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1. Il primo obiettivo della gestione territoriale dev’essere quello di conservare e migliorare il funzionamento ecologico della matrice territoriale intesa come un tutto e non unicamente quello di conservare una serie di spazi naturali isolati o di specie singolari ed emblematiche. Questo principio, che dovrebbe condizionare tutti gli altri usi delle risorse naturali al mantenimento del suo buon stato ecologico, è già stato accettato, almeno sulla carta, dalla Direttiva quadro per l’azione comunitaria in materia di acqua dell’Unione Europea nel 2000. Sebbene nello stesso anno sia stata lanciata a Firenze la “Convenzione Europea del Paesaggio”, ispiratrice in alcuni paesi o regioni europee delle prime leggi sul Paesaggio, come per esempio quella approvata nel 2005 dal Parlamento della Catalogna, questo criterio non è riuscito tuttavia ad aprirsi una strada nella gestione e ordinamento del territorio. Affinché ciò accada bisogna spingersi molto più in là di una mera condizionalità paesaggistica superficiale, situando la salute degli ecosistemi come priorità reale di tutte le decisioni che riguardano il territorio (dai piani di bacino idrografico,con la delimitazione e l’inventario delle masse d’acqua, ai piani di portata della nuova politica idrologica; dai piani quadro di politica forestale, con le direttrici di connettività ecologica, le strategie di salvaguardia della biodiversità o la rete Natura 2000, passando per una politica globale dell’agricoltura e della pastorizia, per la progettazione delle infrastrutture e di qualsiasi altro provvedimento della pianificazione territoriale: dalle politiche abitative fino ai Piani Regolatori o alla valutazione ambientale strategica dei piani e dei programmi urbanistici). Dobbiamo renderci conto che le risorse e i servizi territoriali sono un patrimonio comune insostituibile, con una capacità limitata che non potrà mai sostenere una crescita illimitata, né tantomeno venire rimpiazzata una volta subiti danni irreversibili.

2. Così come afferma la “Convenzione Europea del Paesaggio” del 2000, da cui deriva la legge catalana recentemente approvata, tutto il territorio è paesaggio: dagli spazi urbani e periurbani, ai poligoni industriali e le infrastrutture, fino agli spazi naturali protetti, passando per i mosaici agricoli, orticoli e forestali. Gli uni e gli altri devono potersi combinare e convivere secondo una scala diversificata della presenza e dell’intervento umano, mantenendo il funzionamento dei sistemi naturali di tutto il territorio in un buon stato ecologico al fine di garantire la continuità dei servizi ambientali che ci forniscono. Perciò qualsiasi azione settoriale che concerne il territorio deve porsi come primo obiettivo il mantenimento e la miglioria del suo buon stato ecologico (includendo sia gli aspetti intangibili, come per esempio la bellezza, sia quelli più materiali e tangibili).

3. Le politiche dirette alla conservazione della natura sviluppate nell’ultimo mezzo secolo in tutto il mondo sono giunte a un vicolo cieco. Questo cul de sac obbliga a mettere in discussione due idee fondamentali, una implicita e l’altra esplicita alla filosofia tradizionale della conservazione ambientale. La prima idea che bisogna abbandonare è la erronea convinzione secondo la quale la protezione degli spazi deve consistere nel ritiro di qualsiasi forma d’intervento o di presenza umana negli stessi, col fine di restituirli a un ipotetico stato “naturale” primogenito. La seconda è un effetto perverso, e chiaramente non desiderato da chi durante molti anni ha abbracciato onestamente questa filosofia della conservazione: il presupposto che, oltre la frontiera degli spazi “naturali” protetti, le azioni umane sul resto del territorio possono svilupparsi senza limiti né precauzioni, dato che la “preservazione” della diversità biologica è già garantita. La Strategia Mondiale della Conservazione già dal 1980 fa distinzione tra un concetto di mera “preservazione” del tipo guardare ma non toccare e il vero concetto di conservazione che implica invece un uso sostenibile, prudente e responsabile delle risorse e dei servizi ambientali del territorio. Tuttavia questa filosofia della conservazione non è ancora giunta ad essere pienamente compresa da chi assume le decisioni politiche pubbliche dei paesi e delle regioni europee, e ancor meno ad essere messa in pratica come si dovrebbe. Il superamento di queste vecchie convinzioni che l’esperienza pratica della gestione ambientale, e l’elaborazione teorica dell’ecologia del paesaggio, hanno dimostrato essere profondamente erronee, ci porta a porre come nuovo obiettivo della conservazione il mantenimento e la miglioria del buon stato ecologico del territorio come un tutto.

4. L’indicatore più chiaro del buon stato del territorio è la salute dei suoi ecosistemi e la biodiversità che possono accogliere. Tuttavia non è facile capire che cos’è la biodiversità, troppo spesso confusa con una specie d’inventario patrimoniale ex situ della diversità biologica. Ciò che più importa non è solo quante specie diverse si trovano in uno spazio, ma come queste si combinano in diverso modo e interagiscono tra di loro in ogni luogo concreto. Così come la ricchezza della comunicazione non proviene solo dal numero di lettere dell’alfabeto ma dalla loro combinazione in parole diverse che acquisiscono significati diversi, la ricchezza della biodiversità sorge dalle combinazioni della diversità biologica che danno differenti espressioni al territorio, generando una gran varietà di paesaggi. È per questo che la biodiversità va strettamente correlata con la diversità dei biotopi o con la molteplicità di ecotoni. La chiave per favorire e conservare la biodiversità risiede nella struttura e nella connettività eco-paesaggistica dell’intera matrice territoriale. Per mantenere il buon stato ecologico del territorio è necessario che la struttura del suo mosaico di pezzi o tasselli diversi offra un habitat a un ampio ventaglio di specie animali e vegetali, e che la loro ricerca di opportunità alimentari e di interazione non venga ostacolata da barriere insormontabili che ne isolino le popolazioni.

5. Tra i due estremi rappresentati dalle zone urbane o industriali da un lato e gli spazi naturali protetti dall’altro, sono gli spazi agricoli e forestali a occupare una proporzione maggiore della matrice territoriale. La moltitudine di specie considerate emblematiche che trovano rifugio negli spazi protetti per nidificare e riprodursi sono responsabili di un intenso sfruttamento trofico degli spazi agricoli, orticoli e forestali umanizzati, dove vivono e si riproducono anche molte altre specie. Dallo stato dei mosaici agroforestali dipende pertanto la qualità ecologica della matrice territoriale come un tutto.

6. Una delle difficoltà più gravi per sviluppare una nuova cultura del territorio, orientata a mantenere e migliorare il suo buon stato ecologico, risiede nel fatto che l’agricoltura, la pastorizia e la silvicoltura sono diventate nei paesi sviluppati attività economiche sempre più residuali, che generano troppo poco valore aggiunto al mercato e che offrono una occupazione remunerata a una popolazione lavoratrice sempre più ridotta e invecchiata. Allo stesso tempo però lo stato attuale e futuro della maggior parte del territorio continua a dipendere da una popolazione attiva agraria rimpicciolita e impoverita. Non si tratta solo di una perdita di braccia o di “attivi”, ma del pericolo di estinzione di molte subculture agricole, pastorizie e forestali tradizionali, con una grande diversità di conoscenze empiriche e pratiche o di professioni che si svilupparono per tentativi ed errori durante la millenaria coevoluzione delle differenti agricolture nelle diverse bioregioni del pianeta. Ma proprio quando le vecchie culture contadine sono più necessarie a un mondo sottoposto a un cambiamento globale incerto, esse si trovano in serio pericolo d’estinzione. Questa è una delle contraddizioni più profonde di un mondo sottoposto a un processo di globalizzazione mercantile insostenibile, come denunciano le piattaforme delle organizzazioni rurali, recentemente anche in Spagna con la Declaración de Somiedo sobre culturas campesinas y biodiversidad (Dichiarazione di Somiedo sulle culture contadine e biodiversità). Nella Convenzione sulla Biodiversità e nella Convenzione dell’UNESCO del 2003 per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale si parla della necessità di conservare le “conoscenze ecologiche tradizionali” delle vecchie pratiche e mestieri. Il World Heritage Center dell’UNESCO ha dato vita infatti a una Banca Mondiale dei Saperi Tradizionali (World Bank on Traditional Knowledge) per promuovere la preservazione e lo scambio fra quelle vecchie culture agrarie diventate sagge nella gestione ambientale del territorio. Parchi agricoli come quello approvato in Catalogna nel Baix Llobregat o quello del Gallecs nel Vallès (Barcellona) sono solo l’inizio di un gran movimento che dovrebbe abbracciare tutto lo spazio agricolo per dare futuro e vitalità al mondo rurale. I nuovi approcci della politica agraria e dello sviluppo rurale dell’Unione Europea potrebbero favorirlo sempreché vengano intesi come un vero cambiamento di paradigma e non solo come un mero complemento accessorio di certe pratiche agricolo-pastorizie insostenibili.

7. Il degrado delle qualità ambientali del territorio proviene da un lato dalle dinamiche che intensificano gli usi umani su una piccola parte dello stesso infarcendolo di spazi urbanizzati, attività industriali, infrastrutture e attività agricole e pastorali intensive fino a limiti insostenibili. Mentre dall’altro lato tale degrado è originato dalle dinamiche socio-ambientali derivate dall’abbandono del mondo rurale nella maggior parte del territorio. Il degrado ambientale proviene quindi sia dall’ecceso come dal ritiro dell’intervento umano nel territorio. Ciò è particolarmente rilevante per i paesaggi mediterranei.

8. Per gli effetti sugli accidentati rilievi di determinate precipitazioni e di certi corsi fluviali molto irregolari, combinati a una forte insolazione, i paesaggi mediterranei si caratterizzano in modo naturale per una elevata diversità di cellule territoriali ed ecotoni o zone di transizione differenti, sottoposte a forti variazioni nello spazio e nel tempo. Il solatìo contrasta con l’abacìo, le pianure con le montagne, i fiumi con i torrenti intermittenti, le piogge torrenziali e le grandi piene con i periodi di intensa siccità e così via. Questo è il segreto dell’elevata biodiversità di questa particolare regione della Terra. Nel corso dei millenni l’attività agraria tradizionale ha lavorato con questo tratto distintivo della matrice territoriale mediterranea, e ha imparato per tentativi ed errori a coevolvere con essa cercando diversi equilibri dinamici tra sfruttamento e conservazione attraverso la localizzazione nello spazio di anelli o tasselli di presenza e attività umane territorialmente diverse. Il risultato è stato la magnifica varietà di mosaici agro-forestali che hanno configurato i nostri paesaggi tradizionali nel Mediterraneo, in cui l’intervento umano nell’ambiente ha teso generalmente a incrementare o mantenere l’agrodiversità e la biodiversità come garanzia di stabilità.

9. Ma la grande trasformazione sperimentata dall’agricoltura con quella che viene erroneamente definita “rivoluzione verde”, diffusa su grande scala dopo il 1950, ha generato una gravissima scompensazione territoriale dell’attività agraria che ha portato alla fine della vecchia gestione integrata del territorio. L’allevamento intensivo ingrassa razze di animali allogene mediante mangimi importati e inquina gravemente molti dei paesi dalla Catalogna con un eccesso di escrementi. La produzione agricola e ortofrutticola si concentra in una parte limitata del territorio più facile da meccanizzare, dove l’applicazione massiva di fertilizzanti sintetici, irrigazione, pesticidi ed erbicidi, e certe sementi ad alta produttività, acquistati alle imprese multinazionali e funzionali allo sfruttamento monocolturale, ha trasformato l’agricoltura in una importante fonte d’inquinamento diffuso (mentre agricoltori e pastori si trovano sempre più prigionieri delle catene agro-alimentari industriali che accaparrano la maggior parte del valore aggiunto vandendo loro semi, fertilizzanti e agro-chimici da un lato e commerciando i loro prodotti dall’altro). Il resto dell’antico spazio agrario ha perso ogni tipo di funzione economica dando luogo a un processo di riforestazione frutto dell’abbandono delle antiche agricolture di versante. L’architettura del paesaggio pazientemente costruita dal lavoro contadino, con una infinità di terrazzamenti sostenuti da muri a secco e un esteso reticolo di sentieri di ogni lunghezza, spesso molto ben disegnati, dà forma a un patrimonio culturale che sembra condannato a sparire in un tempo così breve da non consentirne la mappatura, l’inventario e la catalogazione.

10. Lo scompenso territoriale dei flussi materiali ed energetici che muove questa attività agraria sempre più insostenibile, ecologicamente ed economicamente, e che nonostante tutto continua a occupare la maggior parte del territorio, ha originato una drastica semplificazione dei paesaggi agricoli e forestali. L’antico mosaico agro-forestale mediterraneo è stato sostituito nelle pianure da appezzamenti sempre più grandi ed uniformi di monocoltivi intensivi, dove appaiono fattorie industriali d’allevamento all’ingrasso territorialmente disintegrate, mentre lungo le pendenti dei versanti proliferano masse continue e uniformi di boschi giovani, monospecie, eccessivamente densi, molto vulnerabili e non sfruttati.

11. Questa duplice dinamica di intensificazione e abbandono è all’origine di due delle tre patologie ambientali più gravi del nostro territorio: il degrado in quantità e qualità delle acque superficiali e sotterranee —che in Catalogna per esempio riguarda l’insieme dei bacini interni e il tratto finale del bacino dell’Ebro— da un lato, e dall’altro la crescente diffusione di incendi forestali che —di nuovo in Catalogna ma come in tanti altri luoghi d’Europa e del Mediterraneo— hanno la loro principale origine nel fatto che attualmente ci sono quasi più boschi che in qualsiasi altro periodo del millennio precedente, ma si tratta tuttavia di un bosco lasciato a se stesso per la sua mancanza di redditività economica, poiché quasi tutti gli usi legati alla raccolta multipla tradizionale sono spariti (l’unica rilevante eccezione in Catalogna è costituita dai funghi, in quanto il valore economico di quelli che crescono nelle superfici forestali supera il valore della vendita del legname e della legna da ardere, senza che i proprietari o i comuni ne ricevano alcun beneficio). I pochi boschi cedui maturi che restano alla Catalogna si sono trasformati nell’unica fonte di reddito, anche se il loro sfruttamento può comportare una grave perdita della biodiversità che custodiscono.

12. Molta gente continua a credere erroneamente che il bosco aumenta la disponibilità d’acqua, senza rendersi conto che pure ne consuma. I boschi hanno certamente un ruolo importante nella protezione del suolo, nella stabilità dei versanti, nella regolazione dei bilanci idrici e nella riduzione dei rischi idro-geologici delle piene (che costituiscono di gran lunga il primo rischio naturale del nostro paese). In questo senso, molti boschi di montagna sono protettori nel senso più letterale del termine. Però è altrettanto vero che in molti casi l’aumento della evapotraspirazione cui dà origine la crescita del bosco può eguagliare o superare gli effetti che ha sull’incremento delle precipitazioni e sulla regolarizzazione del corso d’acqua nel bacino. Perciò, —e specialmente nella bioregione mediterranea— avere più boschi può voler dire, molto spesso, avere meno acqua. Parte della perdita di molte delle antiche fonti ha infatti questa origine, così come la riduzione della capacità di molti fiumi e torrenti (in Catalogna parte di questa perdita nel Delta del Ebro non può essere imputata all’incremento delle estrazioni dei poligoni di irrigazione, alle città o agli usi industriali lungo il corso del fiume).

13. Lo stress idrico che caratterizza la bioregione mediterranea implica inoltre che a causa della mancanza di umidità le popolazioni di microrganismi o di insetti saprofiti non possono scomporre tutta la biomassa morta che genera la crescita del bosco. Le parti legnose secche con maggior contenuto di legnina tendono infatti ad accumularsi nelle superfici forestali, finché un lampo, o qualsiasi altra fonte incendiaria, provoca la loro scomposizione attraverso il fuoco. Questa è la ragione ambientale per cui il fuoco è sempre stato un fattore della dinamica evolutiva dei boschi mediterranei ed anche delle forme tradizionali di adattamento umano a questo ambiente. Le culture contadine tradizionali della Catalogna hanno fatto per esempio un ampio uso della pratica dei «formiguers» e delle «boïgues». Con i «formiguers» si raccoglieva nei boschi le frasche per bruciarle nei campi in pile ricoperte di terra per poi fertilizzarli con le ceneri ottenute. Le «boïgues» catalane, o «rotes» di Maiorca, aprivano invece nei boschi delle radure in cui venivano piantati vigneti o seminati cereali come coltivazioni temporanee e, una volta completato il ciclo, il terreno veniva restituito al bosco. I fitti boschi attuali sono farciti di «sitges» o «places» (NdT piazze da carbone o ial) dove nel corso dei secoli erano bruciate svariate carbonaie. Si è dato anche un abbondante consumo del sottobosco o strato arbustivo specialmente in forma di fascine d’erica arborea e corbezzolo, e di «costals de brancada» chiamati anche «torrat de pi», (NdT fascine di rami e tronchi di pino) che per la loro forte infiammibilità costituivano gli acciarini abituali di tutti i focolari domestici e di tutti i forni: quelli per il pane, le ceramiche, le terracotte, le tegole e piastrelle, ecc. Inoltre lo sfruttamento dei pascoli naturali per il bestiame locale o transumante e l’uso dei tratturi mantenevano aperte molte radure in spazi forestali non sempre a forestati.

14. Per molti secoli i boschi mediterranei sono coevoluti con le pratiche delle «boïgues» e dei «formiguers» catalani, con il taglio del legname o la fabbricazione di carbone, la raccolta di fascine, la pastura di ghiande, l’estrazione del sughero e la raccolta della legna, delle castagne e delle pigne, delle piante medicinali, degli asparagi selvatici, dei funghi o del fogliame impiegato come fertilizzante, oltre a tutti gli altri molteplici usi che la cultura contadina faceva del bosco e che richiedeva il mantenimento di una infinità di sentieri aperti. Questi usi agro-forestali e pastorizi includevano anche un certo ricorso selettivo e puntuale al fuoco per mantenere la frontiera tra lo spazio forestato e il pascolo. L’origine del carattere epidemico degli incendi forestali è quindi la combinazione dell’abbandono di tutti quegli usi multifunzionali del bosco della cultura contadina tradizionale, con una crescita disordinata delle masse boscose sempre più grandi, uniformi e abbandonate a loro stesse. Sempre più esperti affermano che l’alternativa ai fuochi incontrollati è il ritorno al “fuoco verde”, controllato e diretto a riaprire radureper stabilirci uno sfruttamento pastorizio estensivo che aiuterebbe inoltre allo sviluppo della biodiversità (così come ha già cominciato a fare il Centre de la Propriété Forestière nella zona mediterranea della Francia e come raccomanda il Nuovo Piano Direttivo di Politica Forestale della Generalitat de Catalunya).

15. L’agricoltura e la pastorizia ecologica sono i primi grandi alleati della nuova cultura del territorio, che deve trovare soluzioni integrali alle gravi disfunzioni ambientali di un modello agro-pastorale diventato totalmente estraneo all’ambiente che utilizza e che è ecologicamente ed economicamente insostenibile. Le tecnologie agricole di quella che viene erroneamente definita “rivoluzione verde” hanno fatto il loro corso e il loro superamento ci conduce a un punto di svolta decisivo. Le “soluzioni” transgeniche che vogliono imporre le stesse imprese multinazionali, che già controllano una gran parte della catena alimentare mondiale, non presuppongono altra cosa che dare un altro giro di vite a un modello agro-pastorale insostenibile, indifferente nei confronti del territorio, tale da distruggere la diversità agraria e minare la biodiversità. Se la volontà democratica della cittadinanza e la ribellione dei consumatori e consumatrici consapevoli non sbarra il passo all’imposizione dei prodotti transgenici, non ci potrà essere futuro nemmeno per una nuova agricoltura e pastorizia ecologiche che ritornino a lavorare con la natura attraverso sistemi territorialmente integrati.

16. Le disfunzioni ambientali che il territorio soffre e la risoluzione dei conflitti che esse generano richiedono soluzioni integrali. Se non apriamo la strada a opzioni territorialmente sinergetiche, ogni problema parziale trattato in modo isolato non potrà trovare valide vie d’uscita. Mentre sussiste ancora un discorso che afferma che il Mediterraneo in generale, e la Catalogna in particolare, è un paese povero in risorse energetiche, e che per tanto è necessario importare elettricità nucleare francese o prolungare la vita utile delle centrali nucleari del nostro territorio, la maggior parte dei boschi che crescono negli antichi spazi agrari abbandonati rimangono senza nessun tipo di sfruttamento e mantenimento. Una buona gestione ambientale del territorio, orientata a migliorarne lo stato ecologico e a fomentarne la biodiversità, reclama recuperare la vecchia pratica della «boïga» riaprendo radure e cammini di accesso al bosco, e approfittare del disboscamento selettivo come una fonte addizionale di energia rinnovabile attraverso piccole piante di biomassa integrate con i paesi vicini. Quando il discorso ufficiale afferma ancora adesso che non esistono alternative a una pastorizia intensiva scollegata funzionalmente dallo spazio coltivato, e che solo ricerca soluzioni in extremis al problema dell’accumulo d’escrementi, quegli spazi del bosco selettivamente aperti potrebbero accogliere una nuova pastorizia ecologica estensiva che offrra al mondo rurale nuove opportunità per generare valore aggiunto fornendo alimenti di qualità insieme al miglioramento dello stato ambientale del territorio. Mentre le politiche agrarie ignorano ancora l’immenso patrimonio dei versanti terrazzati a fasce e ronchi, o affermano che il loro mantenimento è economicamente insostenibile, un buon ordinamento del territorio dovrebbe aprire prioritariamente radure proprio dove si trovano le terrazze e i sentieri da recuperare. Quando molta gente identifica ancora lo sviluppo eolico o lo sviluppo degli orti solari con il degrado del paesaggio, una ricerca di soluzioni territorialmente sinergetiche può trovare nelle zone ventose un luogo adeguato per gli aereogeneratori e per i pannelli fotovoltaici in molti di quei nuovi spazi dediti alla pastorizia o agro-forestali diradati dove si dovrebbero aprire nuove vie d’accesso o, ancora meglio, recuperare quelle antiche andate perse. Sbloccare questo falso conflitto tra lo sviluppo delle energie rinnovabili e il mantenimento di un buon stato ecologico dev’essere una priorità della nuova cultura del territorio. Dobbiamo trovare soluzioni integrali basate nella sinergia territoriale.

17. Le masserie e le comunità rurali hanno portato avanti per molti secoli una accurata gestione integrata del territorio indotta dalla necessità: dipendevano dagli animali per ottenere concime e forza da traino, e solo attraverso una ragionevole integrazione dell’allevamento del bestiame con gli altri usi agricoli e forestali del territorio era possibile contrarrestare la considerabile perdita energetica che comportava la loro alimentazione. Facevano un uso efficiente del territorio proprio perché erano poveri di energia e di materiali di origine inorganica. Con l’arrivo del consumo di massa di combustibile fossile e di fertilizzanti chimici, la gestione integrata del territorio ha smesso di essere una necessità. Ma la fine di quella necessità doveva essere anche la fine delle sue virtù? La risposta è: non necessariamente. Una pianificazione e gestione ordinata del territorio avrebbe potuto rilevarla.

18. Non è un caso che la pianificazione regionale e urbana sia stata una scoperta che si è avuta, in Catalogna come in tutta Europa, nello stesso momento storico in cui le vecchie culture agrarie cominciavano a perdere la loro millenaria capacità di gestire il territorio in modo integrato. Se nel nostro paese abbiamo patito fino a oggi un vuoto così grande nella pianificazione territoriale e un eccesso così sproporzionato nello sfruttamento del suolo a fini speculativi, tutto ciò ha molto a che fare con la mancanza di democrazia o con il basso livello di quella che abbiamo conosciuto realmente. Per rendersene conto basta attraversare i Pirenei e confrontare i paesaggi rurali e urbani che troviamo in direzione nord con il grave disordine del nostro territorio. Dai grandi e innovatori urbanisti come Ildefons Cerdà (1815-1876) e Cebrià de Montoliu (1873-1923), fino a Nicolau Rubió i Tudurí (1891-1981) e Santiago Rubió i Tudurí (1892-1980) o il GATCPAC (1928-1939) (NdT gruppo d’archittetti della Barcellona repubblicana ispirato ai principi di Gropius e Le Corbusier), in Catalogna circolavano proposte molto chiaroveggenti e innovatrici circa la pianificazione urbana e l’ordinamento territoriale. È stata proprio la mancanza delle libertà politiche e l’enorme impoverimento culturale durante la dittatura di Franco a creare un gravissimo vuoto di pianificazione, tale da lasciare una impronta molto visibile nel degrado di tutto il litorale, delle città, dei quartieri, dei poligoni industriali, delle zone turistiche o delle aree rurali abbandonate. È ora ormai che i piani territoriali parziali e i piani direttivi urbanistici integrino tutte le richieste e i condizionanti di una valutazione ambientale strategica rigorosa.

19. Dopo tre decenni di istituzioni democratiche, l’ordinamento territoriale è ancora una questione irrisolta e lo sfruttamento del suolo a fini speculativi continua a imporsi troppo spesso sulla volontà cittadina e sugli interessi generali del paese. Il vuoto di pianificazione territoriale ha ancora molto a che fare con il basso livello di democrazia derivante da una transizione politica post franchista niente affatto esemplare. L’avanzata di una nuova cultura del territorio, che ponga il mantenimento del buon stato ecologico al centro dell’ordinamento degli usi del suolo, ha bisogno di una democrazia più partecipativa e di maggior qualità deliberativa di quella attuale.

20. Il compito più urgente dei movimenti sociali che si sono sollevati contro la speculazione privata del suolo e la mancanza per molti anni di politiche pubbliche di regolazione del territorio all’altezza delle circostanze è stato ed è ancora quello di bloccare i nuovi progetti di edilizia residenziale e turistica nelle zone del litorale già saturate fino a estremi assurdi, di nuove autostrade e strade in aree già circondate da grandi arterie al servizio del trasporto motorizzato, di campi da golf, di linee d’alta tensione o di altre infrastrutture aggressive, spesso innecessarie o persino controproducenti per il nuovo modello territoriale di cui abbiamo bisogno. La cultura del “qui no”, di cui si lamentano molti poteri di fatto, non è altra cosa che la reazione a questa mancanza di deliberazione, partecipazione e pianificazione democratica del territorio. Allo stesso tempo, per avanzare realmente verso un nuovo modello territoriale che mantenga in buono stato il suo funzionamento ecologico è necessario che la protesta venga accompagnata alla proposta di soluzioni innovatrici e coerenti del problema dal punto di vista socio-ambientalmente a tutti livelli (locale, regionale, nazionale, statale, europeo e globale). Queste soluzioni devono essere territorialmente sinergetiche. Cioè devono contemplare allo stesso tempo tutti i versanti correlati della questione (rurale e urbana, energetica ed eco-paessagistica, materiale e culturale, tangibile e intangibiile, ecc.).

21. La terza gran patologia ambientale del nostro territorio è fatta di cemento e asfalto e consiste nell’avanzata forsennata di una urbanizzazione speculativa. Per effetto della moltiplicazione della rete viaria pubblica al servizio di automobili e camion privati, le regioni metropolitane di Barcellona, Girona e Tarragona stanno sperimentando un processo di conurbanizzazione dispersa che invade alcuni dei migliori terreni del territorio annullandone le funzioni ambientali, distrugge spazi liberi e possibili connettori biologici, tende a segregare socialmente le persone nello spazio a seconda dei livelli di reddito e/o dell’origine sociale o culturale, incrementa la distanza tra luogo di residenza e lavoro o servizi, e moltiplica esponenzialmente la dipendenza dall’automobile, la produzione di residui urbani, la spesa energetica, il consumo d’acqua e le emissioni disperse di gas serra per abitante. Una nuova cultura del territorio deve avere come massima priorità frenare questa febbre costruttrice di suburbi dispersi, e riorientare la crescita urbana verso un altro modello basato su una rete di città e centri più densi, misti e polifunzionali, socialmente integratrori, dove diventi possibile far la pace con la natura.

22. In molte province ha preso piede un discorso sommamente ambiguo che attribuisce “alla città” o “a Barcellona” tutti i mali di cui soffre il territorio. Questo discorso mette sotto silenzio, in primo luogo, le patologie ambientali originate da un modello agricolo e pastorale insostenibile, che è divenuto una delle principali fonti del degrado paesaggistico e dell’inquinamento diffuso. In secondo luogo, nasconde che anche nelle altre province non barcellonesi la maggior parte della popolazione vive e lavora in città e centri dove il consumo di energia e di acqua per abitante e le emissioni di gas serra sono uguali o spesso superiori a quelle degli abitanti delle regioni metropolitane. Tuttavia l’errore più grave di questo discorso è non capire che la città dev’essere una parte sostanziale delle soluzioni alle disfunzioni ambientali che soffriamo. Solo l’alleanza tra una nuova agricoltura e pastorizia ecologiche, e una rete di città, villaggi e paesi realmente impegnati nella sostenibilità, potrà rendere fattibile una nuova cultura del territorio.

23. Per l’ecologia umana la città è stata una gran scoperta evolutiva poiché permette di moltiplicare le opportunità di interazione, riducendo al minimo possibile le necessità di trasporto e di consumo del suolo. Ampliando le capacità di scelta della gente, la città può diventare uno spazio molto importante per lo sviluppo umano. Le città vere, basate su una densità e mescolanza adeguate agli usi, possono venire anche concepite come una risorsa rinnovabile in cui la ristrutturazione dei tessuti già esistenti può diventare una alternativa al consumo orizzontale del territorio. Purtroppo però le nostre città attuali non realizzano questo sviluppo umano sostenibile. La prova più evidente di ciò è rappresentata dalle gravi difficoltà di accedere a un alloggio degno ed economico, che nell’attuale boom della speculazione immobiliaria pregiudicano gravemente un numero sempre più grande di giovani o di famiglie con lavori precari e bassi redditi. Questa privazione del diritto più elementare alla casa e alla città è uno degli ingranaggi dell’attuale esplosione metropolitana sotto forma di conurbazione dispersa, che segrega socialmente le persone nello spazio e moltiplica l’impronta ecologica del suo metabolismo sociale. Fermare la speculazione e garantire realmente il diritto costituzionale alla casa per tutti sono compiti urgenti e prioritari di una nuova cultura del territorio, che deve andare di pari passo con il cambiamento in direzione di tipologie costruttive di minor impatto ambientale. Né le città attuali né tantomeno i suburbi dispersi a bassa densità, sono in grado di soddisfare le necessità della gente in modo sostenibile: ovvero senza compromettere lo sviluppo umano delle altre persone o dei territori del presente o delle generazioni future. Ma il suo fallimeno circa la capacità di promuovere lo sviluppo umano o la sostenibilità ha a che vedere con il modello imperante di città. La conurbazione dispersa deteriora il funzionamento ecologico del territorio distruggendo allo stesso tempo la propria città. Non è quindi la città il problema ma il suo stesso fallimento.

