretto individuare una tendenza all’isolamento tra le appartenenze e alla privatizzazione delle solidarietà, cui si accompagna una diminuzione generale della capacità di azione comune, possiamo aspettarci una minor capacità di difesa da parte dei settori più deboli della popolazione.

Può trattarsi di gruppi tradizionalmente deboli. Si pensi a quanto abbiamo detto a proposito delle opportunità concrete di relazioni sociali che la nostra società fornisce a certi strati sociali. In genere i gruppi socio-economici più bassi sono meno liberi dai condizionamenti della comunità definita fisicamente e geograficamente: secondo Duhl essi, piuttosto che usare l’ambiente fisico come una risorsa, “incorporano l’ambiente nell’io. La comunità ecologica per questo strato della società è, in effetti, il mondo”. Oppure si pensi a problemi nuovi, come l’ineguaglianza nella funzione di tempo libero da parte di diversi settori della popolazione, o la probabilità per certe categorie, come i vecchi, di diventare oggetto di vere e proprie segregazioni.

Ma sono soprattutto i recenti prodotti della metropoli che provocano problemi la cui soluzione appare più imprevedibile. Molti degli abitanti della città sono più liberi, ma devono ora fare i conti con un embarassement of freedom. È ancora Greer che ci illustra il fenomeno nei suoi aspetti problematici: nei suburbia “la maggior parte delle persone .. sono i discendenti, e sotto certi aspetti, gli equivalenti degli analfabeti di un centinaio d’anni fa. Essi non hanno ne gli interessi investiti nella comunità, né la tradizione di partecipazione responsabile nella vita della comunità politica. E hanno una gran libertà dalla partecipazione forzata nel lavoro. La esercitano foggiando i tipici modelli di vita cui abbiamo accennato, evitando le organizzazioni, mantenendo educatamente superficiali rapporti con i vicini e con i leaders della comunità locale, evitando i compagni di lavoro fuori del lavoro, orientandosi"verso le serate, i week-ends, e le vacanze, che spendono in famiglia, viaggiando, guardando la televisione, chiacchierando e mangiando con amici e parenti, e coltivando il giardino”.

Nota: il testo di Antonio Tosi, completo delle ricche note e riferimenti bibliografici (qui omessi per motivi di spazio) è scaricabile in file PDF (f.b.)

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La necessità di perfezionare le armi per la difesa delle bellezze naturali italiane, che è la difesa del sacro volto della patria, si è manifestata in questi ultimi tempi sempre più urgente e viva man mano che la vita moderna ha reso più intenso il suo ritmo in due ben diverse, ma tra loro complementari, manifestazioni: man mano cioè che lo sviluppo urbanistico, gli impianti di officine, la formazione di vie, di cave, di muri di sbarramento, gli invasi di acque per utilizzazione di forza motrice e simili altre opere hanno creato problemi nuovi e suscitato formidabili interessi economici; man mano che, d’altro lato, quasi come reazione contro questa vita meccanica, si è sviluppato vivace nel popolo il sentimento della natura, il desiderio del ritorno alla visione serena delle cose belle e grandi prodotte da Dio.

È stato detto che questa nuova tendenza dell’anima umana a comprendere il linguaggio, or semplice ora arcano, delle bellezze primitive della creazione - la poesia dei monti e dei mari, degli aperti orizzonti o delle rupi paurose, degli alberi e dei prati fioriti - sia stata un prodotto del romanticismo del secolo scorso; e si citano i passi del Goethe, del Byron, del Novalis, dell’Hölderlin, del Ruskin e di tanti altri. Io non lo credo, e penso piuttosto che la letteratura siasi sostituita col suo artificio alla spontaneità del sentimento naturale, quasi direi dell’istinto, che era proprio dei periodi precedenti. Me ne persuadono i confronti con le altre arti, come l’architettura e la pittura. La prima ha trovato sempre, fino all’Ottocento, nelle case, nei palazzi, nelle ville, senza che occorressero leggi e sanzioni, i diretti rapporti con l’ambiente, come se gli edifici fossero cosa naturale, sorti insieme con le colline, con le rupi ed i boschi. E quanto alla pittura, non è assai più vivo e sentito il paesaggio dipinto quando nei quadri di Sandro Botticelli, di Leonardo o di Giorgione o del Francia, forma sfondo luminoso alle figure, quasi a compenetrarsi col soggetto, che quando acquista valore a sé di accademia paesistica e diventa o inadeguata composizione o inadeguata copia?

In un egual modo lo spirito moderno è intervenuto a definire, ad analizzare col raziocinio quello che era dapprima intuitivo ed a dare forma filosofica ai rapporti che legano le concezioni dell’uomo al mondo esterno che lo circonda, alla natura lieta o triste in cui vive, all’atmosfera che respira. Ma il sentimento del popolo non si è formato per questa via ed è rimasto schietta aspirazione dell’animo, acuita dalle restrizioni della vita cittadina.

Carton de Viart, l’eroico presidente dei ministri della resistenza belga dell’ultima grande guerra, così ebbe mirabilmente a dire [1] in un suo scritto intitolato Le droit à la joie: “Quando gli uomini pensano alla patria, non ad una grande assemblea di uomini neri e rumorosi gesticolanti sotto i lampadari parlamentari essi rivolgono il pensiero, ma alle vaste estensioni di campi e di boschi, alle ondulazioni delle colline, alle acque correnti, ai villaggi sparsi sulle strade, al fumo dei casolari che sale nella pace della sera. A questi segni sensibili si riannoda quasi istintivamente l’amor della patria, il ricordo delle sue glorie e delle sue sofferenze, il rispetto delle sue tradizioni. Più la visione sembrerà bella, più cara sembrerà la patria di cui è l’immagine”.

Così la carità del natio loco si unisce al sentimento della bellezza per determinare una vera religione dei caratteri naturali del patrio suolo. E gli artisti ne sono i più diretti sacerdoti, a qualunque tendenza appartengano, da qualunque ismo siano definiti, nella comprensione e nell’affetto verso quelle che sono le fonti pure ed inesauribili del genio artistico sono essi tutti concordi.

Non dunque in ragioni ideali la difesa delle bellezze naturali trova seria antitesi, ma spesso nelle esigenze positive, di cui si è testé dato cenno, della meccanica civiltà moderna; e queste sono talvolta così essenziali da determinare la necessità di transazioni od anche di ripiegamenti, come di un assediato che si riduce a difendersi in una cittadella - così, ad esempio, quando una città si sviluppa ed invade necessariamente la campagna circostante, o quando la utilizzazione dell’energia idraulica porta a sopprimere od a limita,e cascate d’acqua od a chiudere valli con dighe di sbarramento. Assai più spesso il contrasto è con la ignoranza, con la superbia c la neghittosità di tecnici che non voglion studiare soluzioni più agili e vive e talvolta anche più utili, con l’interesse privato di speculatori di terreni, i quali non sentono, o fingono di non sentire, che quello che conta nella vita moderna, quello che il nuovo Codice fascista esprime nel suo primo articolo, è l’interesse collettivo, di contro al quale il jus utendi et abuttendi va limitato od addirittura escluso. Nella mia opera trentennale di difensore del patrimonio di Arte e di bellezza del nostro paese, quante volte mi è riuscito di conciliare quello che sembrava inconciliabile, mutando opportunamente la posizione di un bacino montano, facendo spostare fabbriche progettate che avrebbero chiuso visuali o distrutto alberature, dando diverso ordinamento di planimetrie e di altezze a gruppi edilizi, suggerendo adatte colorazioni di pareti e di tetti, od anche mascheramento mediante piante rampicanti! Talvolta modesti espedienti, e talvolta avviamento verso un nuovo ordine di utilizzazione, hanno potuto salvare e perfino maggiormente valorizzare bellezze naturali di alto interesse, le quali, a veder bene, non sono soltanto elementi di un mirabile patrimonio nazionale, caro allo spirito, ma anche materia prima di quella nostra grande industria che è il turismo.

Tutto questo tuttavia richiede di avere le possibilità di revisione e di veto date dall’autorità di una legge.

Ma io penso che non ci possa essere in tutto il giure un argomento più arduo a tradursi in disposizioni positive e ad avere regolare applicazione di questo, che vuol definire come oggetto preciso ciò che spesso è indefinibile (ricordate l’aforisma dell’Amiel per cui “il paesaggio è uno stato dell’anima”) e deve non limitare più di quanto sia necessario il sacro diritto di proprietà, e fa capo nel giudizio a due entità che nessun legislatore e nessun ufficio può inquadrare sistematicamente; cioè il buon senso, fatto di comprensione e di discrezione, ed il senso di Arte, mosso da fervore di affetto e da una ragionata previsione di effetti particolari e di effetti d’insieme.

Nel 1922, forse perchè il ridesto sentimento di patria aveva fatto maturare la nuova coscienza della sua bellezza; o perchè intanto maggiormente si avanzavano gli attentati e le offese, - alla pineta di Ravenna, alla cascata delle Marmore, ai boschi del Casentino, alle rupi dei Campi Flegrei, - si ebbe alfine la Legge fondamentale, che ha durato fino ad oggi rendendo, occorre riconoscerlo, inestimabili servigi, anche se taluni punti di essa si sono dimostrati manchevoli ed inefficaci.

Questa legge del 1922 può quindi considerarsi come un importante esperimento, nel suo complesso felice. Essa ha vagliato le possibilità di adattamenti con le esigenze legittime dell’industria e della vita cittadina, e dagli stessi progressi dell’Urbanistica (come quelli del piano territoriale e delle divisioni per zone) ha tratto mezzi per una giusta distribuzione di attività fabbricativa; ha saggiato le resistenze degli interessi privati; ha determinato e raffinato lo studio della consistenza prospettica delle bellezze naturali ed in particolare di quelle panoramiche, e conseguentemente dei mezzi per difenderle efficacemente con cognizione sicura.

È merito di S.E. il Ministro Bottai di aver ora compiuto, con illuminata energia, il secondo passo, promuovendo il rinnovamento della legge mediante la preparazione di un nuovo progetto, che con rapidità fascista è passato attraverso le commissioni e gli uffici ministeriali ed ha avuto la definitiva approvazione parlamentare, ed è ora la Legge 29 giugno 1939-XVII.

Di essa riassumerò ora le principali caratteristiche. Voi vorrete perdonare se il mio commento non sarà quello del giurista, ma di un architetto, abituato bensì a contemperare la visione d’Arte con la cognizione concreta delle cose, ma non tanto da giungere ai necessari, sottili provvedimenti di uno schema legislativo.

La legge[2] comincia col definire in modo chiaro e preciso l’oggetto della protezione, ed in ciò presenta un grande progresso sulla legge precedente, in questa parte fondamentale sommaria ed incerta. Ed occorre riportare per intero il primo articolo:

“Sono soggette alla presente legge a causa del loro notevole interesse pubblico:

1° le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica;

2° le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, si distinguono per la loro non comune bellezza;

3° i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale;

4° le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali, e così pure quei punti di vista o di belvedere accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”.

Come si vede, è nelle prime parole e nelle ultime di questo articolo riaffermato il principio che debba essere insito nella cosa immobile che si vuol tutelare un notevole interesse pubblico; il che, mentre stabilisce i limiti della sua applicazione, viene a determinare il diritto collettivo al godimento della bellezza naturale prevalente su ogni interesse privato.

Dei quattro tipi di bellezze naturali specificate nell’articole [3] i primi due si riportano a quelle che la relazione ministeriale chiama bellezze “individue”, gli altri due alle bellezze “d’insieme”. Bellezze individue son quelle che hanno una entità propria e sono perciò identificabili nei loro confini e nei loro particolari: ed ecco gli elementi singoli che quasi potrebbero dirsi monumenti naturali - alberi di singolare grandezza, cascate d’acqua, gole di monti, grotte, rupi - ed ecco le singolarità geologiche - conformazioni geometriche di basalti, correnti laviche, piramidi di terra, calanchi, pietre oscillanti, le cosidette marmitte dei giganti - che al valore di bellezza uniscono quello d’interesse scientifico e che colpiscono la fantasia nella loro testimonianza delle vicende cosmiche; ed ecco infine i giardini e le ville, in cui l’attività promotrice ed ordinatrice dell’uomo è entrata sì da fare opera di ridente bellezza, ma non con tali caratteri di grande architettura da farli rientrare nelle cose tutelate dalla legge fatta per le opere di interesse artistico e storico.

Su questo punto occorre ancora indugiarsi in un breve commento, per ricordare che parallelamente a questa legge per le Bellezze naturali anche l’altra, testé indicata, riguardante il patrimonio d’Arte e di Storia, è stata riveduta e rinnovata, e la materia legislativa è stata organicamente divisa tra le due leggi secondo il prevalente carattere che essa riveste. Così, ad esempio, alla legge di tutela monumentale sono state rinviate “le cose immobili che presentano un notevole interesse pubblico a causa della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria”; e, per proseguire nella esemplificazione, lo scoglio di Quarto da cui salparono i Mille, la rocca di Cuma cantata da Virgilio, i carducciani cipressetti avanti San Guido, non vanno catalogati (brutta parola burocratica, ma necessaria a determinare elementi a cui si applica una legge) tra le cose tutelate a causa della loro bellezza naturale.

Così pure pei parchi e pei giardini. A seconda che in essi prevalga il carattere di composizione monumentale -e numerosissime sono quelle disegnate da architetti insigni, da Giuliano da Maiano a Giulio Romano, al Vignola, al Ligorio, al Della Porta, al Le Nôtre -ovvero il carattere dato dalla bella vegetazione rigogliosa, la tutela ne spetta all’una od all’altra delle due leggi parallele. Ed è questo un passo decisivo, finché non giunga l’auspicata legge urbanistica fascista a stabilire nelle nostre città un sicuro ordine di sanità e di bellezza, per raggiungere la difesa di quelle zone verdi poste nel nucleo dell’abitato o nel suburbio, che le generazioni passate hanno costituito per la gioia della vita, e che quelle del nostro tempo tendono, per la malsana speculazione sulle aree edilizie, a distruggere proprio quando nell’enorme ampliamento cittadino esse rappresenterebbero provvidenziali elementi di pubblica utilità.

Vengono poi quelle che son state dette bellezze di insieme, e sono essenzialmente le panoramiche. Pur nella impossibilità di definirle in modo preciso, poiché, come dice la relazione ministeriale, “è in esse tanto di incertezza quanto ve ne trasferisce il concetto stesso di bellezza”, ha tuttavia la legge voluto chiaramente distinguere i due casi che potrebbero dirsi dal fuori verso il dentro e da1 dentro verso il fuori; cioè il quadro naturale in se stesso e le visuali dai punti o dalle linee di bel vedere accessibili al pubblico. Comprende il primo il vero carattere paesistico dei luoghi, ampio e talvolta quasi indefinito; il secondo il panorama nel senso comune della parola, che si gode da particolari località e che non deve essere offeso ed obliterato da costruzioni oda elementi invadenti. Esempi classici del primo tipo quasi tutta la chiostra alpina, e la pineta tirrena, e la marina di Amalfi, e la collina di Posillipo, e Capri e Portofino e Taormina e la penisola dell’Argentario; esempi di prima grandezza del secondo il viale dei Colli ed il piazzale Michelangelo sopra Firenze, il Gianicolo per Roma, il piazzale della Madonna di S. Luca per Bologna, le vie che salgono al Vomero per Napoli, la passeggiata a mare di Nervi, i risvolti della via delle Dolomiti al Pordoi ed a Falzarego.

Accanto a queste bellezze naturali 1a legge contempla (ed è interessante novità) i “complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto estetico e tradizionale”. .La frase è un po’ troppo generica e richiede un qualche chiarimento. Qui, con un ardito passaggio, si intende comprendere nella tutela anche le cose che sono opera non della natura ma del lavoro umano, quando abbiano assunto nel tempo e nella inquadratura degli elementi circostanti, talvolta nel mimetismo con l’ambiente naturale, un valore paesistico di bellezza e di tradizione: dai panorami delle grandi città, con le torri e le cupole che si stagliano nel cielo, alle vedute di villaggi sorti con l’umile spontanea energia rurale, come se le casette liberamente aggruppate fossero alberi di un bosco o cristallizzazione delle rupi sottostanti. Enormi grattacieli in un caso, sguaiati villini dalle torrette merlate nell’altro altererebbero tutta un’armonia di linee e di colori e produrrebbero , danni irreparabili che debbono essere evitati; e la legge, interpretata con ampia veduta e con discreta saggezza, offre appunto le armi. L’identificazione di queste così diverse bellezze, naturali o quasi naturali, presenta, in un paese di diffuso e vario e mirabile carattere paesistico quale è il nostro, difficoltà forse insormontabili. La legge tenta provvedervi con la istituzione di Commissioni provinciali, composte di persone di coltura e d’arte, a cui si uniscono, come è giusto in regime corporativo, i rappresentanti delle categorie interessate; le quali commissioni avranno un duplice compito: quello, organico ed ampio (art. 2) di compilare gli elenchi delle località e degli elementi soggetti alla legge, e quello contingente (art. 8 e 9) di convalidare le notifiche direttamente fatte dal Ministero dell’Educazione Nazionale.

Sulla efficacia pratica di dette commissioni potrebbe in vero elevarsi qualche dubbio sia nei riguardi della quasi impossibilità, e talvolta della superfluità, di una definizione a priori, non delle bellezze individue ma di quelle d’insieme (che talvolta si avvertono quando vengono aggredite), sia per la complessità di funzionamento cinematico di codesti gruppi di valentuomini che dovranno spostarsi in ogni punto delle singole province e vagliare con una bilancia precisa e con pesi ben uguali la equazione tra bellezza e legge. In Francia il sistema non ha fatto buona prova; ma occorre dire che i vi il parlamentarismo ha invaso col suo macchinoso artificio anche questo tema che pur sembrerebbe da esso il più lontano, e lo ha soffocato tra le commissioni pletoriche e le discussioni interminabili. Nell’Italia Fascista diverso è il clima, adatto per la rapida attuazione adeguata, per gli accordi tra interessi contrastanti subordinati a quello grande ed augusto del Paese, come pure per le eventuali revisioni di ordinamenti sulla base dell’esperienza.

Alla identificazione delle bellezze naturali seguono le minute norme procedurali perchè i singoli proprietari siano edotti del vincolo ed abbiano modo di presentare i loro ricorsi o di richiedere che i termini ne siano ben precisati; e sono norme di grande importanza affinché la proprietà privata sia salva da arbitri e da applicazioni esagerate, e si stabilisca una vera unità di criteri. Le notificazioni personali vanno poi trascritte alle Conservatorie delle ipoteche, per dar loro efficacia anche per i successivi aventi causa.