24. Ben lungi dal comportare un qualche tipo di riequilibrio territoriale, l’attuale processo di dispersione della popolazione dalle attuali concentrazioni metropolitane fino ad anelli concentrici sempre più lontani moltiplica esponenzialmente tutti i problemi socio-ambientali del territorio. Il principale riequilibrio territoriale di cui ha bisogno adesso la Catalogna, come tante altre regioni dal Mediterraneo, riguarda la riduzione dei dislivelli dell’attuale gerarchia urbana all’interno della rete reale di città e paesi che inglobano tutto il territorio. Ciò significa incrementare il peso relativo delle città piccole e medie in detrimento dei grandi centri metropolitani di Barcellona, Girona e Tarragona già troppo saturate. Bisogna fare nuovi ampliamenti nelle città intermedie, come si fece un secolo e mezzo fa a Barcellona o Sabadell. L’alternativa a una estensione disordinata delle conurbazioni disperse è quella di costruire una rete basata sul reticolo urbano tradizionale che il territorio catalano ha ereditato dal passato di città e paesi densi, polifunzionali e socialmente integranti, uniti da un sistema efficiente di trasporto ferroviario o collettivo e separati da diversi cinturoni o anelli verdi di spazi orticoli, agricoli e forestali vivi che, insieme al sistema di spazi naturali protetti e uniti da corridoi biologici viabili, mantengano un buon funzionamento ecologico di tutta la matrice territoriale.

25. Per avanzare verso un modello territoriale che sia localmente e globalmente più sostenibile le città, cittadine e paesi della Catalogna —come di qualsiasi altro luogo del mondo sviluppato— devono ridurre significativamente l’impronta ecologica del loro metabolismo collettivo. Oggi tutte le città, cittadine e paesi del nostro paese devono importare materiali ed energia da luoghi molto lontani. Tutti vivono in un luogo del territorio, ma nessuno vive in modo esclusivo del piccolo territorio in cui abita. I criteri d’efficienza, sufficienza e giustizia ambientali devono applicarsi alla ricerca di soluzioni a tutto tondo tenendo conto della molteplice dimensione, locale, regionale, nazionale, statale, europea e internazionale del problema.

Queste 25 idee, e gli orientamenti e proposte che ne derivano, possono riassumersi in una sola nozione centrale: il paesaggio è la percezione umana del territorio, e la sua configurazione diviene l’espressione territoriale del nostro metabolismo sociale. Per una nuova cultura del territorio tutti i paesaggi devono venir intesi come uno specchio che riflette la gamma di relazioni che la nostra società mantiene con la natura. Se non ci piacciono i paesaggi che abbiamo, dobbiamo cambiare la nostra forma di vivere e convivere.

L’autore è direttore del Dipartimento di storia ed istituzioni economiche dell’Università di Barcellona, membro del Consiglio di redazione della rivista Global Environment

Il testo originale del paragrafo 3, che contiene la definizione del termine “sviluppo sostenibile”, in due pagine del rapporto From One Earth to One World (Rapporto Brundtland) della World “Commission on Environment and Development”, pubblicato nel 1997 con il titolo Our Common Future, approvato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1989. Trad italiana da Il futuro di noi tutti, Bompiani, Milano 1988

L umanita ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ailoro. Il concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensl imposti dall'attuale stato delta tecnologia e dell'organizzazione sociale alle risorse economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attivita umane. La tecnologia e l'organizzazione sociale possono pero essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica

La Commissione e del parere che la diffusa povertà non sia piu inevitabile. La povertà non e soltanto un male in sè, ma lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilitè di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore. Un mondo in cui la povertà sia endemica sarà sempre esposto a catastrofi ecologiche e d'altro genere. Il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri, ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l'effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali.

Lo sviluppo globale sostenibile esige che i piu ricchi facciano `ropri stili di vita in sintonia con i mezzi ecologici del pianeta, per rsempio per quanto riguarda 1'uso dell'energia. Inoltre, gli incrementi demografici possono aumentare la pressione sulle risorse e rallentare il miglioramento dei livelli di vita; sicchè, uno.sviluppo sostenibile puo essere perseguito solo se I'entita della popolazione e 1'incremento demografico sono in armonia pm il mutevole potenziale produttivo dell'ecosistema.

In ultima analisi, però, lo sviluppo sostenibile, lungi dall'essere una definita condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento di risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con quelli attuali. Noi non affermiamo certo che il processo sia facile o rettilineo. Bisogna compiere difficili scelte. Sicchè, a conti fatti, lo sviluppo sostenibile non puo che fondarsi sulla volonta politica.

Postilla

Qualcuno ne ha parlato come di una "definizione di compromesso". In effetti, sebbene sia certamente un compromesso molto avanzato e una definizione molto severa, non esprime ancora pienamente una critica di quella ideologia della crescita indefinita che è congeniale al modo caputalistico di produzione. Ma è difficile che una critica siffatta potesse trovare consenso unanime all'interno dell'Assemblea generale dell'ONU.

Quanto quel compromesso sia avanzato è testimoniato dal fatto che oggi, nel linguaggio corrente, "sostenibile" è divenuto un sinonimo di "sopportabile", arretrando un bel po' dalla severità della definizione elaborata dai saggi coordinati da Gro H. Brundtland.

Qui sotto è scaricabile il paragrafo sopra tradotto, nel testo integrale in lingua inglese del rapporto. E' tratto da questo sito web.

C’è stato un momento nella storia politica e culturale milanese del Novecento nel quale è sembrato possibile pianificare un assetto urbanistico per la Milano del nuovo millennio che avrebbe dato vita a una città molto diversa da quella che oggi conosciamo. Sono gli anni di ascesa del regime, soprattutto quelli che coincidono con l’arrivo a palazzo Marino di «un giovane tecnico - scrive Paolo Mezzanotte a metà degli anni venti - di ammirevole attività e di intelligenza fuori dal comune». Stiamo parlando di Cesare Chiodi, assessore all’edilizia tra il 1922 e il 1925, e del sogno tenacemente perseguito di una città policentrica.

Conclusa l’esperienza amministrativa, l’ingegnere liberale nato e vissuto a Milano tra il 1885 e il 1969 partecipa con Giuseppe Merlo e Giovanni Brazzola al Concorso nazionale per lo studio di un progetto di piano regolatore e d’ampliamento per la città di Milano del 1926-27: «il più importante [...] che si sia stato bandito» in Italia afferma orgogliosamente Ernesto Belloni che dell’intera operazione è il timoniere prima come commissario prefettizio, poi come podestà di Milano. In questa occasione le diverse anime dell’architettura e dell’urbanistica milanesi si trovano a confronto: quella di Piero Portaluppi e Marco Semenza, quella di un nutrito gruppo di architetti riuniti nel Club degli urbanisti (Alberto Alpago Novello, Tomaso Buzzi, Ottavio Cabiati, Giuseppe de Finetti, Guido Ferrazza, Ambrogio Gadola, Emilio Lancia, Michele Marelli, Alessandro Minali, Giovanni Muzio, Pietro Palumbo, Gio Ponti e Ferdinando Reggiori) e quella di Chiodi, Merlo e Brazzola che tramutano in disegno urbano la speranza di una Milano policentrica con un progetto - contrassegnato con il motto Nihil sine studio 2000 - che appare come la sintesi di una vicenda complessa: quella della genesi di un’idea di città e di progetto urbano nati in un momento di profonda inadeguatezza degli strumenti operativi e concettuali di pianificazione rispetto ai gravosi compiti a cui erano chiamati.

Il progetto, che risulterà terzo classificato, è composto da ventisette tavole [1] e una relazione. Se si escludono gli studi e le tavole preparatorie conservate dall’Archivio Cesare Chiodi del Politecnico di Milano, degli elaborati grafici presentati al concorso non sembra esservi più traccia negli archivi milanesi. L’Archivio Storico Civico del Comune di Milano conserva invece la relazione in più copie e in due versioni, identiche nei contenuti, ma diverse nell’impaginato. La prima è un dattiloscritto, con alcuni titoli e correzioni manoscritti, fascicolato, con copertina, di 123 pagine. La seconda è un dattiloscritto ciclostilato, fascicolato, di 93 pagine, realizzato probabilmente sia per uso dei singoli commissari, sia per l’esposizione al pubblico del progetto alla Fiera di Milano nel 1927.

Oltre a una lunga premessa - che riporta dati statistici demografici e i «limiti di studio del nuovo piano di ampliamento nei riguardi dell’accrescimento della popolazione» - la relazione, datata «aprile 1927», si articola in tre parti che da un lato ripropongono la dicotomia, anticipata dal bando di concorso, fra città storica e nuova espansione, dall’altro collocano il progetto urbano in una dimensione che comprende la gestione dei processi di costruzione della città segnando il momento di passaggio tra piano figurato ottocentesco e moderno strumento di amministrazione territoriale. Le dimensioni e i contenuti del testo consentono di ipotizzare che non si tratta semplicemente di un elaborato progettuale. Questo scritto, infatti, non contiene solo la descrizione e le motivazioni delle scelte adottate dagli autori nel piano per Milano, ma si configura come una sintesi delle migliori pratiche urbanistiche conosciute fino a quel momento, una sorta di anticipazione di quella tecnica urbanistica che Chiodi metterà a punto compiutamente, meno di dieci anni dopo, nel manuale La città moderna edito da Hoepli nel 1935. Il concorso per il piano regolatore di Milano, per la sua prevedibile visibilità sia tra gli addetti ai lavori sia tra il grande pubblico, sembra cioè essere utilizzato strumentalmente dai progettisti per diffondere una nuova « coscienza urbanistica che - afferma Chiodi nel 1926 - faccia più ardito il legislatore, più agguerrito il tecnico, più preveggente e sorretto l’amministratore, più illuminato lo speculatore nella ricerca dell’ ubi consistam comune per il maggior decoro delle [...] città e per il maggior benessere dei [...] concittadini».

Renzo Riboldazzi (rielaborazione dai paragrafi introduttivi a Una Città Policentrica. Cesare Chiodi e l’urbanistica milanese nei primi anni del fascismo, Polipress, 2008)

[1] 1. Milano nel 1801; 2. Milano nel 1859; 3. Milano nel 1900; 4. Milano nel 1926; 5. Milano nel 2000; 6. Diagrammi dell’incremento della fabbricazione e della popolazione cittadina; 7. Studio generale del piano di ampliamento; 8. Densità della popolazione nelle zone della città futura; 9. Schema delle zone edificatorie nei nuovi nuclei suburbani; 10. Zone industriali e impianti ferroviari; 11. Sistema dei parchi e delle zone a fabbricazione estensiva; 12. Sistemazione della zona di Gorla-Precotto-Crescenzago; 13. Sistemazione della zona di Affori-Niguarda; 14. Schema delle radiali di grande comunicazione col contado; 15. Grandi radiali extraurbane ed anello esterno; 16. Futuro centro di Milano e rete di collegamento coi nuclei periferici; 17. Statistica del traffico tranviario; 18. Statistica del carreggio; 19. Rete dei mezzi di trasporto; 20. Rete dei mezzi di trasporto nella zona centrale; 21. Sistemazione stradale interna; 22. Rete stradale della zona interna; 23. Varianti al piano regolatore della zona interna; 24. Problemi edilizi particolari; 25. Problemi edilizi della zona interna; 26. Sezioni stradali del centro; 27. Sezioni stradali della periferia.

Nihil Sine Studio 2000

[…] Criteri generali di estensione del piano urbano

Opportunamente fu già acquisito alle direttive della amministrazione cittadina e viene riconfermato dallo stesso bando di concorso che l’accrescimento cittadino non debba effettuarsi con legge monocentrica, ma debba al contrario seguire un indirizzo policentrico, nel senso di limitare volutamente lo sviluppo dell’aggregato principale cittadino per dar vita a villaggi, o sobborghi, o città satellite, cioè ad enti compiutamente organizzati in ogni loro servizio e capaci di vita relativamente autonoma, opportunamente distribuiti all’intorno della zona di influenza della città originaria, cinti da spazi liberi e convenientemente collegati da poche buone arterie col centro principale e fra di loro. I margini del piano di ampliamento del 1912 dovrebbero a nostro avviso costituire gli estremi limiti non oltrepassabili della espansione monocentrica della città. Entro questi limiti, che approssimativamente coincidono con quelli della linea daziaria del 1921, sono oggi ospitati circa 680.000 abitanti (censimento 1921). La densità di sfruttamento assegnata alla parte tuttora fabbricabile coi criteri precedentemente indicati permette di prevedere un incremento di popolazione per questa zona di circa 375.000 [unità] portando a poco più di un milione gli abitanti del nucleo urbano principale, cifra già notevolmente elevata. Fuori di questi limiti si tratta di disporre col nuovo piano di ampliamento lo spazio necessario per circa un altro milione di abitanti ed è appunto a questa parte della città che possono applicarsi quelle nuove direttive di sviluppo urbano che valgono ad arginare lo sviluppo monocentrico della città. Da qui crediamo utile iniziare il nostro studio perché dal diverso gravitare dei nuovi nuclei satellite intorno al nucleo principale ne risultano notevolmente influenzate anche le condizioni di questo. A base del nostro studio sta il concetto che l’ulteriore sviluppo della città non avvenga per espansione isotropa ed uniforme del consueto schema a scacchiere o ragnatela, ma dia invece luogo ad un processo di differenziazione per generazione intorno al nucleo centrale di minori unità satellite che, pur nel quadro generale di una comune organizzazione, conservino spiccate caratteristiche proprie. La città non dovrà espandersi a caso ed uniformemente intorno alla periferia bensì mediante l’aggregazione di nuclei ben disegnati, definiti e delimitati (che saranno secondo i casi sobborghi industriali o residenziali, città giardino, quartieri operai) ognuno dei quali dovrà avere dimensioni appropriate, essere provvisto di quanto occorre alla vita giornaliera per il lavoro, la ricreazione, la coltura, contare su adeguati spazi liberi, elemento essenziale della città moderna non meno che le case e le strade.

I rilievi demografici riportati dimostrano come enormemente irregolare, per importanza e per posizione, sia la distribuzione attuale degli aggregati suburbani intorno alla città. Lo sviluppo edilizio e demografico suburbano è infatti prevalente ed ormai a contatto della città del quadrante settentrionale (Musocco, Affori, Niguarda, Greco, Gorla, Precotto, Crescenzago), è più scarso e lontano a ponente (Baggio e Corsico) ed a levante (Lambrate e Rogoredo), quasi nullo a mezzodì (Vigentino e Chiaravalle). Questa situazione di fatto attuale, che risponde anche a naturali condizioni di ambiente, non può essere senza influenza sullo sviluppo futuro. Sarebbe contrario alla logica di tracciare un piano di ampliamento che, a somiglianza dei precedenti, si estendesse con uniforme scacchiera in ogni direzione. Più opportunamente e con sicura economia di mezzi deve concentrarsi in determinati punti intorno ai più importanti nuclei suburbani e lungo le direttrici delle grandi radiali esterne lo sviluppo della rete stradale e dei servizi pubblici ed ordinarsi la fabbricazione. Una soluzione di questo genere ha anche un suo attraente lato morale in quanto permette di conservare meglio intorno alla città il ricordo e le caratteristiche storiche, artistiche od ambientali dei vecchi villaggi suburbani invece di affogarli nell’uniforme assorbimento entro le maglie della grande città. […] Nelle tavole è accuratamente riportato lo stato attuale della fabbricazione. Fu cura costante nello studio del nuovo piano esterno di rispettare in pieno tutto ciò che esiste, di raccordare la nuova rete di strade alla vecchia, di fare degli edifici o artistici o storici, o comunque di qualche pregio, i punti di riferimento per particolari adattamenti o sistemazioni.

Prima di passare ad un rapido cenno descrittivo dei singoli nuovi gruppi creati crediamo opportuno indicarne le caratteristiche comuni. In generale si è mirato a dare veramente l’impronta di unità autonoma a ciascuno di questi gruppi, creando per ognuno un proprio centro intorno al quale potessero raccogliersi i principali uffici pubblici ed il quartiere commerciale, di disporre intorno a questo i quartieri residenziali a fabbricazione gradatamente sempre più estensiva e di assegnare alle zone marginali in opportuno contatto, o in facile comunicazione colle grandi vie di traffico stradale, ferroviario o per vie d’acqua, i quartieri industriali; il tutto circondato da zone agricole e intramezzato da spazi verdi. Rispetto al centro di ognuna di queste unità satellite si orienta la propria rete stradale: sia quella della grande viabilità, destinata ai collegamenti colla vecchia città, col contado e colle unità satelliti prossime, sia quella della viabilità minore interna. Una disposizione così teoricamente perfetta dal punto di vista edilizio e stradale, non è stata ovunque raggiungibile; ad ogni modo ad essa si è cercato di tendere colla maggiore approssimazione. I gruppi principali creati all’infuori dei limiti del vecchio piano di ampliamento del 1912 sono i seguenti: il quartiere di Lambrate è costituito da due parti quasi distinte, separate fra di loro dal corso del nuovo canale navigabile e dalla zona verde prevista sulle sponde del Lambro. La prima (che racchiude il vecchio abitato del paese) compresa fra il canale navigabile e la nuova stazione ferroviaria ha destinazione prevalentemente industriale, perfettamente rispondente al suo indirizzo attuale ed alla sua vicinanza a così importanti arterie di traffico. La seconda, più orientale e completamente di nuova creazione, ha invece destinazione residenziale, come villaggio operaio in parte a fabbricazione intensiva, in parte a fabbricazione estensiva, destinato a raccogliere la popolazione operaia della vicina zona industriale. Il quartiere di Linate è costituito da un unico agglomerato disposto a cavaliere della grande radiale suburbana dell’est e da questa direttamente collegato alla città, pur essendone materialmente separato dall’ampia zona verde lasciata sui margini del Lambro. Ha destinazione prevalentemente residenziale per la popolazione operaia che gravita intorno ai centri industriali dell’Ortica e della zona del porto. Il quartiere portuale occupa tutto il settore di sud-est della nuova città con caratteristiche nettamente industriali, rete stradale a grandi maglie regolari orientate secondo l’andamento degli impianti portuali e delle tre principali arterie di collegamento colla città: la via Marco Bruto, la nuova sede della strada Paullese ed il corso XXVIII Ottobre. L’abitato di Rogoredo costituisce la zona residenziale, prevalentemente operaia, di questo quartiere. Il quartiere di Vigentino è l’unica prevista espansione della città verso il sud. Le condizioni igieniche meno felici di questo settore della città non consigliano di dare maggior sviluppo alla fabbricazione in questo senso. Il nuovo nucleo principale si estende dalla provinciale Pavese alla Vigentina. Il quartiere di S. Cristoforo ha caratteristiche industriali nella zona che si estende radialmente lungo il Naviglio Grande e la linea ferroviaria ed è invece previsto come grande villaggio operaio nella parte fra la stazione di S. Cristoforo e la piazza d’Armi di Baggio. Le linee del piano regolatore vigente (già in corso di attuazione) limitano notevolmente in questo punto le possibilità di sviluppo di nuove soluzioni. Si è perciò studiato di adattare a quelle la organizzazione generale del quartiere, pure assegnando una impronta più precisa e definita alle sue singole parti. Il grande rettifilo dalla stazione di S. Cristoforo alla piazza d’Armi può costituire il progettato viale delle Milizie, asse del quartiere di caserme e di stabilimenti militari. Il quartiere di Baggio, notevolmente lontano dalla città, ha più caratteristico e spiccato aspetto di unità autonoma. La nuova zona di espansione si stende a ventaglio intorno al vecchio paese che è completamente rispettato nella sua struttura. Il suo nuovo centro viene creato verso la città allo sbocco della grande radiale di congiunzione ed all’incrocio coi collegamenti trasversali con Corsico e Trenno. Intorno al grande piazzale centrale alberato sono previste le zone residenziali; al sud in direzione di Cesano Boscone e Corsico, le zone industriali facilmente raccordabili alla ferrovia di S. Cristoforo. Il quartiere di Trenno costituisce pure una piccola unità autonoma fra il parco dell’Olona e la zona degli ippodromi di destinazione quasi esclusivamente residenziale. Il quartiere di Boldinasco situato allo sbocco in città delle autostrade, percorso da arterie in diretta comunicazione colla Fiera campionaria ed il corso Sempione ed in gran parte costituito da terreni di proprietà comunali, è suscettibile di rapido sviluppo con fabbricazione parte intensiva e parte estensiva. Il quartiere Affori-Niguarda compreso fra la linea delle Ferrovie Nord ed il corso del Seveso presenta qualche difficoltà di sviluppo in parte per la esistenza di importanti nuclei fabbricati, in parte per la progettata costruzione del nuovo ospedale che occuperà una notevole porzione centrale di questa zona. […] Le difficoltà di studio di questo quartiere hanno consigliato di svilupparne la planimetria in scala maggiore. Una nuova arteria radiale parallela alla strada provinciale per Como percorre in direzione da nord-ovest a sud-est il nuovo quartiere tagliandolo in due parti. Quella di ponente, raccordabile alle linee della Ferrovia Nord, si presta ad uno sviluppo industriale; per quella di levante è prevista invece una utilizzazione prevalentemente residenziale. Il quartiere di Greco ha un grande sviluppo longitudinale avendo come direttrice il nuovo vialone per Monza. Sui due margini di questo sorgerano i nuovi quartieri di abitazione; fra questi e la ferrovia si ha invece un’ampia zona che si presta a scopi industriali anche per la vicinanza della nuova stazione di Greco. Il Milanino, colla sua struttura attuale suscettibile di futuri ampliamenti, entra definitivamente coll’estensione del piano di ampliamento a far parte del sistema urbano collegandosi alla città con un ampio viale assiale che si innesta nei pressi della Bicocca al nuovo viale per Monza. Il quartiere Gorla Crescenzago occupa la parte nord-est della città fra la ferrovia per Monza ed il Lambro. Le arterie esistenti del viale Monza e di via Padova costituiscono due situazioni di fatto non suscettibili di ritocchi. Nella zona libera fra le due arterie si è previsto lo sviluppo del nuovo quartiere che ha fra le sue caratteristiche anche il corso della Martesana che si è voluto conservare immutato fiancheggiandolo con zone a verde ed a fabbricazione rada.

Rete stradale

La tendenza decongestionatrice e decentratrice del nucleo urbano, che tende a dar vita ai margini della città ad unità demografiche capaci di un notevole grado di autonomia funzionale, rende necessaria la impostazione del problema stradale con criteri affatto differenti da quelli seguiti nel vecchio piano regolatore. Gli schemi tipici di espansione a scacchiere od a ragnatela orientati rispetto ad un unico centro urbano ed uniformemente distesi tutt’intorno alla città in ogni direzione non hanno più ragione di essere. La rete stradale e dei pubblici servizi inerenti deve disporsi in relazione alle necessità particolari e relative delle zone già designate per il preordinato sviluppo della città. La rivoluzione compiutasi nell’ultimo ventennio nei mezzi di trasporto concorre a modificare le concezioni delle necessità stradali. È notevole, ad esempio, la caratteristica del piano regolatore vigente (1909-12) che, concepito in un’epoca nella quale i mezzi di trasporto erano quasi unicamente monopolizzati dalle ferrovie, si arresta ai margini della città senza preoccuparsi di creare i necessari collegamenti della città col contado, colle fiorenti città e borgate delle provincia – quali Monza, Sesto, Saronno – colle zone industriali del Gallaratese, con quelle agricole della “Bassa”, tutte unicamente congiunte alla città dalle anguste strade provinciali esistenti assolutamente inadeguate ad ospitare il sempre crescente traffico dei mezzi di trasporto automobilistici o le sedi di linee tramviarie foresi.

Al contrario oggi si impone la necessità di considerare, come elemento essenziale nell’ordinato sviluppo della città, i suoi rapporti colla regione che la circonda e di studiare i mezzi più adatti per le comunicazioni extraurbane che hanno influenza grandissima sulla vita demografica ed economica della città. Nel nostro studio noi ci siamo proposti una esatta distinzione fra le arterie di grande traffico e le strade secondarie di puro disimpegno. Alle prime corrispondono tre funzioni essenziali di collegamento: a) quello radiale fra il nucleo centrale e le unità satelliti sia del suburbio, sia della regione, corrispondente alla funzione delle nostre vecchie provinciali; b) quello periferico fra i nuclei satellite fra loro; c) quello interno fra i diversi quartieri di uno stesso nucleo. Le strade secondarie soddisfano invece alle necessità della circolazione locale, al disimpegno delle zone edificatorie, al movimento di cabotaggio entro i ristretti limiti di ciascun quartiere. A funzioni così distinte corrispondono necessità di dimensioni e di sistemazioni affatto diverse. Premettiamo subito che nello studio di un piano così vasto per la cui attuazione si richiederà la vita di alcune generazioni è soprattutto alle arterie di grande traffico che occorre dare ordinamento e disposizione definitiva. Quanto alle arterie secondarie, se pure esse risultano nelle nostre tavole indicate con qualche ricchezza di particolari per quelle zone della città delle quali per le loro più difficili – ed in parte già pregiudicate condizioni edificatorie – abbiamo creduto opportuno sviluppare i piani in iscala più evidente, non è possibile dare a questo nostro studio portata superiore di quella alla quale può onestamente pretendere. Esso va preso quindi come esemplificazione di un indirizzo al quale l’amministrazione può ispirarsi, pur senza escludere che all’atto pratico la rete minuta di lottizzazione abbia a subire qualche ritocco.

Lo scarso assegnamento che si può fare sulle antiche strade provinciali per i collegamenti radiali fra il centro urbano ed i nuclei satellite ed il contado, per essere quelle quasi tutte troppo anguste e già vincolate dalla fabbricazione che si è lasciata sorgere troppo prossima ai loro cigli senza sufficienti zone di rispetto, ha consigliato di iniziare lo studio della rete stradale da quello delle future grandi arterie radiali esterne destinate a sostituirsi alle vecchie provinciali almeno nel tratto più prossimo alla città. Le nuove radiali previste sono le seguenti, iniziando dal settore di nord-est: 1) la radiale Veneta destinata a sostituire la provinciale Veneta nel suo ultimo tratto (attraversamento di Crescenzago e viale Padova). Essa se ne distacca a monte di Vimodrone, si dirige in rettifilo su Lambrate (al Dosso), raccogliendo il traffico di questo nuovo nucleo cittadino, e sottopassa l’argine ferroviario nel punto ove già esiste il cavalcavia, che dovrà essere convenientemente ampliato. Di qui può penetrare in città per due distinte strade, l’una per la via Porpora ed il corso Buenos Ayres, atte a smistare il traffico verso il centro e l’ovest, l’altra per via Pacini e il viale Lombardia, destinate agli allacciamenti col sud. 2) La radiale dell’Est sul prolungamento del corso XXII Marzo, predisposta per ricevere in futuro gli allacciamenti di una eventuale autostrada da Venezia e per collegare colla città il nuovo parco del Lambro, il quartiere di Linate e le provenienze della strada Paullese. Essa sottopasserà il rilevato ferroviario col manufatto già costruito della luce netta di 30 metri e potrà penetrare in città fino a poche centinaia di metri dal Duomo attraverso l'ampio rettifilo del corso XXII Marzo e di porta Vittoria che, in tutto il suo sviluppo di 3 km, ha larghezza sempre prossima ai 30 metri. 3) La radiale Piacentina ha già un buon imbocco in città nel corso XXVIII Ottobre largo, nelle parti sistemate, 50 metri. Più fuori, la copertura del Redefossi assicura alla provinciale Piacentina una larghezza quasi costante di 40 metri ed il cavalcavia di Rogoredo permette di evitare lo sbarramento ferroviario e la strozzatura di Rogoredo. 4) La radiale Vigentina si distacca dalla provinciale attuale a Brandezzate deviando verso ponente fino a raggiungere i pressi della cascina Trebbia. Da qui ripiega a nord e lungo la strada di Morivione, opportunamente allargata a 40 metri, colla copertura del Ticinello, raggiunge i Bastioni e penetra più addentro nella città colla spaziosa via Calatafimi ed il piazzale della Vetra. 5) La radiale Pavese si distacca a Gratosoglio dalla provinciale attuale e piega in rettifilo verso levante, alla cascina Trebbia si congiunge alla radiale Vigentina e con questa penetra in città. 6) La radiale Vigevanese si distacca a Gaggiano sulla sponda sinistra del Naviglio Grande dalla attuale provinciale, passa poco a tramontana di Corsico costituendo l’arteria fondamentale di tutto l’importante quartiere industriale di S. Cristoforo e può penetrare in città attraverso le due vie parallele Solari e Foppa (entrambe di 30 metri di larghezza) e le vie Filangeri ed Olona che a quelle seguono e che sono suscettibili di rettifiche di tracciato. 7) La radiale dell’Ovest si stacca dalla provinciale Vercellese alle Bettole di Figino, ove può ricevere anche l’imbocco dell’autostrada di Torino, passa al mezzodì dei nuovi quartieri di Trenno, costeggia al nord l’ippodromo di San Siro e di qui può penetrare in città attraverso le tre vie parallele Monterosa, Monte Bianco ed Albani e le loro continuazioni Alberto da Giussano, Mascheroni e Giotto. 8) La radiale del Sempione segue il tracciato della provinciale attuale suscettibile di allargamento fino all’altezza di Boldinasco, qui se ne distacca in direzione di sud-est e raggiunge la Fiera campionaria penetrando in città per le vie V. Monti e Abbondo Sangiorgio. 9) Le autostrade pei laghi e per Bergamo, riunitesi al nord di Musocco e sboccate alla Certosa di Garegnano, possono di qui proseguire allacciandosi alla precedente per penetrare in città. 10) La radiale Varesina si distacca a monte di Roserio dalla provinciale attuale, passa a levante dell’abitato di Musocco raggiunge con curva più dolce il cavalcavia attuale sopra la ferrovia, ne scende e si biforca nella via Espinasse e nella via Mac Mahon, raggiungendo la città da un lato per il corso Sempione dall’altro per via Cenisio e porta Volta. 11) La radiale Comacina si distacca alla Mal Cacciata dalla provinciale attuale, passa a levante degli abitati di Dergano e di Affori, sbocca nel piazzale Macciachini, e prosegue verso la città o attraverso la via Valtellina ed il corso Como, o allacciandosi per un breve tratto del viale Marche. 12) La radiale del Nord (attuale viale Zara dei quartieri nord Milano) destinata ad essere prolungata, già in progetto fino al rondò dei Pini a Monza, costituirà la nuova strada di comunicazione con quelle città, col parco, con Sesto, con Milanino. Essa riceve sulla sua destra la deviazione dell’attuale strada Valassina che costituisce l’asse mediano del Milanino, attraversa la zona fra Niguarda, Prato Centenaro e Greco e potrà essere messa in condizione di buona penetrazione del centro di Milano non appena, colla soppressione degli impianti ferroviari, sarà dato sbocco al sud alle vie Volturno e colla copertura che si propone di un tratto della Martesana e del tombone di S. Marco, ne potrà essere prolungato il tracciato fino al contatto dell’anello dei Navigli e del Foro Bonaparte. Le dodici grandi radiali proposte – con sezioni quasi sempre superiore ai 40 metri e talora raggiungenti i 60 metri – costituiranno i nuovi accessi alla città degni dei migliori esempi lasciatici nel passato nel corso Sempione e nel corso Lodi, soprattutto se si curerà di disciplinare rigorosamente le costruzioni sorgenti sui loro lati. Ma soprattutto, esse permetteranno di risolvere in modo veramente efficace il problema delle comunicazioni meccaniche (automobilistiche o tramviarie) extraurbane oggi penosamente incanalate nelle sedi delle strade provinciali.