Le servitù così create recano ai proprietari l’obbligo di non alterare l’aspetto esteriore delle bellezze da loro possedute; il che tuttavia non rappresenta immobilità dello stato attuale altro che in casi di eccezione. Lavori, talvolta importanti ed organici, possono essere consentiti, ma i loro progetti debbono venire preventivamente approvati dalla competente Soprintendenza; la quale può, esercitare il suo diritto di esame e di veto anche nei casi di pubbliche opere in prossimità di bellezze individue o in vista di bellezze d’insieme, purché, come avverte saggiamente la legge, “si tenga in debito conto la utilità economica dell’intrapreso lavoro”. Una delle innovazioni di maggior importanza è quella che contempla (art. 5) la possibilità da parte del Ministero dell’E. N .di preparare o di promuovere un piano territoriale paesistico delle vaste località in cui si riconoscano i caratteri di bellezza d’insieme. La disposizione-sarà salutata con gioia dagli urbanisti italiani, che vedono in essa una prima applicazione di quei piani regionali, o territoriali, o intercomunali, destinati a coordinare lo sviluppo non di un solo Comune, ma di più vaste entità, aventi stretti rapporti, od addirittura unità di carattere, di viabilità, di funzione edilizia, od estetica, o turistica o industriale.

Nel piano paesistico vanno adottati, pur (per così dire) grandemente diluiti, i criteri urbanistici ormai acquisiti nei piani regolatori cittadini; cioè la redazione di un azzonamento e di un regolamento edilizio schematico, volti a graduare, e talvolta ad escluderei le possibilità fabbricative, sostituendo una disciplina edilizia al disordine liberista, una concezione sociale al diritto di arbitraria utilizzazione delle aree non costruite [4].

Saprà in tal modo ciascun proprietario quale sia la potenzialità fabbricativa del proprio terreno e potranno su quella basare i loro calcoli gli eventuali acquirenti; difficili e rare saranno le frodi; un criterio organico investirà tutta una regione, sostituito al carattere inuguale, arbitrario, aleatorio del caso per caso.

Eppure molte obbiezioni si appuntano contro questa concezione di ordine; ed occorre esaminarle brevemente. Si dice: Non risulterà troppo meccanica ed artificiosa la nuova forma del paesaggio futuro così immaginata, quasi in collaborazione della creazione umana con quella divina, tanto più grande ed augusta? Non esistono tante deliziose borgate o tante case campestri sparse sui colli e nelle valli, che danno al paesaggio vita e bellezza anziché nocumento? Non ci sono talvolta anche grandi costruzioni isolate di palazzi di ville, di monasteri (e gli esempi della villa Mondragone a Frascati, del convento benedettino di Montecassino, di Castel del Monte in Puglia si presentano alla nostra mente) che quasi concentrano il carattere paesistico in poli monumentali, quasi mirabile cristallizzazione architettonica?

A tutto questo rispondono, sia pure incompiutamente, le considerazioni sul mutare dei tempi e sul carattere della vita e dell’architettura moderna, sempre più lontana dalla natura. Un albergo disegnato a tavolino da un archi tetto e fabbricato con ossatura di ferro o di cemento armato, un quartiere di villini voluto da speculatori che dividono il terreno in lotti regolari, nulla hanno a vedere col carattere naturale e spontaneo, quasi mimetico, di un vecchio villaggio costruito secondo le sperimentate esigenze del clima, coi materiali stessi del luogo, con la libera ed ingenua forma data dagli artigiani locali; un edificio monumentale, che rappresenta in forma d’arte un’idea prima che una funzione utile, ha in sé elementi di massa e di dignità che acquistano valore dominante, ma anche per esso i rapporti con l’ambiente, quando nel procedimento architettonico creativo non sono più, come per il passato, stabiliti dall’istinto debbono esserlo dalla ragione; ed ecco determinarsi la necessità di contrapporre lo studiato artificio dell’ordine alla libertà edilizia, che si è allontanata dalla naturalezza con le deformanti espressioni egoistiche di una civiltà meccanica ed utilitaria. Dovrà, certo, esser cura di coloro che si accingeranno all’arduo compito di far sì che le norme e le remore non siano troppo rigide e non escludano una elasticità di applicazioni. La regola potrà a vere le sue eccezioni; ma soltanto ad esse potrà limitarsi la norma del “caso per caso”.

Già negli ultimi anni alcuni di tali pialli regolatori paesistici sono stati, per singole iniziative, compilati: così per una parte dell’isola di Capri, per la regione di Monte Cavo e della via dei Laghi nei colli Laziali per la zona adiacente alla via Appia presso Roma, ed anche (in forma più negativa che positiva) nei grandi Parchi nazionali del Gran Paradiso, dell’Abruzzo, della Sila. I criteri seguiti son stati quelli, non solo di difendere energicamente la integrità dei punti di belvedere e delle linee principali del paesaggio, ma anche di stabilire in alcune zone rapporti tra area fabbricata ed area occupata da singoli lotti, e limitazioni di masse e di altezze tali da assicurare l’assoluto prevalere dèi valori naturali, pur consentendo in alcune designate località la formazione di nuclei compatti che possano costituire armonici aggruppamenti, pieni elementi di vita umana in mezzo alla natura. Questi studi precursori rappresenteranno un utile esperimento e troveranno nella nuova legge ufficiale consacrazione e regolare sviluppo [5].

Per alcune località italiane la preparazione di questi piani paesistici è di un’urgenza assoluta per evitare danni irreparabili, sia che trattisi di bellezza di eccezione, come pel promontorio di Portofino, per l’isola d’Ischia, per i dintorni di Taormina, per la nuova Cervinia, sia che i pericoli siano imminenti, ed inevitabili le transazioni con le altre ragioni essenziali dei piani regola tori d’ampliamento, come nei dintorni delle grandi città, alcuni dei quali, come a Torino, a Venezia, a Genova, a Firenze, a Roma, a Napoli, a Palermo, a Cagliari, sono di una bellezza incomparabile, che deve rimanere ad inquadrare la vita nuova che s’avanza.

Altre provvide disposizioni della legge sono (art. 15) quelle che disciplinano l’apposizione di cartelli e di altri mezzi di pubblicità, che troppo spesso con le targhe dai colori sgargianti, con le enormi bottiglie, con le figure dall’aria spiritata, occupano i posti migliori e rovinano con la loro invadente volgarità i paesaggi più belli; e quelle che danno facoltà al Ministro dell’Educazione Nazionale d’ordinare che nelle zone paesistiche, “sia dato alle facciate dei fabbricati, il cui colore rechi disturbo alla bellezza dell’insieme, un diverso colore che con quella armonizzi”, poiché giustamente si è notato come, in questo tema, in cui l’individuo-edificio va subordinato all’ambiente, la intonazione cromatica abbia assai maggiore importanza della linea architettonica, che si perde nel vasto spazio.

Gli altri articoli della legge si riferiscono. (art. 15) alle sanzioni comminate ai trasgressori, efficacissime perché li colgono nell’effettivo interesse finanziario; o alla possibilità da parte del Ministero dell’ E. N. di intervenire (art. 16) con speciali sovvenzioni a favore di proprietari danneggiati da assoluti divieti; o al diritto di detti proprietari alla revisione nei riguardi dell’estimo catastale (art. 17); e sono disposizioni non solo provvide, ma essenziali pel carattere positivo che ogni legge deve avere, le quali tuttavia escono dai limiti di ordine artistico posti alla presente trattazione.

Questa dunque è la nuova legge che la vigile esperienza degli organi preposti affinerà e renderà organica nelle sue applicazioni ed adegua ta alle esigenze spirituali e materiali della nazione.

Per essa si traduce in atto il comandamento del Duce, che nello scorso anno nel ricevere i Soprintendenti alle Belle Arti di ogni parte d’Italia, li richiamò ad un’assoluta intransigenza nella difesa delle bellezze naturali: “Il volto della Patria, egli disse, deve essere salvo dagli attentati di coloro che solo si preoccupano dei loro interessi affaristici. Il nostro paese è il più bello del mondo, e deve rimanere ad ogni costo integro nella sua bellezza”.

Nota: sulle origini della legge approvata descritta da Giovannoni, si veda anche in Eddyburg/Urbanisti e Urbanistica il saggio "anticipatore" del 1931 di Luigi Parpagliolo (f.b.)

[1] Questo passo è tratto dal libro di Luigi Parpagliolo, La difesa delle bellezze naturali d’Italia, Roma 1923

[2]La Commissione ministeriale che ha preparato il disegno di Legge era così composta: Gustavo Giovannoni (presidente), Marcello Piacentini, Marino Lazzari, Orazio Amato, Michele Di Tommaso, Enrico Parisi e Gino Cianetti (rappresentanti la Confederazione della proprietà edilizia). Carlo Aru, Mario Bcrtarelli, Valentino Calligaris, Giuseppc Pedrocchi, Leonardo Severi, relatorc. Nel corso dei lavori si sono aggiunti Luigi Biamonti, Luigi Parpagliolo, Bernardo Genco e Virgilio Testa

[3]Questo commento si giova della relazione della Commissione ministeriale redatta dal dott. Leonardo Severi, consigliere di Stato, e dell'articolo di L. ParpagIiolo “La protezione delle bellezze naturali”, comparso nelle Vie d’Italia, settembre 1939-XVIII. E qui mi piace nuovamente citare questo benemerito apostolo che tanto ha scritto ed operato per la difesa del carattere paesistico d’Italia

[4]Cfr. su questo argomento G. Giovannoni, “Piani regolatori paesistici”sulla rivista Urbanistica, 1938 (XVI), 5.

[5]A questi magnifici temi dovranno, insieme con la progressiva applicazione della nuova legge e con la rispondente formazione della nuova coscienza nazionale, essere atti con sicura competenza i giovani architetti: ed è da auspicare la preparazione, nelle Facoltà di Architettura, di architetti paesisti, analoghi agli architectes paysagistes francesi ed agli inglesi Landscape Architects.

Ci sia consentito, per sola comodità di ragionamento, di iniziare dalla constatazione, così ovvia da sembrare ormai assolutamente superflua, che il “problema del paesaggio” occupa un posto preminente tra quelli di estrema attualità.

Da qualche tempo la sua urgenza preme e si impone da ogni parte, sia dal punto di vista spirituale che da quello pratico, poiché è accaduto, come di solito accade per tutti i fenomeni che giungono a maturità nel campo sociale, che le esigenze culturali e la conseguente evoluzione del gusto sono state, per così dire, concretizzate e portate alla ribalta dell’attenzione pubblica non pure dal verificarsi bensì dall’esasperarsi di una situazione di fatto già denunciata e deprecata fin dagli inizi del nostro secolo: il decadimento delle sedi umane per l’irrazionale espansione degli antichi nuclei urbani all’esterno, la caotica congestione all’interno ed il derivante affollarsi del traffico nell’insufficiente schema stradale. Non è il caso di enumerare qui, ancora una volta, le cause; ampiamente investigate ed ormai generalmente note, di questa catastrofica situazione che trova la sua ragione d’essere nell’evoluzione del pensiero scientifico e nell’enorme sviluppo di mezzi tecnici, e, quindi, nelle mutate condizioni di vita della società umana.

L’accerchiamento eccessivo ed incomposto dei vecchi centri è passato dal depauperamento ad una vera e propria soffocazione delle loro funzioni vitali; anzi, l’esuberanza del tessuto neoplastico ha fatalmente fatto degenerare la natura di quest’ultimo, mutandolo in una formazione cancerosa, metastasi nociva ad ognuna ed a tutte le parti dell’organismo su cui era venuto ad inserirsi, si trattasse dei tessuti urbani, creati e perfezionati attraverso il tempo, o extra urbani, o meglio rurali, preservati e potenziati con una non meno assidua cura ed abilità. L’uomo, in altre parole, ha visto minacciato di inevitabile distruzione ciò che aveva costituito la sua fatica ed il suo orgoglio secolare: il frutto della sua lunga opera tesa a soddisfare i suoi bisogni materiali di esistere e di stare, nonché le concretizzazioni di tale opera che, nella loro riuscita armonia di esecuzione, lo riattaccavano al passato in un processo storico di unitarietà, esaudendo il suo bisogno spirituale di realizzarsi nel tempo. E si trattava, per di più, di una distruzione che non lasciava nemmeno intravedere una creazione completamente nuova, dettata da esigenze mutate, che potesse sostituire in pieno, con nuovi valori spirituali, quelli inestimabili su cui sembravano poggiare le strutture della sua civiltà. È in questo momento, nel nostro momento, che il problema del paesaggio si è espresso attraverso varie voci; ne è sintomo, tra i più evidenti e vivaci, un vasto movimento di rinascita di gusto archeologico che, pur ricordandolo, va assumendo proporzioni più ampie e radicali di quello, anch’esso imponente, che, apparentemente culturale intimamente politico-sociale, iniziatosi nella seconda metà del secolo XVIII come un nuovo culto del classicismo, traeva origine, insieme all’incipiente nostalgia romantica dell’atmosfera medievale, da un medesimo spirito di ribellione contro le forme care al dispotismo monarchico del Seicento e si esprimeva in un bisogno di riattingere alle fonti antiche. Ma il nostro problema, ce ne siamo tutti resi ben conto, non consiste nella sola ricerca di nuovi valori spirituali; esso si presenta prima di tutto, e materialmente, con l’urgenza di rinnovare le forme naturali e costruite, di vivificare il tessuto dei nostri stessi insediamenti e di equilibrare, mediante una oculata pianificazione, strutture nuove e preesistenze antiche, in un’opera organica di inserimento. E questa è solo la causa scatenante della crescente ondata di interesse che va dilagando fuori dall’ambiente dei tecnici e investendo tutti gli stati della pubblica opinione. Le altre cause determinanti, se pure meno catastroficamente evidenti, non sono tuttavia di minor peso nella formulazione del problema e nella necessità di un’urgente soluzione di esso. L’analogia della presente situazione urbanistica con quella che caratterizzò l’inizio dell’Età meccanica ci è d’aiuto nella comprensione, pur con le dovute varianti, di un certo numero di esse, particolarmente di quelle attinenti alla necessità del rinnovamento delle sedi per ragioni igieniche, economiche e sociali. Se ci fosse concesso di valerci della qualifica di pianificatori, necessariamente portati, quindi, a considerare l’effetto economico di ogni manifestazione della vita sociale, chiedendo venia della nostra concezione razionalistica che non vuole, tuttavia, essere rudemente meccanicista, ci piacerebbe presentare il complesso di tali determinanti sotto la forma di una equazione economica in cui il volume della domanda e la qualità della offerta hanno il loro inevitabile peso nella determinazione del valore di esso fenomeno. Che l’offerta della merce “paesaggio”, sia come bellezza naturale che come persistenza archeologica, si presenti, nel nostro paese, eccezionale particolarmente dal punto di vista qualitativo oltre che da quello quantitativo, non v’è alcuno che possa dubitarne, e, con buona pace dell’amico Detti, non crediamo che in questa considerazione ci aberrino miraggi di “esoso sfruttamento”. La bellezza, sotto i vari aspetti in cui si presenta, è una materia prima di cui l’Italia abbonda, è una delle merci principali che essa è tra le nazioni più qualificate ad apportare al fondo comune, ora che i previsti intensificati scambi, non solo di prodotti, ma anche di idee, porteranno ad un aumento di correnti turistiche. E pertanto la riabilitazione di buona parte delle nostre zone depresse del Mezzogiorno, così ricche invece di patrimonio naturale ed archeologico, potrà, in mancanza di un difficile sviluppo industriale, basarsi proprio sulla valorizzazione di quelle.

Ben più difficili ed imponderabili sono gli elementi determinanti della domanda, la quale, come è facile osservare, è veramente notevolissima. Oltre alla natura, ai precedenti culturali e allo spirito di curiosità ancora inesperta ed insoddisfatta in questo campo, che costituiscono le principali caratteristiche del grosso dei visitatori che affluiscono nel nostro paese, ansiosi di evadere dalle tumultuose metropoli industriali e di rituffarsi in un bagno di più sana interpretazione dei valori essenziali dello spirito, v’è da parte di noi tutti, figli di questa tormentosa età, una nuova, strana nostalgia dell’armonia naturale o artistica che è sola capace di restituirci a quella serenità di vita che va ormai scomparendo nel ritmo rapido della civiltà moderna. È, il nostro, uno di quei fatali ciclici ritorni, non rari nella storia dell’umanità, in cui, raggiunto uno stato estremo di tensione tra spirito e materia, tra bellezza ed espressione, si cerca un rimedio alla profonda crisi di incertezza e di abbattimento, riattaccandosi alle antiche forme, riassorbendole e rielaborandole, sia pure come esperienza culturale riflessa se non come diretta esperienza di vita. E la nostra crisi, nella tremenda instabilità prodotta dall’enorme mutevolezza dei credi filosofici e della dinamicità paurosa delle conoscenze scientifiche attuali, è una di quelle che ha più disperato bisogno di appiglio e di aiuto.

Noi non pretendiamo affatto, in questa sede, di dire una parola nuova circa la trattazione del problema del paesaggio, specie per quanto riguarda il lato pratico della sua difesa, o tutela, o conservazione, che dir si voglia. Non lo potremmo, del resto, e per varie ragioni. Non è possibile, o almeno non ci sembra possibile, enunciare una metodologia generica di carattere tecnico-legale sull’argomento. La solita affermazione della riconosciuta necessità della disamina caso per caso ormai pecca di scarsa originalità e non è che un’inutile ed ovvia ripetizione. Inoltre tutte le considerazioni che si presentavano più o meno evidenti, e le proposte che apparivano necessarie sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, sia in campo artistico-architettonico, sia urbanistico, sia legale, sono state egregiamente esposte e discusse dai differenti studiosi specializzati. La nostra dibattuta preparazione del prossimo Congresso di Lucca, i convegni di “Italia Nostra”, tra cui particolarmente notevole l’ultimo di Firenze, i vari articoli più o meno polemici ispirati all’ultima Triennale, lasciano ben poco margine per chi non intenda ripetere cose già dette da altri o non voglia assumersi il compito, che a noi non spetta, di sintetizzarle prima che esse vengano vagliate e commentate in un apposito convegno.

Non ci resta che di contribuire, come ci proponiamo, al chiarimento di alcuni argomenti già trattati ma che ci sembrano suscettibili di una più esauriente puntualizzazione.

La prima difficoltà che si è incontrata nel corso del dibattito è stata quella di definire o, per essere più esatti, di puntualizzare il concetto di paesaggio, quale è e deve essere inteso nel nostro caso particolare. Si tratta, come si è potuto notare, di una questione di una delicatezza estrema, di cui non bisogna sminuire l’importanza, considerandola alla stregua di una dissertazione accademica più o meno brillante. È troppo ovvio che non si possa discutere di un fenomeno qualsiasi se non se ne penetri prima l’essenza e se ne riconosca la natura; e che, pertanto, solo chiarendo la genesi e l’evoluzione del concetto espresso dalla parola in questione, noi potremo rintracciare i requisiti necessari alla sua validità e passare poi a precisare quelle misure che tale validità intendono salvaguardare.

Il concetto di “paesaggio” è dunque risultato, alla prova dei fatti, di definizione non agevole. E non a torto, che questa, come altre parole passate, per un criterio di analogia che inizialmente poteva considerarsi addirittura una identità di significato, dal linguaggio di uso comune a quello specifico di una disciplina che rappresenta sostanzialmente un diverso atteggiamento spirituale, è venuta di mano in mano alterando il significato primitivo, fino ad acquistarne uno nuovo, scarsamente riavvicinabile a quello di origine, con l’estendersi e l’intensificarsi della portata della sua espressione nel campo nuovo.

È così che il termine paesaggio, quale secondo la sua etimologia doveva essere inteso nell’eccezione comune, e cioè quel complesso di elementi naturali ed artificiali che concorrono e contribuiscono a dar forma e carattere ad una porzione di territorio, nonché la veduta panoramica di esso cominciò a rivestire un decoro estetico e ad animarsi di un affiato di intellettualità quando fu adottato in campo artistico per significare la raffigurazione pittorica o letteraria di quel fenomeno naturale. E l’interpretazione e l’importanza che al paesaggio venne data, caratterizzano, come è noto, i vari atteggiamenti che si sono susseguiti in ordine di tempo nell’evoluzione della storia dello spirito umano.

Sia nel primo che nel secondo caso, però, l’elemento naturale veniva considerato, per così dire, dall’esterno, come un insieme spontaneo o una rappresentazione artificiale di cui l’uomo era spettatore, contemplativo o attivo, ma pur sempre spettatore.

Il concetto espresso dalla parola doveva invece intimamente mutare, nell’essenza e non solo in superficie, allorché essa fu presa in prestito da una scienza, sia pure antica, ma per l’espressione di idee nuova, quando, cioè, offrendosi l’immagine dell’universo in una visione completamente mutata, l’uomo venne ad inserirsi nella natura ed a farne parte integrante, ed il paesaggio cessò conseguentemente di essere considerato oggettivamente come una porzione più o meno estesa e pittoresca di territorio da osservare o rilevare, per diventate la risultante materializzata del rapporto, o meglio delle rete di rapporti, dell’uomo con essa. Ciò avvenne ad opera dei geografi, che, riscoprendo la Terra alla luce delle nuove tendenze scientifiche e filosofiche, distinsero un originario paesaggio naturale, creato da forze naturali endogene e rimodellato da forze naturali esogene, ed un paesaggio secondario geografico od umanizzato, profondamente trasformato dall’azione modificatrice dell’uomo, condizionata, a sua volta, dall’influenza delle forze naturali. E così importante e basilare è diventato questo concetto della moderna geografia, che ormai questa scienza viene considerata e definita come la conoscenza del paesaggio geografico in vista dei rapporti scambievoli tra l’ambiente naturale e l’uomo o il gruppo umano che in esso vive.

Partendo dallo stesso presupposto, pur con le inevitabili modificazioni imposte dal differente punto di vista, possiamo parlare del paesaggio che, per intenderci, chiameremo paesaggio urbanistico e che è rappresentato dal risultato di queste successive modificazioni, preso nella sua espressione concreta ed attuale, e prescindendo dal sopraccennato rapporto di causalità o meglio di interdipendenza.

Infatti, se la geografia si limita allo studio del paesaggio umanizzato a scopo di conoscenza, l’urbanistica o, in senso più lato la pianificazione territoriale, completa il processo nella parte pratica, prendendo in esame le espressioni concrete lasciate dall’uomo nell’estrinsecazione delle sue relazioni con la Terra, le cosiddette “tracce topografiche” ed intervenendo attivamente nella modificazione di esse. Tali tracce, impronte materializzate delle attività connesse alle suddette relazioni, e cioè le case e gli edifici derivati dall’abitazione e dalla costruzione, le strade agevolanti la circolazione, e le valorizzazioni e trasformazioni strutturali riguardanti la coltivazione in genere (ci è già accaduto di osservare che, oltre ad una coltivazione delle risorse del suolo in superficie, e cioè agricola, ed una delle risorse del sottosuolo, e cioè industriale, possiamo annoverare un terzo tipo caratteristico di valorizzazione delle risorse naturali a scopo turistico o di amenità); tali tracce, dicevamo, inquadrate nella loro cornice naturale si presentano come gli elementi costitutivi del paesaggio urbanistico. Esso, pertanto, si deve distinguere in due tipi principali, paesaggio urbano e paesaggio rurale, a seconda che prevalgano in esso elementi artificiali, opera dell’uomo (sovrastrutture ed infrastrutture) o che il processo di modificazione si sia maggiormente estrinsecato nel rimodellamento degli elementi naturali.

Facciamo notare:

1) che nella proposta denominazione l’uso dell’attributo urbano sconfina da quello che gli competerebbe secondo l’etimologia (l’urbs dovrebbe essere piuttosto considerata come agglomerato anziché come città). Sinonimo di paesaggio urbano è, pertanto, paesaggio costruito, espressione molto meno diffusa se pure più significativa;

2) che d’altra parte, con la specificazione rurale (da rus = campagna in senso generico, in contrasto con agglomerato) si intende; oltre al paesaggio trasformato per motivi economici, quello adattato per esigenze estetiche;

3) che, conseguentemente, essendo molto difficile se non impossibile, trovare allo stato attuale, il tipo ideale di entrambi, il nostro concetto di paesaggio urbano e rurale si basa su un criterio di densità, considerata però da un punto di vista urbanistico, e, cioè, densità di costruzione anziché densità di popolazione, quale è espressa dagli attuali coefficienti di urbanizzazione;

4) che l’impiego, consacrato dall’uso corrente, delle denominazioni paesaggio naturale e paesaggio artificiale invece che rurale ed urbano, ci sembra alquanto improprio, in quanto non esiste attualmente paesaggio rurale in cui l’opera dell’uomo non sia entrata a creare artificialmente condizioni di vita e ad adattarlo ai suoi bisogni, ed alle sue esigenze, anche quando egli si è, a ragion veduta, astenuto dall’intervenire, conservandogli, come è stato giustamente osservato, “artificialmente i suoi caratteri naturali”. È necessario inoltre ricordare che l’attributo “ naturale” riferito al paesaggio rurale è stato talvolta inteso in un senso del tutto diverso, e cioè come dice lo Sharp “non forzato in schemi formali ma libero di svilupparsi” ovvero “modellato per uso normale anziché per effetto monumentale” ;

5) che fino ad oggi, ed anche fra gli urbanisti, quando si dice paesaggio tout court si intende indicare generalmente quello che noi abbiamo chiamato paesaggio rurale e, più spesso, quel particolare paesaggio rurale che è sviluppato a scopo estetico o, come suol dirsi, di amenità. (Ciò accade in tutte le lingue, tant’è vero che fra gli inglesi si comincia a notare un “Townscape” in opposizione a “Landscape” a scopo di precisazione). Lo stesso Mumford, uno dei più noti teorici del regionalismo, quando parla del movimento di valorizzazione del paesaggio o di cultura dell’ambiente, in tema di pianificazione regionale, indugia unicamente sulle misure adottate o da adottare per la conservazione del paesaggio rurale o naturale. Solo di recente, a proposito di tutela o difesa di esso, e particolarmente noi italiani, per ragioni molto evidenti ma che ci proponiamo di riesaminare fra poco, vi andiamo includendo quello di tipo storico-archeologico. Noi affermiamo, invece, che è giusto comprendere nella parola “paesaggio”, usata in senso assoluto e senza qualificazioni di sorta, tutto il complesso di elementi naturali ed artificiali che formano e caratterizzano un determinato ambiente. Sotto tal luce deve considerarsi la proposta del Vittoria di riconoscere nel paesaggio urbanistico “tutte le opere naturali ed artificiali che l’uomo costruisce” in quanto queste costituiscono la forma attuale di esso e particolarmente quella che ricade nel dominio del pianificatore;

6) che, infine, non sarà superfluo far rilevare la differenza che passa tra le parole “ambiente” e “paesaggio”, talvolta usate impropriamente l’una al posto dell’altra, ma sempre in riferimento all’uomo che vi è insediato. L’ambiente è l’insieme degli elementi naturali e climatici che caratterizzano una porzione di terra in cui l’uomo vive; dal verbo ambire, esso è costituito da tutto ciò che lo circonda. Ma quando in tale ambiente l’uomo si è inserito, si è espresso e realizzato, da solo od in gruppo, egli ha dato origine al paesaggio che proviene dalla sintesi delle azioni congiunte sue e dell’ambiente stesso. Un biologo ed un ecologo (l’ecologia, per quanto di nascita posteriore come scienza separata, può intendersi riassumere in sé anche il concetto biologico) possono, sia pure da un punto di vista differente, parlare di ambiente; un geografo ed un urbanista si esprimeranno in termini di paesaggio. Ed a proposito di parole che, in campo diverso, mutano di significato, vogliamo far notare l’uso della parola “ambiente” nel linguaggio artistico-architettonico. In ,esso il concetto di zona singolarizzata e conclusa è completato da quel senso di naturale armonica unità e di atmosfera caratteristica che ci richiama alla mente i più noti esempi di ambienti, quali sono offerti dalle nostre belle città italiane.

Posto così il concetto di paesaggio urbanistico nei suoi due tipi rurale ed urbano, e considerando che ogni spazializzazione, di natura geografico-urbanistica, realizzando l’uomo e concretizzando la sua esistenza, come individuo e come gruppo, comporta anche una temporalizzazione ed ha quindi insita una sua storicità, ci è facile individuare un aspetto o, se si vuole, una fase del primo in quel “paesaggio con cospicuo carattere di bellezza naturale e di singolarità geologica” che, reso valido dal tempo, ha assunto un carattere di interesse pubblico; come dal secondo, inteso in senso lato, deriviamo quel paesaggio artistico di valore storico ed archeologico che costituisce un vero patrimonio culturale per la nazione che lo possiede.

Entrambi questi aspetti non costituiscono che forme materializzate di persistenze dell’opera di modificazione svolta dall’uomo nel tempo le quali presentano carattere di particolare interesse estetico, artistico o storico. Tali persistenze, siano esse concretizzate in monumenti, edifici o complessi di edifici, o insediamenti di varia estensione, o siano intimamente penetrate nella struttura stessa del paesaggio, riplasmandone o valorizzandone le primitive caratteristiche ambientali, sono venute in contatto con la lunga inevitabile serie di susseguenti modificazioni derivate dall’insorgere di nuove condizioni di vita e quindi dal nascere di nuovi bisogni e vi si sono talvolta inserite automaticamente in modo più o meno omogeneo, talvolta vi son rimaste quasi atrofizzate nel tempo come trapianti estranei nel bel mezzo di tessuti vitali in continuo sviluppo, talvolta infine vi sono state deteriorate e minacciate di distruzione, quando non siano state parzialmente distrutte o siano per esserlo. È perciò che, come è stato giustamente detto, il problema della conservazione del paesaggio naturale e della difesa di quello archeologico è un problema dì riequilibramento, ad andamento dinamico come tutti quelli che si riferiscono ad un organismo in evoluzione e, come quelli, non schematizzabile in una metodologia unica. Come quelli, però, è da risolversi non localmente, bensì globalmente; nel nostro caso in sede di pianificazione territoriale, ed è da affiancarsi alle misure per la valorizzazione dell’attuale paesaggio urbano e la conservazione di quello rurale di cui non è che un parziale aspetto. È così dunque, ripetiamo, che il concetto di valorizzazione e conservazione del paesaggio viene a profilarsi come un processo unico, a cui corrisponderanno in sede di applicazione pratica le diverse misure adatte al caso, corrispondenti ai differenti aspetti del paesaggio, considerati nella loro concretezza attuale, o alle sue differenti fasi, considerate storicamente, nella loro temporalizzazione.

Non ci sembra fuori luogo ricordare che gli inglesi, che per primi, nell’immediato dopo guerra, si trovarono ad affrontare praticamente una situazione del tipo nella ricostruzione di alcune della loro città bombardate, veri gioielli architettonici di quel gotico inglese che è cosi caratteristico dei loro ambienti conclusi, e che, d’altra parte, non potevano prescindere dalle tendenze paesaggistiche, né dimenticare l’amore per il verde che li aveva fatti i pionieri delle città giardino, enunciarono, fin dall’inizio della loro delicata opera, la necessità di considerare accanto alla pianificazione territoriale (physical planning) che ci si presenta come quel complesso di modificazioni dell’ambiente umano eseguite su base geografica e volte a scopi economici e sociali (nell’ambito cioè della residenza, del lavoro, dello svago, dei trasporti e della vita comunitaria), un processo non meno importante del primo, il visual planning, la pianificazione volta a soddisfare altri bisogni, non meno fortemente sentiti dall’uomo moderno anche se di natura più prettamente spirituale, e cioè i bisogni estetici.

È stato detto che da una buona pianificazione, condotta secondo sani criteri, scaturirà automaticamente il paesaggio del futuro; che un’oculata sistemazione delle residenze, dei servizi, del verde e degli impianti industriali, sia in sede urbana che regionale, che una razionale coltivazione del terreno destinato all’agricoltura ed un’attenta valorizzazione delle zone e dei complessi turistici, non potranno non produrre un’armonica distribuzione e disposizione di tutti gli elementi, naturali ed artificiali, costituenti il paesaggio urbanistico, nella nuova scala a cui le mutate condizioni economiche e lo sviluppo dei nuovi rapporti sociali hanno dato origine.

Questo volontarismo pianificato, mirante all’inserzione dell’uomo moderno nella sua cornice naturale riplasmata secondo criteri attuali dovrebbe, forse con minore apparente spontaneità, certo con maggiore prontezza, trovare le forme per le sue funzioni, e rispecchiarsi nella concretezza delle realizzazioni, a somiglianza di processi consimili, che molto più rudimentali e meno organizzati ma ugualmente efficaci come tutto ciò che muove contemporaneamente dall’uomo-spirito e dall’uomo-materia, lasciarono la loro traccia indelebile negli aspetti del paesaggio sia urbano che rurale che caratterizzarono le età che ci hanno preceduto. Ma il nostro, ripetiamolo, non sarà che un apporto nel quadro generale, un episodio nel processo dinamico del totale sviluppo del paesaggio urbanistico. Perché esso risulti completamente equilibrato, perché, cioè, l’unità del tutto e la coesione fra le varie parti coesistano e si determinino scambievolmente (si ricordino la continuità e l’articolazione postulate dal Benevolo come requisiti per la sua validità) è necessario che si operi in esso l’inserzione omogenea di quei complessi o di quelle zone che, pur facendone parte materialmente, sono lembi conservati o recuperati di una forma di paesaggio d’altri tempi, e, come tale, rispecchiante idee, principi, attività economiche differenti dai nostri. Particolarmente, come si è potuto ancora una volta notare nel corso dei citati dibattiti preparatori, la nostra attenzione è attirata dal paesaggio storico-archeologico, estremamente pregevole e particolarmente deperibile, la cui conservazione costituisce nello stesso tempo il lato più spiritualmente attraente e più materialmente delicato del problema. Quanto la nostra sensibilità senta l’appagamento di un suo intimo bisogno in questa viva testimonianza che ci riattacca al passato è inutile ripeterlo, come è superfluo constatare ancora una volta con quale particolare intensità tale bisogno è attualmente sentito.

Sono ormai acquisiti i vari rimedi proposti dai più valorosi e sensibili studiosi del nostro problema, è noto il dibattito per il criterio di conservazione o di restauro, nonché l’affermata necessità del proporzionamento delle masse negli ambienti, l’opportunità di non superare, in caso di ricostruzione di antichi complessi o di vecchi nuclei urbani, la cubatura in senso quantitativo ed altimetrico degli edifici preesistenti. È nota la serie di misure da osservare in sede di pianificazione, di recente riassunte egregiamente dal Quaroni, l’importanza del piano aperto, la necessità di deviazione del traffico, a cui si rifanno quelle direttive di pianificazione precintuale (precinctual planning) di cui demmo cenno in alcuni nostri articoli fin dal 1948 ed a cui si sono ispirati i primi grandi piani urbanistici britannici di ricostruzione [1].

Pure, alla fine delle nostre considerazioni, non possiamo tacerne una che ci sembra realmente conclusiva e che, comunque si affronti il ragionamento, è sempre la stessa: data l’estrema mutevolezza ed inafferrabilità degli elementi, e prescindendo da quei pochi precetti generali che possono servire da guida in ogni caso, la soluzione del problema che ci siamo proposti nei riguardi del nostro paesaggio urbanistico inteso in senso integrale, e cioè di valorizzazione della sua espressione moderna e di conservazione e difesa di quella preesistente, deve scaturire principalmente dall’educazione e dalla chiaroveggenza dei pianificatori e dal loro tradizionale buon gusto e senso della misura.

Gli italiani, come il Faure dice per i francesi, anzi ancora più di loro, sono soprattutto architetti, sono artisti nell’anima. Ma dalle stesse esigenze della vita moderna sorge da ogni parte il monito, ormai imperioso, che l’ora è giunta che l’architettura reintegri l’urbanistica ed identifichi nella sua missione una missione sociale. E che il pianificatore tratti forma ed essenza con l’oculatezza necessaria ad equilibrare le due facce del suo processo modificatore della sede umana; che si adoperi affinché, da una parte, non vengano vandalicamente distrutte le irriproducibili, pregevoli opere d’arte che ci sono pervenute attraverso il tempo, ma che sappia, dall’altra, discernere ed evitare il pericolo di sterilizzare, per un malinteso concetto di conservazione, ampi tratti di utile territorio di estrema necessità all’esplicarsi della vita sociale; che non tenti di far rivivere, nelle sue opere di rimodellamento, schemi ormai superati, né, d’altra parte, con deprecabile foga di eccessivo modernismo rinnovatore, deturpi quegli ambienti che del passato serbino ancora integra la loro vitalità e compiono ancora la loro particolare funzione; che, nel conflitto tra conservazione e progresso, sappia contemperare gli elementi dell’antico e del nuovo in quella giusta proporzione per cui l’intero organismo pianificato non venga ad essere turbato nell’estrinsecazione delle sue funzioni vitali ed assuma un’impronta di bellezza che sia la risultante di tutta l’opera di appassionato rimodellamento che vi è stata prodigata nei secoli.

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Andriello Domenico, La pianificazione territoriale fattore di trasformazione del paesaggio geografico, relazione presentata al XVII Congresso Geografico Italiano, Bari, aprile 1957.

Andriello Domenico, Aspetti geografico-urbanistici della pianificazione, tipografia DAPCO, Roma, 1957.

[1] Uno dei primi esempi di applicazione dei principi di conservazione degli ambienti antichi e della loro integrazione nel paesaggio moderno si ha nella ricostruzione di Exeter eseguita da Thomas Sharp. Vogliamo ricordarne qui l’esposizione introduttiva. Dopo aver esaminato le varie soluzioni possibili ed avere scartato il restauro fedele e pedissequo degli ambienti monumentali non meno che la ricostruzione imitativa, l’urbanista inglese si pronuncia in favore del rinnovamento. “Un rinnovamento – egli dice – non distruttivo ma comprensivo, che si basi sull'osservanza della scala e dello schema e sulla creazione di forme intime anziché monumentali. Esso non richiede il sacrificio dei requisiti e delle esigenze moderne. Al contrario potrà soddisfare le moderne condizioni di vita ed incorporare i moderni ideali democratici. Anche oggi – egli aggiunge – l’intimità è una caratteristica desiderabile. E sebbene le esigenze dei trasporti, larghe strade ed ampi incroci, la distruggano, quando il traffico principale è canalizzato fuori delle mura della città, queste esigenze non cozzano con il mantenimento di tale caratteristica”.