Per gli allacciamenti trasversali fra queste arterie radiali il piano vigente ha già due buoni anelli continui nella cerchia dei vecchi Bastioni e nella cerchia più esterna dei viali marginali al piano regolatore del 1889 (viale Abruzzi, Piceno, Umbria, Isonzo, Toscana, Tibaldi, Liguria, Troya, Bezzi, Ranzoni, Monte Ceneri, Bodio, Jenner, Marche, Brianza). Questo doppio anello, intimamente collegato alla tipica forma di sviluppo passato della nostra città, può tuttavia egregiamente servire allo smistamento fra i diversi quartieri periferici della vecchia città del traffico proveniente dall’esterno. L’anellodei Bastioni, costituito dal doppio sistema stradale dei vecchi Bastioni propriamente detti e della laterale circonvallazione, offre infatti nei suoi punti sistemati una sezione stradale veramente cospicua. Vedansi ad esempio, nel tratto presso porta Venezia, il viale Luigi Maino e il parallelo viale Piave l'uno di metri 35, l’altro di metri 27 che offrono completamente una sezione stradale di oltre 60 metri paragonabile cioè a quella del Ring viennese e quasi doppia di quella dei boulevards interieurs parigini che hanno la medesima posizione relativa e le medesime funzioni rispetto alla città. L’altro anello di viali, più esterno, ha la larghezza costante di 40 metri ed è quindi pure in grado di assolvere bene il suo compito. Trascuriamo gli altri parziali collegamenti esterni anulari del piano del 1912, alcuni dei quali costituiscono forse dal punto di vista della viabilità degli inutili doppioni, e passiamo senz’altro a considerare la zona che forma oggetto di studio per il nuovo piano proposto. Avendo abbandonato per questa parte del nuovo piano l’antico organismo della ragnatela stradale, non sarebbe stato logico costringere ad una forma di troppo geometrica precisione la rete delle congiungenti esterne dei nuclei satellite fra di loro e delle trasversali di smistamento fra le radiali principali. Piuttosto che sacrificare la realtà alla geometria, abbiamo preferito adattare la geometria alla realtà, ricordandoci volentieri – fra tanto imparaticcio di urbanistica straniera – dell’aureo ammonimento di Carlo Cattaneo che «una città che ha già vissuto ventiquattro secoli… non può essere condannata ad affondarsi tutta sotterra per risorgere quadrettata come un panno scozzese». Ciò che egli predicava ottan’anni fa per la città possiamo ben ricordarlo oggi per il suo suburbio. Il nuovo anello esterno marginale proposto si orienta quindi senza nessun preconcetto geometrico secondo la distribuzione dei quartieri satellite predisposti. Esso assume una forma naturalmente regolare nel settore di ponente dove collega i nuovi nuclei urbani disposti in regolare collana da Corsico, a Baggio, a Trenno, a Boldinasco. Qui lo sbarramento del cimitero ed il punto di passaggio obbligato al cavalcavia sopra la stazione di Musocco consigliano una diflessione del tracciato che poi riprende nuovamente regolare da Musocco, passando al centro del nuovo nucleo Affori – Bruzzano – Niguarda ed accostandosi alle zone industriali di Sesto per poi spingersi a monte di Crescenzago presso l’importante bivio della cascina Gobba dove può utilmente raccogliere il traffico della provinciale Veneta ed incanalarlo verso il nord e l’ovest della città evitando i percorsi di puro transito attraverso l’abitato. Nella parte orientale, fra Crescenzago, Lambrate e la zona portuale, le stesse due strade laterali al canale navigabile possono costituire le necessarie arterie di collegamento. Lo sbarramento creato dalla futura stazione di smistamento e dal triangolo di raccordi ferroviari dell’Ortica non consente d’altra parte molta varietà di soluzioni. Non è presumibile in queste difficili condizioni naturali un traffico trasversale molto attivo. Migliori vie di arroccamento si hanno più all’interno negli spaziosi e rettilinei viali Lomellina e Lombardia. La zona portuale del resto, che è la più importante di questo quadrante, naturalmente gravita per la sua stessa configurazione verso queste ultime arterie attraverso i tre importanti allacciamenti della via Marco Bruto, della nuova allargata sede della strada Paullese (già prevista nel piano regolatore vigente di 60 metri di larghezza) e del corso XXVIII Ottobre. Nella zona sud della città le due arterie previste sulla sponda del canale navigabile di congiunzione fra il Naviglio Grande e il porto possono servire ai collegamenti trasversali, tanto più che già esiste nel piano regolatore ed è in parte sistemato (viale Giovanni da Cermenate) l’ampio viale di arroccamento che doveva servire anche come sede al progettato canale di giunzione quando i bacini portuali erano previsti in posizione più a tramontana di quella scelta col progetto definitivo. Per quanto riguarda la rete secondaria di viabilità non crediamo necessaria una maggiore illustrazione di quanto è segnato nelle tavole richiamando solo il concetto informatore al quale abbiamo voluto ispirarci di una netta separazione fra le grandi arterie di traffico e le minori arterie di semplice disimpegno. Le strade di lottizzazione indicate rappresentano di massima solo le maglie principali di suddivisione entro le quali potrà inserirsi, in sede di attuazione del piano, la rete minore di frazionamento oggi neppur prevedibile. Le dimensioni dei lotti maggiori sono state scelte in modo da prestarsi al miglior frazionamento a seconda del tipo di fabbricazione assegnato alla zona (fabbricati in serie chiusa, villini, edifici industriali). […Circa le piazze] abbiamo curato che in ogni nucleo satellite esse avessero funzioni ben definite: le une di centro di riferimento della vita locale, le altre di disimpegno e di incrocio delle principali arterie, […] altre [ancora] infine di luogo di riposo e di sosta. Le sezioni trasversali assegnate alle strade variano a seconda delle loro specifiche funzioni. Alle grandi arterie radiali si sono attribuite larghezze variabili dai 40 ai 60 metri. La ripartizione della carreggiata secondo la diversa natura dei veicoli e la diversa velocità del traffico è fatta in modo da portare verso il centro della strada i mezzi di trasporto più rapidi, verso i fianchi il traffico locale. Le tramvie si sono di preferenza disposte in sede propria. Le alberate, se possibile in numero di quattro, si sono spostate verso il centro della strada in modo da non soffrire danno dalla vicinanza dei fabbricati. Dove si prevede di lasciare una zona di arretramento sistemata a giardini privati, fra il ciglio della strada e la linea dei fabbricati, potrà essere disposta anche un'alberata sui marciapiedi laterali. In ogni caso si è prevista la posizione delle alberate in modo da potersi adottare indifferentemente disposizioni diverse per la carreggiata senza compromettere l'esistenza degli alberi. Per le radiali maggiori si è prevista la possibilità di collocare in trincea le linee tramviarie e la carreggiata del traffico diretto per evitare gli attraversamenti. In taluni casi sarà possibile utilizzare lo spazio fra le alberate per galoppatoi. Questo ci sembra che possa particolarmente farsi nei due tronchi di strada radiale e trasversale che corrono a mezzodì ed a ponente degli ippodromi del trotter e di S. Siro che non sono percorse da un notevole traffico né spezzate da importanti attraversamenti e che, appunto per la loro vicinanza al quartiere degli sports, si prestano meglio alle esercitazioni ippiche. Per il nuovo anello esterno di collegamento fra i diversi nuclei non si è voluto esagerare le dimensioni, trattandosi di una strada non destinata ad incanalare notevoli correnti di traffico e che si svolge con una certa scioltezza di tracciato con frequenti sovrappassi agli impianti ferroviari ecc. e sussidiata, oltreché dall'anello dei viali marginali al piano regolatore del 1889, anche da parecchie altre strade di collegamento fra i diversi quartieri cittadini. Si reputa sufficiente la larghezza di 30 metri divisa in due carreggiate laterali ed un'allea alberata centrale che può tanto servire come passeggio, quanto come sede di tram. Nell'assegnare in ciascuna arteria il frazionamento delle carreggiate si è avuto cura di stabilire le dimensioni trasversali di questa in ragione di un multiplo della sagoma di ingombro dei veicoli che si è ritenuto di poter assegnare in metri 2,50. Si è dato perciò alle carreggiate di transito locale larghezza da metri 5 a metri 5,50; a quelle per il transito rapido larghezza da 7,50 a10 metri. I tram vennero collocati in sede propria (marciatram) e preferibilmente disposti sui lati della carreggiata principale lungo i viali pedonali laterali sui quali può effettuarsi in piena sicurezza la sosta, la discesa e la salita dei viaggiatori. […] Il concetto informatore della regolazione degli incroci è quello di ridurre al minimo gli attraversamenti diretti dell'arteria principale. A questo scopo gli sbocchi delle strade secondarie nella principale si sono di proposito sbarrati coi passeggi alberati in modo da costringere il traffico di quelle ad incanalarsi nelle carreggiate laterali del transito locale prima di confluire nella corrente equiversa del traffico diretto o per raggiungere il più prossimo punto di attraversamento che gli consenta di innestarsi nella corrente controversa sull'altro lato della via. I punti di attraversamento diretto vengono con ciò a concentrarsi in corrispondenza degli incroci delle arterie principali. Qui occorre provvedere un conveniente sgombro del campo visivo colla soppressione delle alberate e con un eventuale arretramento o smusso dei fabbricati. Certamente, dal punto di vista estetico, la soluzione a smusso non è delle migliori ma essa ha indubbi vantaggi pratici. Lo smusso deve però in ogni caso servire solo per la visuale e non per allargamento in raccordo della sede stradale che, anzi, da taluno si consiglia un certo restringimento della carreggiata della strada tributaria in corrispondenza dello sbocco nella principale per meglio inarginare il traffico prima di versarvelo […].

Nota: il documento integrale della relazione Nihil Sine Studio 2000 è scaricabile in formato pdf stampabile di seguito. Per maggiore chiarezza è stata inserita anche la riproduzione in piccolo formato di una delle tavole, che mostra l’organizzazione generale del piano coi quartieri giardino autonomi. Su questo sito sono anche disponibili diversi articoli teorici di Cesare Chiodi (f.b.)

Mi sono assunto il compito di riferire, in questo Convegno, sulla legge in difesa delle bellezze naturali, che è in vigore da più di otto anni -e la cui applicazione mi è stata affidata per ragioni di ufficio. Voi ne conoscete le disposizioni, che sono ben poche in verità: tuttavia ho bisogno di richiamare alla vostra memoria - e ciò per chiarire quel che sto per esporre - l’articolo lo nella sua completa formulazione:

“Sono dichiarate soggette a particolare protezione le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale e della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria. Sono protette altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche”.

Si venne così a stabilire una netta distinzione fra le cose immobili, che hanno un’entità propria ben definita, e quindi identificabili nei loro particolari, e le bellezze panoramiche, o meglio il paesaggio, che sfugge ad una precisa identificazione e quindi mal si presta ad essere raggiunto dalla stessa norma legislativa, quanto meno dalla stessa norma legislativa dettata per le cose facilmente individuabili nei loro confini e nelle loro caratteristiche.

Se non si tien bene in mente questa sostanziale distinzione, non si può comprendere l’economia di tutta la legge e non si possono neppure comprendere le difficoltà - non poche e non lievi - che s’incontrano nella sua applicazione. Giacché è per le cose immobili aventi i caratteri voluti dal primo comma dell’articolo l°, e cioè per le bellezze naturali propriamente dette, che la legge impone le notificazioni, che devono essere trascritte agli uffici ipotecari affinché i terzi ne abbiano conoscenza; e quindi tutti, a cominciare dal proprietario, devono sapere che quel tale immobile è sottoposto alla tutela, che chiameremo artistica, per intenderci - mentre per tutelare le bellezze panoramiche essa non concede che un intervento volta per volta, caso per caso, quando nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori (non si parla di piani di ampliamento) possono danneggiare l’aspetto e lo stato di pieno godimento del paesaggio. Non è facile identificare gl’immobili che hanno carattere di bellezze naturali. L’Italia ha una superficie di 313 mila chilometri quadrati; e per la sua conformazione, principalmente montuosa; per le sue lunghe riviere sulle quali digradano ultime propaggini appenniniche, aspri promontori e verdi colline, spesso tagliate da valli e da burroni profondi; per la sua antichissima storia che ha impresso in ogni angolo, su ogni pietra, su ogni zolla la poesia dei ricordi, è ricca, come nessun altro paese di Europa, di singolarissimi aspetti, di curiosità geologiche, di cose interessantissime, poste in siti spesso remoti, viventi di una vita propria, concluse in confini determinati, che permettono di apprenderle in uno sguardo, di descriverle con pochi tratti, di misurarle talvolta.

La loro dovizia è tale che sgomenta chi ha il compito di difenderle dalle insidie degli uomini. Tuttavia in otto anni, e precisamente sino al 31 dicembre ultimo, abbiamo fatto 4662 notificazioni di notevole interesse pubblico, vincolando 728 immobili. Un altro centinaio è in corso; e si attende che siano restituite dai podestà o dagli uffici delle ipoteche. Non sono molte ma quando ci si renda conto delle difficoltà da superare, specialmente nella ricerca dei confini e dei numeri catastali di ciascun immobile, e degli scarsi mezzi posti a disposizione dell’ufficio, si dovrà riconoscere che del lavoro se n’è fatto, Si pensi anche che ogni notificazione dà diritto al privato di ricorrere contro di essa al Governo del Re, che i ricorsi sono stati e sono moltissimi, e che per accoglierli o respingerli è necessario sentire il Consiglio Superiore delle Belle Arti e il Consiglio di Stato. Il che impone una vigile attività amministrativa.

Gl’immobili notificati non possono essere modificati senza il consenso del Ministero; e quindi per ogni lavoro, che su di essi si voglia fare, è necessario inviare il relativo progetto al Ministero medesimo che lo fa esaminare dal Consiglio Superiore delle Belle Arti. Ed è qui, su questo punto, anzi in questo momento, per dirla con un’antipatica frase burocratica, è in questo momento della pratica, che si determina il più vivo contrasto fra gli interessi pubblici e quelli privati. Mi permetterete di non scendere a particolari, anche per non essere troppo prolisso. Dirò solo quali sono le deficienze della legge, che in codesto contrasto dovrebbe dar man forte al Ministero e invece lo lascia inerme e indifeso. In due modi si può determinare il contrasto: modificando l’immobile notificato senza chiedere il consenso del Ministero o chiedendo il consenso per poi infischiarsene e fare il proprio comodo. Si modifica l’immobile, vanandone o distruggendone i caratteri essenziali che lo rendono di pubblico interesse, il che può farsi in mille modi facilmente immaginabili e si disubbidisce al Ministero, eseguendo integralmente quei progetti di lavori che, presentati all’ufficio per il suo esame e consenso, sono stati respinti o limitati.

Inquesti casi che può fare il Ministero? Può denunziare il contravventore all’autorità giudiziaria perchè sia punito con l’ammenda da L.300 a L.1000! (quando una benigna amnistia non lo abbia in precedenza lavato d’ogni colpa). Una pena, come vedete, ridicola: una specie di spaventa-passeri, che non preoccupa nessuno.

Si può, oltre questo, secondo l’articolo 6, ordinare la demolizione delle opere abusivamente eseguite; ma quali opere? Le costruzioni evidentemente, le opere, cioè, che si sovrappongono all’immobile e lo disarmonizzano. Ma non sono sempre le costruzioni che offendono un immobile dichiarato bellezza naturale; si può offenderlo aprendo nel suo seno una cava di pietra, una cava di pozzolana, di trachite, aprendo delle trincee, abbattendo degli alberi, spesso potandoli cosi eccessivamente da provocarne la morte si può offenderlo, insomma, in tanti e tanti altri modi consimili.

Mi sono prefisso di tenermi sulle generali, di non fare nomi né di località né di persone: ma sappiate che sotto le mie parole ci sono i fatti. Ora, di questi deplorevoli casi noi siamo costretti a constatare il danno e fare, se mai, delle vane proteste; poiché la legge non ci dà; il diritto di obbligare il proprietario dell’immobile a rimettere tutto in pristino, o, non potendosi più far questo, imporgli almeno di pagare una indennità equivalente al danno. Ci resta sempre, è vero, quella famosa ammenda da L.300 a L.1000; ma io ho il buon gusto di non provocarla mai ... È qui opportuno osservare che la legge parla di contravventori e di ammenda: il che vuol significare che le violazioni alle disposizioni di essa sono considerate contravvenzioni. Errore grave, contro il quale la Direzione Generale delle belle arti si è battuta invano: quando, come avvenne delle offese alle bellezze naturali, la volontà di frodare la legge è manifesta, ed è evidente la lesione del diritto pubblico, sono chiari ed inequivocabili gli estremi di un vero delitto, la cui sanzione non può certamente essere l’ammenda.

La difesa poi del paesaggio. la quale non è e neppure assistita da questa mite pena contravvenzionale, è tutta imperniata nell’art. 4 della legge: in virtù di questo articolo, il Mi nistero, nei casi di nuove costruzioni, ricostruzioni ed attuazioni di piani regolatori può prescrivere distanze, misure ed altre norme, necessarie perchè le nuove opere non danneggino l’aspetto e il pieno godimento delle bellezze panoramiche. Or nessun mezzo preventivo ha il Ministero per far giungere a tempo la sua azione tutelativa: esso deve attendere che gli sia indicata la nuova opera. Ma spesso quest’opera è così avanzata che le provvidenze da prendere (distanze, misure, altezze, ecc.) si trovano di fronte ad uno stato di fatto che ha già compromesso la vista del paesaggio. Ciò accade perchè, non vigendo per la difesa delle scene panoramiche il sistema delle notificazioni, il privato ignora o finge di ignorare che la sua opera, iniziata o che sta per iniziare, offende qualcosa che interessa il pubblico godimento anzi, egli ignora che quel luogo su cui egli svolge la propria attività è un luogo degno di essere protetto per la sua bellezza paesistica. Né è possibile immaginare che si possa adottare il sistema delle notificazioni poiché il paesaggio è una parte di territorio, i cui diversi elementi costituiscono un insieme pittoresco o estetico a causa delle disposizioni e delle linee, delle forme e dei colori, e nel suo insieme è costituito da migliaia di particelle (immobili) appartenenti ad altrettanti proprietari. Di guisa che l’ufficio si trova quasi sempre in grande imbarazzo. I casi in cui il suo intervento raggiunge la nuova opera allo stato di progetto sono rari mentre sono frequenti i casi in cui l’opera è già iniziata, quando non è quasi per metà compiuta. E allora non abbiamo altra risorsa che di far sospendere i lavori e chiedere il progetto, perchè sia esaminato dai nostri corpi tecnici. E di sospensioni, infatti siamo costretti ad ordinarne parecchie. Che cosa accade dopo, lo lascio immaginare a voi: raccomandazioni, proteste, aggiramenti, minacce di suicidi ... Certo il danno di un tale procedimento non è da negarsi: e potete credermi se vi dico che il primo a dolersene sono io. Ma quale altro è possibile? Abbiamo pensato a varii espedienti : per alcuni luoghi di maggiore responsabilità sono stati pregati gli uffici periferici di raccoglierne i nomi dei proprietari, i confini, i numeri catastali degli immobili compresi in una scena panoramica: naturalmente centinaia, ed abbiamo proceduto a centinaia di notificazioni. Esempio, la nuova via Manzoni a Napoli, la quale si svolge dal Corso Vittorio Emanuele lungo la cresta della collina di Posillipo e scopre a destra i Campi Flegrei, a sinistra Napoli ed il Vesuvio con Torre del Greco, Resina, Pompei, Castellammare, Sorrento, e, dietro la Punta Campanella, Capri: un paesaggio ammirabile di cui forse uno più bello, e direi più spirituale per i grandi ricordi storici che racchiude, non esiste al mondo. La speculazione aveva già cominciato a deturparlo in vari punti, ed era necessario correre alla difesa. Qualcuno venne a dirmi che con tutte quelle notificazioni avrei fatto insorgere Napoli, ma la insurrezione non scoppiò - e le costruzioni su quella incantevole via sono regolate dalla Sovrintendenza. Potrei parlarvi di altri luoghi in cui abbiamo all’Arte Medioevale e Moderna della Campania adoperato lo stesso sistema. Ma voi comprenderete che esso è faticosissimo; che non può ad esempio, essere applicato alla Riviera Ligure, ai territori in mezzo ai quali splendono come gemme i laghi Maggiore, di Como, del Garda Ed allora, abbiamo escogitato un altro espediente: l’emanazione di decreti ministeriali, decreti in forma di dichiarazioni, che potrei qualificare moniti, avvertimenti, da tenersi affissi per sei mesi all’albo pretorio dei Comuni interessati. Permettetemi di leggervi uno;di questi decreti: quello emanato per salvare Capri dalle frequenti deformazioni delle singolarissime caratteristiche del paesaggio caprese: “Considerato che il territorio dell’isola di Capri, famosa nel mondo per la bellezza del suo paesaggio, è tutto sottoposto alla legge 11 giugno 1922 n. 778, e che urge provvedere, affinché le scene panoramiche, che ivi sono universalmente ammirate, non siano ostruite o in qualunque modo offese da opere non in armonia coi luoghi o in assoluto contrasto col godimento di essi;

“visto l’art. 4 della legge anzidetta, che dà al Ministero della pubblica istruzione nei casi di nuove costruzioni e ricostruzioni le facoltà, ecc..;

“atteso che è fermo proposito del Ministero medesimo di servirsi nel modo più rigoroso delle facoltà: di cui sopra, affinché la tradizionale bellezza di Capri non sia ulteriormente manomessa; e d’altra parte è interesse degli abitanti dell’isola che di tale proposito siano pubblicamente informati, affinché la provvida e legittima azione governativa non sia da essi prevenuta con opere che, per essere eseguite in dispregio della legge, dovrebbero essere abbattute;

“Il Ministero della P. I. notifica:

“Art. 1 - Nel territorio dell’Isola di Capri non si possono sopraelevare muri; innalzare cancelli, piantare cortine di alberi, fare sbarramenti di roccia e sterri, o compiere qualunque altra opera che ostruisca, modifichi o deteriori in qualsiasi modo le bellezze panoramiche che ivi si godono.

“Nello stesso territorio non si può eseguire nessuna costruzione, né modificare le costruzioni esistenti, senza la preventiva autorizzazione della Sovrintendenza all’arte medioevale e moderna della Campania, alla quale dovranno essere presentati i relativi progetti.

“Art. 2 - La presente notificazione sarà a cura di S. E. l’Alto Commissario della Provincia di Napoli pubblicata all’albo pretorio del Comune di Capri per un tempo non minore di sei mesi”.

Un decreto consimile fu emanato anche per Taormina, celebre meta turistica internazionale e già deformata da grandi alberghi, alcuni di uno stile arabo normanno che fa paura, e azzannata in punti delicatissimi da ben sette cave di pietra che la stavano divorando. L’efficacia di questi due decreti io ho modo di constatare giorno per giorno; ed avrem mo intenzione di ripeterli per altri luoghi anche di maggiore estensione.

Non credo però che questo espediente, suggeritomi dalla necessità di difendere, in difetto di più efficaci disposizioni legislative; alcuni punti di grande sensibilità paesistica, possa essere applicato ai grandi agglomeramenti di abitanti, alle città, quali Genova, per esempio, o Napoli, o Milano, a quelle che sono in continuo accrescimento, costrette a sbandare fuori delle antiche cerchie e invadere i dintorni. La rete degli interessi è più fitta lì che altrove, le esigenze della vita, e della vita moderna, sono più imperiose, e tutte raggiunte dai tentacoli della speculazione; della quale anzi non è possibile fare a meno. Mentre in questi luoghi, fra questo coacervo di bisogni, di desideri, di avidità, che di giorno in giorno si ingrossa sempre di più e preme da tutte le parti, e dire che qui non si possono compiere opere che ostruiscano, modifichino e deteriorino in qualsiasi modo le bellezze panoramiche che vi si godono, né eseguire costruzioni nuove, o modificare le costruzioni esistenti, senza la preventiva autorizzazione del Ministero, significherebbe mettere in pericolo quell’azione di tutela paesistica che ci sta a cuore e per il cui maggiore sviluppo siamo qui riuniti. D’altra parte, stare in sull’attenti in perpetuo, per avvistare il caso in cui sia obbligatorio il nostro intervento, è cosa, come potete comprendere, angosciosa, spesso non utile, sempre piena di sorprese e d’inquietudini. Si vuole costruire, mettiamo, lungo un lido su cui digradano verdi colline: località panoramica di primo ordine, degna della più alta speculazione, in una città ricca ma stretta fra il mare e il monte, e in continuo lievito di accrescimento. Si allestisce alla chetichella un sommario piano di ampliamento, si dimenticano i necessari accertamenti di legge, si trascura di avvertire i Ministeri interessati; ed ecco già creato sotterraneamente un trust di sfruttamento delle aree. I primi sbancamenti di antiche ville cominciano, si allivellano poggetti deliziosi, sorgono i primi casoni come per incanto. Chiediamo il piano di avviamento: non c’è. Preghiamo che si faccia subito: non si risponde. Insistiamo: si mena il can per l’aia. Intanto, le costruzioni avvampano. Ne sospendiamo alcune. E comincia la tragedia. Perché sospendete? Perché vogliamo vedere il progetto di costruzione, prestabilire le misure, le distanze, le altezze (art. 4). - Ma il progetto è stato approvato dalla Commissione Edilizia! - Non basta: la legge di tutela del paesaggio è indipendente dalle decisioni dei Comuni. - Ma insomma che cosa volete? -Vogliamo che su questo punto non si costruisca, che su questo altro l’edificio occupi una superficie minore, o non superi i due piani. - Ma questo è impossibile: abbiamo pagato l’area a 500 lire il metro quadrato! - Ma ciò non ci riguarda. Non vi riguarda? Espropriateci, pagateci il prezzo dell’area e fate quel che vi aggrada. - Lo Stato non ha questi obblighi: l’imposizione di una servitù di diritto pubblico non comporta indennizzi. - Ma questa servitù la imponete proprio ora? Se io l’avessi preveduta non avrei acquistato, o avrei acquistato a prezzo minore. - E allora? allora, egregi signori, ci si trova impigliati in una serie di compromessi, di transazioni, di mezze misure, che non risolvono nulla, quando non aggravano le condizioni di ambiente. In tutti i casi il beneficio della legge è frustrato, se non in tutto, almeno in parte; e il prestigio dell’autorità è in iscacco.

Quale il rimedio a questo stato di cose così penoso? Poiché, come abbiamo visto, non è possibile adottare il sistema preventivo delle notificazioni, né quello dei decreti uso Taormina e Capri, sembra che unico, previsto dalle nostre leggi, sia il sistema dei piani regolatori e di ampliamento, studiati seriamente prima che un decreto reale li renda esecutivi.

Ed eccoci giunti casi al punto centrale di questa mia non lieta disamina.

Non è qui il caso di dire quale sia l’importanza di un piano regolatore dal lato della viabilità, dell’igiene, dell’estetica e anche dell’educazione cittadina. Sono cose note, e nelle quali voi tutti qui presenti siete maestri. E neppure credo di dovervi rassegnare le disposizioni di legge che lo riguardano, e le discussioni cui esse han dato e danno argomento nella dottrina giuridica, specialmente in occasione della divisata riforma di espropriazione per pubblica utilità. Penso che nessuno di voi creda ancora che un piano regolatore debba consistere unicamente nel “tracciare delle linee (leggo la definizione che ne dà la legge del 1865) da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell’abitato dove occorreva rimediare alle viziose disposizioni degli edifici”. Molta acqua è passata da allora sotto i ponti, troppi bisogni son nati, troppe esigenze, allora neppur sospettate, oggi premono imperiosamente: e l’edilizia pubblica, allora semplicista e di origine prettamente francese, è ora una scienza che ha trovato e trova quotidianamente nelle antiche città italiane materia di studio e di originale applicazione. Al tempo in cui fu approvata la legge sulle espropriazioni per pubblica utilità, due bisogni cittadini preoccupavano i governanti: quello della salubrità e quello del traffico; e l’art. 86 di quella legge lo dice chiaramente. A provvedere a questi due bisogni doveva tendere il piano regolatore. Il quale, perciò, nella pratica, si riduceva a un piano di allineamento, e quindi a un tracciamento di linee a qualunque costo pur di raggiungere quei due intenti. E dati questi principi non è da meravigliarsi che in un vecchio piano regolatore di Roma, a furia di tracciare linee, gl’ingegneri incaricati non si fossero accorti che buttavano giù la bella chiesa del Priorato di Malta sull’Aventino.