Prima di affrontare l’esame dei processi di trasformazione fondiaria che hanno investito quest’area della Calabria - intendo dire di Cutro e del Crotonese - è opportuno soffermarsi sui caratteri del paesaggio agrario proprio del latifondo tipico. E a tale fine risulta necessario porsi la domanda: ma quello del latifondo era solo e semplicemente un paesaggio agrario? E che cos’è un paesaggio agrario? Emilio Sereni, lo studioso pionere di tali studi, checi ha lasciato la più ampia e precorritrice monografia sul tema- Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza Bari, 1961 - ha elaborato una definizione sintetica, efficace e persuasiva. Egli ha scritto : « paesaggio agrario significa quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale». Come si può constatare si tratta di una formulazione ineccepibile nella sua essenzialità, ma per noi - per i nostri fini di esplorazione più circostanziata - troppo generale e onnicomprensiva. In effetti - e come potrebbe essere altrimenti? - il latifondo è certo un paesaggio agrario. In esso non possiamo non scorgere un paesaggio naturale su cui l’uomo, vale dire i contadini, hanno impresso la loro impronta con il proprio lavoro secolare, i propri insediamenti, coltivazioni, tracciati viari, ecc. E tuttavia il latifondo è qualcosa di meno generico di un paesaggio. Esso è, precisamente, un sistema agrario. Che cos’è un sistema agrario ? E’ una particolare organizzazione dell’habitat agricolo in cui sono rinvenibili rapporti di funzionalità sistematica tra le forme e i modi dell’abitare e l’organizzazione produttiva agricola, fra gli insediamenti e la campagna, fra la casa ed il campo.

Nel primo volume della Storia dell’agricoltura italiana da me diretta (Spazi e paesaggi, Marsilio Venezia 1989) io ho individuato tre grandi sistemi agrari che contrassegnano in forme originali il nostro paesaggio agricolo. Questi tre grandi sistemi sono la cascina dell’Italia padana, la mezzadria delle regioni di centro del nostro Paese e il latifondo cerealicolo-pastorale. Vediamo brevemente come si configuravano questi «sistemi».

In che cosa consisteva la cascina, così diffusa soprattutto nella bassa pianura irrigua della Valle del Po? Essa era una forma di insediamento stabile. Una città in miniatura piantata nel bel mezzo della campagna. Molto spesso, le casine « a corte» erano chiuse da mura e avevano un porta di ingresso, che per lungo tempo è stata chiusa di notte dai proprietari per impedire l‘uscita dei dipendenti. Al suo interno c’erano le case dei salariati fissi,degli stallieri, bovari, ecc. la casa padronale, le stalle per l’allevamento degli animali, i granai, i fienili, i magazzini,ecc. Perché tante case ed edifici? Per ragioni eminentemente produttive. Nelle aziende in cui sorgevano le cascine l’attività agricola e di allevamento si svolgeva nel corso di tutto l’anno. L’agricoltura irrigua richiedeva una costante manutenzione, soprattutto per la coltivazione del riso e per le foraggere. Del resto anche durante l’inverno occorreva provvedere all’alimentazione del bestiame, che non viveva di pascolo brado, ma si alimentava di foraggio nelle stalle. Quindi, in queste terre, al paesaggio agrario delle grandi aziende di pianura a cereali e pascolo, percorse da canali, punteggiato qua e la dagli specchi d’acqua delle risaie, corrispondeva un insediamento abitativo centralizzato e stabile, quello appunto della cascina che ho appena abbozzato.E si comprende dunque che fra i due ambiti ci fosse un rapporto di funzionalità, di necessità sistematica..

In tutt’altro contesto sorgeva il sistema della mezzadria. Qui il modello abitativo era dato dal singolo podere isolato in mezzo alla campagna. In esso abitava il mezzadro, con la sua famiglia, sulla base di un contratto di durata variabile. Spesso il proprietario che concedeva la casa colonica possedeva più poderi nella stessa zona ed egli li coordinava stando in una dimora più grande, talora una vera e propria villa, la fattoria , che poteva essere l’abitazione permanente o semplicemente estiva. La famiglia mezzadrile doveva stare sulla terra, anche per curare il territorio - prevalentemente collinare - incanalare le acque piovane, impedire le erosioni del suolo, riparare i terrazzamenti, ecc.Ma le coltivazioni di cui doveva occuparsi - da dividere a metà a fine anno col proprietario - erano anche quelle che dovevano garantirgli l’autosufficienza alimentare. Perciò intorno al podere il paesaggio agrario era dominato dalla policoltura contadina: grano, ulivi, viti, alberi da frutto, orto, bosco, pascolo, ecc.Una campagna dunque continuamente bisognosa di lavoro e dunque di presenza umana. E’ questo « il bel paesaggio» delle colline toscane e umbro-marchigiane così spesso descritte e ammirate, diventato ormai l’emblema, un po’ stereotipato, del paesaggio agrario italiano. Anche in questo caso possiamo parlare di sistema agrario, perché possiamo scorgere i legami funzionali che intercorrevano tra le ragioni dell’insediamento, in questo caso il podere, e le logiche e i vincoli della produzione.

Ancora più radicale si presenta il passaggio da queste terre all’habitat del latifondo tipico.Qui il primo dato da sottolineare, per comprendere appieno i caratteri di sistema dell’organizzazione agricola, è l’adattamento delle attività produttive ai caratteri avversi del quadro naturale originario.In queste terre - penso al Tavoliere delle Puglie, alla piana di Metaponto, al “collepiano” di Crotone, a tante zone interne della Sicilia e della Sardegna - l’agricoltura ha dovuto fare i conti per secoli, adattarsi e per così dire subordinarsi alle avversità naturali dei luoghi . In queste campagne prevalevano le terre argillose, adatte ai cereali ma non agli alberi, dominava il clima arido, con un regime pluviometrico irregolare e comunque tendente alla siccità primaverile-estiva. Al tempo stesso in genere erano rari i corsi d’acqua, tutti a regime ovviamente torrentizio. Ma l’elemento di avversità più grave era dato da un dato di ostilità ambientale difficilmente controllabile: la malaria. Questa endemia vecchia di millenni nell’habitat mediterraneo contribuiva a render radi gli abitati, disabitate le campagne. Ebbene, a tali condizioni “storico-naturali” ha corrisposto un sistema agrario a suo modo geniale. Un elemento di tale sistema era costituito dalla pastorizia transumante. D’inverno i pastori trasferivano le loro greggi nelle piane latifondistiche delle “marine”, dove raramente cadeva la neve, era possibile per gli animali brucare erbaggi, e gli uomini erano al riparo dalla malaria. In estate, invece, le greggi fuggivano le pianure aride ed alpeggiavano sulle montagne, dove trovavano pascoli freschi, acque, ombre e rifugio. Questa era ad esempio la pratica, antica, dei pastori abruzzesi che scendevano d’estate in Capitanata o dei mandriani calabresi - spesso alle dipendenze di grandi proprietari terrieri - che si spostavano stagionalmente tra la Sila e le marine del Crotonese. L’agricoltura, alternata ai pascoli, era dominata dalla coltivazione dei cereali. Piante preziose, non solo perché davano il pane, ma anche perché non richiedevano la presenza e la cura costante degli uomini. Non era necessario che ci fossero abitazioni presso le coltivazioni di grano nei latifondi. La presenza, assai numerosa, dei lavoratori si rendeva necessaria solo stagionalmente: in autunno per l’aratura e la semina, e soprattutto per la falciatura e la trebbiattura agli inizi dell’estate. A queste necessità di avere tante braccia da lavoro ma solo per pochi periodi dell’anno il “sistema” latifondo rispondeva con le migrazioni stagionali dei lavoratori insediati nei borghi, che sorgevano sulle alture ai confini dei territori latifondistici. Migrazioni che tuttavia potevano essere anche di più lungo raggio. Dunque, un paesaggio nudo, senza case, senza alberi, con poche masserie sparse su ampi spazi, e coronato da insediamenti accentrati nei paesi, dove viveva la forza lavoro bracciantile e i contadini. Una forma dell’abitare che si attagliava perfettamente ai vincoli dell’habitat e alle forme dominanti dell’attività produttiva.

Volendo soffermerci su questo territorio debbo ricordare che esso, prima della riforma avviata nel 1950, aveva subito pochissime modificazioni. Solo alcune bonifiche condotte negli anni del fascismo lungo la Valle del Neto avevano mutato la fisionomia di alcune aree delimitate. Ma a questo punto occorre ricordare un dato sin’ora rimasto in ombra. Il latifondo era un sistema agrario, ma anche un assetto giuridico della proprietà. In questa terra dominavano i grandi proprietari terrieri. Per dire cose più precise, proprio nella circoscrizione di cui ci occupiamo, quella del cosiddetto “Collepiano di Crotone” al momento della Riforma esisteva la più elevata concentrazione di proprietà fondiaria d’Italia. Qui solo 47 proprietari, su un totale di 10521 possedevano il 51% dell’intera superficie agraria. Famiglie come quelle dei Barracco, Berlingieri, Zito, Lucifero, Zinzi, Susanna, Mottola possedevano terre anche in altre circoscrizioni, sulle colline di Petilia Policastro, in Sila, in provincia di Cosenza, persino in Basilicata.

Non è del resto un caso che la prima legge di riforma fondiaria è la Legge Sila del 12 maggio 1950. Nell’ottobre dello stesso anno venne promulgata la cosiddetta Legge Stralcio, che investì con provvedimenti di esproprio e ripartizione delle terre altre regioni d’Italia: Abruzzi, Molise, Puglia, Sicilia, Sardegna, Lazio,Toscana meridionale, Delta del Po. Il primo risultato importante della riforma, che merita qui di essere ricordato, è l’abolizione giuridica e poi anche sostanziale, del latifondo. I proprietari non potevano possedere più di 300 ettari di terra a testa. Anche se molte famiglie latifondistiche ricorsero a vari trucchi e sotterfugi per mantenere superfici più vaste, il latifondo giuridico ricevette un colpo mortale. Fra il 1950 e il 1960 furono trasferiti in mano dei contadini 417.000 ettari di terra. Le tipologie delle assegnazioni erano due: le quote, che si aggiravano intorno a 1 ettaro o 1 ettaro e mezzo, e i poderi, in genere di almeno 4-5 ettari con annessa la casa colonica.

Quali effetti di trasformazione ebbe la riforma sul paesaggio agrario? Occorre dire subito che a 10 anni dall’avvio delle ripartizioni, nel 1960, ben il 40% delle terre assegnate ai contadini venne abbandonato. Si tratta di una cifra elevata che riguarda soprattutto le quote, ma anche i poderi. Ancora oggi, se girate per le campagne di Cutro qui attorno, così come in altre aree latifondistiche, potete osservare i resti delle case coloniche precocemente abbondonate dai contadini. Qui il mutamento del paesaggio e anche del territorio è stato minimo se non nullo.

E’ cambiata la proprietà, ma non è cambiata l’agricoltura, perché l’habitat restava quello di sempre, avverso alle coltivazioni intensive e agli insediamenti. Solo la dove la redistribuzione delle terre era accompagnata da opere di bonifiche, dalla costruzione di canali, dalla diffusione dell’acqua, il paesaggio è mutato, e così anche il profilo stesso del territorio. Ad esempio, nelle zone lungo il Neto, e comunque dove è stato possibile portare l’acqua, le colture estensive dei cereali hanno ceduto il passo alle colture orticole, agli alberi, ai frutteti. E il mutamento agricolo ha a sua volta indotto la diffusione degli insediamenti, dei tracciati viari, ecc. Qui la riforma ha dunque avuto un relativo successo. Anche se bisogna pur sempre ricordare che essa è stato un episodio storicamente tardivo. La riforma è stata realizzata quando ormai l’agricoltura stava diventando sempre meno importante nell’economia complessiva di un Paese industrializzato come l’Italia.

Per concludere, vorrei sollevare un problema, a mio avviso rilevante, che si pone davanti a noi. Il sistema latifondo, come abbiamo visto, è stato spezzato, così come la concentrazione abnorme della proprietà fondiaria .Tuttavia rimangono ancora, sebbene frammentate, estese e significative aree di paesaggio latifondistico. E’ sufficiente andare in giro attorno al comune di Cutro, Santa Severina, Botricello, ecc, per avere la possibilità di ammirare queste distese di terre nude, lunari, senza un arbusto, un muretto, una linea di confine. Il problema che sollevo è: come ci poniamo di fronte a questi frammenti che sono i resti di una agricoltura millenaria?

Dobbiamo trasformarli in agricolture moderne, investendo in bonifiche, irrigazioni, trasformazioni territoriali? Che senso avrebbe oggi, cioè in una fase storica in cui l’agricoltura italiana, come del resto quella europea, è gravata dalle eccedenze produttive? A qual fine allargare la superficie agricola, in terre difficili, quando la collettività europea paga gli agricoltori perché lascino incolte le loro terre? Si comprende bene, dunque, che la via di una nuova valorizzazione agricola di queste campagne è priva di senso.

Io credo, al contrario, che la migliore scelta per valorizzare queste terre sia di lasciarle così come sono. Esse costituiscono infatti un frammento storico di straordinario valore: gli ultimi relitti del latifondo tipico, di cui si trova l’eguale, in Europa, solo in poche altre regioni, come l’Alentejo portoghese o l’ Andalusia. Un parco paesaggistico del latifondo, ecco la destinazione migliore di queste terre: paesaggio di inquietante nudità e magnifica testimonianza sotto il cielo di millenni di lavoro contadino.

Prima di indicare le linee generali, di contenuto e di metodo, per avviare la costituzione di un Catalogo generale del paesaggio agrario italiano ritengo opportuno precisare alcune questioni preliminari, al fine di rendere più chiaro e culturalmente ben motivato l’intero progetto. Tenterò quindi di andare alle radici di questa impegnativa proposta rispondendo ad alcune domande tanto elementari quanto necessarie.

1)Perché oggi un Catalogo del paesaggio agrario?

A questa domanda saranno date risposte molteplici nel seguito di queste note. Ma intanto sottolineiamo una ragione rilevante, abbastanza evidente e comprensibile. Dopo oltre mezzo secolo di agricoltura industriale che ha trasformato profondamente le nostre campagne, dopo decenni di PAC, che ha reso esasperata la pressione produttiva sul suolo, è diventato urgente fare un bilancio, delineare un quadro di insieme di quel che resta di uno dei paesaggi agrari, più vari, diversificati e suggestivi dell’intero pianeta.D’altro canto, è il caso di ricordare che dalla fine degli anni Ottanta la Politica Agricola Comunitaria, sia attraverso le cosiddette Quote Latte, sia attraverso i piani di set aside - cioè la messa a riposo dei terreni meno produttivi - limita e regolamenta l’uso del suolo e le sue trasformazioni culturali. La corsa alla produttività illimitata è finita da quasi un ventennio. Dopo secoli di dissodamenti di nuove terre, e di sfruttamento intensivo delle campagne, un potere sovranazionale esorta e impone la limitazione dell’uso agricolo dei fondi. Dunque l’Italia, come gli altri Paesi del Vecchio Continente, si trova all’interno di un quadro normativo sovranazionale che regola, limita e controlla l’evoluzione delle coltivazioni secondo un disegno politico generale.E’ perciò sempre meno immaginabile l’azione solitaria di imprenditori agricoli che manipolano il territorio secondo le proprie esigenze individuali. Il paesaggio agrario può evolvere solo all’interno di un ampio disegno continentale.

Ricordo a tal proposito che uno degli effetti della stessa agricoltura industriale è stato quello di ridurre la superficie agraria utilizzata, lasciando così estesi territori fuori da ogni sfruttamento produttivo, fissati nei loro caratteri tradizionali, anche se non sempre ben conservati. Infine, nel momento in cui l’Unione Europea pone il paesaggio come uno dei beni originali del Vecchio Continente, da regolare e da tutelare (Convenzione europea del paesaggio, 2000) appare più che urgente apprestare una ricognizione che fissi in un grandioso inventario, come in un regesto di beni artistici unici e irriproducibili, il patrimonio che ereditiamo nelle campagne e nelle aree rurali del Bel Paese.

2)A che serve ?

Il primo fine risponde a una necessità di censimento. Il nostro paesaggio agrario è - come vedremo meglio più avanti - un patrimonio complesso e inscindibile di bellezze storico-artistiche e naturali, e come tale va tutelato e conservato, per quanto possibile, nella sua integrità. A tal fine diventa indispensabile un inventario delle sua estensione, delle sue caratteristiche, varietà, distribuzione, ecc. in grado di fornire alle istituzioni predisposte alla tutela la mappatura vivente, in tutte le sue articolazioni, di tale sterminato patrimonio.

Un Catalogo, com’è facile intuire, faciliterebbe un’opera attiva di difesa e valorizzazione. Ad esempio, consentirebbe di conoscere le aree più degradate e bisognose di ripristino di equilibri ambientali più congrui e stabili. Al tempo stesso potrebbe consentire il sostegno pubblico ad agricolture tradizionali, soprattutto nelle colline interne e nelle aree montane, che incarnano ancora oggi forme di paesaggio agrario di valore storico, presidi di conservazione della biodiversità agricola, di difesa degli equilibri idrogeologici del suolo. Un Catalogo infine consentirebbe una più consapevole e attiva politica di coinvolgimento dei cittadini nelle fruizione dei beni molteplici del nostro paesaggio agrario.

E’ appena il caso di ricordare che un tale strumento potrebbe inoltre costituire un importante argine culturale per incominciare a difendere con altra lena e severità civile il nostro patrimonio paesaggistico dalle aggressioni incessanti e vandaliche degli infiniti fautori del cosiddetto « sviluppo». Conoscere il paesaggio con le sue peculiarità naturali e storiche, espressione di vicende e soluzioni tecniche originali, di culture e saperi profondamente stratificati e sedimentati nel tempo, dovrebbe rendere il nostro territorio come «sacro», un immenso sito di archeologia rurale: non modificabile e manipolabile senza un consenso generale.E intorno alla difesa del paesaggio agrario italiano possono trovare ragioni di impegno quanti si oppongono a una cultura che assegna valore alle cose solo se trasformabili in merci, solo se generatrici di profitto.

3)Che cosa intende illustrare?

La prima risposta da dare a questa domanda è che il Catalogo intende sottolineare e documentare il carattere storico del paesaggio agrario italiano.Il termine storico è in sé, per la verità, semanticamente poco significativo. Tutti i terriori che risultino antropizzati da qualche decennio possono definirsi segnati da una impronta storica. Ma l’Italia, com’è noto, va ben oltre questa generica soglia di caratterizzazione.Ciò che infatti distingue la complessità dei caratteri storici del paesaggio della Penisola - rispetto ad es. ai paesaggi europei - è la molteplicità e stratificazione delle impronte che così tante e distinte civiltà hanno lasciato nel territorio e nelle forme delle nostre campagne.Pensiamo alle modificazioni impresse dall’azione delle bonifiche ad opera dei colonizzatori greci, degli Etruschi, dei Romani, degli Arabi. Queste stesse civiltà, d’altro canto, hanno fornito nel corso del tempo alle nostre campagne un contributo così incomparabilmente ampio di nuove piante, tecniche di coltivazione, forme di piantagioni e di recinzione della terra, modi di captazione e uso dell’acqua, costruzioni e manufatti, che il carattere storico del nostro paesaggio assume un valore del tutto particolare rispetto agli altri Paesi europei. Va d’altra parte ricordato che così come il paesaggio fonde in una sintesi originale la bellezza del sito o della piantagione con il carattere storico del loro uso e della loro manipolazione a fini economici, allo stesso modo i manufatti sparsi nelle nostre campagne, incastonati dentro gli habitat più diversi, esprimono una documentazione di passate civiltà del lavoro agricolo e al tempo stesso costruzioni di valore artistico, opere ammirabili per pregio estetico, per grandiosità e genialità edificatoria. Fanno parte del nostro paesaggio agrario - in parte similmente a quanto avviene in alcune campagne europee, ma con una varietà e ricchezza incomparabile - non solo la centuriatio romana e il disegno geometrico di tante strade e territori, ma anche opere invisibili che spesso sfuggono alla nostra rilevazione immediata e che solo di recente la ricerca archeologica è venuta scoprendo. Si pensi alle briglie montane e collinari con cui già i romani imbrigliavano i corsi alti dei torrenti e rimodellavano il territorio.Alcune di queste - come la briglia di Lugnano in Teverina, in Umbria, continuano ancora oggi a svolgere la loro funzione di difesa del suolo.Ma il nostro paesaggio racchiude nel suo seno una infinità di manufatti che talora costituiscono già isolatamente dei beni artistici meritevoli di specifica tutela. Si pensi agli acquedotti romani, ai ponti, alle strade, ai canali, alle cisterne, alle fontane, ai pozzi appartenenti a diverse epoche. La stessa architettura rurale, espressione di forme molteplici di organizzazione della vita agricola, offre un repertorio di estrema ricchezza e varietà: cascine chiuse e aperte, fattorie, ville, casali, masserie, mulini, frantoi, stalle,ecc.

Infine, ma non certo ultimo in ordine di importanza, un aspetto decisivo dell’originalità del paesaggio agrario italiano. Emilio Sereni distingueva il nostro definendolo verticale, rispetto all’orizzontalità che domina nei paesaggi europei, segnati dall’estesa presenza delle pianure. E in effetti i terrazzamenti e le varie forme di utilizzo delle aree collinari hanno a lungo dato una fisionomia di «agricoltura arrampicata» alle nostre coltivazioni. Ma non c’è dubbio che l’unicità delle forme delle nostre campagne è legata alla varietà incomparabile del habitat naturali che la Penisola ospita nel suo seno. Dalle Alpi alla Sicilia una continua e degradante diversità di climi, di morfologie, di suoli, ha imposto alle diverse civiltà agricole che vi si sono insediate di esprimere in forme molteplici le proprie culture di modellazione degli spazi naturali e di organizzazione degli insediamenti.Ma ha dato ad esse anche l’ opportunità di utilizzare un patrimonio biologico di piante di incomparabile ricchezza - frutto degli apporti secolari di diverse e talora lontane culture agronomiche - con cui hanno saputo valorizzare la varietà dei climi e delle vocazioni ambientali locali che la Penisola offriva.

Come costruire il Catalogo?

E’ questo indubbiamente l’interrogativo a cui è più difficile rispondere. Probabilmente, per ciò che riguarda il punto di partenza, la soluzione più semplice, ma anche quella più fedelmente aderente alla geografia e alla storia del nostro paesaggio, è iniziare dai caratteri naturali dei diversi habitat. Le regioni geografiche della Penisola possono costituire i grandi quadri di insieme all’interno dei quali si sono storicamente collocate le diverse forme di organizzazione dei campi e delle piantagioni, l’uso degli spazi, i moduli costruttivi. I quadri naturali, dunque, come grandi contenitori all’interno dei quali si ritrovano diverse espressioni di paesaggio agrario, magari contigue, che possono essere individuate e analizzate attraverso un processo di progressiva e sempre più ravvicinata focalizzazione. Il Catalogo, in una impostazione siffatta, dovrebbe procedere come per cerchi concentrici, partendo da ampie delimitazioni spaziali per mirare a ricognizioni analitiche sempre più circostanziate. Tale impostazione consentirebbe di concepire il lavoro di costituzione del Catalogo come un processo incrementale. Una volta delineate le macro-aree in cui il paesaggio appare contenibile, e individuate le forme più tipiche e meglio note di esso, occorrerà riempire di indagini sempre più ravvicinate - condotte da rilevatori che operano sul campo - gli schemi generali, in grado di fornirci un censimento significativo dello stato attuale del nostro patrimonio. Va da sé che i quadri di insieme, geografici e storici, del paesaggio dovrebbero trovare una prima e importante espressione e sistemazione, in grado di circolare tra il pubblico, in una edizione cartacea.Un grande atlante del paesaggio agrario italiano che renda visibile e percepibile la vastità e ricchezza dei beni censiti. Ma ad esso dovrebbe seguire un lavoro autonomo destinato a proseguire nel tempo e finalizzato a riempire i quadri generali con le ricognizioni analitiche condotte sul campo. Dunque un catalogo elettronico che si arricchisce continuamente nel tempo e che sarà in grado di fornirci l’archivio generale del paesaggio agrario italiano.

A nessuno sfugge l’interesse e l’importanza di un simile patrimonio conoscitivo.Esso costituirebbe uno strumento prezioso per controllare alterazioni e manipolazioni arbitrarie e per tutelarlo. D’altra parte occorre anche ricordare che il paesaggio agrario non è un museo di reperti chiusi nelle loro teche di vetro. Esso è sede di economie in corso, quindi di uso e frequentazione quotidiana.La geometria delle aziende capitalistiche di pianura è in continua evoluzione. E qui si pone tra l’altro un problema che andrà al più presto affrontato. Una parte cospicua dei territori di pianura è oggi occupata dalle agricolture industriali, che hanno formato anche’esse, una forma nuova di paesaggio agrario: un paesaggio molto regolare e geometrico, fatto di coltivazioni nettamente ripartite, ma che negli ultimi anni, attraverso la plastica bianca delle serre, sta gravemente alterando il profilo e l’estetica delle nostre campagne. Anche per tale ragione un Catalogo, quindi, un «catasto» del nostro patrimonio storico, si rende necessario al fine di fornire alla regolamentazione legislativa i supporti imprescindibili di conoscenza.

Quali paesaggi?

Si potrebbe iniziare, procedendo da Nord verso Sud, dalla Montagna alpina. Qui, dove la natura impervia ha scoraggiato l’intrapresa agricola, fanno tuttavia paesaggio originale i territori a pascolo, dove si svolgeva l’alpeggio del bestiame in estate e le costruzioni delle malghe, in legno o in pietra, per ricoverare uomini e bestie.Ma, sempre in queste aree, più precisamente lungo le valli, un modulo di sfruttamento agricolo originale appaiono oggi i vasti terrazzamenti a viti, degradanti lungo i costoni, che sono così tipici, ad esempio, in Valle d’Aosta.

Più a Sud abbiamo l’Area delle Prealpi, vale a dire il vasto territorio collinare di Lombardia, Piemonte e Veneto. Qui è l’area tradizionale della piccola proprietà, contrassegnata soprattutto dalla presenza del vigneto e di piante fruttifere resistenti al clima continentale. Siamo di fonte a una policoltura collinare inframmezzata da abitazioni sparse e da borghi che andrebbe analizzata nelle sue particolarità e varianti locali. Ma un’attenzione particolare meritano in queste zone anche i boschi misti di rovere, lecci, faggi, ecc, e i residui castagneti, esito di più o meno antiche riforestazioni.

La Pianura padana andrebbe analizzata in due grandi sezioni abbastanza distinte: l’alta e bassa pianura, la Padana asciutta e la Padana irrigua. Nella prima sezione, dove a lungo ha dominato il contratto mezzadrile e la bachisericoltura la coltivazione tradizionale dei cereali si è inframmezzata con diverse forme di piantata: aceri o pioppi a cui far arrampicare la vite, ma spesso gelsi con cui alimentare i bachi da seta.Vari anche qui sono stati i moduli e le soluzioni costruttive dell’archittettura rurale. Più a Sud il paesaggio diventa molto più vario, differenziato e complesso. I campi sono intersecati dai canali, rogge, fontanili: tutti elementi di una agricoltura intensamente irrigua. In tali aree il paesaggio è dominato da campi pianeggianti geometrici, propri delle vaste aziende capitalistiche, in cui si levano, in diverse forme e dimensioni le cascine: piccole cittadelle nel cuore della campagna, dotate spesso di porte e di mura di cinta, in cui viveva e trovava collocazione un manipolo di lavoratori fissi, il bestiame, le derrate, gli attrezzi da lavoro. In questo stesso habitat, ma più decisamente umido, sorge il paesaggio delle risaie, che costituisce una specificazione ulteriore dell’agricoltura irrigua. Più a oriente, verso il vasto Delta del Po, questo paesaggio conserva ancora i caratteri di una vasta terra di bonifica, dove dominano le grandi aziende cerealicole mentre le idrovore, le «chiuse» le cascine e i canali punteggiano i vasti campi coltivati.

La regione dell’Appennino costituisce un ambiente a sé. Qui siamo in un’area dominata dal paesaggio forestale: boschi, soprattutto di castagni, che caratterizzano in maniera particolare alcune zone(Toscana, Lazio settentrionale), ma anche di quercie e lecceti. Siamo di fronte a un territorio punteggiato di borghi e da popolazione rada che ha plasmato il proprio habitat anche con il pascolo, la macchia, i piccoli orti, ecc .

Più a Sud incontriamo la vasta e variegata area delle colline preappenniniche, nelle quali le popolazioni contadine hanno elaborato nei secoli molteplici forme di paesaggio.Un’ area che conserva una propria impronta originale è quella che potremmo definire dei terrazzamenti mediterranei della Liguria: vale a dire le coltivazioni «verticali» delle colline costiere a viti ed ulivi. Il paesaggio delle Cinque Terre è quello meglio noto e più caratteristico di quest’area.Nelle terre interne di tale regione geografica occorrerebbe delimitare e censire il paesaggio dell’incastellamento - frutto del ripiegamento difensivo delle popolazioni nel Medioevo - cosi’ caratteristico, ad esempio, di tante campagne del Lazio.

Più in basso, verso l’area delle colline dell’Italiacentrale, dominio secolare del podere mezzadrile, si distende il bel paesaggio della policoltura contadina, che conosce le sue espressioni più note e pubblicizzate nelle campagne toscane e umbre. Ma anche all’interno di un paesaggio così fortemente caratterizzato occorrerebbe delineare habitat ancora più specifici e distinti, come ad esempio il paesaggio delle crete senesi o dei calanchi volterrani. In questa stessa fascia dell’Italia centrale si rende inoltre necessaria la ricognizione di quell’area - oggi profondamente trasformata dalla bonifica - che per secoli è stata occupata dalla maremma, vale a dire dalla boscaglia, dalle colture e dagli acquitrini che hanno segnato le terre della costa tirrenica dalla Toscana fino al Lazio.

Il paesaggio del Mezzogiorno, nella dorsale appenninica, continua quello dell’Italia centrale.Tuttavia, al suo interno, si rintracciano elementi di novità importanti. Uno di questi è dato senza dubbio dalla presenza di due grandi foreste storiche, come la Sila in Calabria e la Foresta umbra in Puglia. E anche il paesaggio di alcune montagne, sede di insediamenti radi e di attività economiche, e oggi ricadenti nell’ambito di importanti parchi, fanno caso a sé. Penso, in questo caso alla montagna del Pollino e all’impervio e complesso habitat dell’Aspromonte, all’aspro paesaggio montano della Sardegna. Più a valle, nelle aree submontane, sussistono ancora ampi frammenti di quel paesaggio relativamente nudo, utilizzato a pascolo o a seminativo, che Manlio Rossi-Doria definiva il latifondo contadino.

Ma è il paesaggio degli alberi l’impronta più profonda e originale che connota le campagne del nostro Sud. Qui occorre, tuttavia, distinguere e delimitare l’insieme in varie declinazioni locali e tecniche. Nel Sud abbiamo il paesaggio arboricolo misto, che possiamo considerare una tarda evoluzione del giardino mediterraneo: piantagioni di viti, ulivi, mandorli, fichi, noci, fruttiferi vari. In tale ambito credo che una attenzione specifica occorrerebbe dedicare ai terrazzamenti: esistono ancora, infatti - per esempio sulle alture di Scilla, in Calabria. o lungo il Gargano, vertiginosi terrazzi che ospitano vigne o stenti mandorleti, i quali testimoniano un’ età davvero eroica del lavoro contadino. Veri musei dell’agricoltura a cielo aperto che non dovrebbero essere perduti. Ma, accanto ad essi, troviamo le vaste aree dell’arboricoltura specializzata: oliveti e giardini di agrumi. In alcuni casi abbiamo oliveti storici che fanno caso a sé: ricordo la foresta di ulivi giganteschi della Piana di Gioia Tauro. Allo stesso modo gli agrumeti costituiscono un paesaggio unico, ma articolato in modelli alquanto vari di coltivazione: si va dai terrazzamenti della Costiera amalfitana, del Gargano, o di Ciaculli (Palermo), agli impianti per colmata lungo le fiumare calabresi, alle più ampie aziende agrumicole di pianura della Calabria e soprattutto della Sicilia, ma anche della Sardegna. Nelle isole minori, come ad es a Pantelleria, tanto le forme delle coltivazioni che l’architettura rurale formano un disegno così originale del paesaggio mediterraneo da meritare una specifica ricognizione.

Naturalmente all’interno di tali ambiti è possibile rinvenire frammenti di paesaggio ancora più specifici e caratterizzati: penso ad esempio all’agricoltura dei muretti a secco, la campagna della piccola proprietà recintata con pietre che connota così originalmente il territorio intorno ad Alberobello e in altre aree della Puglia contadina.

Nelle zone di pianura e di bassa collina il Sud conserva anche un paesaggio radicalmente diverso da quello degli alberi: è l’habitat del latifondo tipico, un territorio generalmente nudo, punteggiato qua e là da qualche masseria, rade delimitazioni con muretti a secco, ecc che testimonia un utilizzo millenario della terra a coltivazione estensiva alternata al pascolo. Un paesaggio siffatto trova manifestazioni di grandissimo fascino nelle Murge e nel Tavoliere delle Puglie, nel Crotonese, in Calabria, nelle Campagne di Enna e in tante altre aree della Sicilia. Esso ci appare oggi come un mondo inquietante e lunare, lontano dai rumori e dalle velocità del presente, superstite testimonianza paesaggistica di una millenaria pratica di lavoro contadino ormai scomparsa.

Estratto da: Sindacato Fascista Ingegneri della Provincia di Milano, Atti del Convegno degli Ingegneri per il potenziamento dell'agricoltura ai fini autarchici - Lombardia - Emilia - Tre Venezia - Piemonte- Milano 23-27 aprile 1938-XVI

Non è forse fuori luogo chiarire prima di tutto l'apparente antitesi che esiste nell'espressione «Urbanistica rurale».

Se nella sua accezione più moderna ed autorizzata l'urbanistica è la scienza e l'arte di disciplinare le convivenze umane, nulla di più naturale che, superata la cerchia chiusa della città, essa spinga più oltre il suo sguardo e le sue aspirazioni e rivolga la sua cura al territorio circostante, alla Provincia, alla Regione.

L'urbanistica non tanto disciplina le vie, le case, i quartieri, le città, ma gli uomini stessi, curandone la distribuzione, soddisfacendone i bisogni, creando l'ambiente sociale, tecnico, economico più adatto allo sviluppo di ogni attività.

Ampliare la sua sfera di azione non significa quindi già estendere alla campagna i fasti ed i nefasti dell'urbanesimo, ma al contrario studiare e prendere alle loro radici i fenomeni demografici nelle loro manifestazioni più tipicamente moderne, determinarne le cause, valutarne la natura e l'intensità, apprestarne i correttivi ed i rimedi.

L'espressione «Urbanistica rurale» più che un'antitesi rappresenta allora una precisazione: necessaria precisazione soprattutto in un paese come il nostro e nel clima politico e storico nel quale viviamo, che del problema della valorizzazione agricola ha fatto uno dei cardini di quel potenziamento delle forze morali e fisiche della Nazione che è l'essenza stessa della autarchia.

«Bisogna sfruttare al massimo ogni zolla di terra» proclama il Capo del Governo, ma «la terra vale ciò che vale l'uomo» e «solo un ambiente moralmente e fisicamente sano è adatto alla massima produzione».

Queste frasi si seguono e si completano colla serrata logica di un sillogismo per arrivare alla conclusione finale che può essere assunta come lo scopo stesso dell'Urbanistica: «riscattare le terra, e con la terra gli uomini e con gli uomini la Nazione».

Non parliamo quindi di antitesi, non parliamo nemmeno più di precisazione, parliamo piuttosto di inversione di termini.

Il vero problema urbanistico, inteso in senso nazionale, ha le sue radici proprio nella campagna, in questo grande serbatoio di mezzi e di uomini.

Questa è la conclusione - solo apparentemente paradossale - alla quale, pur partendo da considerazioni e da impostazioni diverse, concordemente arrivano tutte le pregevoli relazioni che ho l'onore di riassumere.

Ed ecco così, individuato sotto la specie «rurale» uno degli aspetti e delle funzioni specifiche dell'Urbanistica: la regola e la disciplina non soltanto delle città, ma anche dei territori ra esse interposti, delle nostre campagne, dei centri minori e minimi.

Ma se l'Urbanistica cittadina ha norme e leggi più note e più generali, l'Urbanistica rurale ha forme ed aspetti vari e mutevoli insuperabilmente condizionati da fatti e situazioni locali.

Per favorire una più conveniente sistemazione della masse rurali occorre è vero migliorare l'ambiente, ma questo miglioramento deve essere non un sovvertimento, ma un adattamento ed un perfezionamento strettamente aderenti agli stati di fatto creatisi per lunga vicenda di eventi e di usanze.

Ben hanno compreso i Relatori la imprescindibilità di questo fatto ed assai interessante e proficuo è il contributo da essi portato allo studio delle particolari situazioni ambientali delle quattro Regioni particolarmente rappresentate a questa nostra riunione e le cui caratteristiche sono sintetizzate in efficaci quadri riassuntivi che dal Basso Milanese al Friuli, dall'Appennino Emiliano alle Alpi Piemontesi, alla Brianza all'Oltre Po Pavese, dalla Bassa Reggiana alla Collina Veronese mettono in efficace evidenza situazioni demografiche, metodi colturali, tradizioni paesane, situazioni sociali ed economiche e sistemi costruttivi, offrendo una ricca messe di notizie, una buona e salda base di partenza per ogni nuova proposta ed una utile documentazione della varietà degli aspetti che assume la vita rurale nell'ambiente di una stessa Regione e di una stessa Provincia.