Ora, nonostante che la legge sia la medesima, si va più cauti, o almeno ci si sente avvolti in un’atmosfera in cui giungono, senza bisogno di radio, preoccupazioni e moniti, proteste e consigli, che rendono pensosa quella beata innocenza, per cui un piano regolatore si riduceva al famoso segno di matita colorata. Non fu ascoltato quindici anni or sono Gabriele D’Annunzio, che insorse per difendere Bologna, “minacciata di sacrilegio da uomini mercantili ben più aspri di quelli che frequentavano la bellissima loggia vicina”, ma oggi, che una pericolosa irrequietezza edile ha invaso le amministrazioni delle città italiane, non è più possibile non comprendere l’alto significato di queste parole di Marcello Piacentini, dell’ architetto che più lavora in Italia, da Messina a Brescia, e al quale certo non si può negare esperienza e modernità: “Le nostre cento città sono dei valori come non esistono altri, ricchezze cui nessun’altra può paragonarsi. Sono la nostra storia ed il nostro orgoglio. Sono la immagine esatta della nostra razza o dei nostri ideali. Attraverso ad esse il mondo apprende la nostra civiltà. In esse riconosciamo noi stessi e la varia e molteplice espressione dei nostri temperamenti regionali. Come le fisionomie dei membri di una stessa famiglia, esse si compongono in un atteggiamento di reciproco affetto e di mutua comprensione. Ebbene, questo tesoro unico ed inestimabile dev’essere da noi gelosamente conservato. Quante cure non abbiamo per minuti oggetti: per pianete o reliquie celate nelle sagrestie delle chiese, per quadri che custodiamo riverenti nelle gallerie, mentre le città sono molto spesso abbandonate a sé stesse, facile preda di faccendieri e d’incompetenti reggitori! Prenda maggiormente il Governo sotto le sue cure speciali le città italiane: esse costituiscono la più bella ricchezza nazionale. Esse sono, tutte insieme, la Patria. E la civiltà fascista deve salvarne il passato e curarne lo sviluppo avvenire”.

Salvare il passato e curare lo sviluppo avvenire: parole d’oro che dovrebbero essere epigrafe di ogni piano regolatore. Ma salvare il passato non significa per noi perpetuare nei fetidi vicoli oscuri il drappeggio dei cenci alle finestre; e quando dei troppo corrivi demolitori, in mancanza di argomenti, e credendo di fare effetto sugl’ingenui, lanciano contro di noi la stupida accusa di misoneisti, amanti della vecchia sporcizia, abbiamo ben ragione di protestare. Salvare il passato significa ben altro per noi: significa non distruggere, senza una inderogabile assoluta necessità, gli edifici che l’antichità ci ha tramandati intatti, e soprattutto non disambientarli, perchè allora tanto varrebbe distruggerli; ed in quanto a curare lo sviluppo avvenire delle città non significa irrompere fuori le mura per lottizzare ville monumentali, abbattere pinete, sbancare colline; poiché questo non è sviluppo, è devastazione.

Da ciò la necessità, riconosciuta universalmente, e del resto dalla nostra legislazione prevista, di sentire sui piani regolatori i pareri, non solo dei corpi tecnici superiori, ma anche del Consiglio Superiore delle Belle Arti che è, in materia d’arte, un corpo tecnico anch’esso. Donde la conseguenza che nessun piano regolatore possa dirsi approvato senza che il parere di tale Consiglio sia stato sentito. Non sono cose peregrine queste ch’io dico, lo so, ma sono necessarie, perchè io pervenga, su questo punto, a una conclusione, che è frutto di lunga esperienza.

La procedura per giungere all’approvazione di un piano regolatore è quanto mai complicata; e appunto perchè cosi complicata, invece di dare la massima garanzia nell’esame di tutte le questioni tecniche, sanitarie, economiche, artistiche, monumentali; riduce spesso cotesto esame a una parvenza formale senza sostanza. Si crede, in buona fede, che tutto sia esaminato, discusso approfondito, sulla base del piano già studiato dall’ufficio tecnico del Comune; ma in realtà non ostante i pareri dei corpi superiori consultivi, è sempre questo che prevale nelle linee-base originarie. E non può essere diversamente.

Gli organi, attraverso cui passa un piano regolatore, sono: il Genio Civile ed il Consiglio Superiore dei Lavori pubblici per la parte tecnica; la Giunta provinciale amministrativa, il Ministero dell’Interno e il Consiglio di Stato per la parte giuridica e amministrativa; la Commissione provinciale sanitaria per gli aspetti igienici; la Soprintendenza ai Monumenti e il Consiglio Superiore delle Belle Arti nei riguardi artistici. “Bisognerebbe - disse S. E. il Ministro dei LL. PP. recentemente - che non funzionassero tutti questi congegni o ci fosse il partito preso di voler dichiarare guerra ad oltranza al passato e di voler alzare i gagliardetti dell’avvenire più o meno futuristico, per non sentire sufficientemente tutelato il patrimonio artistico e storico della Nazione”. Ebbene, Signori, io non dico che non funzionino codesti congegni: funzionano certamente, ma spesse volte come tante ruote che girano a vuoto. E i primi a dolersene sono gli eminenti uomini chiamati a cotali funzioni. Quali le cause? Non le cause, ma la causa: è una sola. Essa consiste nel fatto che tanti elevati corpi tecnici sono chiamati ad esaminare delle carte non delle cose; a esaminare, uno dopo l’altro, dei bei tracciati sulla carta, tenendo per guida la relazione dell’ufficio compilatore del piano, non a giudicare di questo sulla faccia dei luoghi. Sono rari i casi in cui un corpo tecnico superiore si sposta per un esame di questo genere; ma quand’anche i casi fossero frequentissimi, il risultato è sempre infelice. Poiché non una breve visita dei luoghi può dare la visione esatta delle conseguenze di un piano regolatore; e d’altra parte se la visita dovrà prolungarsi per tanto tempo quanto è necessario per uno studio particolareggiato del piano stesso, le difficoltà della lunga permanenza di un corpo tecnico superiore in una città diversa dalla propria sede diventano insormontabili.

Sono argomenti, lo so, terra terra; ma purtroppo certi fatti, che ci sembrano inesplicabili, hanno appunto queste umili cause. Ma ce n’è una meno umile: ed è la mancanza di un esame totalitario ed unitario di tutte le questioni edilizie, che si connettono a un piano regolatore, esame da farsi in un sol tempo e in contradizione con tutti gli interessi di un giuoco. Mettere in discussione il lavoro di un ufficio, che è costato mesi e mesi di fatiche, metterlo in discussione a gradi, sottoponendolo ora ad un corpo tecnico, ora ad un altro, è la cosa più illogica e inconcludente. Illogica, perchè ogni corpo tecnico, che voglia fare sul serio, deve rifare alla sua volta lo studio integrale del piano, e quindi vi porterà in aggiunta i propri criteri che spesso non si armonizzano coi criteri dell’altro corpo tecnico che lo esaminerà dopo; inconcludente, perchè, a voler far bene, sarebbe necessario sviluppare codesti criteri, spesso contraddittori, sulla carta a correzione del piano in esame, apportando così una complicazione tale che, per evitarla, si cercano tutti i mezzi per eluderla.

Questo c’insegna la pratica: e questo ho voluto dire, per giungere alla conseguenza che, sino a quando l’esame dei piani regolatori non sarà fatto da un corpo tecnico unico, in cui siano rappresentati tutti gl’interessi da tutelare, l’interesse economico, monumentale, paesistico, di viabilità, d’igiene - posti questi interessi sulla stessa base d’importanza - si avranno sempre a deplorare inconvenienti, tanto più gravi in quanto, dopo la approvazione del piano, sono irrimediabili. Si chiede, insomma, quel che il Capo del Governo volle per Roma. Vero è che nulla vieta ai Podestà di nominare delle Commissioni speciali, come quella di Roma, per l’esame dei piani regolatori delle rispettive città; ma, a prescindere che esse, di natura discrezionale del podestà, non evitano l’esame dei corpi superiori tecnici, di cui abbiamo discorso, nessuno vorrà negarmi che codeste Commissioni, se fossero prestabilite per legge, avrebbero ben altra autorità e sarebbero assai meglio costituite e più rispondenti ai varii interessi in giuoco. Sono convinto che, presto o tardi, si dovrà giungere a ciò.

Ma intanto l’Ufficio che ha, come quello a me affidato, la grave incombenza di applicare la legge in difesa del paesaggio italiano, non può non preoccuparsi di questo stato di cose in fatto di piani regolatori. Esso si trova spesso di fronte a precostituite posizioni di diritto, che non è possibile smontare. Una di queste posizioni formidabili è, come ho già detto, la presa di possesso delle aree. Si ha un bel dire: applicate rigorosamente la legge, e fate che un edificio, destinato a essere di cinque o sei piani per compensare il prezzo elevatissimo dell’area, sia ridotto a due, oppure che là dove erano stabilite costruzioni intensive sorgano invece dei villini, o non venga costruito affatto. Le opposizioni, fondate su uno stato di diritto qual’è quello che nasce da un piano regolatore approvato, sono assai più gravi di quel che non si pensi. E poiché è innegabile in esse un certo contenuto di moralità e di economia sociale, è assai difficile far prevalere la nostra azione fondata su d’un principio di estetica. Io mi sto studiando di evitare queste opposizioni o di ridurle al minimo, facendo studiare, là dove ancora è possibile, dei piani regolatori paesistici, nei quali siano già preventivate (mi si perdoni questa parola prettamente commerciale) le provvidenze in favore delle bellezze panoramiche della città. Un primo tentativo stiamo facendo a Genova, dove sono stati inviati dalla Direzione Generale delle Belle Arti due giovani architetti, che lavorano a tale scopo d’accordo col Comune e sotto la direzione della Sovrintendenza all’arte medioevale e moderna del Piemonte e della Liguria. Siamo in viva attesa. Ma intanto mi giungono voci di contrasti derivanti dal regolamento edilizio. Anche questa del regolamenti edilizi è questione grave che sarei tentato di trattare dinanzi a Voi. Ma il discorso sarebbe troppo lungo; ed ho già la sensazione di avervi stancati. Sarà piuttosto opportuno toccare brevemente qualche altro punto assai delicato della difesa del paesaggio; e poi chiedervi venia. Esso sta nella mancanza di coesione fra le varie Amministrazioni dello Stato, in tal guisa che spesso una agisce in senso contradittorio all’altra, punto sospettando il danno che ne deriva all’interesse pubblico. Ne abbiamo dato da tempo l’allarme, insistendo in vario modo sul fatto che i maggiori pregiudizi nei riguardi della conservazione delle bellezze naturali si sono verificati e si verificheranno, assai più che per il capriccio e l’avidità di lucro dei privati, per la esecuzione di grandiose opere pubbliche progettate e concretate con la sola preoccupazione del punto di vista tecnico ed economico, e trascurando completamente le esigenze della bellezza del paesaggio. Alludo non soltanto alle opere di spettanza diretta dello Stato o di altri enti pubblici (quali, ad esempio, le strade ordinarie, le bonifiche, le sistemazioni dei bacini montani, ecc. ecc.) ma altresì quelle lasciate alla iniziativa di persone o di enti previsti, ma sottoposte per il loro grande interesse politico-sociale a concessione o ad autorizzazione amministrativa (si pensi soprattutto alla materia delle concessioni di acque pubbliche e di aree demaniali). Pure qualcosa la nostra insistenza ha ottenuto: ed è da mettere all’attivo nel bilancio di questi otto anni in cui la legge paesistica è in vigore.

Avveniva, infatti, che nelle concessioni di aree demaniali, i Comandanti delle Direzioni Marittime e delle Capitanerie di Porto permettessero il sorgere sulle spiagge di troppi stabilimenti balneari di cemento armato, di caffè, di Kursaal, che ingombravano sconciamente bellissime passeggiate littoranee e ostruivano la vista del mare. Ebbene abbiamo ottenuto da S. E. il Ministro Ciano una circolare del 10 agosto 1927 che impone di chiedere il parere delle Sovrintendenze ai monumenti nei casi di concessioni di aree demaniali per costruzioni di carattere stabile. Contiene codesta circolare limitazioni e condizioni, che potevano essere trascurate; ma ad ogni modo è sempre qualcosa che avvicina a quella collaborazione delle Amministrazioni interessate, che fu sempre nei nostri voti. Una simile circolare ottenemmo da S. E. Giuriati, già Ministro dei Lavori Pubblici, a proposito delle derivazioni d’acque in rapporto specialmente agl’impianti idro-elettrici. Varrebbe la pena di leggerla, ma non è breve. Dico soltanto che è diretta ai Provveditori alle opere pubbliche, agli Ingegneri capo del Genio Civile, a S. E. l’Alto Commissario per la città di Napoli e provincia, e per conoscenza al Presidente del Magistrato delle acque e all’Ispettore per la Maremma Toscana. Si dispone con essa che nelle ordinanze per l’istruttoria di domande di derivazioni di acque pubbliche sia, di regola, inserito l’inciso che l’ordinanza debba essere comunicata in copia alla locale Soprintendenza ai monumenti, affinché questa, conosciute le caratteristiche essenziali dei progetti e la data per le visite locali, possa, ove lo creda, prendere visioni degli atti depositati e intervenire agli accertamenti sopraluogo. Come vedete, siamo ben lontani dal giorno in cui la nostra azione era considerata con diffidenza e tale da evitarsi in tutti i modi. Non abbiamo potuto ancora ottenere nulla di simile dal Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste; ma credo che già ci siamo vicini. Intanto la Milizia Forestale non ci ostacola, anzi devo dire che in molti casi ci ha favoriti dimostrando di comprenderci. Si tratta ora di giungere ad una piena cooperazione. Ed io non dispero di giungervi.

Non ho bisogno d’intrattenermi su questi due punti importanti della tutela paesistica: acque e boschi; poiché persone più competenti di me hanno assunto l’impegno di portare in questo convegno il prezioso contributo della loro esperienza. Dico solo che negli ultimi cinque anni lo sfruttamento intensivo del nostro paesaggio ci ha molto preoccupati.

[...]

E qui fo punto - chiedendovi scusa se troppo ho abusato della vostra pazienza. Sarei ben felice - e certamente voi con me - se da questo Convegno fossero per derivare delle pratiche utilità. Le discussioni serene e amichevoli, animate dal solo spirito di bene, sono le sole, che possano condurre a ciò.

Ordine del giorno votato all’unanimità in seguito alla discussione della relazione Parpagliolo:

Il Comitato Nazionale per la difesa dei monumenti e del paesaggio, riunito dal Touring Club nella sua sede il 1° febbraio 1931, fa voti che la legge 11 giugno 1922 N. 778 sia resa più rispondente all’altissimo fine della protezione della singolare bellezza paesistica d’Italia, e quindi modificata in quelle disposizioni che durante gli otto anni in cui è in vigore; si sono manifestate inefficaci”.

La selezione dal saggio originale e la presentazione che segue in corsivo sono tratti da Urbanistica informazioni , n 94, luglio-agosto 1987

Carlo Cattaneo (1801 - 1869) era ciò che oggi chiameremmo un "politico". Dai suoi scritti dedicati alla città e al territorio emerge con evidenza come la sua passione politica traeva la linfa dalle radici di un'indagine appassionata e lucida della storia della civiltà italiana, e come di quest'ultima egli soprattutto analizzasse, quasi svelandole, le ragioni, il "principio" leggibili nella città: che egli appunto considerava come «l'unico principio per cui possano i trenta secoli della istoria italiana ridursi a esposizione evidente e continua».

Il magistrale saggio, di cui pubblichiamo di seguito ampi stralci, fu pubblicato per la prima volta nel 1858. Esso può esser letto alla luce degli avvenimenti, e della speranza, di quegli anni: un contributo alla lotta per la traduzione in termini statuali dell'identità nazionale, un messaggio alla borghesia che di quella era protagonista. Ed è singolare, e oggi significativa, l'attenzione che Cattaneo poneva al rapporto tra città e territorio: è in questo rapporto, nella sua organicità e ricchezza, la ragione del porsi delle città italiane come nuclei fondativi della civiltà. È facile affermare oggi che, anche su questo punto, la borghesia nazionale perse la scommessa con la storia, e ridusse a utopia l'incitamento politico e pratico del Cattaneo: parallelamente alla disgregazione dell'agricoltura e al degrado del territorio, riusciamo difficilmente, oggi, a distinguere le città italiane da quelle «pompose Babilonie», città «senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità», che nelle pagine che seguono sono presentate come l'antitesi della città.

£ facile affermarlo, ma non è facile individuare oggi le strade da percorrere (e soprattutto le forze da mobilitare) per tradurre in atto l'utopia di Cattaneo. L'indagine di questo figlio, e protagonista, del Risorgimento ci aiuta comunque a comprendere meglio in quale direzione occorra muoversi. E vogliamo invitare il lettore a non limitare agli stralci che qui pubblichiamo la conoscenza dell'Autore che proponiamo. La sua attualità emerge anche in altri scritti. Ad esempio, in quelli raccolti nella succinta antologia curata da Manlio Brusatin per l'Editore Marsilio.

La città considerata come principio ideale

delle istorie italiane

In un paragone tra l'economia rurale delle Isole Britanniche e dell'Insubria inserto in questi fogli sul cadere dello scorso anno, abbiamo dimostrato come l'alta cultura (high farming), essendo una precipua forma della moderna industria, una delle più grandi applicazioni del capitale, del calcolo, della scienza, ed effetto in gran parte d'un consumo artificialmente provocato dall'incremento delle popolazioni urbane, non si può spiegare se non per l'azione delle città sulle campagne.

Ed ora, per quanto l'angustia dello spazio il consente, vorremmo ampliare questo vero fino al punto di dire che la città sia l'unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua. Senza questo filo ideale, la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e nell'assidua composizione e scomposizione degli stati; la ragione non può veder lume in una rapida alternativa di potenza e debolezza, di virtú e corruttela, di senno e imbecillità, d'eleganza e barbarie, d'opulenza e desolazione; e l'animo ricade contristato e oppresso dal sentimento d'una tetra fatalità.

Fin dai primordii la città è altra cosa in Italia da ciò ch'ella è nell'oriente o nel settentrione. L'imperio romano comincia entro una città; è il governo d'una città dilatato a comprendere tutte le nazioni che circondano il Mediterraneo. [...].

La prisca Europa fu dapprima un'immensa colonia dell'oriente, come in questi tre secoli l'America fu colonia dell'Europa. Ma per due vie, e con due ben diversi gradi di civiltà, qui pervennero le genti orientali. Le une peregrinarono lentamente per terra, tragittando al più l'uno o l'altro Bosforo, e traendo seco dall'Asia, coi frammenti delle lingue e religioni indoperse, la pastorizia e una vaga agricoltura annua, senza fermi possessi privati, quasi senza città. [...].

Vaganti per lo squallido settentrione in sempiterna guerra, e mescolate qua e là colle tribù aborigene dell'Europa selvaggia, esse apparirono poi barbare a quegli altri popoli che, oriundi pur dall'Asia, erano approdati navigando alle isole e penisole della Grecia, dell'Italia e dell'Iberia.

Questi, uscendo dalle città dell'Egitto, della Fenicia, della Libia, della Frigia, della Colchide, non pensavano di poter vivere nella nuova patria se anzi tutto non consacravano a stabile domicilio uno spazio, urbs; e lo chiudevano con cerchio di valide mura, che il corso dei secoli non ha dovunque distrutte. Prima essi facevano le mura; e poi le case. E così fermati per sempre ad un lembo di terra, erano costretti ad assegnarlo con sacri termini ai cittadini, affinché questi avessero animo di fecondarlo con perseveranza e con arte. L'agricoltura era provvida e riflessiva, perché la dimora era immobile e il possesso era certo. [...].

In Italia il recinto murato fu in antico la sede comune delle famiglie che possedevano il più vicino territorio. La città formò col suo territorio un corpo inseparabile. Per immemorial tradizione, il popolo delle campagne, benché oggi pervenuto a larga parte della possidenza, prende tuttora il nome della sua città, sino al confine d'altro popolo che prende nome d'altra città. In molte provincie è quella la sola patria che il volgo conosce e sente. Il nostro popolo, nell'uso domestico e spontaneo, mai non diede a sé medesimo il nome geografico e istorico di lombardo; mai non adottò famigliarmente quelle variabili divisioni amministrative di dipartimenti e di provincie, che trascendevano gli antichi limiti municipali. [...].

Questa adesione del contado alla città, ove dimorano i più autorevoli, i più opulenti, i più industri, costituisce una persona politica, uno stato elementare, permanente e indissolubile. Esso può venir dominato da estranee attrazioni, compresso dalla forza di altro simile stato, aggregato ora ad una ora ad altra signoria, denudato d'ogni facoltà legislativa o amministrativa. Ma quando quell'attrazione o compressione per qualsiasi vicenda vien meno, la nativa elasticità risorge, e il tessuto municipale ripiglia l'antica vitalità. Talora il territorio rigenera la città distrutta. La permanenza del municipio è un altro fatto fondamentale e quasi comune a tutte le istorie italiane. [...].

Le colonie greche in Italia sono interamente libere e regine; non hanno vincolo fra loro né colle città madri, benché abbiano l'amicizia di queste e talvolta il soccorso. Le città dette propriamente italiche sono libere in sé; ma il supremo diritto di guerra e di pace è limitato da patti federali più o meno larghi colle altre della medesima lingua, o da trattati colle rivali, o dall'autorità delle più potenti. Le colonie partecipano alle guerre, alle paci, alle alleanze delle città madri, e sorgono o cadono colla fortuna di queste. Ma ogni città si governa da sé, dentro i termini della sua terra. E anche quando è costretta a guerre non sue, milita sotto le sue proprie insegne e i suoi capitani. L'indole armigera e magnanima è comune a tutte. Tale è la prima éra delle città italiane.

Roma, sorta al confine di tre lingue, la latina, la sabina, l'etrusca, pare costituirsi dalla vicinanza e dalla graduale coesione di tre colonie, poste forse a vigilar reciprocamente all'estremo confine, sui colli che sorgevano come isole in mezzo alle paludi, presso il confluente di due fiumi arcifinii, il Tevere e l'Aniene. Le tre castella nel corso degli anni divennero tribù d'una città comune, in cui per l'opportunità del luogo poté accasarsi maggior numero di Latini e la loro lingua prevalse. Pel connubio delle tre stirpi le loro tradizioni religiose, civili e militari nei posteri si vennero confondendo. Roma fin da origine ebbe ad unificare in sé tre sistemi; ebbe a darsi una civiltà triplice, ad esercitare un triplice ordine d'idee. Colla combinazione di queste, ella si pose a capo delle tre nazioni, e quindi mano mano di tutta la penisola, assimilando, appropriando, assorbendo, mentre ognuna delle altre genti rimase confitta nelle sue idee prime; epperò predestinata a soccombere ad una volontà retta da più vasto e potente pensiero.

Nel seguito delle guerre, in molte città vennero poste come colonie, cioè come presidii perpetui, centinaia anzi migliaia di famiglie romane; fra le quali furono divise le terre confiscate alle famiglie più avverse o a tutto il comune. Ma restò sempre alle sole città italiche l'onore e il profitto della milizia romana. Uomo d'altra nazione non venne mai scritto nelle legioni della repubblica. Anzi l'antica coorte si componeva d'un manipolo romano e d'uno latino; e il centurione latino si alternava nel comando col romano. La milizia italica durò finché durò la milizia romana. Da Roma usci l'esercito; dall'esercito romano usci la nazione. [...].

Così mentre il romano propagava per tutti i municipii la sua milizia, il suo commercio, l'usura, i possedimenti, i connubii e i varii gradi della sua cittadinanza, le singole città, quanto più si congiungevano a Roma, tanto più si disgiungevano dalle città consanguinee. Ma nella dispersione delle leghe, nell'oblio delle lingue e delle religioni, nell'esterminio delle minime città, il cui territorio colle immani confische delle guerre sociali e civili era inghiottito forse in un solo latifondio, quei municipii ch'erano largamente radicati nelle campagne, sopravvivevano; anzi si chiudevano più saldamente in sé, per la maggior distanza del centro comune. Tutto ciò che non si fece romano, ebbe a farsi più strettamente municipale.

Né le sole famiglie più oscure si saranno attenute all'antico nido; ma forse quelle appunto ch'erano state in altro tempo più illustri. Sdegnose, e contenute nell'odio, esse avranno anteposto alle ambizioni romane la tacita riverenza dei cittadini. Questo è nell'indole costante della nazione; e più volte si avverò. A questa stoica accettazione d'una dignitosa oscurità si deve la tenace e continua vita dei municipii nelle età più infauste e desolatrici. [...].

Dopo le guerre civili e le proscrizioni e la conquista della Liguria e della Rezia, al limitare dell'éra nostra, v'è in Italia una sola nazione, unificata e rappresentata in una sola città. Le altre non hanno autorità sovrana se non in quanto sono ascritte alle tribù di questa; schierate sotto le sue insegne, hanno parte alle spoglie del mondo. Ma quell'unica sovranità è già in nome del popolo afferrata dai Cesari. I Cesari sono l'ultima conseguenza e l'ultima espressione dell'unità.

Le legioni vengono relegate alle frontiere. Roma è data in guardia ai pretoriani. L'Italia è armata; e tiene colle armi un immenso imperio. Ma le sue città sono tutte inermi. Così si compie l'éra seconda. [...].

In seno alla pace, l'Italia, meta comune di tutte le nuove vie che collegavano le provincie, porto d'un mare tutto suo, dimora delle famiglie che avevano conquistato i regni, versò i tesori del mondo nella decorazione delle sue città e de' suoi campi. Il Tevere, diceva Plinio, e ornato e vagheggiato da più ville che non tutti gli altri fiumi della terra.

A misura che si estinguevano le famiglie educate nell'eredità degli onori e delle conquiste, e che il senato si faceva ossequioso e il popolo si disusava dalle armi, la truce ragione di stato dei Tiberii e dei Seiani poteva placarsi. I capitani che la fortuna inalzava al comando delle legioni e al nome di Cesari, non furono più spinti a incrudelire contro i privati per propria salvezza. Interrotta dal solo Domiziano, potè continuarsi nell'imperio una serie d'uomini come Vespasiano, Tino, Nerva, Traiano, Adriano, Antonino, Marco Aurelio. Ma con tutta la loro saviezza, pur non potevano non obbedire alla logica del potere che li traeva ad emanciparsi sempre più dall'aura popolare, dalle armi cittadine, dalle repubbliche municipali, dal predominio dell'Italia, la quale irradiava le native sue istituzioni su tutto l'occidente. Cominciarono essi a coscrivere nelle estreme provincie le legioni che dovevano presidiarle. E siccome è nella natura delle cose che gli armati non restino inferiori di condizione agli imbelli, infine, sotto Caracalla (a. 212), la cittadinanza romana fu accomunata a tutti i sudditi dell'imperio. Il che vale quanto dire che fu abolita. [...].

Così nella terza éra le città italiche, opulente, ornate d'arti e di lettere, penetrate da un alto senso di ragione e d'umanità, erano vicine a perdere insieme alla cittadinanza romana ogni distintivo di nazionalità. Era un decadimento velato dall'apparenza della prosperità della cultura e del dominio. Ciò che i Cesari avevano rispettato e adulato nelle città italiche, era il soldato romano. Abolito il soldato e il cittadino, l'Italia, sebben sede del1'imperio, non era altro ormai che una provincia.

Dopo Caracalla, per tutto il secolo III, i capitani d'un esercito sempre più straniero si contesero colle armi l'imperio e la vita. Ma tutti, per orgoglio militare e per illimitato arbitrio, dovevano aborrire ogni rappresentanza municipale; e più di tutto quella che pareva una continuazione della repubblica romana. [...].

Con Diocleziano ebbero principio sette secoli di barbarie, fino al risorgimento dei municipii, verso l'anno mille.

E per verità, che sogliamo noi significare anche oggidì quando chiamiamo barbara l'Asia? Non è già che non siano quivi sontuose città; che non siavi agricoltura e commercio, e più d'un modo di squisita industria, e certa tradizione d'antiche scienze, e amore di poesia e di musica, e fasto di palazzi e giardini e bagni e profumi e gioie e vesti ed armature e generosi cavalli e ogni altra eleganza. Ma noi, come a fronte dei Persi e dei Siri i liberi Greci e Romani sentiamo in mezzo a tuttociò un'aura di barbarie. Ed è perché in ultimo conto quelle pompose Babilonie sono città senz'ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo. Il loro fatalismo non è figlio della religione, ma della politica. Questo è il divario che passa tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene; tra i contemporanei d'Omero, di Leonida e di Fidia e gli ignavi del Basso Imperio. L'istituzione sola dei municipii basterebbe a infondere nell'India decrepita un principio di nuova vita

Adeguata alle provincie dell'Asia, l'Italia cadde al pari di esse sotto il flagello della fiscalità. In breve si vide desolata la campagna, disgregato dagli esattori il retaggio avito della città.

Intanto le false legioni, coscritte fra quei medesimi barbari ch'esse dovevano combattere, e prive di quell'arte militare ch'è il frutto e il compendio d'un'alta civiltà, erano di tanto infida e vana difesa che poco dopo Caracalla già le orde nomadi poterono penetrare nel mezzo dell'Italia, che non perciò dai Cesari venne armata; pensarono essi ch'era meglio vederla desolata che vederla forte. I popoli, non potendo più distinguere in quel diluvio straniero gli eserciti amici dai nemici, disfacevano i ponti e le strade per disviare le invasioni. Le città isolate in mezzo a squallide solitudini caddero in rapida miseria e ruina. Poco dopo Costantino, S. Ambrogio le chiamava: semirutarum urbium cadavera.

Ciò si sa perché Costantino avesse abbandonato l'Italia. Finché l'Italia era la sede dei regnanti, sempre la memoria del suo primato suonava nell'animo delle nazioni come la voce del diritto. E le nuove pompe asiatiche, delle quali divenivano solenni legislatori e antistiti gli eunuchi, non potevano senza amaro disdegno esser mirate dal popolo romano sempre ricordevole dell'antica potenza e maestà. Quindi irresistibile nei Cesari il pensiero di trasferire sul limitare dell'Asia la sede dell'imperio, volgendo a tal uopo la stessa poetica tradizione che poneva in quei luoghi la madrepatria di Roma. Quindi l'Italia tramutata in frontiera, spogliata di quelle difese e di quei privilegi che si riservano alla sede dei regni.