Una accurata indagine delle condizioni ambientali della Provincia di Milano è fatta dal Columbo mettendo in particolare evidenza con copia di dati statistici la essenziale differenza fra il regime agrario dell'Alto e del Basso Milanese. Nella Zona Alta la popolazione vive raggruppata in numerosi villaggi e borgate, diffusa è l'industria, predominano nel campo agricolo il piccolo affitto e la piccola proprietà, il contadino è legato alla terra che coltiva e dalla quale trae diretto profitto, mentre a saldare il bilancio domestico concorrono i proventi delle capacità produttive familiari che, esuberanti per il lavoro dei campi, trovano impiego nell'industria con flusso giornaliero di va e viene fra la casa rurale e l'officina, così da dar luogo, col favore delle comunicazioni, ad una forma mista di vita agricolo-industriale. Nella Bassa i centri abitati sono invece più radi, le industrie scarseggiano, nel campo agricolo predomina il grande fondo col grosso cascinale lontano dai centri comunali, mal favorito dalle comunicazioni, abitato da contadini semplici salariati, scarsamente attaccati alla terra che coltivano, e perciò animati da un inquieto spirito di nomadismo che li spinge ai frequenti «San Martini» dall'uno all'altro podere finchè fatalmente sono attratti dalla grande città.

Un quadretto del pari interessante è fatto dal Cosolo delle particolari condizioni del Friuli dove, a lato delle grandi proprietà delle zone di bonifica circumlagunare tuttora in corso di appoderamento e condotte con salariati e compartecipanti, si hanno ancora antiche proprietà di vecchie famiglie padronali di tradizione rurale che dalla loro villa, centro aziendale, dirigono l'amministrazione dei loro poderi coltivati a mezzadria. Il Cosolo si indugia ad esaminare con particolare competenza ed amore il problema della mezzadria per trarne acute e convincenti conclusioni circa le dimensioni dell'unità poderale e familiare intesa come cellula di tutta la organizzazione urbanistico-edilizia della zona.

Il Carena ci dipinge invece le condizioni del Basso Oltre Po Pavese ed opportunamente insistendo sul concetto che funzione dell'Urbanistica rurale non è solo la ideazione di nuove grandi opere come quelle di cui l'Agro Pontino offre così splendidi esempi ma anche la sistemazione - più modesta ma altrettanto utile e sotto molti aspetti più difficile - dei piccoli paeselli rurali esistenti, dà alcuni precisi e giudiziosi suggerimenti frutto di una personale profonda conoscenza dell'ambiente.

Della provincia di Verona il Poggi mette in evidenza la caratteristica del grande frazionamento delle case coloniche nella campagna, soprattutto nella parte bassa irrigua e nella zona collinare e la stazionarietà dei centri abitati, esclusi naturalmente i maggiori. Ciò non vuol dire, osserva giustamente il relatore, che i piccoli centri perdano importanza; al contrario la loro influenza si va maggiormente estendendo nella campagna.

Del pari esauriente è l'illustrazione che l'Artoni fa della Provincia di Reggio Emilia ricordando in primo luogo l'apporto dato alla risoluzione dei problemi che ci interessano dai Consorzi di Bonifica della zona bassa, ai quali fa ora riscontro il Consorzio per la difesa e la sistemazione della montagna reggiana.

Questi Consorzi non sono in effetto che una anticipazione dei principi e dei metodi dell'Urbanistica rurale, a proposito di che trova qui opportuna citazione l'affermazione del Rabbi che l'Urbanistica rurale non è che la prosecuzione del piano della bonifica integrale.

Il regime fondiario del Reggiano è caratterizzato da un notevole frazionamento della proprietà: il sistema di conduzione prevalente è l'affitto, che però va gradatamente modificandosi a favore della mezzadria. Anche la grande proprietà terriera, una volta eseguito l'appoderamento, non rifugge da queste forme di conduzione.

Notevole è l'attività industriale particolarmente diretta alla trasformazione dei prodotti agricoli.

Gli aggregati urbani sono assai ravvicinati fra loro. Solo nelle zone di recente bonifica si rileva qualche discontinuità nella attrezzatura urbanistica della campagna che potrà in casi specialissimi consigliare la creazione di qualche nucleo o borgata rurale. Le case coloniche sono prevalentemente distribuite nei singoli poderi della zona bassa. Raggruppate nei paeselli della zona montuosa.

Il problema urbanistico-rurale da risolvere riguarda in parte l'edilizia ma soprattutto i servizi pubblici di carattere igienico, quali la distribuzione idrica e lo smaltimento delle acque di rifiuto.

Malgrado i progressi compiuti nella valorizzazione delle risorse locali vi è infine da risolvere un problema cronico di disoccupazione il quale dovrà trovare il suo sbocco in un ulteriore progresso della bonifica, in una migliore dislocazione delle industrie, in una sempre maggiore formazione di centri e i comuni ad economia mista che sono quelli nei quali la popolazione gode di un maggiore benessere. E tutto ciò non potrà realizzarsi se non attraverso una visione meno particolaristica e più «regionale» di queste complesse questioni.

Avvertiamo subito che alla parola «regionale» qui e altrove usata non intendiamo dare il significato attinente al termine «Regione» nella accezione geografica italiana, bensì il significato comunemente accettato dagli Urbanisti, di una entità territoriale individuata da comuni fattori geografici, economici, morfologici, cui meglio che la nostra «Regione» corrisponderebbe la Provincia od il Circondario od altro simile complesso territoriale.

Non poteva infine mancare nella rassegna delle condizioni ambientali dell'Alta Italia anche un esame delle particolari condizioni delle nostre montagne e ce lo offre la relazione del Porzio, il quale giustamente osserva come, rappresentando il suolo produttivo montano circa un terzo della superficie totale del Regno, fra i compiti della bonifica integrale quello della restaurazione montana è certo il più grave per aspetti sociali e tecnici.

La montagna si spopola. Il montanaro lascia la montagna non tanto perchè attratto da illusori miraggi della città, quanto perchè letteralmente non può più viverci.

Per equilibrare il fenomeno dello spopolamento - osserva il Porzio con sussidio di esempi pratici - non vale la creazione dei centri turistici e sportivi di alta montagna. Sembra anzi ad un primo esame che ciò acceleri il corso degli eventi.

Per arginare questo processo, in certo senso cronico, per trattenere la popolazione sui monti nativi occorre agire sulle cause prime del fenomeno: attrezzatura tecnica arretrata degli abitati (povertà di case, di comunicazioni, di servizi pubblici) e condizioni non redditizie del lavoro e della proprietà.

Il Porzio illustra ciò che in questo particolare campo dell'Urbanistica rurale si è fatto negli ultimi anni, a partire dal Raduno di Pinerolo del 1934, colla istituzione degli Uffici di Fondovalle, accenna alla proposta apparsa in una autorevole rivista di far sorgere ovvero ampliare o riattare a titolo di esperimento in qualche tipico centro montano un Comune colle indispensabili attrezzature moderne di vita civile e rurale, e ricorda la istituzione di apposite Commissioni di studio anche presso il Sindacato Ingegneri.

Dalla considerazione delle condizioni particolari di ambiente le singole Relazioni passano all'esame dei provvedimenti coi quali l'Urbanistica rurale può raggiungere lo scopo essenziale di migliorare le condizioni di vita delle masse rurali.

Risalendo di un passo più indietro il Rabbi prende in esame il complesso dei coordinamenti iniziali - che egli definisce pre-urbanistici - atti ad incrementare l'energia e l'attività delle masse rurali ed a migliorare i coefficienti di produzione, quali la elevazione professionale del lavoratore agricolo, la tecnicizzazione delle giovani generazioni rurali, la creazione di una gerarchia di capacità e di qualifiche nelle maestranze, la evoluzione dei patti colonici per promuovere i miglioramenti colturali ai fini autarchici, il perfezionamento dei sistemi di raccolta e di distribuzione dei prodotti.

Il fattore uomo, i suoi bisogni morali e materiali, le condizioni di ambiente atte a soddisfare ad un minimo di esigenze di benessere e di decoro, come mezzo necessario del potenziamento agrario della Nazione, sono pure analizzati dal Radice Fossati.

I provvedimenti urbanistici da adottare a vantaggio dei lavoratori della terra potrebbero riassumersi nella forma breve: «Dare al lavoratore la dignità e la gioia del lavoro con la sanità della vita sgombra dai disagi non necessari».

Nella loro estrinsecazione pratica essi possono raggrupparsi intorno ai seguenti punti:

1) diffusione e perfezionamento delle aziende agrarie e delle case rurali isolate;

2) formazione di raggruppamenti e di borgate rurali;

3) miglioramento dei vecchi paesi;

4) incremento e sviluppo della viabilità;

5) incremento e sviluppo dei servizi pubblici.

L'unità aziendale agricola è la cellula dell'urbanistica rurale, la necessità di migliorare gli edifici aziendali nei quali si svolgono la vita ed il lavoro del rurale è intuitiva, le opportunità di conservare il cascinale colonico presso la terra da coltivare è essenziale agli effetti di un miglior sfruttamento della terra.

L'Aguzzi prendendo particolarmente in esame le condizioni del Basso Milanese si preoccupa di ridurre la dispersione dei cascinali e vorrebbe per questi un maggiore avvicinamento al capoluogo di comune.

Il Poggi nota invece con soddisfazione che nella campagna veronese la tendenza al decentramento dei cascinali è già in atto e ritiene che un simile movimento sia da favorire collo scopo tendenziale di ridurre i paesi rurali alla loro ideale funzione di centro amministrativo, politico, commerciale e di sede di quelle attività e di quei soli strati della popolazione che non sono intenti alla coltivazione dei campi o che vi hanno solo occupazione temporanea come braccianti. Le disposizioni sanitarie che limitano alcune possibilità di esplicazione delle funzioni di una azienda agraria nei centri abitati, soprattutto per quanto si riferisce alla tenuta del bestiame, inducono indubbiamente ad un graduale decentramento.

Delle due tendenze ci sembra che quella esposta dal Poggi e sostenuta da altri relatori sia la più consigliabile.

Se ci è consentita una breve digressione vorremmo qui ricordare i recentissimi lavori di bonifica edilizia della sua proprietà rurale eseguiti nello scorso anno e nel corrente da parte dell'Amministrazione dell'Ospedale Maggiore di Milano, i quali sono stati appunto condotti con questo indirizzo.

L'Ospedale Maggiore di Milano è il più grosso proprietario terriero della Lombardia possedendo circa 10.000 Ea di ottimi poderi parte nella Zona Alta e parte nella Zona Bassa fra il Ticino e l'Adda sui quali hanno stabile dimora circa 1.500 famiglie rurali.

Il piano di riassetto delle case coloniche attualmente in corso col quale verrà dato alloggio in nuovi edifici a più di 300 famiglie coloniche, senza contare i lavori di restauro delle rimanenti case, si competa nei programmi dell'Amministrazione ospitaliera con un piano di rimaneggiamento della consistenza dei singoli poderi affittati e colla formazione di entità agrarie più rispondenti alle necessità di una buona e conveniente conduzione. Perciò nelle zone irrigue della Bassa - dove sussiste ancora qualche podere di più di 200 Ea - fu fatto luogo al frazionamento in due delle vecchie unità poderali colla formazione di nuovi cascinali completi di ogni accessorio aziendale ed opportunamente dislocati sul fondo da servire, e nella Zona Alta - a Sesto Calende, Seregno, Vanzago, Magenta, ecc. - dove un buon numero di vecchie corti coloniche si trovava ad essere ormai completamente incorporato nell'abitato di quei centri urbani venne senz'altro adottato il partito di trasferire le corti coloniche stesse in località più eccentriche e più prossime ai poderi, in luogo di procedere al riattamento in sito delle vecchie costruzioni, le quali furono di preferenza invece vendute a privati od agli stessi Comuni per consentirne o la trasformazione per uso residenziale delle masse operaie e della popolazione non rurale, o, più spesso, la demolizione per sistemazioni di piano regolatore di quei centri.

Ho creduto interessante di citare questi esempi già in atto perchè sono una documentazione del come sia stato possibile conciliare le direttive del proprietario terriero colle necessità e le vedute delle Amministrazioni comunali, cosicchè il piano di bonifica dell'edilizia rurale si è automaticamente identificato con un piano di riforma urbanistica dei centri abitati, che altrimenti assai difficilmente si sarebbe attuato coi soli mezzi municipali.

Sull'argomento del riassetto dei vecchi paesi si soffermano con particolare attenzione quasi tutti i relatori, mentre logicamente sorvolano sull'altro della creazione di nuovi raggruppamenti e di borgate rurali perchè - all'infuori delle zone di bonifica dove si rivela qualche discontinuità nella attrezzatura urbanistica - per il resto delle nostre regioni non è il caso di pensare alla vera e propria creazione di nuovi centri abitati.

Se lo spazio lo consentisse varrebbe la pena di riportare per intero ciò che i singoli relatori e soprattutto il Carena scrivono sull'argomento del riassetto dei vecchi paesi rurali.

L'essenziale è questo: dopo aver dato al rurale presso la terra che coltiva una casa sana e decorosa ed una struttura aziendale atta alla migliore utilizzazione dei prodotti del suolo, occorre però offrirgli nel riassettato capoluogo del Comune anche un punto di riferimento e di raccolta dove possa trovare in un più decoroso ambiente quegli aiuti morali, culturali, assistenziali, che gli sono necessari per la sua elevazione.

I confronti colla città saranno meno stridenti se il paesello sarà più lindo ed accogliente, l'osteria avrà meno frequentatori se più sani luoghi di riunione cureranno lo sviluppo del fisico e del morale.

Potrei ancora qui citare quanto si è fatto dall'Ospedale Maggiore di Milano negli aggregati di Monticelli e di Fallavecchia, completando il rinnovo dell'ambiente edilizio colla dotazione di tutte quelle istituzioni assistenziali e ricreative di cui finora - a differenza dei loro fratelli operai delle officine cittadine - i lavoratori della campagna erano completamente privi.

Insieme al risanamento delle case rurali singole, dei complessi aziendali e dei centri rurali - inteso come mezzo per fissare il maggior numero possibile di famiglie alla terra - un utile sussidio allo stesso fine può derivare da una limitazione della concentrazione industriale nei grandi centri urbani e dalla creazione di nuovi impianti industriali, con particolare riguardo a quelli più affini al ciclo di produzione agraria, opportunamente dislocati nelle campagne.

A questo proposito sarà bene rilevare che solo un piano regolatore «regionale» delle industrie permetterà di precisare in modo conveniente i criteri distributivi degli impianti, non solo dal punto di vista quantitativo ma anche geografico, considerando la opportunità di appoggiare le nuove industrie a quei centri rurali già provvisti di una attrezzatura adeguata e qualche volta esuberante rispetto alla loro funzione attuale e dove il fenomeno della disoccupazione - prima grande molla dell'esodo verso la città - assume aspetti più gravi.

Anche le occupazioni di carattere artigiano possono essere di grande utilità perché permettono di occupare il contadino nei periodi intermedi delle lavorazioni agricole.

Analisi urbanistiche particolarmente diligenti svolte presso i singoli Comuni rurali - come propongono l'Artoni ed il Radice Fossati - permetteranno di individuare esattamente i caratteri fondamentali della loro economia, di stabilirne le necessità e le possibilità, e quindi di segnalare gli squilibri e le situazioni anormali e di suggerire i rimedi ed i provvedimenti da inserire nel Piano regionale.

Si può in genere rilevare dalle dimostrazioni dei singoli Relatori che i Comuni rurali che si trovano in condizioni economiche più favorevoli e nei quali la popolazione è più stabile sono quelli nei quali accanto ad una sana economia agricola si sono sviluppate piccole industrie legate all'agricoltura oppure speciali attività artigiane, mentre i Comuni dove l'unica risorsa è rappresentata dalla agricoltura la classe del bracciantato è numerosissima ed il fenomeno della disoccupazione assume ricorrenze più frequenti ed aspetti più acuti.

Di qui quel circolo chiuso di disoccupazione e di situazioni debitorie che allarma e preoccupa continuamente le Autorità politiche locali.

Ultimo e grave problema infine del riassetto locale quello delle vie di comunicazione e dei servizi pubblici.

E' vano sperare il risorgere della vita delle campagne, se queste non vengono adeguatamente permeate dal sistema capillare delle reti stradali e dei servizi indispensabili all'igiene ed al vivere civile.

Ma su questo argomento non ci dilunghiamo, perchè esso è trattato come tema particolare di altre sezioni di questa nostra riunione.

Fra i problemi collaterali del tema generale in discussione meritano speciale cenno quelli trattai in due apposite relazioni dai colleghi torinesi Orlandini e Rigotti.

Il primo, colla particolare competenza che gli deriva dal suo ufficio di sovraintendente ai Servizi tecnici di una grande città industriale come Torino, si occupa giustamente della stretta interdipendenza fra lo sviluppo delle grandi città e quello delle circostanti campagne che costituiscono il «suburbium», interdipendenza che porta di necessità i servizi tecnico-urbanistici del centro maggiore ad interessarsi della sistemazione delle plaghe marginali, anche oltre i limiti territoriali e cioè per tutta la zona in prevalenza rurale dell'«intercittà».

Questi studi, se in primo luogo devono tendere al miglioramento delle comunicazioni e dei servizi ed alla disciplina costruttiva per il razionale sviluppo dei centri secondari, non possono trascurare, debbono anzi tenere nella massima considerazione, la necessità di contemperare l'urbanesimo ruralizzando la città. Ma per ruralizzare la città e dare ad essa una struttura meglio rispondente alle sue esigenze di oggi e di domani occorre provvedere tempestivamente alla difesa della zona agricola esterna controllandola e potenziandola ed assicurando estese superfici marginali di terreno che, destinate a colture arboree, costituiscono le necessarie riserve per un più ampio respiro della città. Come esempio pratico l'Orlandini descrive gli arboreti in formazione intorno a Torino ed i provvedimenti adottati per la valorizzazione della collina, delle sponde del Po, della Dora e della Stura.

L'Ing. Rigotti rilevando infine come le caserme e gli stabilimenti militari per le loro particolari esigenze siano fra gli elementi negativi dell'assetto urbano per la loro ingombrante estensione, per l'antiestetica monotonia delle loro linee, per i disturbi alla viabilità ed alla tranquillità dei quartieri, e rilevando ancora come il temperamento di creare delle «zone militari» ai margini della città per la riunione di tutti gli alloggiamenti di truppe e dei servizi annessi non risolva neppur esso il problema per l'eccessivo agglomeramento che determina e per i conseguenti pericoli di una maggiore vulnerabilità in tempo di guerra, crede che le caserme debbano decisamente allontanarsi dalle città e trasferirsi nelle campagne e vede in ciò un mezzo per evitare da un lato i danni morali, che dalla permanenza nelle città durante il periodo della ferma derivano alle falangi dei giovani rurali, e dall'altro per promuovere o conservare l'attaccamento del soldato alla terra.

L'argomento molto interessante e complesso per la incidenza anche di fattori che esulano dalla nostra specifica competenza meriterebbe certo una più ampia trattazione di quella che non sia possibile nella nostra attuale riunione.

Arrivando alle proposte conclusive delle singole relazioni restano da considerare gli organi e i mezzi per la realizzazione di un così vasto programma di coordinamento dei fattori della vita rurale.

Tutti i relatori sono concordi nell'individuare nei cosiddetti «Piani regolatori regionali» gli istrumenti più efficaci per la impostazione di insieme di tutti gli studi e le indagini occorrenti. Opportunamente osserva però il Poggi che della abusata espressione «Piano Regionale» occorre fare preciso e giustificato uso. In questi ultimi tempi cornice immancabile di ogni Concorso di Piano regolatore urbano è un abbozzo organizzativo di tutto il presunto territorio di influenza delle singole città.

Sulla attendibilità di questi Piani regionali ipotetici e abborracciati su pochi imparaticci si debbono fare le più ampie riserve.

Il Piano regionale non è un mosaico di vivaci tinte stemperate a impressione e ad effetto a creare una cervellotica «zonizzazione», bensì il riassunto grafico di maturi studi e di indagini intese, attraverso una coscienziosa analisi geografica e statistica, alla esatta individuazione delle caratteristiche, delle necessità e delle possibilità di una determinata plaga.

Bando perciò alle improvvisazioni individuali.

Il lavoro di redazione del Piano regionale, che è soprattutto un piano tecnico ed economico, ed il lavoro di propulsione, di guida, di coordinamento di tutte le energie intorno all'Urbanistica rurale - intesa nella sua definizione di disciplina delle convivenze umane nell'ambito rurale - devono far capo ad appositi Enti convenientemente attrezzati.

In questo campo, giova riconoscerlo francamente, perchè la verità in tempo fascista nè spaventa nè offende, l'Estero ci ha da tempo preceduto ed in Germania ed in Inghilterra esistono organizzazioni ed istituti che opportunamente adattati al nostro particolare clima sociale ed economico possono servire di esempio.

Questi Enti di studio e di coordinamento nell'ambito provinciale dovrebbero secondo alcuni relatori essere autonomi, secondo altri dipendere dai già esistenti organismi quali il Consigli Provinciale dell'Economia Corporativa o la stessa Amministrazione Provinciale, secondo altri ancora dipendere dal Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste.

Senza ricorrere ad un eccessivo - e forse pericoloso - accentramento statale sembra che gli organi provinciali siano i meglio qualificati ed i più sensibili alle necessità locali. Il che non esclude affatto la possibilità di intese più vaste per quei problemi che trascendono i limiti territoriali della Provincia.

Quanto al passaggio dal campo degli studi a quello delle pratiche realizzazioni l'istituto dei Consorzi, attraverso il quale già in tanti campi si estrinseca l'attività degli Enti provinciali, sembra il meglio rispondente.

La istituzione dei Consorzi, i rapporti colle altre iniziative della Bonifica integrale, la graduazione dei programmi, le norme per l'intervento del credito e degli aiuti finanziari del Governo e degli Enti pubblici sono materia che richiede particolari provvedimenti di legge per dare pratica attuabilità ai piani licenziati dagli Enti di studio provinciali od interprovinciali.

Va da sè che a far parte di tutti questi Enti di studio ed esecutivi dovrebbero con preciso indirizzo corporativo entrare insieme coi rappresentanti delle pubbliche amministrazioni, e di ceti agricoli ed industriali e delle grandi organizzazioni dei pubblici servizi anche i tecnici particolarmente competenti nel campo dell'Urbanistica.

Troppo spesso dobbiamo assistere con profonda amarezza ad errori grossolani che pregiudicano la soluzione razionale dei problemi o che danno luogo a sprechi vistosi con conseguenze penose per le pubbliche finanze. Interessi particolari, idee ristrette, individualismi sfrenati, una valutazione sommaria ed unilaterale dei problemi rappresentano quel complesso di forze negative che possono frustrare completamente le superiori finalità alle quali si ispirano gli studi ed i programmi urbanistici.

In nessun campo, meglio che in questo, le concezioni politiche, etiche e sociali proclamate dal Fascismo, possono trovare la loro perfetta ed integrale applicazione.

Ordine, disciplina, gerarchia, valutazione integrale dei problemi, subordinazione degli interessi singoli agli interessi generali: ecco i principi che caratterizzano l'Urbanistica come metodo di studio e di indagine e come azione pratica.

Se infine è necessario evitare l'improvvisazione individuale è d'altra parte opportuno evitare una eccessiva burocratizzazione degli Enti e degli Uffici che sono chiamati o saranno chiamati a svolgere la loro attività nel campo dell'Urbanistica rurale.

Anche nello studio dei piani regionali, come già in quello dei piani cittadini, la collaborazione delle classi professionali potrà dare ottimi risultati.

Come ultimo anello della catena degli organi di studio ed esecutivi il Poggi prospetta la figura nuova dell'«Ufficiale Tecnico» in analogia a quella dell'«Ufficiale Sanitario» organo di direzione e di controllo non appesantito e impastoiato dal gravame di una burocratica organizzazione.

E' bene mettere pure in evidenza come fa il Quaglini anche la parte che nella esecuzione di dettaglio dei piani agrario-edilizi va conservata alla proprietà privata la cui funzione è insopprimibile nell'armonico complesso delle varie attività.

Resta infine essenziale il problema dei mezzi economici per fronteggiare così vasti problemi.

L'ambiente rurale non è un ambiente ricco. Esso solo non può disporre dei mezzi occorrenti al vasto piano di riordinamento di cui si è trattato. Ma, se il miglioramento delle condizioni di vita delle campagne è - come abbiamo dimostrato - condizione essenziale per il potenziamento delle nostre risorse agricole, l'intera Nazione, coi suoi organi statali e periferici, colle sue forze di risparmio e colle sue istituzioni di credito deve provvedere quelle annticipazioni e quei mezzi che saranno indubbiamente garantiti e compensati dai risultati finali dell'opera di bonifica degli uomini, degli ambienti e del suolo che solo se completa nei tre termini di questo trinomio può veramente chiamarsi «integrale».

Riassumendo le proposte emerse dalle singole Relazioni e dallo studio del Tema in discussione il Relatore generale dà quindi lettura delle seguenti conclusioni e proposte:

Ritenuto che nel quadro generale dell'Urbanistica - intesa in senso nazionale - l'Urbanistica rurale, e cioè la sistemazione del suolo, dell'ambiente e delle popolazioni di quel grande serbatoio di uomini e di mezzi che è la campagna, costituisce il necessario complemento dell'urbanistica cittadina,

riconosciuta la difficoltà di fissare all'urbanistica rurale rigide norme che possano uniformemente applicarsi alle svariate situazioni agricole e sociali delle diverse regioni e la opportunità dell'intervento di Enti di circoscritta competenza territoriale per il coordinamento delle iniziative pubbliche e private

il Convegno fa proprii i seguenti punti programmatici illustrati dai Relatori particolari:

1) Il miglioramento delle condizioni di vita della massa rurale - compito specifico dell'Urbanistica rurale e condizione essenziale per il potenziamento delle risorse agricole della Nazione - può essere raggiunto solo attraverso un organico coordinamento delle iniziative d'ordine tecnico, economico e sociale.

2) Base di studio per tale coordinamento è la predisposizione di piani intercomunali, provinciali od interprovinciali affidati a competenti Enti tecnico-urbanistici di emanazione locale nei quali si armonizzino tutte le rappresentanze dell'Ordinamento corporativo dello Stato.

3) I detti piani dovranno considerare con visione unitaria i problemi inerenti alla demografia, all'edilizia, alla viabilità, ai trasporti, ai servizi pubblici, all'assetto agricolo ed industriale delle singole zone, tenendo particolarmente presenti i seguenti obbiettivi:

a) perfezionare la distribuzione e la struttura delle singole aziende agrarie e delle case rurali per un sempre maggiore avvicinamento dei coltivatori alla terra;

b) migliorare l'assetto dei vecchi centri rurali (paesi e borgate) per elevare il tenore di vita delle masse lavoratrici della campagna;

c) favorire il decentramento delle industrie attinenti all'agricoltura allo scopo di promuovere la formazione di centri rurali ad economia mista (agricoltura, artigianato, piccola e grande industria);

d) incrementare i mezzi di comunicazione e di trasporto ed i servizi pubblici;

e) affiancare le iniziative già in corso per fronteggiare il preoccupante problema dello spopolamento delle zone montane.

4) Alla realizzazione di detti piani che costituiscono la prosecuzione ed il perfezionamento del programma di bonifica integrale promosso dal Regime occorrono opportuni interventi legislativi e creditizi dello Stato.

I vasti problemi che si riferiscono allo sviluppo delle città italiane ed alla disciplina della loro nuova fabbricazione, trovansi ora, nell'attuale decisivo momento edilizio, all'ordine del giorno tecnico della Nazione; ed i nostri ingegneri ed i nostri architetti debbono prepararsi ad affrontarli con adeguata competenza, con rispondenza sicura tra i mezzi ed il fine.

Purtroppo nel passato prossimo questa preparazione è quasi sempre e quasi ovunque mancata; e forse non poteva essere altrimenti. Il grandioso fenomeno dell'urbanesimo, che ha affollato le città con enormi e rapidissimi aumenti di popolazione, si è sviluppato prima che maturassero, non solo lo studio e l'esperienza, ma perfino la coscienza dei grandi problemi che esso coinvolgeva nei riguardi del passato, del presente e dell'avvenire delle agglomerazioni cittadine. In particolare i mezzi di comunicazione hanno avuto un incremento imprevedibile, sia a recare un ingombro insopportabile nelle vecchie vie, sia a costituire un elemento di liberazione e di richiamo verso l'esterno, quasi a somigliare nel contrasto tra veicolo e strada l'alterna vicenda dei mezzi bellici di offesa e di difesa.

Soltanto colà dove una mente lungimirante ha presieduto allo sviluppo edilizio, come a Bruxelles, o dove una energia imperiale ha voluto affermarsi in opere grandiose con vastissimi mezzi, come a Vienna, a Parigi, a Strasburgo, a Monaco (seguendo l'esempio di quel megalomane di genio che fu Sisto V nella Roma del Cinquecento), ivi l'organismo della città si è in tempo avviato al suo ampliamento e si è dimostrato adatto al maggior sviluppo successivo. Ma questo non è stato, nè poteva essere, il caso delle città italiane; ove non sono mancate qua e là concezioni edilizie in tutto od in parte felici, come quelle dei viali periferici e del viale dei Colli di Firenze, o quelle del Rettifilo di Napoli, del Corso Vittorio Emanuele di Roma, della via XX Settembre a Genova, ma limitate ad un tracciato, non portate ad abbracciare tutta la vita cittadina, soluzioni locali aventi scopo a loro stesse, non fasi di più vaste realizzazioni per l'incremento della città; ed intanto la nuova edificazione si è addensata entro ed intorno al vecchio nucleo, spesso alterandone il carattere d'arte e d'ambiente, fasciandolo e soffocandolo cogli enormi casamenti entro gli isolati tutti uguali, tra le vie tutte uguali e tutte ugualmente insufficienti pel movimento che vi è sopraggiunto nel periodo immediatamente successivo. Questa attività edilizia che data dai cinquanta ai venti anni fa, rappresenta ora il maggior ostacolo ad ogni espansione ulteriore.

Da questa non lieta era di imprevidenza e di incomprensione della Edilizia nella tecnica e nell'arte ci andiamo ora, forse troppo tardi, rilevando. Oggi - è confortante constatarlo - si manifesta tra noi in questo così vasto campo tutto un magnifica risveglio di energie, che si esprime in studi severi, che si sostituiscono al dilettantismo empirico, ed in iniziative razionalmente avviate. La istituzione di speciali insegnamenti di Edilizia nelle scuole superiori d'architettura e nei corsi speciali di perfezionamento presso le Scuole d'ingegneria, le moltissime pubblicazioni di libri e riviste in cui appare alfine un riflesso di quella vastissima letteratura che fiorisce in Germania, in Francia, in Inghilterra sul molteplice argomento, i pubblici concorsi banditi pei piani regolatori di importanti città, come recentemente per Milano e per Brescia, la costituzione a Roma, a Milano, a Torino di gruppi urbanistici, le stesse discussioni ferventi che si animano nelle principali città italiane sui problemi dello sviluppo cittadino, sono non solo promettenti indizi di rapide conquiste, ma insieme mezzi efficaci per la formazione di una scienza e di una coscienza urbanistica. Si comincia ormai a vedere da tutti che l'ampliamento di una città, con l'innesto di nuovi quartieri sul vecchio tronco e l'avviamento verso uno sviluppo avvenire, rappresenta uno dei compiti più vasti e di maggiori responsabilità che si presentino all'Ingegneria ed all'Architettura; regolato da leggi precise, reso complesso dall'interferire di condizioni di diversissimo ordine.

É dunque il momento di intensificare gli studi e gli sforzi, e forse sotto questo riguardo è provvido l'attuale ristagno nella fabbricazione da parte dell'industria privata. Molto ancora può essere salvato nelle nostre città, molti errori possono ripararsi o con provvedimenti organici o con efficaci espedienti; poiché la maggior portata dei mezzi, specialmente dei mezzi meccanici di comunicazione, può raggiungere ora soluzioni di un ordine più vasto di quelle che qualche decennio fa, se pure fossero state comprese, difficilmente avrebbero potuto attuarsi. Ma occorre che non si giunga tardi quando tutto sia compromesso!

Se l'Urbanistica è una tecnica ed un'arte - tecnica complessa a cui fanno capo l'igiene, la costruzione stradale, e gli impianti molteplici cittadini ed i mezzi di traffico, arte di ordine superiore che associa al sentimento tradizionale d'ambiente, la nuova composizione architettonica delle grandi masse - è sopratutto guidata da principi stabili e da un metodo determinato, che occorre ben affermare. Dopo un vario ondeggiare di tendenze, si è ormai nell'arduo tema dei piani regolatori di sistemazione e di ampliamento di antiche città giunti in modo quasi concorde a criteri ed a postulati, che ora qui, nella impossibilità di svolgere analiticamente la trattazione, si riportano nella forma un po' scolastica di un decalogo.

1.° Devesi premettere al piano regolatore cittadino il piano regolatore regionale, che contempli cioè l'ampia sistemazione delle comunicazioni esteriori coi centri prossimi ed anche la corrispondente diffusione del futuro abitato nelle campagne.

2.° Il piano regolatore d'ampliamento deve essere tutta una cosa con quello dell'interna sistemazione del vecchio nucleo, considerando il reciproco modo con cui i nuovi quartieri reagiscono sul nuovo centro e viceversa. Il piano regolatore dei mezzi di comunicazione deve analogamente essere contemporaneamente studiato e direttamente coordinato col piano regolatore edilizio.

3.° Si dividano nettamente i vari tipi di traffico, cioè il traffico esterno di passaggio, quello che converge ai nodi tra loro ben collegati della viabilità e del movimento cittadino, quello locale, ed a ciascuno si dia la sede adatta secondo ben studiati circuiti, talvolta periferici, talvolta radiali, distinguendo in ogni caso la rete stradale di grande circolazione dalla spicciola rete di vie minori per la suddivisione dei lotti di case. Il criterio dello sdoppiamento del sistema cinematico cittadino discende allo studio dei singoli organi, come le piazze d'incontro delle vie ed eventualmente i passaggi ed i mezzi di comunicazioni sotterranei.

4.° Si dividano i quartieri di nuova fabbricazione in zone di vario tipo fabbricativo, che col loro associarsi non solo diano un ritmo alla città e rechino vantaggi all'estetica ed all'igiene, ma contribuiscano all'avviamento razionale della fabbricazione.

5.° Si aprano le porte alla espansione della città nelle zone esterne, togliendo con arditi e tempestivi provvedimenti le barriere che quasi sempre ostacolano il collegamento tra la città esistente ed i nuovi centri.

6.° Si coordinino i vari mezzi suindicati, cioè tracciamento di vie secondo precisi circuiti, ampi innesti, divisione in zone più o meno intense, attivazione dei mezzi di comunicazione di vario rodine (tranvie, autobus, ferrovie, metropolitane, linee di navigazione), alla finalità di promuovere e dirigere la fabbricazione secondo un determinato programma, e di evitare che essa venga a chiudere e congestionare ed alterare il vecchio centro. La città vecchia e le sue nuove propaggini debbono coesistere ciascuna con le proprie esigenze e col proprio carattere.

7.° Si adattino i tracciati stradali alle condizioni altimetriche, evitando gli schemi geometrici ideati a due dimensioni, che tanto spesso nelle città reticolate hanno dato non soltanto un insopportabile carattere di monotonia, ma anche condizioni infelici di pendenza e di costo. Non solo i tracciati, ma gli incontri delle vie, la disposizione delle piazze e dei giardini siano frutto di uno studio complesso, relativo al flusso della viabilità, alla conformazione utile degli isolati, ad una estetica di ampia monumentalità o, più comunemente, di aggruppamenti vari e vivaci.

8.° Negli attraversamenti che si rendessero necessari nel vecchio nucleo a congiungere i poli esteriori (ove non siano efficaci gli anelli periferici) si adatti il tracciato alla fibra edilizia esistente e si eviti il contrasto di tipo e di masse architettoniche, possibilmente valendosi di nuove linee attraverso il corpo degli esistenti isolati, piuttosto che praticando allargamenti di vie esistenti.

9.° Non si pretenda di voler portare con vasti sventramenti i centri di vita nuova nei vecchi quartieri, ove ogni taglio in grande stile si risolve in danni per l'economia ed insieme pel carattere storico ed artistico della città antica, ed in luogo di avviare la soluzione della città antica la pregiudica forse irrimediabilmente. Per queste vecchie zone valga la formula del minimo delle sopraelevazioni e degli addensamenti.

10.° Si segua per questi quartieri nelle loro parti più logore e più dense, quando siano liberate dalla grande viabilità, il sistema del diradamento edilizio e dello spicciolo miglioramento delle condizioni igieniche ed architettoniche dei singoli edifici.

Alcuni punti di questo decalogo richieggono di essere maggiormente chiariti. In particolare, quello che si riferisce all'innesto di nuovi quartieri sul vecchio nucleo.

Le due soluzioni-tipo per tale innesto razionale sono come è noto, o quella degli anelli periferici che raccolgono il movimento e lo deviano dal centro (esempi, Ring di Vienna, di Lipsia, di Norimberga), o quella dello spostamento radicale o graduale del centro cittadino (esempio tipico la Neustadt di Strasburgo). Spesso però nè l'uno nè l'altro dei due sistemi sono attuabili nella forma schietta. L'anello non è efficace quando le condizioni altimetriche mal si prestano (Roma ad esempio ha due tronconi di anello nel Lungotevere e nel viale delle Mura tra Porta Pinciana ed il Castro Pretorio, ma tra loro mal congiungibili), ovvero quando ormai la città è già tanto sviluppata da non consentire più l'isolamento del nucleo centrale (come a Milano ed a Firenze). Lo spostamento del centro perché sia applicabile in modo completo, richiede una gagliarda iniziativa con mezzi adeguati in condizioni adatte; ben più sovente viene sostituito dalla formazione di vari centri nuovi tra loro ben collegati, ma possibilmente tutti da un lato relativamente alla città esistente.

Roma con la sua lunga vita edilizia e con gli errori (in gran parte inevitabili) del suo sviluppo dal 1870 in poi, offre esempi veramente istruttivi in questo campo.