Nella quarta éra le città d'Italia sono adunque sottomesse al regime asiatico, subordinate ad una capitale quasi asiatica, civilmente e moralmente associate all'Asia. Anzi in tal condizione rimasero molte città marittime per tutto quasi il medio evo; fu questa la forma della loro barbarie. [...].

Ma la rimanente Italia soggiacque ad altra più profonda sovversione dell'ordine municipale e a più intenso grado di barbarie, quand'ebbe a stabili abitatori suoi gli stessi barbari.

Per volgo degli scrittori, l'invasione gotica e longobarda è l'ultimo esito d'un'inveterata guerra tra Roma dominatrice e le nazioni vergini e libere del settentrione. Non è cosi. Goti e Longobardi non avevano mai avuto a difendere i patrii deserti dalla conquista romana; non combattevano pei loro diritti; ma erano in uno od altro modo mercenari o vassalli o profugi nelle terre bizantine; e fattisi ribelli, venivano riversati per ripiego dei governanti verso l'Italia, ch'era divenuta per questi una frontiera al di là dai mari e dai monti. [...].

Intanto erano isolate nel secolo quinto e sesto le città, perché vi si era introdotto di recente l'uso rituale della lingua latina, o conservato forse in alcune il primiero uso della greca, ma nelle campagne, presso la casta militare, dominava la fede ariana e la lingua gotica, e presso le genti rustiche il culto degli antichi Dei.

Ebbene, in tanta confusione, la forza dei municipii comunque prostrati e conculcati, fu tanta, che il rituale latino poté uscirne ad occupare insensibilmente tutta la superficie dell'Italia. E a misura che il paganesimo spariva dalle campagne, i confini tra l'una e l'altra diocesi vennero a coincidere all'incirca con quelli delle antiche giurisdizioni municipali, che rappresentavano altri più vetusti termini di popoli e religioni. Era come una selva atterrata che ripullula da sepolte radici. La stessa casta longobarda, opponendo un vescovo ariano ad ogni vescovo latino, accettò e sancí quelle prische circoscrizioni. Il municipio fu più forte della conquista. [...].

Il dominio dei Longobardi fu men vasto di quello dei Visigoti, degli Eruli, degli Ostrogoti e molto più lontano dal raggiungere l'unità, ed ebbe più poderosi nemici dentro e fuori; eppure durò due secoli, quando quello degli Ostrogoti che abbracciò tutta l'Italia durò solo sessant'anni; e quelli degli Eruli e dei Visigoti assai meno.

Tutti questi regni, ed altri, caddero non perché fosse loro troppo angusta la terra e poca la gente, sicché non potessero affrontarsi con qualsiasi altra potenza dei tempi loro; ma perché non avevano radice nei popoli, perché si erano grettamente appresi alle glebe dei feudi e alle chiuse delle Alpi, e non all'antica forza municipale, al comizio, al tribunato, al foro; non si erano assimilate le città come i Romani; non le avevano fraternamente ascritte alle tribù e alle legioni. Avevano bensí i loro malli e arringhi, i loro parlamenti armati, ma in disparte dei popoli. E non erano più che i consigli di guerra di una casta militare; non erano più che lo stato maggiore d'un esercito disseminato per una terra, sulla quale da più generazioni esso nacque e rinacque come pianta parassita, senza prendere innesto sul tronco nativo, né appropriarsi la legge della sua vita.[...].

Nei quattro secoli incirca del dominio gotico e longobardo, la barbarie andò crescendo; poiché nessuno poteva inalzarsi se non seguendo ed imitando i barbari. Le città non erano apprezzate se non come fortezze; i cittadini, come tali, non avevano parte nelle cose del regno; né avevano potere alcuno sulle proprie sorti; il municipio era quasi disciolto e abolito. Le buone tradizioni si andavano sempre più spegnendo di generazione in generazione. II male non è il bene; barbarie, ruina, distruzione non è progresso. Milizia, agricoltura, commercio, scienze, lettere, l'alfabeto stesso, andavano in oblio. La gente più non aveva valore né virtù. I barbari si andavano spegnendo, insieme alle città che avevano desolate. [...].

Non più favorevole alle città italiche fu l'éra settima, o vogliam dire la dominazione di Carlomagno e de' suoi posteri e pretendenti, per l'indole sua feudale e rusticana. Ma giovò ad esse l'odio suo contro i Longobardi, e più ancora la debolezza e caducità delle sue istituzioni.

Già si sa che Carlo medesimo non sapeva scrivere; né alcuno darà colpa a lui dell'ignoranza del secolo in cui crebbe. Ma gli scrittori sinceri non possono negare che le sue istituzioni fecero le città d'Italia più barbare che non le avessero lasciate i Goti. Da Carlomagno il secolo del ferro. [...].

Al tramonto di quella abbagliante meteora di Carlomagno, l'imperio suo, accerchiato da cinque nazioni nemiche, non aveva già più difensori. [...].

Il flusso e riflusso della conquista nell'inerme retaggio di Carlomagno si sarebbe ripetuto senza fine con altri barbari, come da tempo immemorabile nella imbelle Mesopotamia. [...].

Da quel tempo non fu più fatto ostacolo a qualsiasi signore di provvedere a sé ed a' suoi. In poche generazioni, sull'intera superficie dell'imperio si venne tessendo con nuovi elementi una feudalità locale, che ridusse a torri e castella le case, murò i villaggi, armò i servi più gagliardi; ospitò profughi, tollerò asili, e anziché far traffico della propria gente da' Greci e Musulmani, come al tempo di Carlomagno, ne comperò dalle terre germaniche, e più dalle slave, per ripopolare i deserti. [...].

Disperse per entro alla selva delle castella, le città non ebbero nemmeno più il privilegio d'essere il rifugio dei potenti fra le incursioni dei barbari; rimasero tanto più disarmante e avvilite. [...].

E così mentre oltralpe i feudi sopraffacevano le deboli città, in Italia si poterono alzare, una a fronte dell'altra, due milizie. L'una urbana composta di liberi artefici, mercanti, scribi e altri superstiti delle famiglie degli antichi giureconsulti e sacerdoti, divisa per arti o per porte, pronta ad accorrere sulle mura, ricordava le tribù civiche della prisca Italia; celava in sé il principio d'un risorgimento integrale. L'altra sparsa per le foreste del contado, composta di castellani e torrigiani e di loro bastardi e bravi, si attruppava intorno alle romite muraglie di Biandrate, di Castel Seprio, di Castel Marte, ove una gotica strategia aveva posto il ricapito delle cavalcate feudali. La diversità delle giurisdizioni e delle leggi, ch'erano romane nella città e confidate a giudici elettivi, mentre nelle campagne erano più sovente longobarde o saliche, e confuse colla disciplina militare e coll'arbitrio feudale, fecero si, che il servo della gleba potesse anch'egli farsi franco, purché solo riuscisse a fuggire e a lucrarsi colle braccia il pane nella prossima città o nella sua giurisdizione. Quindi crescente ogni giorno il popolo urbano; e per forza di ciò, maggiore ogni anno nel contado la necessità d'armare altri gagliardi, e interessarli con franchigie e feudi e livelli alla difesa delle castella.

Le città, non appena riscosse dal letargo dei secoli gotici, espandevano dunque in circuito un'influenza avvivatrice che rigenerava anche il patto feudale; ed era più possente, ov'esse erano mercati e officine di più largo contado, mentre le città piccole e povere della montagna o delle terre basse e impaludate, e quelle che avevano più patito per le ultime invasioni, dovevano rimaner più ligie alla feudalità. Pertanto esse dovettero recare fino a più tarda età, non l'impronta longobarda, ma l'impronta dell'età dei Longobardi, non perché fossero in origine più barbare, ma perché trovarono intorno a sé minori sussidi a uscir dalla barbarie.

Il fatto supremo si è che per tutte le dominazioni gotiche, longobarde e franche si era trasmesso nella ierarchia episcopale quell'ordine di preminenza in cui le città stavano fra loro nei tempi in cui quella erasi instituita. Sempre Roma era stata nell'ordine sacro la prima città d'Italia; sempre Milano era stata la seconda Roma; il primato ambrosiano comprendeva Torino e Genova, si dilatava oltremonti fino a Coira e Ratisbona. Le città non emergevano dunque come dal fiume dell'oblio, ma come da lungo sonno, con tutti gli orgogli dell'antico stato. [...].

Nel primo secolo dopo il mille, che si può chiamare l'éra ottava delle città, le guerre tra i primati e le diocesi suffraganee, tra la chiesa ambrosiana e la romana, tra i pontefici e la dinastia salica a cagione delle investiture; e infine la prima crociata, ebbero tutte un'indole teocratica. [...].

Ma già nel principio del secolo seguente, ossia nell'éra nona delle città, le guerre si fecero secolari e mondane, benché fossero in parte effetto e continuazione delle rivalità episcopali. Dapprima le città contesero in cerchio colle città finitime, come già l'antica Roma con Sabini e Latini. Esse dovevano ristabilire le giurisdizioni e i confini che la geografia militare dei barbari aveva trasandati e manomessi. Poscia in cospetto del possente Barbarossa le inimicizie vicinali si atteggiarono in due grandi leghe. E finalmente, dopo trent'anni di guerra, la pace di Costanza introdusse nella legge imperiale le città libere. [...].

Ebbene, qui vediamo fin da quei remoti tempi le nostre città dare il primo esempio di quella grande innovazione sociale che ora soltanto vediamo iniziarsi in Russia e in Polonia, quale imperiosa necessità di tardo secolo. Tra i molti fatti che Giuseppe Ferrari trasse dalle tenebre delle croniche municipali, e ordinò e chiarì ne' suoi studi su i Guelfi e Ghibellini, nessuno è più degno d'essere ricordato ai posteri e additato alla malevola Europa di quello ch'ei raccolse in una cronica bolognese: "Nel 1236 furono liberati tutti i contadini; e il popolo di Bologna li comperò a denari contanti; e si decretò sotto pena della vita che non si avesse a tener più alcuno per fedele (cioè schiavo); e il comune riscattò i servi e le serve del contado; e i signori conservarono i loro beni" (V. II, 231). Chi faccia ragione di sei secoli d'intervallo, dovrà dire che questo fatto supera al paragone anche quel glorioso decreto, col quale il parlamento britannico consacrò cinquecento milioni di franchi a redimere tutti i Negri delle sue colonie.

Liberato a questo o ad altro patto o anche a forza il contado, si trovarono con ciò risuscitati i comuni rurali. Le selve e montagne, su cui la caccia feudale aveva steso le sue gotiche interdizioni, o furono rese all'aratro, o partecipate in possesso a tutto il popolo, come già nella lontana éra celtica. I servi affrancati, coscritti dalla città in cerne, riebbero anche il virile diritto di portare le armi private che la legge feudale aveva loro interdetto sotto pena di mutilazione o di morte. Tutte le popolazioni vennero unificate sotto il nome della loro città, la cui legge si stese su tutta l'antica sua terra.[...].

Nel tempo medesimo, dalle consuetudini dei naviganti e degli artefici si svolse il nuovo diritto commerciale e marittimo, che parve un'esenzione e un privilegio concesso ai mercanti, e ch'era la più pura formula dell'eguaglianza, tra gli individui non solo, ma tra le nazioni che il commercio conduceva a incontrarsi. E così usciva dalle città un nuovo diritto delle genti.[...].

La terra sgombra di servi, libera dalle sbarre e chiuse feudali, non più stabilmente assediata dalle masnade castellane, percorsa da vie la cui custodia, tolta ai vescovadi, fu data alle corporazioni stesse dei mercanti, venduta, comprata, divisa, suddivisa per progressivo influsso del diritto romano in liberi patrimoni, vide diradarsi le foreste, sfogarsi le paludi, ristaurarsi le grandi arginature dei fiumi già intraprese dalle antichissime città etrusche.

Ma il dono più magnifico delle città alle campagne fu quello delle generose irrigazioni ch'esse con pensiero provvido e con braccio possente e irresistibile condussero, ad onta di tutte le barbare immunità, per vasti territori intorno a Milano, a Novara, a Pavia, a Lodi, a Cremona, a Brescia. Fa stupore, veramente stupore, che siffatte imprese potessero aver principio e compimento in quegli anni medesimi in cui le travagliate città combattevano fra le stragi e le ruine. Perocché il canale del Ticino si crede intrapreso (1179) tre anni dopo la battaglia di Legnano su le pianure medesime ove fu combattuta. E la Muzza, il più grande dei canali irrigatorii, fu aperto dopo la battaglia di Casorate contro Federico II e i suoi Arabi (1239). Allora gli statuti diedero alle acque irrigatrici il diritto di libero passo, diritto che alcune delle più civili nazioni non sanno ancora oggidi conciliare colla nuda idea d'un'assoluta proprietà. Epperciò un ingegnere scozzese la chiamò con frase del suo paese la Magna Charta dell'irrigazione (Baird Smith, Italian irrigation, V. I.).

Con altro pensiero affatto nuovo in Europa, le città condussero le acque con tale proposito, da servire anche alla navigazione (1257). E così si poterono tanto più facilmente diradar le selve su le pianure, in quanto si poté allora supplire con quelle di lontane alpi ai bisogni delle città; e si ebbe dovizia di materie a riedificarle.

Il cronista di Bologna scrisse: "Il Comune riscattò i servi e le serve del contado e i signori conservarono i loro beni". Ma egli non s'avvide, e non s'avvidero allora i popoli, che i signori, oltre al conservare i loro beni, li avevano, per quel riscatto dei servi e delle serve, immensamente accresciuti. Quando la foresta feudale, sparsa qua e là di rari campi e popolata di pochi schiavi e da frotte di porci e cignali, si tramutò in poderi coltivati da livellaria e mezzadri, che potevano alimentare l'agricoltura coi frutti delle loro fatiche o con prestiti di denaro altrui; quando le vie libere e i liberi fiumi ed i canali condussero i viveri alle città; e queste crebbero per nuove industrie a cui la rude Europa pagava allora tributo, è chiaro che un feudatario, il quale, sullo spazio ove gli avi suoi tenevano cento capi di schiavi, poté dar lavoro a mille liberi agricoltori, e vide ricercarsi le sue derrate a prezzo inudito, si trovò, per influenza delle città, sollevato a favolosa opulenza. [...].

IMPORTANZA DELLA STORIA DEL TERRITORIO IN ITALIA

Partiamo da una domanda semplice e fondamentale. Perché è importante, in Italia, la storia del territorio? Certo, l’utilità di una tale storia vale ovviamente per qualunque altro Paese. Ma in Italia le ragioni della sua rilevanza rivestono un carattere del tutto peculiare. E questo, innanzi tutto, per motivi che riguardano il nostro passato millenario.Tuttavia, prima di svolgere le mie considerazioni debbo confessare di utilizzare con un certo disagio e insoddisfazione il termine territorio. Certo, si tratta di una parola polisemica, dunque utile, che ogni disciplina curva in maniera più consona agli aspetti che vuol trattare. Ma è un lemma che appare ormai inadeguato a designare il complesso di fenomeni che con esso tentiamo di abbracciare. La nozione di territorio, infatti, non si limita soltanto a designare il suolo, il terreno, ma comprende anche le acque, il clima, il regime delle piogge, la flora, la fauna. Nel territorio non ci siamo solo noi, esso non è il fondale inerte delle nostre attività, ma un campo di forze in movimento, talora collegate in forma di sistema. A tal fine il termine habitat, che intercaleremo, come sinonimo, si presta forse meglio a togliere unidimensionalità a una parola che oggi appare, del resto, troppo logorata dall’uso.

L’Italia è un Paese profondamente riplasmato dall’azione umana, artificiale. In Europa è comparabile solo con i Paesi Bassi, che hanno dovuto lungo i secoli strappare la terra al mare attraverso il sistema dei polders. Ma nel nostro Paese il processo di civilizzazione è più antico e le forme della manipolazione dell’habitat più varie e complesse. Sereni, nella sua Storia del paesaggio agrario italiano ha ricordato come già Goethe avesse osservato, nelle sue peregrinazioni in Italia, la marcata originalità dell’impronta romana sulla Penisola. Una civilizzazione – fatta di ponti, acquedotti, cisterne, strade, porti, cinte murarie, ecc - che durava e operava sul nostro territorio come una "seconda natura".

L’Italia, d’altra parte, è stata per eccellenza una terra di bonifiche: vale a dire il teatro di quelle opere volte a prosciugare paludi, arginare fiumi e torrenti, colonizzare pianure. Tutte le popolazioni che si sono insediate nel tempo nei vari siti della Penisola hanno operato trasformazioni territoriali per fondare e sviluppare le loro economie ed edificare gli abitati. Gli Etruschi, com’è noto, hanno operato nell’Italia centro-settentrionale, i Romani nella Valle del Tevere – ma poi in tutti gli altri territori dove è giunto il loro dominio – i coloni greci nell’Italia meridionale. In età medievale la bonifica è stata il motore di vaste trasformazioni ambientali che hanno mutato il volto di intere contrade e dato impulso allo sviluppo dell’agricoltura. Nella Valle del Po i monaci Benedettini hanno promosso un’opera grandiosa di prosciugamento di paludi, dissodamento di boscaglie, conquista di terra fertile grazie alla capacità di attrazione delle rade popolazioni contadine tramite contratti vantaggiosi che implicavano la bonifica territoriale. Non dobbiamo dimenticare che nel Medioevo la pianura padana era ben lontana dall’avere l’aspetto attuale. Molte terre erano coperte dalle acque e le popolazioni si spostavano più facilmente in barca che per le vie di terra. Il Po non era un corso d’acqua disordinato e mutevole ed sondava in innumerevoli bracci, insieme a tanti altri fiumi alpini, per la grande pianura.

In questo stesso ambiente è stato d’altra parte avviata un’opera davvero grandiosa di utilizzazione delle risorse idriche. Sin dal Medioevo, soprattutto in Lombardia, ma anche in Piemonte, sono state realizzate grandi canalizzazioni finalizzate al trasporto, ma anche all’uso dell’acqua per scopi di irrigazione .Nel XII secolo venne realizzato il Tesinello, cioè il Ticinello (poi Naviglio Grande) e nel secolo successivo il canale della Muzza, il più grande costruito in Europa fino al XVIII secolo. E un numero davvero notevole di canali, rogge, fontanili, sono stati costruiti nella Bassa Pianura in tutti i secoli successivi, toccando il culmine con la costruzione del Canale Cavour, in Piemonte, all’indomani dell’unità d’Italia.Per la sua costruzione si misero allora in piedi e si associarono ben 20 mila consorzi di proprietari. Tutte queste opere, indirizzate alla manipolazione e all’uso dell’acqua, hanno dato un grande impulso all’agricoltura, all’industria – grazie all’erogazione di forza motrice - e al commercio.Al punto che un grande ingegnere idraulico, ancora negli Trenta del XX secolo, ha potuto scrivere: "Ogni provincia dell’alta Italia guarda ai fiumi come alle leve maggiori della produzione ". Ma naturalmente questo secolare processo di derivazione delle acque fluviali ha impresso caratteristiche peculiari al territorio, e al tempo stesso ha plasmato anche la cultura delle popolazioni.Esse sono state obbligate per secoli a forme di cooperazione – come quella dei Consorzi, sorti fin dal Medioevo – per realizzare le grandi opere necessarie all’espansione delle attività produttive e del commercio.Naturalmente, anche nel’«Italia appenninica» lo sforzo delle popolazioni di attingere l’acqua e di impiegarla a scopi produttivi è stato intenso e continuo nel tempo, anche se ha prodotto modificazioni meno vistose nel territorio.D’altra parte, bisogna comprendere che nell’Italia centro-meridionale non dominavano i grandi fiumi alpini, ma i corsi appenninici, di natura prevalentemente torrentizia.

Tanto le bonifiche che i lavori idraulici hanno naturalmente interessato il nostro territorio per tutta l’età moderna e contemporanea. E in tutte le regioni d’Italia. Nel Regno di Napoli,ad esempio, soprattutto nel corso del XIX secolo, sono state realizzate importanti esperienze di bonifica ed elaborati studi e leggi di notevole modernità che sono stati poi ripresi e nella prima metà del XX secolo . I vari Stati preunitari, infatti, hanno continuato, con vario impegno e fortuna, l’opera avviata nel medioevo. Ma anche il nuovo Regno unitario dopo il 1861 ha avviato un sempre più incisivo processo di bonificazione soprattutto a partire dalla Legge Baccarini del 1882. Naturalmente qui non è possibile entrare nel merito di questa vicenda, che ha conosciuto successi e insuccessi nei vari ambiti della Penisola, ma su cui ha impresso un’impronta profonda e spesso – non solo nel bene –irreversibile. Quel che si vuole invece sottolineare è la straordinaria continuità del processo storico. Chi scrive ha potuto ricostruire tante opere di bonificazione realizzate in età contemporanea nelle varie regioni d’Italia grazie agli scritti (opuscoli, perizie, progetti, ecc) degli ingegneri impegnati in prima persona nei lavori di bonificazione. Ebbene, si può dire che non c’è scritto, di bonificatori attivi in Italia tra il XVIII e il XX secolo che, operando su un determinato sito, non contenga notizie storiche sulle bonifiche realizzate in passato in quella stessa area. Non c’è ingegnere che non si senta obbligato a fare un po’ di storia sulle attività che hanno preceduto la sua opera. Anche perché spesso, nel lavoro di scavo capitava di rinvenire le tracce delle opere precedenti, più o meno antiche. Una conferma, se ce ne fosse bisogno, non solo della dimensione di lunga durata delle bonifiche sul nostro territorio, ma della ininterrotta stratificazione della manipolazione umana su di esso.

Bene, sin qui si è parlato di storia. E a questo punto – se ci fermassimo qui - qualcuno potrebbe dedurre che conoscere la storia del nostro habitat è importante per ragioni meramente culturali e morali: perché su di esso sono state realizzate grandi opere che è giusto non far cadere nell’oblio.Le giovani generazioni devono conoscere gli uomini e le vicende che hanno portato il paesaggio che hanno attorno ad assumere le attuali fattezze. In realtà non si tratta solo di questo, che già sarebbe tanto. Conoscere il passato senza fini utilitaristici è, infatti, un grande esperienza culturale formativa. E,’ prima di ogni altra cosa, un’opera di "bonificazione della mente", che, nella nostra epoca, è ormai piegata a considerare importante solo ciò che presenta una evidente utilità strumentale.

In realtà, la conoscenza del nostro passato è importante anche per ragioni civili e politiche rilevantissime che investono il nostro presente. Se così lunga e continua è stata l’opera di rimodellamento dell’habitat italico ciò non è dipeso soltanto dalla vetustà degli insediamenti umani e dall’operosità delle popolazioni, ma anche dalle caratteristiche fisiche del nostro territorio. Tante opere di bonifiche sono state necessarie perché l’orografia, la natura del suolo, la morfologia delle terre, il sistema idrografico le hanno rese necessarie. Il nostro è, infatti, un Paese geologicamente giovane, in continua evoluzione. Ricordo che l’Italia è il solo Paese d’Europa ad avere ben 4 vulcani attivi. E quindi il suo è un suolo di recente formazione, ancora instabile, segnato e funestato da una intensa periodicità di eventi sismici. Quasi la metà del territorio nazionale è soggetto in grado elevato alla funesta ricorrenza di tali fenomeni. E qui entriamo in un area di problemi nella quale l’importanza della storia del territorio appare in tutta la sua ovvia evidenza. Infatti, è solo grazie alla paziente ricostruzione della storia dei terremoti che noi disponiamo di una carta sismica con cui conosciamo anche la "storia sotterranea" del nostro suolo. E’ la ricostruzione del passato che ci informa sulla fragilità e instabilità di alcune aree, ci suggerisce le necessarie strategie dell’edificazione, i moduli di costruzione degli abitati e dei manufatti.

Ma il suolo peninsulare è segnato anche da molti altri elementi di fragilità. Abbiamo fatto cenno alle bonifiche nella Pianura padana. Ebbene, è il caso di ricordare che tale area ospita forse il più complesso sistema idrografico d’Europa.La presenza di molteplici fiumi e affluenti in uno stesso territorio espone queste terre a grandi esondazioni delle acque, in caso di piogge prolungate. Memorabile è stata l’alluvione del Po del 1951 ma anche in tempi recenti, nel 1994 e nel 2000 Ancora oggi, d’altra parte, in quest’area del Paese si estendono vaste superficie di terre ad altimetria negativa, vale a dire sotto il livello del mare, che necessitano della diuturna opera delle macchine idrovore per mantenersi asciutte. E’ il caso di rammentare che in quest’area si concentrano numerosi e molteplici insediamenti urbani e buona parte del complesso industriale del Paese. La conoscenza della sua storia, dei suoi caratteri e della sua trasformazione è dunque imprescindibile per governarne l’evoluzione, per tutelarne la sicurezza. E dovrebbero bastare questi pochi cenni per comprendere quanto la risorsa suolo sia preziosa in questa regione strategica del Paese. Essa dovrebbe essere tutelata, messo al riparo dalla frenesia del cosiddetto sviluppo che vorrebbe divorarlo con un’attività costruttiva senza fine.

Non meno esposta appare la vasta area dell’Italia peninsulare. Quella, per intenderci, dominata dalla dorsale appenninica. Come ben sapevano già alcuni tecnici dell’Ottocento, l’Appennino costituisce un immenso campo di forze in continua attività. Non si tratta di terremoti, ma di fenomeni più lenti e meno clamorosi, che operano tuttavia con continuità. Dagli Appennini, infatti, discendono innumerevoli corsi d’acqua che trascinano materiale d’erosione verso valle lungo i due opposti versanti della Penisola. Da millenni, questa dorsale è soggetta a un colossale processo di erosione che naturalmente si è accelerato in epoca storica, con i diboscamenti e il denudamento delle pendici montane e pedemontane.Sabbia, fango, ciottoli, massi, sono stati trascinati verso il piano dalle acque torrentizie dando luogo alla formazione delle cosiddette maremme. Così sono state storicamente denominate quelle boscaglie costiere, punteggiate di stagni e paludi, formate per l’appunto dai torrenti appenninici che a un certo punto non riuscivano più a sfociare in mare a causa dei materiali da essi stessi trascinati, che occludevano la foce. Molti dei laghi costieri dell’Italia centro-meridionali si sono formati grazie a questa dinamica territoriale. Tale vicenda fa comprendere almeno una delle regioni del carattere storicamente continuo dell’opera di bonifica lungo le nostre pianure litoranee. Ebbene, è il caso di ricordare che, almeno a partire dal Basso Medioevo fino agli anni Sessanta del Novecento, questo gigantesco processo erosivo è stato almeno in parte controllato e filtrato dalle popolazioni contadine insediate nelle colline poste fra la montagna e il mare. Le famiglie mezzadrili, che per secoli hanno operato in Toscana, Umbria, Marche e ai margini di altre regioni non hanno solo provveduto a produrre derrate agricole per sè e per i loro padroni, ma hanno compiuto al tempo stesso un’opera tanto oscura quanto preziosa di manutenzione del territorio. Sono stati, infatti, i contadini a creare e tenere sgombri fossi e canali per il deflusso dell’acqua piovana, a erigere e riparare muretti di protezione, a piantare alberi, a controllare frane e smottamenti.

Anche in questo caso la storia ci informa di una rilevante novità. Queste figure sociali che facevano manutenzione quotidiana del territorio, questi controllori del nostro habitat collinare non esistono ormai più da decenni. Tutta la vasta area delle colline interne è abbandonata a se stessa. Dunque, un elemento in più di fragilità si è storicamente aggiunto negli ultimi decenni. Non cè bisogno di spendere altre parole per sottolineare la portata strategica, per l’avvenire delle nostre stesse pianure, di una consapevolezza storica su questa grande area dell’Italia peninsulare.

Naturalmente, per un Paese come l’Italia, l’importanza della storia del territorio non risiede soltanto nella consapevolezza della sua vulnerabilità e fragilità. Esiste un passato del nostro territorio che è importante conoscere anche per altre e più positive ragioni. Senza una conoscenza storica profonda come si fa a operare in una «terra di città» quale l’Italia è stata ed è, in maniera originalissima e dominante ? Come si può essere urbanisti, in Italia, senza essere al tempo stesso storici? Tutti i manufatti urbani di cui è disseminata la Penisola e le isole, frutto di molteplici stratificazioni di epoche e civiltà, non sono governabili né tutelabili senza la conoscenza storica della loro formazione nel tempo. Nel loro passato, dunque, e nella coscienza civile dei contemporanei si racchiude il nucleo del loro valore. Quel valore che dovrebbe stare a cuore a ogni cittadino e motivarlo alla sua custodia. Ma questo dovrebbe ormai essere ovvio. Per lo meno per chi è ancora in grado di pensare.

Bibliografia essenziale.

E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza Bari 1961

P.Bevilacqua, M.Rossi-Doria, Le bonifiche in Italia dal ‘700 a oggi, Laterza, Bari-Roma 1984

P. Bevilacqua, Le rivoluzioni dell’acqua. Irrigazioni e trasformazione dell’agricoltura tra Sette e Novecento, in P.Bevilacqua ( a cura di ) Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. I. Spazi e paesaggi, Marsilio Venezia 1989

P.Bevilacqua,Tra natura e storia.Ambiente,economie, risorse in Italia, Donzelli Roma, 1996

AA.VV: Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1980.Istituto Nazionale di Geofisica, Storia Geofisica Ambiente (SGA), Bologna 1995.

P. Bevilacqua, Sulla impopolarità della storia del territorio in Italia, in P.Bevilacqua e P.Tino ( a cura di ) Natura e società. Studi in memoria di Augusto Placanica, Donzelli, Roma 2005.

F. Cazzola, Il Po da risorsa delle popolazioni padane a fonte d’inquinamento, in « I frutti di Demetra», 2005, n. 8

Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere.

K arl Marx, Capitale , libro Primo, sezione III, 1867

In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita.