Sarebbe certo interessante, ma non è qui il tempo nè il luogo, il rievocare le varie vicende edilizie dell'Urbe: dalla tipica suddivisione in distretti di Roma imperiale, alcuni incredibilmente affollati di popolazione, altri riservati a ville, altri a pubblici edifici; alla configurazione decentrata della Roma medioevale fino al principio del Quattrocento in cui tanti nuclei come di borgate diverse e lontane erano costruiti intorno al Campidoglio, nel Trastevere, presso il Vaticano e presso il LAterano; al processo di completamento delle zone intermedie ed allo spostamento del centro determinatosi sotto Sisto IV colla città curiale del rione di Ponte, sotto Leone X e Paolo III con lo sviluppo della fabbricazione in Via di Ripetta e sulla Via Lata (l'attuale Corso), fino al piano regolatore di Sisto V, che attraverso i vigneti dell'Esquilino e del Viminale tracciò le strade dritte come la sua volontà precedendo la futura città di quasi tre secoli.

Ma più direttamente utile è l'accennare alle vicissitudini edilizie di Roma capitale d'Italia. É noto che all'alta mente di Quintino Sella balenò l'idea di svolgere la nuova fabbricazione accanto e non entro la vecchia città in tutta la zona tra la Porta Pia e la Porta S.Giovanni, allora quasi deserta. I mezzi scarsi, i pregiudizi, la malaria, le opposizioni politiche impedirono l'attuazione di questo savio progetto, di cui rimase il Ministero delle Finanze come prima manifestazione isolata. E venne l'era delle piccole discussioni tra i «prataroli» ed i «monticiani», tra i sostenitori della Via Nazionale diretta a Piazza Colonna o diretta verso S.Pietro; vennero i tracciati di strade (come la Via Cavour, il Corso Vittorio Emanuele, la Via Veneto) senza uscita; si ebbe il piano regolatore del 1883 coi suoi tagli nell'interno troppi e troppo triti, quello del 1908 che volle recare un principio d'ordine ed un inizio regolare di ampliamento; ed intanto la fabbricazione si svolse anarchicamente ovunque l'individualismo la sospingeva, sia quella di quartieri privati, come il quartiere di S.Lorenzo e le costruzioni del periodo delle Cooperative, sia quella di edifici pubblici, e specialmente dei nuovi ministeri (che il Calderini ed il Sanjust saviamente volevano concentrare in Piazza d'Armi) disseminati a tutti gli estremi della città, senza un collegamento e senza una guida.

Ancora tuttavia molto più può essere salvato in Roma da un piano regolatore ideato in grande stile ed attuato con metodo serrato. Anzichè seguire in questo piano un sistema unico, il che sarebbe, per quanto si è accennato, impossibile, converrà associarne insieme vari incompleti: tracciare anelli taluni completi planimetricamente ma mal connessi altimetricamente, altri vastissimi, altri infine parziali, innestati ai primi a ghirlanda; promuovere con tutti i mezzi l'ampliamento della città specialmente nel ventaglio compreso tra il N.E. ed il Sud. L'annessa pianta schematica indica taluni di tali mezzi, consistenti nella sistemazione ferroviaria basata sull'abbassamento del piano della stazione di termini e sul prolungamento delle linee al Nord, nel tracciato di una metropolitana ad 8 avente la stazione stessa come punto d'incontro, nell'avviamento delle principali linee radialmente verso la regione esteriore testè designata. E se il grande viale periferico esterno quale appare disegnato nella unita tavola dimostrativa sembra quasi concentrico al nucleo attuale, non lo è di fatto, sia per la diversa intensità della fabbricazione prevista, sia per la diversa funzione delle vie; il viale che da Ovest dovrebbe essere di chiusa, ad Est ed a Sud si suppone di inizio di tutta una rete irradiantesi verso la campagna fino a raggiungere col tempo la cerchia dei monti e dei paesi che la circondano.

Solo un piano regolatore concepito con siffatta larghezza di criteri, cioè tracciato come schema di poche e grandissime arterie maestre aventi ben precise funzioni (simili a canali di una bonifica) di viabilità e di avviamento edilizio, attuato sistematicamente, in modo da determinare la graduale costituzione di un nuovo organismo vivo, e non con piccoli provvedimenti sporadici ed isolati, potrà risolvere adeguatamente il terribile problema: creare una Roma nuova che non sia, come quella dell'ultimo cinquantennio, una modesta città secondaria di ordinaria amministrazione, che non alteri più oltre il carattere di Arte e di Storia per cui Roma è ancora unica al mondo, ma che raggiunga veramente la grandezza imperiale auspicata dall'alta parola animatrice del Capo del Governo.

Oltre a questi concetti relativi all'ampliamento cittadino, qualche commento richiede pure l'asserzione, con essi direttamente legata, che esclude di concentrare la vita nuova cittadina nel vecchio ambiente. Ancora invece, si è ben lungi dal vedere accolto questo principio così semplice e chiaro, e non sono lontani i tagli del centro di Firenze, della Via Rizzoli di Bologna,, sono di ieri le devastazioni del quartiere di S.Lucia in Padova, sono di oggi i tanti progetti che nella vecchia Roma vorrebbero tagliare vie e piazze enormi senza uscita e senza scopo. Eppure se non ci si lascia illudere dalla rettorica edilizia, appare evidente la illogicità di aumentare l'importanza di spazi che, chiusi nel vecchio ristretto abitato, rimarranno sempre più inadatti ad essere il cuore di un organismo sempre più vasto. Enormi i danni di ordine estetico per l'alterazione della fisionomia di una vecchia città che spesso nel suo aggruppamento pittoresco può dirsi un monumento collettivo, per le condizioni ambientali degli stessi monumenti maggiori, alterate nei rapporti di masse e nelle visuali, pel carattere banalmente mercantile che inevitabilmente assumeranno le nuove costruzioni, anche se i mirabolanti disegni prospettici hanno promesso meraviglie monumentali: sicchè ad un insieme che ha in ogni elemento un valore di ricordi o di arte si sostituisce una volgare massa edilizia senza significato. Enormi i danni per la economia nazionale per la distruzione di un patrimonio di costruzioni a cui bisogna sostituire in perdita altri fabbricati di maggiore capacità, il che nel periodo attuale, in cui l'equazione del tornaconto nelle abitazioni modeste raramente dà soluzioni positive, rappresenta un altro ostacolo quasi sempre insufficientemente considerato.

Tutte le condizioni di vario ordine che apparentemente sembrerebbero contrastanti, sono quindi invece, a chi ben guardi, concordi nel determinare la necessità dello sdoppiamento tra lo sviluppo adeguato, ampio, libero, vivace della città nuova secondo le nuove esigenze, dallo spicciolo adattamento nel proprio ambiente della vecchia città.

Questa convergenza di concetti è una delle singolari, inattese caratteristiche del momento attuale dell'edilizia. Le ragioni della viabilità, dell'igiene, della bellezza, del carattere storico, della economia, dello sviluppo demografico che fino a poco tempo fa si esprimevano in trattazioni che tra loro si ignoravano, oggi si incontrano e si uniscono nei principi della giusta distribuzione delle varie zone dell'abitato, nel ritmo della viabilità, dei tracciati e dei raccordi razionali delle vie e delle piazze, dell'aggruppamento viario e pittoresco delle case, delle condizioni d'ambiente richieste dai monumenti.

Occorre tuttavia che questi problemi siano anzitutto intesi nel loro valore dal mondo finanziario ed amministrativo e politico, che ancora vi è assolutamente impreparato. A veder bene, non sono gli ingegneri o gli architetti a dar vita ad un piano regolatore, più o meno ben disegnato; ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie ne rappresentano il vero elemento dinamico che ne avvia l'attuazione, non solo nello spazio, ma anche nel tempo, con un ordine di successione che può secondare o può annullare il concetto informatore del piano stesso. Tanto è vero questo, che molto spesso i piani regolatori si risolvono in una dannosa illusione e finiscono ad essere attuati soltanto per varianti sporadiche e secondo opere isolate che nulla hanno a vedere col programma edilizio. Tanto è vero altresì, che gli esempi non sono infrequenti di governanti di alta mente che hanno miseramente fallito nell'attuazione di grandi vedute edilizie, appunto per la mancanza di ogni razionale giuda nella rispondenza tra i mezzi ed il fine.

Occorre dunque che il programma tracciato sulla carta in bei disegni faccia parte di qualcosa di più vasto, che può dirsi un'alta e continua politica edilizia. Ma per far questo occorre che una seria preparazione si diffonda nelle classi dirigenti, ed è in ciò un grande compito degli ingegneri ed architetti italiani. Non solo essi debbono rapidamente impadronirsi dei problemi urbanistici, ma debbono farsene propulsori e divulgatori, se non vogliono in questo tempo in cui «secol s'innova» estraniarsi dalla vita della Nazione.

Le leggi stesse che a tutta questa materia presiedono sono quanto mai decrepite ed occorre rinnovarle. I compiti e le attribuzioni dei Comuni nei riguardi dei piani regolatori sono ancora quelli concepiti nei limiti della legge del 25 giugno 1865 sulle espropriazioni per pubblica utilità, a cui si aggiunge quasi sempre la legge ideata nel 1885 per le condizioni singolarissime di Napoli ed ora assurdamente generalizzata. L'una e l'altra, malgrado gli adattamenti che si è cercato portarvi con applicazioni stiracchiate e con regolamenti inorganici, creano gravissimi ostacoli all'ampia attuazione di un piano regolatore. Il carattere fiscale della valutazione degli espropri con la legge per Napoli rende enormi le resistenze dei singoli proprietari, ingiustamente spogliati. D'altro lato invece il sano provvedimento di una espropriazione non lineare, secondo i tracciati di viabilità, non per zone interne sì che i Comuni possano ricuperare con l'aumento del valore nei nuovi stabili propspicienti parte delle ingenti spese di sistemazione, è possibile solo in parte e per espedienti; non lo è ad esempio nelle zone esterne dell'ampliamento ove sarebbe più logico e provvido, poiché la trasformazione delle aree agricole in aree edilizie non dovrebbe andare a vantaggio dei singoli proprietari. E così avviene che i Comuni non hanno veri mezzi per farsi con ragionevoli compensi un demanio di aree, e che la sana e razionale tendenza all'ampliamento è ostacolata ed è invece favorita quella inopportuna degli sventramenti interni. Nè i tentativi della legge per Roma dell'11 luglio 1907 e delle varie disposizioni per le espropriazioni per costruzioni di case economiche, hanno con la loro artificiosità, fatto fare un passo alla questione.

Ed ancora: la procedura per l'approvazione e per la dichiarazione di pubblica utilità dei piani regolatori edilizi mal consente di redigerli secondo il sistema razionale della preparazione di una rete a larghe maglie a cui si intesserà in seguito la trama secondaria, come anche mal consente di considerare organicamente come cosa unica, volta ad unica finalità, il piano di ampliamento e quello di sistemazione interna.

Ed ancora: tra il piano regolatore del tracciato stradale e della edificazione e quello del traffico manca ogni legame, ed è invece essenziale costituirlo strettamente. Ancora i vari enti che vi presiedono si ignorano quasi completamente nelle loro iniziative, che invece dovrebbero essere manifestazioni di un unico programma; ed avviene così ad esempio che l'Amministrazione ferroviaria costruisca stazioni, parchi ferroviari, linee di allacciamento con passaggi a livello ecc. senza tener conto, nè in modo positivo nè in modo negativo, della funzione edilizia.

Questa quasi costante mancanza di una energia unica direttiva fa sì che l'attività privata invece d'essere, se ben guidata, fecondo elemento utile, spesso diviene dannosa.

In questo terreno germoglia così la sementa di tutte le speculazioni malsane, in cui l'interesse di gruppi finanziari si sovrappone al grande supremo interesse della città, bene spesso riesce a fuorviare con mille sapienti mezzi la pubblica opinione.

Oltre al mutare la base giuridica ed al meglio indirizzare le forze edilizie, occorre, come si è accennato che entri in campo l'elemento «tempo», e che i piani regolatori abbiano da parte delle amministrazioni una precisa e tempestiva graduazione dei provvedimenti tra loro concatenati, sicchè, per così dire, la tattica edilizia si associ alla strategia. Tra la tecnica e l'arte urbanistica da un lato e l'amministrazione e la finanza dall'altro, non può esserci distacco, ma coordinamento serrato verso un unico programma; il che può aversi solo con una mutua comprensione.

Il lavoro per giungere a questo risultato vincendo pregiudizi e resistenze non è lieve e deve esercitarsi in vario senso. Ma anzitutto occorre far sì che si diffonda ben più che ora non sia la coscienza, la preparazione, la organizzazione urbanistica.

Occorre per questo intensificare con insegnamenti severi, ma più ancora col lavoro agile delle pubblicazioni e delle conferenze la coltura in tutti i diversi campi che all'Urbanesimo fanno capo.

Occorre favorire la formazione di specialisti, sicchè anche tra noi la figura dell'Urbanista abbia il suo vero rilievo.

Occorre che in ogni Municipio di qualche importanza sia costituito un Ufficio Urbanistico (come testè si è fatto a Milano) in cui ingegneri ed architetti specializzati lavorino nella ideazione dei piani generali o parziali, nello studio dei tanti impianti cittadini, nella compilazione dei regolamenti edilizi, nella redazione di progetti architettonici delle più notevoli sistemazioni, a cui sia possibile direttamente imprimere un carattere con la costruzione di pubblici edifici, ovvero si determinino speciali norme per l'attività privata, associando armonicamente nella composizione l'Architettura alla Edilizia.

Occorre promuovere pubblici concorsi su sistemazioni, o vaste di piano regolatore cittadino o limitate per speciali località, in modo da trarne non tanto soluzioni definitive, chè il concorso troppo spesso rende lirico quello che deve avere un carattere pratico; ma spunti di idee nuove da usufruire con studio ponderato.

Occorre richiedere che l'esame dei piani regolatori sia affidato alla competenza di appositi enti nuovi, pei quali possono utilizzarsi giovani elementi tratti dal Corpo del Genio Civile e dalle R. Sovraintendenze ai Monumenti, e, più in alto, dal Consiglio Superiore delle Belle Arti e da quello dei Lavori Pubblici uniti nel lavoro comune.



Hic opus hic labor. Trattasi, in Italia più che altrove, di grandi problemi nazionali che non debbono più oltre essere trascurati; trattasi della vita stessa delle nostre belle città che non possono più essere compromesse irreparabilmente nel carattere d'Arte ad esse mirabilmente impresso dai secoli, nelle feconde possibilità di un vasto sviluppo avvenire.

La nostra Rivista può e deve portare a questo movimento un contributo diretto e validissimo. Aprendo le sue colonne a segnalazioni ed a discussioni sulle questioni maggiori che interessano le principali città od i più tipici quesiti, riferendo i portati dei più recenti studi di cose urbanistiche, riportando sistematicamente una cronaca delle vicende e delle proposte più salienti ed illustrando ampiamente i migliori progetti concreti, potrà venire vero centro di ricerche e di affermazioni in quella che giustamente può dirsi la più complessa delle tecniche, la più grande delle Arti.

Il contributo di Antonio Gramsci alla definizione del concetto di egemonia è ritenuto fondamentale.

Secondo Gramsci, il potere è basato sulla presenza contemporanea di forza e di consenso. Se prevale l’elemento della forza, si ha dominio, se prevale il consenso si ha l’egemonia.

Potremmo concludere quindi che l’egemonia è la forma di potere basata essenzialmente sul consenso cioè sulla capacità di conquistare con la forza delle convinzione l’adesione a un determinato progetto politico o culturale.

Il concetto fu elaborato da Gramsci riferendolo essenzialmente agli stati. La sua tesi è che gli stati moderni tendono a basare il loro potere sempre più sul consenso. In tal senso il ragionamento sull’egemonia tende a intrecciarsi con quello sulla democrazia.

Quando entrò nelle aule dove si insegnava la meccanica, Ulrich fu subito in preda a un entusiasmo febbrile. A che serve ormai l'Apollo del belvedere, se si hanno davanti agli occhi le forme nuove di un turboalternatore o il meccanismo di distribuzione di una locomotiva! Chi può interessarsi ormai alle chiacchiere millenarie sul bene e sul male, quando s'è trovato che non si tratta di “Valori costanti" ma di “Valori funzionali", così che la bontà delle opere dipende dalle circostanze storiche e la bontà degli uomini dall'abilità psicotecnica con la quale si sfruttano le loro capacità! Il mondo è semplicemente buffo se lo si considera dal punto di vista tecnico; privo di praticità in tutti i rapporti umani, estremamente inesatto e antieconomico nei modi; e chi è abituato a svolgere le sue faccende col regolo calcolatore non può ormai prendere sul serio una buona metà delle asserzioni umane. Il regolo calcolatore consta di due sistemi di numeri e di linee combinati con straordinaria accortezza: due tavolette scorrevoli verniciate di bianco, a sezione trapezoidale piatta, mediante la quale si risolvono in un baleno i più intricati problemi, senza sciupare inutilmente un solo pensiero; è un piccolo simbolo che si porta nella tasca del panciotto e si sente come una riga dura e bianca sul cuore. Quando si possiede un regolo calcolatore, e arriva qualcuno con grandi affermazioni e grandi sentimenti, si dice: "Un attimo, prego, prima calcoliamo il limite d'errore e il valore probabile di tutto ciò".

Quest'era senza dubbio una rappresentazione efficace dell'ingegneria. Essa costituiva la cornice di un'affascinante futuro autoritratto che rappresentava un uomo dai lineamenti energici, con una pipa tra i denti, un berretto sportivo in testa e splendidi stivali alla scuderia, in viaggio tra Città del Capo e il Canadà per realizzare grandiosi progetti... Fra un affare e l'altro si può anche trovare il tempo per ricavare dal pensiero tecnico qualche idea per organizzare il mondo e governarlo, o di formulare massime come quella di Emerson, che dovrebbe esser scritta sulla porta di ogni officina: "Gli uomini passano sulla terra come profezie del futuro, e tutte le loro azioni sono prove e tentativi, perché ogni azione può essere superata dalle successive". Anzi, per esser precisi, questa massima era di Ulrich che l' aveva composta mettendo insieme parecchie massime di Emerson.

È difficile dire come mai gli ingegneri non corrispondano poi del tutto a questo quadro. Perché, ad esempio, portano sovente una catena d'orologio che sale in un mezzo arco acuto dal panciotto ad un bottone più in alto, o la dispongono sulla pancia in festoni ascendenti e discendenti, come arsi e tesi di una poesia? Perché amano appuntarsi nella cravatta denti di cervo o piccoli ferri di cavallo? Perché i loro abiti sono costruiti come gli elementi di un'automobile? Perché, soprattutto, non parla no quasi mai d'altro che della loro professione; e se parlano di altro lo fanno in modo speciale, rigido, esterno, senza correlazioni, che al di dentro non và più in giù dell'epiglottide? Naturalmente, ciò non vale per tutti, ma vale per molti; e quelli che Ulrich conobbe quando prese servizio per la prima volta in un ufficio di fabbrica erano così, e quelli che conobbe la seconda volta erano anche così. Si rivelarono uomini strettamente legati alle loro tavolette da disegno, amanti della loro professione e in essa ammirevolmente valenti; ma proporre loro di applicare l'audacia del loro pensiero a se stessi invece che alle loro macchine, sarebbe stato come pretendere che facessero di un marIello l'uso contro natura che ne fa un assassino.

La democrazia finisce subito se cade sotto la tirannia della maggioranza.

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