Karl Marx, Capitale , libro Primo, sezione IV, 1867

A ben vedere, tutta la ormai annosa disputa sull'efficacia "elettorale" e, più in generale "politica", del potere mediatico si basa su di un equivoco. Si finge di credere che la prevalenza politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione con il possesso e il controllo dell'informazione politica. Ma questa costituisce un aspetto minimo della questione: è al più la dose di potere me diatico che concerne l'élite politicizzata. Tutto il resto dell'immensa produzione - senza più differenze tra emittenti private e pubbliche, perché queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime - è ormai un colossale veicolo dell'ideologia, o per meglio dire del culto, della ricchezza. Non importa più chi controlli: è stato plasmato il gusto ed esso esige comunque un adeguamento totale. Il dominio della merce è diventato culto della merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla lunga consolida, il culto della ricchezza. La colossale massa di emissioni consacrate alla promozione delle merci è, a ben considerare, il principale contenuto della gigantesca "macchina" televisiva. Non importa di quale prodotto, meglio se di tutti. Quello che ad una minoranza di fruitori appare come un disturbo (di cui attendere la conclusione per "riprendere il filo") è invece il testo principale: ore e ore quotidiane di inno alla ricchezza presentata, con mirabile efficacia, come status a portata di mano (p. 328).

Il culto della ricchezza (nel quale rientrano anche i miti sportivi) ha creato - ed è questo forse il maggior suo successo - la società demagogica perfetta. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma della "parola demagogica". Proprio mentre sembra favorire, attraverso lo strumento mediatico, l'alfabetizzazione di massa, essa produce - e il paradosso è solo apparente - un basso livello culturale oltre che un generale ottundimentó della capacità critica […]contrario l'attuale "democrazia oligarchica", o sistema misto, o come altro si preferisca chiamarlo, orienta, ispira e perciò dirige una folla molecolarizzata e, insieme, omogeneizzata dalla capillare onnipresenza del "piccolo schermo"; nutre, illude e proietta verso una felicità merceologica a portata di mano una miriade di singoli, inconsapevoli della parificazione mentale e sentimentale di cui sono oggetto, paghi della apparente verità e universalità che quella fonte, in permanenza attiva, fornisce quotidianamente loro, soffusa di sogni (p. 331).

Un estratto più ambio del libro di Canfora è in eddyburg, qui

URBANISTICA - L’urbanistica è la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti avendo come proprio fine la pianificazione del loro sviluppo storico, sia attraverso l’interpretazione, il riordinamento, il risanamento, l’adattamento funzionale di aggregati urbani già esistenti e la disciplina della loro crescita, sia attraverso l’eventuale progettazione di nuovi aggregati, sia infine attraverso la riforma e

l’organizzazione ex novo dei sistemi di raccordo degli aggregati tra loro e con l’ambiente naturale. In questo senso il significato del termine urbanistica è profondamente diverso da altri, di analoga radice, con i quali è talvolta confuso: urbanesimo, che indica la concentrazione e condensazione dei fattori demografici, sociali, culturali ed economici costituenti la città; urbanizzazione, che indica il processo di formazione e disseminazione delle città in una determinata area; e infine inurbanamento, che è il processo di afflusso di popolazioni per lo più rurali nei centri urbani.

Come disciplina autonoma, l’urbanistica è nata dal secolo scorso, quale risposta (e difesa) ai problemi suscitati nell’esistenza e nella cultura urbana dal progressivo affermarsi dell’industrializzazione e dal rapido incremento della popolazione e del traffico (specialmente, nel nostro secolo, del traffico motorizzato). Solo retrospettivamente e per analogia, perciò, si chiamano urbanistici i modi di strutturazione, organizzazione, configurazione dello spazio urbano nel passato, siano essi spontanei o diretti da norme giuridiche o iniziative di governo o da teorie e princìpi formulati da politici, filosofi, architetti. E solo in quanto si ammette la costanza di una certa disciplina nella crescita delle città si chiama comunemente storia dell’urbanistica la storia del fatto urbano. Come attività specificamente intenzionata alla progettazione degli sviluppi urbani, l’urbanistica è interessata a tutte le componenti geografiche, storiche, ideologiche, culturali, economiche ecc. del fatto urbano, nonché a tutte le esigenze tecnologiche, igieniche, educative, assistenziali ecc. ad esso connesse. Sotto l’aspetto estetico, l’urbanistica è particolarmente in rapporto con la progettazione (v.), con l’architettura (v.), e le sue tipologie (v. STRUTTURE, ELEMENTI E TIPI EDILIZI), nonché con la funzione ideologica e rappresentativa degli edifici (v. MONUMENTO) e con la concezione della natura e specialmente della società e della vita rurale, come contrapposte, almeno in certe civiltà, alla vita cittadina.

Sommario.

L’idea di città - Nomenclatura essenziale - Definizione di urbanistica - Definizione di città: Verso una scienza urbana - Definizione geografico-urbanistica della città - Definizioni storico-sociologiche della città - Lo “spazio urbano”: Mondo arcaico - Antiche civiltà urbane - La città medievale - La città rinascimentale - La città barocca - Disintegrazione dello spazio urbano - Riscoperta, analisi e ricomposizione dello spazio urbano - Utopisti moderni - La pianificazione urbanistica: L’esperienza razionalista e il piano di Amsterdam - Verso una nuova concezione - Dall’urbanistica tecnica alla pianificazione continua - Aspetti giuridici ed economici della pianificazione urbanistica - Problemi e prospettive: Dati di base per una contabilità urbanistica - Problemi specifici: a) Quartieri residenziali - b) Centri storici e rinnovamento urbano - c) Il traffico veicolare - d) Zone industriali attrezzate - e) Attrezzature per il tempo libero - Piani per il futuro.

L’IDEA DI CITTÀ

Quando, in un primo approccio al fenomeno urbano, in qualsiasi tempo e luogo, anche remoti, si constati la sua indissociabile, attiva compartecipazione, come struttura portante, alle molteplici manifestazioni di civiltà, o se ne osservino le impetuose esplosioni in atto, o quando si tenti, avventurandosi nel futuro, qualche prima sommaria interpretazione della sua dinamica o qualche incerta anticipazione morfologica, mentre da un lato il fascino della straordinaria ampiezza e varietà del fenomeno allarga l’orizzonte dell’esplorazione, dall’altro non ci si può sottrarre al corrispettivo sgomento per la palese inadeguatezza degli strumenti conoscitivi.

Il fatto è che, dopo non meno di cinque millenni di civiltà urbana e di un’assai più antica cultura di villaggio, entrambe sviluppate in ambiti territoriali strutturati, ed in cui si sono avvicendati miliardi di esseri umani, dopo eventi così determinanti per la civiltà come la concentrazione insediativa e dopo varie ripetute vicende di impianto e formazione di città, di espansione e fioritura, di trapianto o di declino fino alla morte, con o senza risurrezione, o ancora di persistente plurimillenario rinnovamento in sito e di ristrutturazione territoriale, bisogna giungere fino a tempi estremamente ravvicinati perché l’idea stessa della città sia rappresentata in tutta la sua evidenza e le funzioni degli insediamenti umani sul territorio appaiano in tutta la loro dinamica complessità: in sintesi, per comprendere, come insegnò Patrick Geddes verso la fine del secolo scorso, che un villaggio, una città, una regione non sono solo un «luogo nello spazio», ma un «dramma nel tempo», inseriti dunque in un processo di sviluppo dinamico.

Essenzialmente statica e spazialmente delimitata è invece l’idea informatrice della città nel mondo antico, dagli insediamenti palaziali alla “polis”, quale traspare dai frammenti descrittivi di storici, geografi e viaggiatori, dalle regolamentazioni urbanistiche e dalle testimonianze archeologiche, come pure dalle stesse ipotesi platoniche ed aristoteliche di ideale formazione e di reggimento politico: comune, pur nella varietà di impianti, l’aspirazione ad una stabilità dimensionale, economica e sociale, sia dell’insediamento urbano principale, cittadella o città sacra o capitale o città commerciale, sia della sua area agricola, lenticolarmente concepita.

Verso questo obiettivo appare in sostanza indirizzata la stessa organizzazione territoriale romana, formatasi per aggregazioni successive di territori che venivano omogeneamente strutturati mediante impianto di città, creazione di relative aree economiche, dotazione di infrastrutture urbane e territoriali e di istituzioni civiche, il tutto tipizzato secondo una costante, monotona, e quindi universale, precettistica, che è riuscita per un arco di tempo non lungo, ma decisivo per la storia urbana, a garantire su estesa superficie l’equilibrio economico e sociale delle unità territoriali di base integrate in un sistema politico centrale.

Ancor più evidente è l’idea di microcosmo immobile implicita nella organizzazione della città medievale murata, che forma con il contado un sistema economico chiuso ed autosufficiente (salvo casi eccezionali, come, per es., le repubbliche marinare) e dove statuti, istituzioni, dialetti ed architettura, unitamente alle riaffiorate culture locali preromane, concorrono a caratterizzarne l’individualità nel rispetto dei princìpi universalmente accettati dell’equilibrio interno economico e sociale e della pariteticità di diritto degli insediamenti statutariamente riconosciuti.

Signorie e principati, tra il Cinque e il Settecento, non solo confermano l’idea del microcosmo urbano accentratore, ma lo isolano con un sempre più complesso sistema stabile difensivo, ed accentuano, su più vasta scala, la gerarchizzazione degli insediamenti sul territorio.

Si sviluppa in quei secoli l’arte urbana, che arricchisce le città principesche di nuovi episodi architettonici di rilievo; al tempo stesso si incomincia a teorizzare sulla “forma urbis” fino a dar vita ad una fioritura di nuove idee urbanistiche che sotto la veste di “città ideali”, si pongono, nei confronti delle esistenti, come altrettante possibili alternative globali; molto spesso le innovazioni vagheggiate sono soltanto formali, geometriche e difensive, ma in questa ricerca inventiva nuove idee prorompono sia nel campo tecnico sia nel campo dell’ordinamento sociale, aprendo la strada alle utopie. L’idea della città entra finalmente in movimento: basterebbero le intuizioni leonardesche per la irrigazione della Val di Chiana o per la ristrutturazione di Milano in dieci città da 30.000 abitanti a confermarlo.

Allo sviluppo di questi fermenti ideali non ha certo giovato l’ordine barocco e neoclassico congeniale al dispotismo politico, che dell’arte urbana ha fatto ampio uso e strumento, e tanto meno la grande ventata del suo opposto e successore, il liberistico “laisser faire”, applicato alla città; essi rivivranno e riprenderanno corpo solo nelle utopie dei primi riformatori sociali ottocenteschi.

Ma intanto l’orizzonte urbano si andava rapidamente allargando: protestantesimo, mercantilismo, accumulazione capitalistica, centralizzazione del potere, colonizzazione, scoperte e sistemi scientifici, rivoluzione industriale e demografica, teorizzazione economica, lotta politica, mentre danno vita ai tempi nuovi, spezzando, con il limitato orizzonte di idee, anche i chiusi circuiti dell’economia medievale e gli statici gruppi demografici, contribuiscono a rompere definitivamente l’ordine urbano e la statica gerarchia territoriale.

Dopo secoli di relativa stabilità demografica la popolazione europea nuovamente in fase di incremento, tanto da passare dai 180 milioni dell’anno 1800 ai 400 milioni nell’anno 1900, si pone ora in movimento, ridistribuendosi sul territorio e creando problemi nuovi che trovano impreparata l’antica strutturazione, urbana e territoriale.

All’abbandonato monocentrismo arcaico, nessuna nuova idea urbanistica si contrappone per lungo tempo: le caotiche strutture cittadine e territoriali sono, verso la metà dell’Ottocento aggredite dalle forze nuove e adattate a viva forza o distrutte come avviene con il significativo abbattimento delle mura, o confinate nella stagnazione e nell’abbandono; nuovi impianti produttivi e nuovi insediamenti sorgono senza far più ricorso all’arte urbana; nuove infrastrutture tecniche si sovrappongono indifferenti a quelle arcaiche: tutto il mondo storico rapida mente si dissolve e si trasforma.

La sensazione tuttavia che prospettive e possibilità si siano all’improvviso immensamente dilatate è confermata dal lungi mirante monito saint-simoniano (1825): « maintenant que la dimension de notre planète est connue, faites faire par les savants, par les artistes et les industriels un plan général de travaux à exécuter pour rendre la possession territoriale de l’espèce humaine la plus productive possible et la plus agréable à habiter sous tous les rapports».

Intanto il groviglio di problemi, sorti e non risolti per assenza di visione generale, ritardava purtroppo, ampliandosi e complicandosi, l’indispensabile ed urgente processo di razionalizzazione.

Né era facile scoprire una strada nuova che consentisse di uscire dalle imperanti degenerazioni dell’arte urbana tradizionale, ormai ridotta al disegno accademico di quinte a margine ed a decoro di grandi operazioni immobiliari speculative di sventramento o di rinnovamento urbano, che raggiungono il loro apice nell’attuazione del piano napoleonico-haussmanniano di Parigi degli anni ’50.

Due vie diametralmente opposte sono, in tutto il secolo, continuamente tentate: quella dei riformatori utopistici, alla ricerca di “modelli” ideali e generalizzabili come soluzioni alternative alla società in atto, e quella degli ingegneri urbani, che, allargando sempre più il loro campo d’azione dai ponti e strade agli impianti igienico-sanitari ed ai mezzi di trasporto collettivo, riscoprono il piano d’insieme. La prima ha prodotto, in concreto, qualche isolato prototipo e qualche quartiere operaio modello, costruito da industriali illuminati, sulla scia, peraltro, della tradizione settecentesca dei paesi nordici, ma non poteva pretendere, con modelli astratti, di ristrutturare una società in rapida evoluzione e le sue negative manifestazioni urbane. La seconda ha potuto produrre, oltre alle grandi opere come le reti di ferrovie metropolitane sotterranee ed aeree a Londra, Parigi e Berlino, eccezionalmente anche alcuni piani al larga concezione come la sistemazione del Ring di Vienna (1856) ed il piano di Barcellona di Ildefonso Cerdà (1859), dimostrandosi tuttavia impari al compito.

In ossequio all’incontrastato interesse privato ed ai princìpi liberistici, i piani tecnici di ampliamento e di sistemazione degli insediamenti in rapida espansione sono stati concepiti o sono stati attuati come puri e semplici piani di “allineamento” e cioè di discriminazione tra il sempre più limitato suolo pubblico, ormai ridotto alla sola viabilità ed ai parchi, ed il sempre più esteso dominio della proprietà privata, reale protagonista della città crescente, eludendo in tal modo i problemi economici e sociali e la visione generale dell’intero sistema urbano.

L’avvicinamento ad una soluzione integrata, sociale oltre che tecnica, pratica ma senza rinunce idealistiche, si ha solo verso la fine del secolo scorso: ad essa contribuiscono vari apporti scientifici e culturali di igienisti, geografi, sociologi e demografi. Dall’incontro di queste nuove discipline con l’ingegneria urbana e con una rinnovata, antiaccademica arte urbana nasce, alla fine del secolo scorso, la disciplina specifica ed autonoma dell’urbanistica; la prima edizione di Der Städtebau di Stubben, esce nel 1880; Der Städtebau nach seinen kunstlerischen Grundsatzen, di Camillo Sitte, nel 1889; Tomorrow, di Ebenezer Howard, nel 1898; la Regional Survey, di Patrick Geddes, nel 1899; Une Cité industrielle, di Tony Garnier, è del 1901-1904.

Con queste opere i fondamenti tecnici, estetici, sociologici ed innovatori dell’urbanistica moderna erano posti. Da esse e dagli studi teorici e sperimentali, che ne sono scaturiti nei decenni successivi, è sorta una nuova e più composita idea della città e del territorio urbanizzato, non più associata a forme astratte e statiche, ma tendente ad una sintesi di fattori complessi ed eterogenei.

Il fenomeno urbano è scomposto, analizzato e ricomposto scientificamente in tutti i suoi elementi costitutivi; anche l’uomo comune avverte ora la presenza, il peso, i problemi e la dinamica dell’urbanizzazione.

La scienza urbanistica ha camminato e la stessa tecnica dell’insediamento che nei primi decenni del secolo, soppiantando arte urbana ed ingegneria urbanistica, poteva apparire come conquista necessaria e sufficiente per la sistemazione razionale degli insediamenti e del territorio, sta ora cedendo il passo ad un processo che si profila globale, continuo e irreversibile: la pianificazione urbanistica.

Illustrare gli indirizzi teorici e pratici di questa tecnica in fase di evoluzione e di sistematizzazione e le sue più significative applicazioni concrete è compito della presente trattazione.

NOMENCLATURA ESSENZIALE

Con il passaggio avvenuto negli ultimi decenni del secolo scorso dall’arte urbana ( art urbain, civic art), intesa fino allora come architettura in grande, alla nascente tecnica dell’insediamento urbano, si modifica anche il linguaggio che si arricchisce rapidamente di nuovi vocaboli. Dove e quando e da quali occasioni questi siano sorti è problema filologico tuttora da esplorare: ci atterremo pertanto a pochi dati certi. Nel 1855 appare la parola “d emographie” nel trattato statistico di Guillard; non è quindi senza significato il fatto che nello studio delle componenti dei fenomeni demografici (natalità, mortalità, emigrazione ed immigrazione), quella particolare immigrazione che proprio allora stava dando corpo alle concentrazioni urbane fosse chiamata dagli statistici francesi con la parola “urbanisation” (ingl. urbanisation, amer. urban growth, ital. prima urbanismo poi urbanesimo) per designare la tendenza dei centri urbani a crescere, per inurbamento di immigrati, più rapidamente dei nuclei demografici circostanti.

Non è un caso che sia proprio Ildefonso Cerdà, che per primo impiega in modo sistematico l’analisi statistica negli studi preparatori al piano di Barcellona, a far precedere l’illustrazione a stampa del piano (1867) con un saggio intitolato Teoría general de la Urbanización, dove la stessa parola è impiegata nel duplice significato di concentrazione di popolazione urbana e di ampliamento fisico della città.

Questo duplice significato è attualmente di uso comune nelle spagnola e francese, mentre nella lingua italiana ed in quella inglese i due significati sono espressi con due distinte parole: il significato demografico-sociale rispettivamente con le parole “urbanesimo” ed “urbanisation”, quello fisico con “espansione urbana” e con “city development” (così è intitolato il libro di Geddes e Mawson, del 1903), dove “development” è usato in senso lato di “sviluppo”, o con “phisical growth of towns”. In italiano, la parola “urbanizzazione” è di uso assai recente ed è impiegata esclusivamente per indicare il processo di trasformazione d’uso da suolo agricolo a suolo urbano mediante la progettazione e l’attuazione di opere, impianti, servizi ed edifici a varia destinazione; ed ha il suo corrispondente inglese nel significato tecnico e legale di “development” (dal 1947), con l’avvertenza che questa parola ha un significato ancor più estensivo, comprendendo anche le semplici trasformazioni nell’uso degli immobili, cosicché la sua traduzione in italiano può essere, a seconda dei casi, “urbanizzazione” o “trasformazione d’uso”; anche il vocabolo francese “urbanisation” e quello spagnolo “urbanización” impiegati nel significato fisico sono recentemente usati anche nel senso più specifico di “urbanizzazione” e di “development”.

Esaminati i legami semantici tra fenomeno demografico e città costruita, si può ora ricercare con maggior sicurezza origine e significato dei vocaboli pertinenti all’urbanistica, intesa come scienza ed arte dell’organizzazione e dello sviluppo degli insediamenti.

Nella lingua tedesca non si sono posti particolari problemi linguistici, essendo chiaramente distinguibili le fasi di studio e di realizzazione della città con i due vocaboli composti di “Stadtplan” e di “Stadtbau”, che, usato con il plurale di città “Städtebau”, raggruppa in sintesi tutte le operazioni attinenti alla progettazione e costruzione della città ed assume quindi il significato generale di urbanistica: colui che se ne occupa è lo “Städtebauer”, cioè l’urbanista. L’uso di questi vocaboli risale agli ultimi decenni del secolo scorso e da allora si è mantenuto a lungo inalterato; ad essi, soltanto da pochi anni si sono aggiunti nuovi vocaboli rispondenti a nuove esigenze di espressione: così la fase analitica e scientifica dello studio, “Forschung”, è ora indicata con “Stadtforschung” per le città e “Raumforschung” per i territori, e l’organizzazione territoriale, che non può esser compresa nel concetto di “bauen”, è indicata con “Raumordnung”. Infine, di recente, si sta sviluppando l’uso della parola “Planung”, pianificazione territoriale, impiegata in “Landesplanung” ed in “regionale Planung”; nel campo degli studi economici è stato introdotto il termine di “Raumwirtschaft”, economia spaziale, così come l’aspetto politico della pianificazione urbanistica è designato con “Raumpolitik”.

Più complesso, variato e sfumato è il corredo linguistico anglosassone, per l’uso contemporaneo di tre differenti matrici “urban”, “city”, “town”, e con derivazioni del tutto particolari. Così in Inghilterra mentre il verbo “to urbanize” indica l’atto del rendere urbano un sito, con operazioni di trasformazione, queste sono designate, come già si è detto, con “development”, mentre il sostantivo “urbanisation” è usato esclusivamente nel significato statistico di urbanesimo; in America “urbanisation” è usato solo nel significato di estensione delle strutture urbane, ed è anche usata, sia pure non frequentemente, la parola “urbanism”per indicare il “modo di vita” conseguente all’inurbanamento. Per esprimere il concetto di “studio di appropriato sviluppo, pianificazione ed uso della città”, e cioè l’equivalente di urbanistica, l’Enciclopedia Britannica riporta la parola “urbiculture”, che non risulta adoperata nell’uso corrente.

Amplissima è la gamma di combinazioni con “plan”, pianta e progetto, e soprattutto con “planning”, che contiene in sé non solo le operazioni del progettare, ma anche quelle del programmare. Prima e fondamentale combinazione è il “town planning”, vocabolo che in Inghilterra all’inizio del secolo prende il sopravvento su “citv design” ed è consacrato nella prima legge urbanistica inglese, il Town Planning Act del 1909, nel titolo della prima rivista specifica, The Town Planning Review, sorta a Liverpool pure nel 1909, e nel primo congresso inglese, la Town Planning Conference, tenuto a Londra nel 1910: con questo duplice riconoscimento culturale e legale il “town planning” diventa, in Inghilterra, a partire dal secondo decennio del secolo, il termine ufficiale dell’urbanistica, come disciplina autonoma, concernente un campo che, nell’editoriale di apertura della Town Planning Review, è definito «alquanto nuovo ed inesplorato». Negli stessi anni, e precisamente nel 1909, Si aveva in U.S.A., a Washington (D.C.), il primo congresso nazionale di urbanistica, con la denominazione di City Planning. L’uso di questo vocabolo è rimasto in U.S.A. quello prevalente, tanto che anche l’Enciclopedia Britannica ospita la trattazione sull’urbanistica sotto la voce City Planning, scritta da John T. Howard, professore al Massachusetts Institute of Technology; in entrambi i paesi l’urbanista è indicato generalmente con “planner”, mentre in Inghilterra il primitivo “townplanner” è ancora in uso. Il “town planning”in Inghilterra ed il “city planning” in America non esauriscono tuttavia tutte le esigenze operative e culturali dell’urbanistica, che estende ben presto il suo campo di studio e d’azione al territorio ed alla regione. Si passa così in Inghilterra al “town and country planning”, dove “country” sta nel doppio significato di territorio e di insediamenti minori, ed al “regional planning termini questi entrati nell’uso corrente dopo il 1945; in U.S.A. al “city and regional planning” ed all’“urban planning”, dove, secondo Frederik Adams, con il primo si mettono in luce gli aspetti strumentali ed operativi dell’urbanistica al livello territoriale, con il secondo si evidenziano le interrelazioni fra gli aspetti sociali, economici e fisici, contenuti nella pianificazione. In italiano, la traduzione lessicale e concettuale di “town and country planning” e di “city and regional planning” è “pianificazione territoriale”, mentre “urban planning”corrisponde a pianificazione urbanistica, nell’accezione più estensiva. È da notare, tuttavia, che dagli anni ’50 in poi si sta diffondendo sempre più, sia in Inghilterra che in America, l’uso del puro e semplice “planning”, come termine comprensivo di tutti gli aspetti della pianificazione urbanistica: in questo senso la International Federation for Housing and Town Planning, le cui origini risalgono al 1913, ha cambiato denominazione, nel 1956, in International Federation for Housing and Planning (I.F.H.P.).

Anche nell’insegnamento universitario dell’urbanistica, che ha inizio in Inghilterra nel 1919 all’Università di Liverpool ed in America nel 1923 presso la Harvard University, varia è la denominazione delle Facoltà: in Inghilterra è generalizzata la denominazione di “town planning” e di “town and country planning”, mentre sopravvive l’antica denominazione di “civic design”all’Università di Liverpool, adottata peraltro anche in quella di Londra nel ’47, dove “civic design” è considerato l’equivalente di “town planning” ed è usato didatticamente per marcare la contrapposizione con “architectural design”; in U.S.A. le denominazioni prevalenti sono quelle di “city planning” e di “city and regional planning”.

Più ridotto di quello anglosassone, ma non così schematico come quello tedesco, è il lessico francese. Le prime derivazioni da “urbain” sono già state esaminate: “art urbain” e “urbanisation” da cui il suo opposto “désurbanisation”, decentramento urbano. Con gli inizi del secolo, fin dal 1903, prendono l’avvio gli studi storici ed i corsi di storia urbana, “études urbaines”, ad opera di Marcel Poëte, prima su Parigi e quindi sulle città in generale, e da essi, oltre che sull’onda dell’esplosiva attività culturale inglese del primo decennio del secolo, prende inizialmente le mosse 1’“urbanisme” inteso come scienza dell’evoluzione delle città.

Con notevole tempestività, nel 1911, viene fondata la Société Francaise des Urbanistes. Un’intensa attività culturale, nel secondo e terzo decennio del secolo, sviluppa in Francia un’ampia messe di pubblicazioni nel campo dell’urbanistica, incrementata anche dalle traduzioni dei “classici” tedeschi ed inglesi, dal Sitte ad Unwin. Per effetto di tali influssi la parola “urbanisme”, mentre continua ad essere impiegata per gli studi storici o per le anticipazioni del futuro, cede spesso, in quel periodo, alla “science des plans des villes”, che pare più aderente al “town planning”. Dopo gli anni ’30 quest’uso scompare e la parola “urbanisme”riassume in sé tutti i più ampi significati storici, teorici e pratici dell’urbanistica. Nella nomenclatura dei vari tipi di piano appare, fin dai primi anni del secolo, il il “plan d’aménagement”, come piano generale, soppiantato successivamente dal “plan directeur “(1952), mentre 1’“aménagement” è usato sol più nel senso di organizzazione territoriale in “aménagement des territoires” (1949) con le due specificazioni di “aménagement régional” e di “aménagement du territoire” quando l’oggetto è l’intero territorio nazionale. Solo recentemente, a partire dal 1960, e dopo l’avviamento dei piani economici nazionali pluriennali, l’“aménagement des territoires” è sostituito dalla “planification territoriale”, in coerenza con la “planification économique”.

In campo scientifico va ricordato il tentativo di inquadrare 1’“urbanisme” nel più vasto ambito dell’organizzazione dello spazio, per il quale M. F. Rouge ha proposto, nel 1947, la denominazione di “géonomie”, come equivalente del termine tedesco “Raumordnung”.

Attardati rispetto alla cultura internazionale, gli urbanisti italiani fanno le prime prove negli anni ’20, avendo alle loro spalle unicamente gli studi statistico-demografici, che avevano definito scientificamente l’urbanesimo (Mortara, 1908). Il primo congresso italiano è del 1926 (Torino) ed è intitolato all’Urbanesimo, dove questo termine è impiegato sia nel significato demografico, sia come adattamento di “urbanisme”; in questo senso ancora nel 1927, in una pubblicazione di Armando Melis su Torino, è impiegata la parola “urbanesimo”, ma nelle ultime pagine fa la sua apparizione la parola “urbanistica” usata sia come aggettivo, di dottrina, sia come sostantivo; e con urbanistica, anche “urbanista”.

A sprovincializzare l’ambiente culturale italiano concorre il XII Congresso della Intemational Federation for Housing and Town Planning, tenuto a Roma nel 1929, da cui prendono le mosse la costituzione dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, avvenuta nel 1931 e l’inizio della pubblicazione della rivista Urbanistica nel 1932.

Questa posizione di retroguardia dell’Italia nella cultura europea contrasta stranamente con l’attività legislativa sviluppatasi ai primordi dell’unità nazionale, che aveva prodotto, in notevole anticipo rispetto alla Francia ed alla stessa Inghilterra, la legge del 1865 sulle espropriazioni per causa di utilità pubblica, con cui erano stati istituiti, sia pure in forma facoltativa, i “piani regolatori edilizi” ed i “piani di ampliamento”, caratterizzati da una visione sufficientemente allargata del fenomeno urbano.

Bisogna giungere però fino al secondo dopoguerra, perché in Italia si sviluppi una nuova cultura urbanistica, orientata a trasformare i piani urbanistici episodici in un processo di pianificazione continua, che con l’allargamento dell’orizzonte concettuale comporterà anche l’introduzione di un nuovo linguaggio.

DEFINIZIONE DI URBANISTICA

Se sono occorsi oltre cento anni per liberare la concezione dell’urbanistica dalla identificazione dapprima con l’arte urbana e quindi con la normativa edilizia e con l’ingegneria stradale, fino a configurarla come disciplina autonoma, con proprio irriducibile oggetto e specifica metodologia conoscitiva ed operativa, è ben comprensibile che le definizioni formulate in così lungo arco di tempo divergano su di un ampio ventaglio; in questo processo l’atteggiamento acritico di molti urbanisti pratici non ha certamente agevolato il chiarimento scientifico e la stessa operatività degli interventi.

La definizione di arte e tecnica della costruzione delle città, per lungo tempo accettata come semplice parafrasi dello Städtebau, suonava come simmetrica della definizione accademica dell’arte e tecnica della costruzione di edifici (v. ARCHITETTURA) e denunciava, con tale parallelismo, una posizione concettuale che riteneva l’urbanistica coincidente sostanzialmente con la stessa architettura, salvo, se mai, le differenze di scala, come se si trattasse di una particolare categoria di architettura in grande, ricadendo così nell’ormai inattuale definizione di arte urbana; al tempo stesso tale definizione, assegnando all’urbanistica una ibrida natura di arte e di tecnica, apriva una lunga serie di equivoci e di dispute sulla priorità dell’arte sulla tecnica o della tecnica sull’arte o del modo di accompagnare e adattare l’una all’altra.

Per lo Stubben (1889), infatti, scopo dell’urbanistica è ancora il «rivestire la tecnica soddisfazione delle esigenze con piacevoli forme» quasi che si trattasse poco più di un addobbo scenico; definizione questa che, rifacendosi agli epigoni dell’accademia architettonica, ripropone le distinzioni tra forma e struttura, tra pianta funzionale e prospetto artistico di un edificio, e quindi fra trama urbana e decoro architettonico dei vari edifici.

Anche il Larousse du XXème siècle (1933) definiva l’urbanistica come “aménagement et embellissement” delle città e dei villaggi e proponeva di condensare il suo programma nelle tre parole: “assainir, agrandir, embellir”, come sintesi di igiene, comfort ed estetica, nuova versione della triade vitruviana. Ancora nel 1934 Pierre Remaury su uno dei primi numeri della rivista Urbanisme sosteneva che l’urbanistica «coincide con l’architettura, di cui non è altro che un’estensione su di un piano generale»; affermazione questa che di tempo in tempo riaffiora specialmente fra quei critici che dell’urbanistica rilevano come elemento caratterizzante il solo aspetto spaziale e formale del vaso urbano, architettonicamente definito (ad es. Argan, 1938).

Una diversa angolazione è data da chi, pur senza sostanzialmente scostarsi dalla definizione tradizionale, considera come elemento caratterizzante dell’urbanistica la “pianta” della città: l’urbanistica diventa allora l’“arte di progettare” i piani delle città (Art of designing Cities, in Town Planning in Practice, di Raymond Unwin, 1909) e più tardi La Science des plans des villes, di Rey, Pidoux e Barde (1930). Attraverso lo studio della pianta della città (il “piano” coincide in quel periodo con la “pianta in progetto”) si raggiunge così una visione necessariamente d’insieme, sia pure geometricamente raffigurata sul piano, e quindi ancora bidimensionale e staticamente definita, con tutte le limitazioni che ne derivano, ma che rappresenta un primo affrancamento dalla identificazione dell’urbanistica con l’architettura, o dall’ingenuo connubio di arte e tecnica.

È ben vero che lo studio delle piante delle città può condurre, come ha in effetti condotto, a sopravvalutare l’aspetto “geometrico “della pianta stessa, ed a metterne in evidenza le caratterizzazioni morfologiche, e tutta la pur rilevante produzione scientifica del Lavedan, dall’Histoirede l’Urbanisme (1926-1938) alla Géographie des villes (1936), risente di questa accentuazione, ma è anche immediatamente evidente che la rappresentazione planimetrica altro non è che uno strumento simbolico e sintetico nel quale sono condensate le soluzioni di molti problemi di varia natura ed a mezzo del quale si esprime il carattere del prodotto finale: la città. Ed è proprio nella ricerca di una definizione scientifica e pratica dei “problemi” e della “città” che si affina il concetto di urbanistica.

«Urbi et orbi, dentro e fuori la città, nulla senza la città», esclama Le Corbusier nel 1922, presentando il suo progetto di una moderna città ideale, e prosegue: «infatti l’urbanistica è l’espressivo prodotto del patto di associazione che ha sempre condizionato la possibile esistenza degli uomini»; la visione globale della città nuova quale sgorga dall’empito creativo presuppone ed anticipa per Le Corbusier anche una nuova, ma non ben identificata, struttura sociale, basata su di un novello “patto di associazione”; il riferimento alla “conjuratio”, da Max Weber studiata proprio in quegli anni (Die Stadt, 1921) come fondamento sociologico della formazione della città occidentale intorno al mille, parrebbe non casuale.

Ma una definizione dell’urbanistica non può considerare soltanto il caso più propizio ed emozionante, quello delia creazione ex novo di una città, e soprattutto di una grande città, che resta pur sempre un evento eccezionale, ma deve considerare anche le operazioni relative alla trasformazione delle città esistenti, che rappresentano ovviamente il caso più diffuso, comprendendo tutte le possibili trasformazioni dalla creazione all’espansione, alle modificazioni ed alterazioni di qualsiasi entità.

È ciò che era stao espresso in termini assai generali fin dal 1920, da Géo Ford in Urbanisme en pratique: «l’urbanistica è la scienzae l’arte di applicare la pratica previsionealla elaborazione ed al controllo di tutto ciò che entra nell’organizzazione materiale di un’agglomerazione umana e di ciò che l’attornia»: Géo Ford preconizzava fin d’allora che il lavoro di analisi e di sintesi risultasse dallo sforzo combinato di competenze specializzate ed affermava con ampiezza di vedute che il campo d’azione dell’urbanistica è illimitato: non solo villaggi e città, ma anche il territorio circostante, le regioni, una intera nazione sono campo d’azione dell’urbanistica.

È questa una posizione concettuale del tutto nuova, che andrà ad informare l’atività pratica senza immediati sviluppi in sede teorica. Durante gli anni ’30 l’attenzione degli urbanisti teorizzanti è infatti attratta ed assorbita più dallo sperimentalismo del periodo razionalista, limitatoal campo dell’abitazione, dalla casa al quartiere, che dalla sommessa ma seria preparazione dei primi piani scientificamente studiti, che pure vengono approntati in quegli anni. Questi offrono tuttavia la prima vera occasione di scoprire e di afferrare formalmente la complessa realtà urbana attraverso l’analisi sistematica dei fenomeni e l’applicazione dei metodi statistici: esemplare sopra tutti, per metodologia e risultati, lo studio del piano di Amsterdam, durato dal 1928 al ’35. Si può con tutta tranquillità affermare che è su questa esperienza che viene edificata la nuova urbanisitca del secolo XX.

Alla luce di questa esperienza, risultano invece ancora estremamente deboli ed imprecise le definizioni date in quegli anni sull’urbanistica.

Scienza d’osservazione, arte di composizione e filosofia sociale, la definisce Alfred Agache nel 1932; ma poi spiega che «l’urbanista deve tradurre in proporzioni, volumi, prospettive e profili le diverse proposte suggerite da ingegneri, economisti, igienisti e finanzieri» riducendo quindi l’urbanistica ad una sorta di interpretazione e di traduzione simultanea di idee altrui, con evidente negazione di qualsiasi autonomia di metodo e di giudizio. L’equivoco dell’“urbanista-interprete” durerà a lungo, configurando l’urbanistica come una pura e semplice tecnica neutrale e passiva, sottomessa ad altre discipline ed a decisioni del tutto esterne.

Contro questo atteggiamento remissivo e contro il suo opposto, l’atteggiamento demiurgico dell’alternativa globale proposta dall’“urbanista-riformatore sociale”, tipico dell’urbanistica utopistica, vien presa posizione in vari modi ed in varia misura.

L’atteggiamento più prudente, di fronte alla complessità dei problemi posti dalla realtà presente degli insediamenti urbani ed alla vastità delle analisi che essi reclamano, è quello di definire l’urbanistica come “punto di convergenza” di arti e scienze assai diverse (Joyant, 1934) o come “scienza che abbraccia molteplici branche” (Elgoetz, 1935): troppo poco, ma quanto meno, il punto focale è riportato al centro della realtà che si vuole esaminare e modificare e non al di fuori di essa.

Ma se si riconosce che la realtà su cui si vuol operare, ed operare “da dentro”, è complessa ed eterogenea, dovrebbe anche essere possibile individuare un principio di coesione interna specifico per la realtà urbanistica, da cui far discendere una scala di valori, che possa guidare nei giudizi di merito. A questo problema sono state date varie risposte.

Gli architetti ed urbanisti razionalisti degli anni ’30 hanno individuato questo pricipio nel funzionalismo di tutti gli elementi costitutivi della città. Per essi così si esprime Piero Bottoni nel 1938, definendo l’urbanistica «la dottrina che si occupa della organizzazione dei luoghi o centri destinati all’abitazione, alla produzione, alla distribuzione, alla vita collettiva, allo svago e riposo dell’uomo, con le comunicazioni ed i trasporti relativi, nel modo più conforme alla intrinseca funzionalità di quelli ed alle superiori necessità sociali collettive», ma non precisa il principio di funzionalità delle singole parti, né affronta il problema del passaggio dalla funzionalità delle parti a quella dell’insieme.

Il richiamo alla funzionalità, peraltro, non è nuovo nelle teorie architettoniche, ed in urbanistica esso si riallaccia alla penetrante intuizione di Ildefonso Cerdà (1859), che ricercava il principio di coesione interna della struttura urbana nelle ~ relazioni reciproche tra contenuto e contenente, che sono espressione del funzionamento della popolazione nella città», con la differenza che secondo gli urbanisti razionalisti il principio di funzionalità sembra discendere essenzialmente da relazioni intrinseche fra gli oggetti fisici (per es. soleggiamento, e quindi distanze fra gli edifici), mentre per Ildefonso Cerdà il termine di paragone e di misura è la popolazione nel suo rapporto con la struttura fisica urbana: città e popolazione diventano nell’impostazione di Cerdà due termini insopprimibili che vanno costantemente esaminati nella reciprocità delle loro relazioni. Si apre in tal modo il discorso a quella visione generale ed organica che viene ampiamente sviluppata da Patrick Geddes, nei suoi studi sulla evoluzione delle città: per Geddes (1923), l’urbanistica è anzitutto scienza civica, basata sulla “civic survey”, ed ha per obiettivo la riorganizzazione delle città e delle regioni, perché la scienza non può non mirare all’azione, la diagnosi alla cura.

«La città è un organismo, vivente di vita propria», aveva affermato Marcel Poëte fin dal 1908. La concezione organica, che sviluppa le idee di Cerdà, Geddes, Poëte, è chiaramente definita da Luigi Piccinato nell’Enciclopediaitaliana (1938): «l’urbanistica in generale guarda all’evoluzione della città nella sua totalità, poiché la città si può considerare come un essere vivente in continua trasformazione»: inquadrata in questa prospettiva l’urbanistica si propone lo studio generale delle condizioni, delle manifestazioni e delle necessità di vita e di sviluppo delle città.

Ma anche il principio della visione organica, pur costituendo un superamento della posizione tecnicistica dei funzionalisti, appare ancora insufficiente a risolvere tutti i problemi posti dalla pianificazione urbanistica, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti economici, come pure si rivela insufficiente a precisare il metro rispetto al quale possano essere ragionevolmente operate le scelte. Ancor più si complica il problema se nella realtà urbanistica si tien conto anche della struttura sociale e politica.

«Parlare di urbanistica fuori di una determinata concezione etico-politica non ha senso. L’urbanistica non è semplicemente una tecnica», ammoniva nel 1941 Carlo Ludovico Ragghianti.

In un orizzonte così dilatato è ancora possibile ritrovare un principio di coesione, di unificazione e di guida?

Sir William Holford, nel Town and Country Planning Textbook, del 1950, ha individuato tale principio nel «processo di coordinamento e di combinazione di operazioni su vari fronti», che sarebbe comune alle tre fasi fondamentali della pianificazione: l’indagine, il piano di sviluppo ed il programma di attuazione; nel Text-book è praticamente illustrato quanto l’urbanistica possa attingere per le sue analisi dalle varie discipline geografiche, sociologiche, economiche e giuridiche e di quale attrezzatura tecnica specifica ormai essa disponga dopo parecchi decenni di attività sperimentale. Il processo di sintesi occorrente per la formazione del piano è stato chiaramente definito da Lewis Keeble nei Principles and Practice of Town and Country Planning (1952), come risultato di «raccolta, confronto e valutazione di tutte le correlazioni, possibilità e conflitti, posti in luce dalle indagini». Il principio di coesione è dunque, nelle differenti fasi di analisi e di sintesi, anzitutto un principio di metodo. Ma se l’analisi può essere scientificamente condotta, la sintesi resta ancora, nella esposizione del Keeble, frutto soggettivo di una mente.

La ricerca della oggettivazione scientifica di un sempre maggior numero di scelte e la sperimentazione “ex ante” dei risultati di sintesi costituiscono i nuovi temi metodologici degli anni ’60: ed anche se finora i risultati pratici in tale direzione sono del tutto esigui, è tuttavia significativo che il problema sia ormai concettualmente impostato e che costituisca il campo di esplorazione della pattuglia più avanzata negli studi scientifici della pianificazione urbanistica.

Giunti a questo punto dell’esame delle varie definizioni di urbanistica, viste nel loro sviluppo storico e collocate nella loro concatenazione concettuale, riteniamo necessario, per procedere verso una ipotesi di definizione aggiornata, approfondire prima la natura dell’oggetto stesso della ricerca e degli interventi, l’insediamento umano sul territorio, nella sua più civile espressione, la città.

DEFINIZIONE DI CITTÀ

Vastissima è la letteratura sull’argomento, accumulatasi in poco più di mezzo secolo di studi ad opera di geografi, storici e sociologhi; ad essa va aggiunta una ancor più copiosa produzione di monografie locali, compilate a premessa di piani urbanistici, delle quali solo una esigua aliquota ha visto le stampe, mentre la maggior parte di esse, redatte in limitatissimo numero di copie, sono andate disperse. Manca per queste ultime una aggiornata e sistematica bibliografia per paesi, iniziata per ora soltanto in Inghilterra, Francia e Polonia; manca soprattutto, in questo campo, un centro internazionale di documentazione, che garantisca la conservazione e la consultazione dell’immenso materiale prodotto.

Verso una scienza urbana. - L’interesse per lo studio scientifico del fenomeno urbano da parte delle discipline geografiche e sociologiche ha inizio nell’ultimo decennio del secolo scorso, con notevole ritardo rispetto alle manifestazioni di interessamento e di esplosione urbanistica ormai in atto negli Stati Uniti ed in Europa a partire dalla metà del secolo. È infatti di quegli anni (1845) la drammatica denuncia di Engels sulla situazione delle abitazioni della classe operaia in Inghilterra, con la minuta descrizione della situazione urbanistica di Manchester. Ma bisogna giungere fin verso la fine del secolo perché prenda avvio lo studio scientifico degli insediamenti umani, che si sviluppa quasi contemporaneamente secondo vari filoni separati, e spesso contrastanti, facenti capo alle dottrine geografiche sociologiche ed economiche che in quegli anni si formano; sia pure nella molteplicità degli angoli visuali alcuni principi comuni vengono tuttavia riconosciuti e costituiranno il quadro di riferimento concettuale delle ricerche specifiche nel campo urbanistico.

Con l’Antropogeografia di Ratzel (1891) Si enuclea il principio della “unitarietà ambientale” e quindi della concatenazione di tutti i fenomeni di geografia fisica ed umana; l’Ecologia di Haeckel (1884) apre lo studio delle «mutue relazioni di tutti gli organlsmi viventi in un solo ed unico luogo e del loro adattamento all’ambiente che li attornia»; entrambe aprono la strada all insegnamento di Vidal de la Blache ed alla sua Geografia umana (uscita postuma nel 1922), Cui riconoscono di far capo le modeme scuole di geografia urbana che annoverano studiosi della statura di Max Sorre, Pierre George e Chabot.

Nello stesso periodo di tempo si sviluppa la moderna sociologia, che prende le mosse dalla prima opera di Émile Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893); in essa, partendo dalla distinzione tra divisione di lavoro tecnico e divisione del lavoro sociale, Durkheim dimostra che lo sviluppo di quest’ultima conduce alla preponderanza della “solidarietà organica” (per dissomiglianza) sulla “solidarietà meccanica” (per assomiglianza) il che si manifesta con la crescente moltiplicazione di raggruppamenti particolari, la limitazione progressiva del diritto “repressivo” ,1’interiorizzazione della coscienza collettiva e la “fortificazione” della personalità umana. Con Durkheim viene affermata la «specificità della realtà sociale e la sua irreducibilità di fronte a qualsiasi altra realtà»; oggetto e metodo della sociologia, nel pensiero durkheimiano, sono così definiti dal Gurvitch: «La sociologia è una scienza che studia, con vedute d’insieme, in modo tipologico ed esplicativo, i differenti gradi di cristallizzazione della vita sociale, la cui base si trova negli stati di coscienza collettiva, irriducibili ed opachi alle coscienze individuali; questi stati si manifestano nelle costruzioni, istituzioni, pressioni e simboli esteriormente osservabili, si materializzano nella trasfigurazione della superficie geografico-demografica ed impregnano al tempo stesso tutti questi elementi con le idee, va!ori ed ideali cui tende la coscienza collettiva nel suo aspetto di libera corrente di pensiero e di aspirazione». La scuola durkheimiana, continuata da Marcel Mauss e da Maurice Halbwachs autore della Morphologie sociale (1935), è oggi rappresentata da Georges Gurvitch, che definisce la sociologia (1958) come «scienza che studia nel loro insieme ed ai vari livelli di profondità i fenomeni sociali totali astrutturali, strutturabili e strutturati, al fine di seguire-e spiegare, in collaborazione con la storia, i loro movimenti di strutturazione, destrutturazione, ristrutturazione e sprigionamento». Secondo questo indirizzo sociologico la prima tappa nello studio di un fenomeno sociale totale è data dalla ricognizione della superficie morfologica ed ecologica, che studia le esteriorizzazioni materiali della realtà sociale (densità, movimento e distribuzione spaziale della popolazione, insediamenti urbani, vie di comunicazione, utensili etc.) che si possono considerare sociali in quanto penetrate e trasformate continuamente dall’azione umana collettiva.

In questo quadro si collocano le più recenti ricerche di sociologia urbana di Chevalier, e di Chombart de Lauwe, che si riallacciano agli studi di ecologia urbana della scuola nordamericana, iniziati da Robert Ezra Park (1919), sviluppati in collaborazione con Burgess e McKenzie (1925), e proseguiti soprattutto dalla scuola di Chicago.

Lo scopo comune degli studi di sociologia e di ecologia urbana è stato definito da Denis Szabo (1933) come «lo studio dei gruppi sociali e della loro interazione in quanto influenzati da quell’ambiente fisico-psico-socio-culturale che è l’agglomerazione urbana».

Questo rapido schizzo, necessariamente sommario ed incompleto, della nascita degli studi urbani sarebbe ancora fortemente mutilo se non si facesse almeno un fugace cenno ad altri avvenimenti scientifici non meno importanti, quale il sostanziale rinnovamento di antiche discipline, come l’economia e la statistica, avvenuto sullo scorcio del secolo.

Per quanto riguarda la statistica, l’epoca moderna degli studi è collocata alla fine del secolo, con Karl Pearson, da cui hanno origine le modeme scuole di statistica, mentre, per quanto riguarda le scienze economiche, sarà qui sufficiente ricordare, in sintesi, che un decisivo sviluppo del pensiero economico ha inizio, negli ultimi decenni del secolo, per opera di due scuole entrambe astratte (quella austriaca, sull’utilità marginale applicata al campo della microeconomia, e quella di Losanna, sull’equilibrio generale esteso quindi ad una macroeconomia astratta per merito della scuola londinese di Alfred Marshall, che espone la teoria dell’equilibrio parziale basata sull analisi temporale dei periodi lunghi e brevi, e della scuola economica di Stoccolma) e inoltre che gli ulteriori sviluppi passano attraverso alla Teoria generale dell’impiego dell’interesse e della moneta di Keynes (1936), come tentativo di una teoria centrale esplicativa del funzionamento delle fluttuazioni di tutti i settori. Negli anni più recenti si assiste allo sforzo di far convergere le varie scuole moderne di pensiero economico verso una nuova metodologia, basata sulla unificazione dei metodi statistici e matematici e delle teorie economiche, che apre un nuovo campo di osservazione e di congettura; ricerche econometriche, modelli teorici e loro applicazione al mondo reale schemi globali di bilancio nazionale, modelli previsionali e decisionali sono i principali capitoli e le fondamentali tappe di questa nuova scienza economica, che sfocia nella teoria della pianificazione, intesa, secondo la definizione di Gilles-Gaston Granger (1955), come «organizzazione o riorganizzazione sistematica di una struttura e del suo funzionamento».

Il richiamo alle scienze economiche nel corso della presente trattazione potrebbe apparire, a prima vista, quasi senza nesso pratico, se, proprio nelle fasi finali dell’evoluzione del pensiero economico, non fossero stati ritrovati strumenti di osservazione e di previsione di un’economia globale territorialmente definita, che si possono applicare e si incomincia ad applicare anche a regioni, ad agglomerazioni urbane ed a città.

Coordinare ed integrare quelle parti della geografia, della sociologia, ed ora anche dell’economia, che si interessano dei fenomeni urbani in un’unica coerente scienza urbana è un passo ancora da compiere sul piano teorico e metodologico, ma esso appare allo stato attuale dello sviluppo di tali scienze, non solo possibile, ma opportuno ed auspicabile; il tentativo e effettivamente in corso, sia pure in forma ancora grezzamente sperimentale, nei più avanzati studi urbanistici.

Definizione geografico-urbanistica della città. - Una rapida rassegna delle principali fra le numerose defìnizioni di città enunciate da geografi, storici e sociologi moderni, pone in luce la estrema varietà degli aspetti rilevati e dei punti di vista e la difficoltà di contenerli in un’unica proposizione, che risulti valida al di fuori delle differenze temporali e spaziali. Così la definizione di città come «stabile concentrazione di uomini e di residenze che coprono considerevole parte di terreno, con strade commerciali al centro», data da Ratzel (1891), evoca piuttosto i caratteri della città preindustriale che non quelli delle città in esplosione verso la fine del secolo, e non può essere certamente assunta, per incompletezza, come enunciazione generale. Definire la città, distinguendola dal villaggio, per mezzo dell’attività dei suoi abitanti è impresa quasi senza sbocco, perché se si procede per esclusione, come propone von Richthofen (1908), secondo cui la città è «concentrazione di attività non agricole», si ottiene una indicazione non solo vaga, ma anche unilaterale, perché non riconosce carattere urbano alle città agricole che non abbiano carattere di villaggio; se si tenta di elencare tutte le possibili attività non si ottiene altro che una interminabile lista, ed infine, se si cerca di coglierne il carattere predominante, come nella definizione sintetica di Max Weber (1921) della città come «sede di mercato» (con le variazioni di città dei mestieri, dei mercanti o dei consumatori), si individuano solo alcuni degli aspetti economici tipici della città medievale del mondo occidentale, non estensibili ad altri periodi storici, o li si stempera nella genericità, come nella formula di H. Wagner (1923) per il quale le città sono «punti di concentrazione del commercio umano». Sempre in questa direzione sono ancora da segnalare la definizione di Bruhnes e Deffontaines (1920), secondo i quali «vi è città ogni qual volta gli abitanti impiegano la maggior parte del loro tempo all’interno dell’agglomerazione», che è evidentemente inapplicabile alle città-dormitorio ed alle città agricole, inentre lo potrebbe essere anche ad annucleamenti non strutturati; fra le più recenti quella di Pierre George (1952) che individua la città nel «punto di contatto tra economia industriale ed economia commerciale», anche questa tuttavia suscettibile di riserve. Utile ai fini orientativi e descrittivi, ma scientificamente sterile, è la classificazione tipologica degli insediamenti umani catalogati secondo i più svariati caratteri, dagli aspetti fisici del sito a varie ed arbitrarie classi di ampiezza, alle funzioni prevalenti (commerciali, militari, portuali, industriali, amministrative, politiche, religiose, turistiche, ecc.), ognuno dei quali, come ad esempio quello amministrativo, può generare numerose sottoclassi, e così via.

L’unico tentativo di trar partito da queste numerose classificazioni per una annotazione di sintesi dei dati segnaletici relativi ad un insediamento è stato realizzato da Griffith Taylor, che in Urban Geographie (1947) propone una “equazione di città", composta di due membri: il primo, a sinistra, formato dalla cifra della popolazione (in migliaia) moltiplicata per lo stadio di sviluppo (per il quale propone una curiosa divisione in cinque classi d’età: infantile, giovanile, adolescente matura e senile) più i caratteri del sito (espressi secondo una data classificazione); il secondo, a destra, formato da una somma di tanti addendi quante sono le zone funzionali della città, ciascuna delle quali contrassegnata da un’espressione composta dalla sigla di destinazione d’uso, dalla distanza chilometrica della zona dal nucleo centrale e dalla posizione della zona stessa rispetto ai punti cardinali, sempre riferita al nucleo centrale. Il metodo, per quanto perfezionabile ed utilizzabile ai fini classificatori, non risulta praticamente applicato.

Più fecondo di risultati è stato invece il metodo della lettura morfologica dell’insediamento, proposto dal Lavedan (1936), che individua come elementi generatori della pianta: l’asse stradale generatore, le direttrici naturali, il rilievo, l’eventuale cinta muraria, i monumenti (che determinano nel tessuto edilizio movimenti di avvolgimento, di attrazione o di prospettiva) ed infine i sistemi geometrici razionali di urbanizzazione (a scacchiera, radiocentrici, lineari, a fuso, ecc.).

Il metodo, se criticamente utilizzato, può fomire lo spunto per la interpretazione dei caratteri urbani, come hanno dimostrato gli studi di Luigi Piccinato sulle città medievali; «nell’organismo urbano», dice sinteticamente Umberto Toschi (1947) «funzioni e forme differenziano elementi costitutivi numerosi e diversi che bisogna cercare di individuare nei loro caratteri interiori ed esteriori».

L’analisi morfologica dell’impianto, del tracciato e del tessuto di un insediamento e dei caratteri del sito determinanti per la struttura urbana può quindi esser utilmcnte eseguita come uno dei primi passi verso la conoscenza della realtà del fenomeno urbano, ma può anche condurre a risultati del tutto sterili ed astratti, se l’esame vien limitato all’aspetto puramente geometrico e fisico degli elementi generatori della pianta, perché allo studio dell’organismo urbano, che pur si dichiara di non poter conoscere se non nella globalità di organismo, si sostituisce la descrizione schematica e statica del suo scheletro o, se si vuole, del suo guscio, correndo lo stesso rischio, denunciato da Marcel Mauss, di chi «trascura l’elemento vulcanico, novatore, effervescente, rivoluzionario della vita sociale, considerandola sotto l’aspetto istituzionale, visto di preferenza nella sua espressione cristallizzata e cadaverica».

Quest’esigenza era già stata profondamente capita da Patrick Geddes (1854-1932), che, superando l’esame delle semplici interazioni fra luogo-lavoro-popolo, proposte da Le Play e da lui attivizzate nei rapporti fra organismo-funzione-ambiente, ha insegnato a considerare le città nel loro stato di evoluzione e ad analizzare la condizione attuale in tutti i suoi aspetti dinamici, anche negativi. A lui si deve non solo la definizione della “città paleotecnica”, frutto della rivoluzione industriale incontrollata (che ha prodotto Kakotopia), cui contrappone la fase “neotecnica” (Eutopia), secondo una schematizzazione tipologica ed una terminologia che saranno ampiamente sviluppate da Lewis Mumford, ma anche una serrata critica della dispersione e disseminazione urbana in atto sul territorio inglese nei primi anni del secolo, con le patologiche manifestazioni dei nastri continui e delle fungaie di case o di quelle particolari proliferazioni di tessuto astrutturato che si sviluppano irregolarmente e con discontinuità attorno e fra i centri industriali fino a dar luogo, nel loro complesso, ad un nuovo tipo di insediamento e ad una nuova forma di aggregazione urbana, dal Geddes battezzata “conurbazione” (1915).

Il processo di urbanizzazione spontanea, sollecitata dai singoli interessi privati dell’economia capitalista in espansione, era infatti, in Inghilterra, in stadio di avanzata degenerazione fin dai primi anni del secolo con manifestazioni che si sarebbero prodotte solo più tardi in altri paesi, con la puntuale ripetizione ed accumulazione di identici aberranti effetti. Si sono così avuti differenti aspetti morfologici di espansione incontrollata, con casi di avvolgimento a nubi attomo a città accentrate tradizionali, con infiltrazioni a spora e a grappolo germogliate fra città principale e corona di città minori, oppure con inserimenti di tessuto sfilacciato ed informe fra città e città di pari importanza o, ancora, con la formazione di un amorfo tessuto indefinitamente dilatabile: ovunque si siano manifestati, questi nuovi insediamenti hanno rapidamente rotto l’antica separazione fra città e campagna, sconvolgendo antiche e recenti equilibrate strutture di quei sistemi solari urbani già studiati da Walter Christaller (1933) e che ora vengono trasformati da costellazioni in galassie, o dissolvendo ogni sistema in un’unica nebulosa urbana, formata da un “continuum urbano-rurale”, variamente diluito o condensato (A. Smailes, 1953).

I moderni geografi (T. W. Fawcett, Chabot e Pierre George) continuano ancora a denominare tali fenomeni “conurbazione “quando le città d’origine, fra le quali si sono insinuate le proliferazioni, restano distinte pur essendo inglobate in un unico insieme, ma li battezzano “agglomerazioni” quando tra città e proliferazioni si stabilisce uno stretto grado di interrelazioni e di dipendenza. Nel recente linguaggio urbanistico inglese, il termine “city region”, già adoperato dal Geddes in senso geografico di regione urbana, è ora spesso usato per indicare quelle conurbazioni che siano soggette ad un processo di ristrutturazione urbanistico-amministrativa, per la loro trasformazione da aggregati informi in aggregazioni strutturate. In questo senso “city region” è da tradurre con “regione urbanizzata” più che con “città-regione”, come spesso è stato impropriamente ed affrettatamente fatto in Italia in tempi recentissimi, dando luogo ad equivoci ed abusi nominalistici; il termine città-regione, infatti, non esprime con evidenza il senso di ricupero di una situazione negativa in atto, ma induce piuttosto all’illusoria scoperta di una nuova categoria di supercittà quasi che l’estensione del concetto di città ad un ampio territorio comportasse anche la risoluzione o l’assoluzione di tutti i suoi problemi.

Per alcuni geografi inglesi, tra cui il Dickinson (City, Region and Regionalism, 1947-1960), il termine di “city-region” è invece usato per indicare l’area tributaria funzionalmente dipendente, o servita, da una città, nel senso quindi geografico-economico di area di influenza.

La pianificazione territoriale è lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico.

Da : Il carro degli indios, in “Micromega”, n. 3/1986.

Che cosa sono i valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente, mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo di porsi di fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti.

Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E un fine, che contiene l’autorizzazione a qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine giustifica i mezzi. Tra l’inizio e la conclusione dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere. Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte, eccetera. Perciò, chi molto sbandiera i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell’etica dei valori, infatti, è: agisci come ti pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un’altra questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte.

Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono “tirannici”, cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di “tirannia dei valori” e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all’etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico.

Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all’azione. La massima dell’etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un’immagine: il principio è come un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l’azione c’è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché, quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d’uno, essi possono combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi. Chi agisce “per principi” si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d’una. Ciascuno di noi aderisce, in quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all’autorità, alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all’etica dei principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle ingiustizie.

"URBANISTICA", NEI TESTI LEGISLATIVI NAZIONALI

Legge 17 agosto 1942, n. 1150, articolo 1

Disciplina dell’attività urbanistica e suoi scopi

L’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio del Regno sono disciplinati dalla presente legge.

Il Ministero dei lavori pubblici vigila sull’attività urbanistica anche allo scopo di assicurare, nel rinnovamento ed ampliamento edilizio delle città, il rispetto dei caratteri tradizionali, di favorire il disurbanamento e di frenare la tendenza all’urbanesimo.

Decreto Presidente Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, articolo 80 (ora abrogato)

Le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernono la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente”

Si osservi il profondo cambiamento tra la formulazione del 1942, limitata ai centri abitati e al loro ampliamento edilizio, e la formulazione del 1977, che estende l’urbanistica all’interi territorio e “a tutti gli aspetti” del suo governo

"GOVERNO DEL TERRITORIO", NEI TESTI LEGISLATIVI NAZIONALI

Norme per il governo del territorio, testo unificato licenziato dalla Commissione parlamentare, XII legislatura, l’11 gennaio 2001 (“legge Lorenzetti”)

Governo del territorio: le disposizioni e i provvedimenti per la tutela, per l'uso e per la trasformazione del territorio e degli immobili che lo compongono.

Disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005, in un testo risultante dall’unificazione dei disegni di legge presentati nel corso della XIII legislatura (“Legge Lupi”)

Il governo del territorio consiste nell’insieme delle attività conoscitive, valutative, regolative, di programmazione, di localizzazione e di attuazione degli interventi, nonché di vigilanza e di controllo, volte a perseguire la tutela e la valorizzazione del territorio, la disciplina degli usi e delle trasformazioni dello stesso e la mobilità in relazione a obiettivi di sviluppo del territorio. Il governo del territorio comprende altresì l’urbanistica, l’edilizia, l’insieme dei programmi infrastrutturali, la difesa del suolo, la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali, nonché la cura degli interessi pubblici funzionalmente collegati a tali materie.

Si osservi l’analogia del primo testo (Lorenzetti) con la definizione di “Urbanistica” del 1977, e il ritorno, nel secondo testo (Lupi) di elementi della definizione del 1942 (“obiettivi di sviluppo del territorio”)

"GOVERNO DEL TERRITORIO", NELLE INTERPRETAZIONI REGIONALI

Regione Emilia-Romagna (dal sito della Regione)

Per governo del territorio si intende l’insieme delle attività finalizzate alla tutela, alla valorizzazione e alla trasformazione del territorio. Il governo del territorio comprende quindi tutto ciò che attiene alla regolazione dell’uso del suolo e alla localizzazione di opere, interventi o attività Rientrano nella materia del governo del territorio le seguenti discipline:

- l’urbanistica e la pianificazione d’area vasta;

- l’edilizia privata;

- l’edilizia residenziale pubblica;

- la programmazione, localizzazione e realizzazione delle opere e lavori pubblici;

- le espropriazioni per pubblica utilità;

- gli interventi di riqualificazione e la disciplina dei centri storici;

- la pianificazione paesaggistica.

La Regione, nell’ambito delle proprie competenze legislative, definite dall’art. 117 della Costituzione, emana leggi e altri atti normativi in materia di governo del territorio per promuovere lo sviluppo economico, sociale e civile della popolazione regionale, assicurando un uso appropriato delle risorse ambientali, naturali, paesaggistiche, territoriali e culturali.

Regione Toscana (dal sito della Regione)

Il governo del territorio è l'insieme delle attività che riguardano l'uso del territorio: le conoscenze, le norme e la gestione finalizzate alla tutela, alla valorizzazione e alle trasformazioni delle risorse che lo costituiscono. L'obiettivo è quello di tener conto delle esigenze legate alla migliori qualità della vita delle generazioni presenti e di quelle future.

Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un'altra, una cifra dall'altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un'icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea. Questi dati risultano da due diverse indagini comparative svolte nel 1999-2000 e nel 2004-2005 in diversi paesi. Ad accurati campioni di popolazione in età lavorativa è stato chiesto di rispondere a questionari: uno, elementarissimo, di accesso, e cinque di difficoltà crescente. Si sono così potute osservare le effettive capacità di lettura, comprensione e calcolo degli intervistati, e nella seconda indagine anche le capacità di problem.solving. I risultati sono interessanti per molti aspetti. Sacche di popolazione a rischio di analfabetismo (persone ferme ai questionari uno e due) si trovano anche in società progredite. Ma non nelle dimensioni italiane (circa l'80 per cento in entrambe le prove). Tra i paesi partecipanti all'indagine l'Italia batte quasi tutti. Solo lo stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori. I dati sono stati resi pubblici in Italia nel 2001 e nel 2006. Ma senza reazioni apprezzabili da parte dei mezzi di informazione e dei leader politici.

Nelle ultime settimane, però, alcuni mezzi di informazione hanno parlato con curiosità del fatto che parecchi laureati italiani uniscono la laurea a un sostanziale, letterale analfabetismo. Questa curiosità vagamente moralistica è meglio di niente? No, non è meglio, se porta a distrarre l'attenzione dalla ben più estesa e massiccia presenza di persone incapaci di leggere, scrivere e far di conto (quello che in inglese chiamiamo illiteracy e innumeracy e in italiano diciamo, complessivamente, analfabetismo). È notevole che l'analfabetismo numerico (l'incapacità di cavarsela con una percentuale o con un grafico) non abbia neanche un nome usuale nella nostra lingua.

È grave non saper leggere, scrivere e far di conto? Per alcuni millenni - dopo che erano nati e si erano diffusi sistemi di scrittura e cifrazione - leggere, scrivere e far di conto furono un bene di cui si avvantaggiava l'intera vita sociale: era importante che alcuni lo sapessero fare per garantire proprietà, conoscenze, pratiche religiose, memorie di rilievo collettivo, amministrazione della giustizia. Ma nelle società aristocratiche a base agricola, purché ci fossero alcuni letterati, la maggioranza poteva fare tranquillamente a meno di queste capacità. I saperi essenziali venivano trasmessi oralmente e perfino senza parole. Anche i potenti potevano infischiarsene, purché disponessero di scribi depositari di quelle arti. Carlo v poteva reggere un immenso impero, ma. aveva difficoltà perfino a fare la firma autografa.. Le cose sono cambiate in tempi relativamente recenti almeno in alcune aree del mondo. Dal cinquecento in parte d'Europa la spinta della riforma protestante, con l'affermarsi del diritto-dovere di leggere direttamente Bibbia e Vangelo senza mediazioni del clero, si è combinata con una necessità creata dal progredire di industrializzazione e urbanizzazione: quella del possesso diffuso di un sapere almeno minimo. In seguito è sopravvenuta l'idea che tutti i masch i abbienti, poi tutti i maschi in genere, infine perfino le donne, potessero avere parte nelle decisioni politiche. La "democrazia dei moderni" e i movimenti socialisti hanno fatto apparire indispensabile che tutti imparassero a leggere, scrivere e far di conto. Il solo saper parlare non bastava più. E in quelle che dagli anni settanta del novecento chiamiamo pomposamente "società postmoderne" o "della conoscenza”; leggere, scrivere e far di conto servono sempre, ma per acquisire livelli ben più alti di conoscenza necessari oggi all'inclusione, anzi a sopravvivere in autonomia.

L'analfabetismo italiano ha radici profonde. Ancora negli anni cinquanta il paese viveva soprattutto di agricoltura e poteva permettersi di avere il 59.2 per cento della popolazione senza titolo di studio e per metà totalmente analfabeta (come oggi il 5 per cento). Fuga dai campi, bassi costi della manodopera,, ingegnosità (gli "spiriti vitali" evocati dal presidente Napolitano) lo hanno fatto transitare nello spazio di una generazione attraverso una fase industriale fino alla fase postindustriale. Nonostante gli avvertimenti di alcuni (da Umberto Zanotti Bianco o Giuseppe Di Vittorio a Paolo Sylos Labini), l'invito a investire nelle conoscenze non è stato raccolto né dai partiti politici né dalla mitica "gente". Secondo alcuni economisti il ristagno produttivo italiano, che dura dagli anni novanta, è frutto dei bassi livelli di competenza. Ma nessuno li ascolta; e nessuno ascolta neanche quelli che vedono la povertà nazionale di conoscenze come un fatto negativo anzitutto per il funzionamento delle scuole e per la vita sociale e democratica.

Estratti da: Regional Plan for New York and its Environs, Volume I: The Graphic Regional Plan, 1929 (Ristampa Arno Press, New York, 1974) – Cap. III: Land Uses

Titolo originale Regional Zoning – Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Gli obiettivi e le tecniche dello zoning sono descritti nel Volume IV dello Stato di Fatto Regionale. Com’è noto, si tratta di una classificazione che stabilisce i diversi aspetti normativi dei terreni edificabili. Le sue applicazioni locali devono essere gestite da quegli organi amministrativi autorizzati direttamente dagli stati a redigere piani di zonizzazione.

In pratica, nella regione di New York lo zoning è stato gestito dalle municipalità, dai distretti e dai paesi, sia come elemento di un piano completo sia come singolo intervento, composto solo da un’ordinanza e da una cartografia che ne illustrasse le previsioni. Lo zoning ha permesso di delimitare le aree ad uso industriale, terziario e residenziale. Allo stato delle cose, non è mai andato oltre la delimitazione e la regolamentazione di usi che non fossero connessi direttamente con nuove edificazioni. La questione di una possibile applicazione per preservare dall’edificazione specifiche aree, oltre a quelle già destinate a pertinenze degli edifici, richiede di essere presa seriamente in considerazione. Questo problema verrà discusso più tardi insieme alle proposte di riservare spazi aperti, soprattutto per grandi residenze di campagna, campi da golf e aziende agricole.

Oltre alle restrizioni relative agli usi dei suoli, lo zoning prescrive le altezze massime, l’area di sedime, l’allineamento e la quantità di spazi pertinenziali, tutti elementi che determinano il volume o la densità di strutture private. Trattandosi di misure di controllo della proprietà privata, è necessario che vengano rispettate le procedure, con metodi che non possano essere contestati sul piano dell’accuratezza, dell’equità e della ragionevolezza. Per questo, la zonizzazione deve essere applicata, entro il perimetro dei confini amministrativi, da quegli uffici locali che vengono delegati direttamente dallo Stato.

In una regione vasta, che comprenda molte amministrazioni locali, non è possibile che uno schema di zoning possa essere predisposto per adattarsi a più applicazioni specifiche; e in una regione come quella di New York, che si estende in tre stati, è impossibile avanzare proposte unitarie adatte alle differenti leggi e alle diverse procedure di questi tre stati. Ad una certa scala, quindi, le proposte per uno zoning regionale devono essere limitate ad un ampio disegno che misuri l’idoneità dei suoli ai diversi usi edilizi. E’ evidente che c’è bisogno di uno schema del genere che fornisca un valido aiuto alle singole municipalità, anche nel relazionare il proprio territorio con quelli limitrofi.

Di queste proposte che si riferiscono alle altezze, alle densità e ai volumi degli edifici, non si può rappresentare nulla nella Cartografia del Piano Regionale. Sono questioni che riguardano la trattazione dei principi nel Volume II del Piano, ad integrazione della descrizione della normativa e delle procedure che appaiono nel Volume VI dello Stato di Fatto.

Oltre all'impraticabilità di rappresentare in dettaglio le diverse destinazioni d'uso di ogni zona, non si trarrebbe alcun vantaggio da un procedimento del genere. Come ha sottolineato Mr. Frederick Law Olmsted, la zonizzazione regionale dovrebbe limitarsi essenzialmente a delimitare poche grandi aree, in modo da servire come guida, oppure, sotto forma di vincolo normativo, come strumento di controllo, per un successivo e dettegliato zoning locale, per dare più efficacemente possibile un contributo finale ad uno sviluppo della regione equilibrato e unitario.


Meglio le zone omogenee a forma di “cuneo”

Una caratteristica importante della mappa degli usi mostrata dal Piano è che si adegua ad un sistema radiale o ad una rete di corridoi piuttosto che ad un sistema a fasce circolari. Lì dove il termine “zoning” indica la perimetrazione di una serie di fasce concentriche intorno alla città, ognuna delle quali con una funzione prevalente – per esempio, una fascia prevalentemente residenziale o una prevalentemente industriale – viene proposto un modello di crescita urbana insolito e poco desiderabile. Solitamente, la città cresce in modo radiale lungo le linee del trasporto pubblico e le aree intermedie si saturano lentamente man a mano che nuovi mezzi di trasporto avvicinano l’un l’altro le strisce o i settori radiali.

Ci sono casi, naturalmente, in cui linee di trasporto circolari definiscono fasce urbane più o meno continue, ma si tratta di casi eccezionali. E anche se la città tendesse a crescere per fasce concentriche uniformi rispetto ad un centro, sarebbe comunque importante per la residenza e le industrie garantire una continuità radiale piuttosto che circolare.

Un esempio della necessità di definire zone omogenee a forma di “cuneo” ci è stato offerto dal rapporto preliminare per la Commissione del Piano Regionale di Long Island, redatto da Mr. Frederick Law Olmsted. Egli notò come fosse molto meglio preservare lungo le colline che si estendono dal Forest Park nel Queens fino alle montagne della contea di Nassau una zona a forma di cuneo destinata a residenze ad alta densità che mantenesse intatte le sue bellezze naturali. Dimostrò che la continuità di questo cuneo poteva essere seriamente compromessa dallo sviluppo industriale presso le paludi di Flushing e di un’area che si estendeva dalle paludi fino a Jamaica Bay. Il risultato sarebbe stato di avere un’area industriale a tagliare trasversalmente una zona che per buona parte poteva essere più adatta alla residenza.

Facciamo un altro esempio. Dal momento che vaste aree delle praterie di Hackensack sono state occupate dall’industria, sarebbe auspicabile proteggere dai confini con queste praterie alcuni corridoi altrettanto estesi, destinati a residenze ad alta densità, attraverso il Passaic River fino alle colline del New Jersey. Ma c’è pericolo che prenda piede uno sviluppo industriale pressoché continuo lungo entrambi i lati del Passaic River tra Newark e Paterson. Se questo accadesse, si creerebbe una barriera industriale in mezzo ad un corridoio residenziale che dovrebbe estendersi attraverso il Passaic River vicino a Belleville.

Provate a pensare all’effetto che potrebbe avere sulla crescita residenziale lungo la parkway della contea una fascia a destinazione industriale che si estende attraverso la Contea di Westchester, dal Sound fino al fiume Hudson. Invece, un “cuneo” radiale a uso industriale che penetra nella contea non provocherebbe alcun danno sul quello residenziale.

Lo stato di fatto per quanto riguarda la topografia, il trasporto pubblico e la domanda di servizi, mostra che una ampia classificazione dei distretti in zone omogeneee dovrebbe avvenire per “cunei”, al cui interno possono esserci adeguate variazioni in punti specifici e che siano coordinati con gli schemi di zoning che sono stati redatti per il piano di sviluppo delle fasce concentriche, come il Metropolitan Loop mostrato nella Cartografia del Piano.

Disponibilità di terreni inedificati

Prima di illustrare la descrizione degli usi del suolo, è bene porre attenzione all’ampia quantità di terreno destinato dal Piano alle aree estensive. Queste aree, che rappresentano almeno i tre quarti di una regione di 3.537.249 acri, sono, nelle idee di molti, aree più o meno edificabili. Ai più sembra inconcepibile che, in una regione urbana, un terreno possa essere proficuamente conservato o distinguersi per un uso che non comporti edificazione. Anche l’Atlante mostra vaste aree per la crescita urbana per una popolazione che è due volte quella attuale nella Regione e a questo scopo utilizza solo un quarto dell’area.

Nella Regione, si pone ormai il problema di come evitare l’edificazione lì dove non conviene e promuoverla lì dove conviene. Tutto dipende da quanto rendono i terreni edificabili e dall’uso che si fa degli spazi aperti. Si pongono anche i problemi di come lasciare libere vaste aree, che servono per residenze di campagna e istituti, e di come riservare terreni per l’agricoltura e il rimboschimento a vantaggio sia della comunità che dei proprietari terrieri.

Il problema dell’attrito tra gli spazi della residenza e i luoghi di lavoro è legato in particolar modo anche al problema dell’uso del suolo. Uno studio di questi problemi, tra loro correlati, rivela alcuni aspetti che forniscono raccomandazioni e suggerimenti per la disposizione e la distribuzione future di queste destinazioni d’uso.

Aree intensive e aree estensive

E’ sembrato utile descrivere gli usi del suolo secondo due grandi categorie: aree intensive e aree estensive. Le aree intensive sono quelle aree in cui una considerevole percentuale della superficie è coperta da edifici. Non è stata adottata alcuna percentuale specifica come parametro per distinguere le aree intensive. La difficoltà di definire un valore che permettesse una stima accurata sarebbe stata eccessiva e, comunque, un’informazione del genere sarebbe stata di dubbio valore, data la differenza dei livelli di densità delle diverse parti di un’area. Una differenza considerevole sia all’interno delle singole aree della Regione sia tra le zone centrali e quelle periferiche. All’interno delle zone centrali, comprendenti New York City, Hudson County e Newark, la crescita edilizia è più fitta e gli spazi aperti sono meno che nelle zone suburbane che si estendono dal confine della zona centrale per un raggio di 20 miglia. Allo stesso tempo, ci sono differenze considerevoli all’interno di ciascuna zona, così come esemplificato nella densità dei quartieri ad appartamenti del Bronx e del quartiere di villette del Queens. La zona periferica, comprendente tutti i terreni oltre il raggio di 20 miglia, differisce in parte per i caratteri e gli usi delle zone suburbane, ma nelle sue aree urbane raggiunge praticamente la stessa densità. La sua caratteristica più riconoscibile è la grande estensione di spazi aperti. Il massimo della varietà appare tra Manhattan Island e Mountain Lakes. Le aree estensive della prima verranno considerate come aree intensive nella seconda.

Generalmente, le aree intensive indicano un uso relativamente intenso del suolo rispetto ai comuni standard di concentrazione di edifici delle diverse parti della regione. Nelle aree ad alta densità, piccoli parchi urbani, campi da gioco, autostrade e altri tipi di spazi aperti che costituiscono il tessuto urbano di un quartiere, sono considerati come parte integrante del carattere di alta densità dei terreni vicini. Sono quindi considerati con la stessa destinazione d’uso dei terreni edificabili, cioè come una parte di un’area di crescita ad alta densità.

Nello studio degli usi, lo staff del Piano Regionale ha ricavato una grande quantità di informazioni dal rilievo regionale e da studi specifici sul campo condotti dai suoi membri durante le estati tra il 1924 e il 1927. Un aiuto prezioso è arrivato dallo studio delle carte aeree e delle mappe catastali e topografiche delle varie aree urbane. Ai fini del Piano Regionale, le aree intensive sono state classificate secondo le destinazioni d’uso terziaria, industriale e residenziale. Il termine “uso” è da riferirsi alla destinazione prevista per il terreno edificabile piuttosto che allo stato di fatto. Quindi, i terreni che sono già frazionati o stanno passando da agricoli a edificabili fanno parte di un’area intensiva. Nel caso in cui le aree vengono effettivamente indicate come edificabili, il Piano prevede a grandi linee che i nuovi volumi serviranno a soddisfare il fabbisogno per la popolazione stimata nella Regione al 1965.

Le aree estensive comprendono tutti i terreni della Regione che non fanno parte di quelle intensive. La sotto-classificazione degli usi per gli spazi aperti sono:

a) parchi pubblici;

b) le riserve d’acqua;

c) piste per cavalli e sentieri per escursioni;

d) spazi aperti semi-pubblici, come campi da golf e circoli sportivi, tenute di grandi istituti e cimiteri;

e) piste di atterraggio per aerei, pubbliche e private;

f) campi militari;

g) tenute private e poderi, comprese le aree estensive per le imprese agricole

h) spazi pubblici in prossimità dei corsi d’acqua e dei laghi

Nota: il Piano Regionale di New York del 1929 pone una questione essenziale: per risolvere i problemi dell'area metropolitana è necessario intervenire a scala più vasta. Per una migliore comprensione dei suoi contenuti, alleghiamo due file pdf scaricabili, realizzati da Fabrizio Bottini: nel primo, una breve presentazione delle strategie per il trasporto, il sistema insediativo e l'ambiente, nel secondo alcune immagini che illustrano un possibile futuro per New York (g.b.)

here English version

Tratto da: Proceedings of the Eighth National Conference on City Planning, Cleveland, June 5-7, 1916 (New York: National Conference on City Planning, 1916)

Titolo originale: Districting by Municipal Regulation – Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Gli urbanisti devono proprio ammettere che ce n’è abbastanza per dar ragione alle frequenti critiche al movimento per la pianificazione comunale in questo paese, con il risultato che di questo movimento si è tanto discusso ma che poca concreta pianificazione è stata fatta, e i risultati raggiunti sono stati ignorati.

Sono convinto che il motivo per cui si è fatto così poco è perché non siamo mai stati in grado di attuare un piano regolatore e questo è successo perché non abbiamo mai adottato un piano che suddividesse correttamente in zone le nostre città.

Abbiamo sentito questa mattina, e chi studia urbanistica questo lo sa, che se la parola pianificazione significa qualche cosa, significa principalmente diversificare – diversificare, ad esempio, l’uso delle strade, diversificare i viali e le strade locali, diversificare la larghezza delle strade.

Ma in che modo possiamo creare delle differenze nel resto del mondo se non riusciamo nemmeno a capire come farlo a casa nostra?

Questo è il problema con cui si confronta chi pianifica una città in anticipo rispetto al suo sviluppo. Quanti urbanisti possono dire con certezza quando redigono un piano: “quest’area sarà una zona residenziale e rimarrà tale. E questa parte della città sarà una zona produttiva e rimarrà tale. E quest’altra parte della città sarà una zona destinata a quartieri operai”. Sarebbe bello se potessimo fare affermazioni del genere. Parole magiche per chi si è confrontato sul campo con le difficoltà di ordine pratico.

Pianificare significa diversificare anche sotto altri aspetti. Ad esempio, differenziare la dimensione dei lotti. Il lotto per la casa di un milionario, come quelli da trecento metri che abbiamo visto oggi, sarà totalmente diverso da quello necessario per costruire la casa di un meccanico.

O ancora, avremo bisogno di un lotto dalle dimensioni differenti a seconda che si tratti di un lavoratore non specializzato, che guadagna al massimo 15 $ a settimana o di un artigiano specializzato che guadagna da 25 a 40 $ a settimana.

Ovviamente il lotto di una fabbrica sarà diverso per dimensione e forma da quello di una residenza.

Come urbanisti, ci è stato richiesto di progettare le nostre città, anche se ogni volta era impossibile sapere in anticipo quale parte della città sarebbe diventata una zona produttiva e quale una zona residenziale e se sarebbero rimaste tali per un lasso di tempo ragionevolmente lungo rispetto alla vita di quei centri.

In queste circostanze, non è così strano che, mancando quegli elementi essenziali per un corretto sviluppo dei piani, non siano stati fatti passi avanti verso una pianificazione comunale attuabile.

Con l’espressione “suddivisione in zone” intendiamo, a quanto ho capito, il dividere la città per grandi linee in quartieri o in comparti e il definirne le caratteristiche attraverso leggi e ordinanze che prescriveranno gli usi e le altezze degli edifici con criteri diversi da zona a zona, così come la quantità di spazi aperti necessaria per garantire aria e luce.

Potremo anche veder crescere un meraviglioso centro civico come è successo qui a Cleveland; potremo anche avere un meraviglioso sistema di parchi come ce l’hanno Boston e Philadelphia; o un meraviglioso sistema di edifici ricreativi come quelli di Chicago – ma tutto questo, anche se è importante, non è pianificazione. E’ solo una fase del processo pianificazione.

Non ci può essere un piano urbanistico se gli usi delle varie parti di una città non possono essere definiti con un certo grado di precisione.

Non è strano, quindi, che prima d’ora gli urbanisti non abbiano fatto molta pianificazione reale. Non è stata colpa loro. Sanno bene cosa vogliono fare, ma non hanno ancora capito cosa possono fare nelle condizioni di governo più comuni nel paese.

A causa di questi limiti, i costruttori e gli operatori immobiliari in passato hanno provato come potevano, mediante vincoli di tipo privato, a conseguire i risultati prefissati. Sappiamo tutti che questi vincoli privati, di solito, sono anche meritevoli.

Stamattina, in uno dei dibattiti, qualcuno ha domandato quando dovrebbero scadere i vincoli privati. Non si pone proprio il problema, perché sappiamo tutti che dopo 25, 50 o 75 anni di continua crescita, le condizioni cambiano e i tribunali vanno avanti, e, morto chi per primo pose quei vincoli, le corti di solito sentenziano: “non manterremo oltre questi vincoli”. Con questo non voglio dire che non ci siano molti aspetti che possono essere tranquillamente regolamentati mediante accordi privati, ma, ad esempio, per mantenere l’uso residenziale di un quartiere l’esperienza generale sembra suggerire che non possiamo contare su quello che è semplicemente un contratto privato o un accordo tra due parti. La giurisprudenza ha ripetutamente affermato che quando due parti vogliono sciogliere il contratto non c’è ragione perché questo non debba avvenire. La questione dell’interesse pubblico normalmente non viene proprio considerata.

Alcune delle difficoltà incontrate nel tentativo di definire il carattere di un quartiere imponendo dei vincoli privati sono deliziosamente illustrate da un rapporto elaborato recentemente da una commissione del Consiglio di Consulenza per le Rendite Immobiliari di New York City. Se posso, vorrei leggervi brevemente cosa ha scoperto la Commissione, che è solo la punta dell’iceberg.

Oggetto dell’indagine era quello di mettere a punto una base di lavoro ragionevole, grazie alla quale potessero essere superate le difficoltà delle convenzioni vincolanti, ma la Commissione ne ha quasi ammesso l’impossibilità, dicendo apertamente “al momento non siamo in grado di redigere una legge guida per i consorzi immobiliari, e quindi il problema delle convenzioni vincolanti in questa città diventa contraddittorio, un problema senza una soluzione”.

”Un riassunto del rapporto della commissione è un elenco di situazioni che dimostrano chiaramente le molte incongruenze delle decisioni giuridiche.

E così, i palazzi ad appartamenti sono autorizzati, nonostante i vincoli per le abitazioni nel tratto di Murray Hill, sulla Ventesima strada, a Manhattan, e sulla Settantottesima Ovest tra Broadway e Amsterdam Avenue, sulla Centoquarantesima Strada e su St. Nicholas Avenue, ma una trifamiliare non potrebbe esistere su Sedgwick Avenue e Undercliff Avenue nel Bronx; un’abitazione non può essere usata come sanatorio a Brooklyn nè un garage può essere costruito sullo stesso lotto a White Plains. Una casa popolare può essere costruita nonostante le convenzioni per abitazioni a Brooklyn ma non sulla Tenth Avenue o sulla Sessantaquattresima, a Manhattan. Un’abitazione può essere trasformata nella sede di un’impresa su Madison Avenue e sulla Quarantunesima; in una sartoria sulla Ventiquattresima Ovest; ma non in un palazzo per uffici sulla Quarantesima Ovest, né uno stilista può mettere un’insegna sulla Cinquantaduesima Ovest.

Un’infermeria può essere costruita sulla Settantunesima e su Madison Avenue, una scuderia di cavalli può rimanere tra gli appartamenti sulla Centottantanovesima Strada; una casa-albergo è autorizzata sulla Quarantatreesima e sulla Fifth Avenue, ma per acquistare pane e torte da un fornaio è meglio il Southern Boulevard. La raffineria di resine nel quartiere Erie Basin di Brooklyn non piace a nessuno, ma la sopraelevata nel Bronx è permessa. Una palazzo di uffici di venti piani può essere costruito lungo un fronte edilizio in violazione di una norma esistente sulla Ventiseiesima, maguai a chi osa tirare su un rifugio a un piano nel retro di Brooklyn. Una stazione di servizio a Broadway e sull’Ottantunesima non è conforme, ma un garage vicino alle abitazioni va bene a Flatbush.

”Sono amare considerazioni, che scoraggiano chi opera nel mercato immobiliare e chi si sente in dovere di consigliare proprietari e progettisti” dice la Commissione.

Il concetto è espresso molto più sinteticamente di come lo avrei espresso io, e vi dà un’immagine chiara dei risultati sconfortanti che emergono dalle varie interpretazioni giuridiche dei diversi contratti tra proprietari che hanno venduto per mantenere il carattere residenziale del quartiere in cui stavano costruendo e per preservarlo da ciò che ritenevano essere un danno.

Comunque, anche se l’insuccesso nel mantenimento di un uso è un problema serio, ancora più serio è che in questo sistema un vincolo privato è più che altro un’ombra sul relativo titolo di proprietà e così contribuisce a distruggere i valori immobiliari. Poche persone sono disposte a investire i loro capitali nel mercato immobiliare in circostanze come queste, in cui l’unica garanzia della stabilità del carattere residenziale di un quartiere deve essere ricercata in un accordo privato, che come già detto, è materia di controverse decisioni giuridiche.

Per dare fiducia agli investitori, una restrizione di questo tipo non deve solo essere favorevole, deve anche sembrare favorevole. E’ come un uomo che è onesto di questi tempi. Non deve solo essere onesto, deve anche sembrare onesto.

Dunque, siamo costretti ad accettare le conclusioni che Mr. Taylor ha formulato, che, per certi aspetti essenziali, possiamo controllare il carattere del nostro quartiere solo attraverso normative nazionali o comunali.

Se io suggerissi a quest’uditorio di cercare di controllare la qualità del latte venduto a Shaker Heights mediante un atto di convenzione (sic), pensereste giustamente che è una proposta ridicola.

Allo stesso modo, se si proponesse di garantire la sicurezza dei pedoni sulle nostre strade e sulle superstrade mediante accordi privati tra proprietari, messi agli atti, chiunque penserebbe che è una cosa assurda.

I tempi sono ormai maturi per chiamare gli Stati all’uso del grande potere che è nelle loro mani, affinché proibiscano ciò che sappiamo essere sicuramente dannoso per la comunità.

Sette anni fa, lo stato più a ovest, la California, progressista come sempre, ha aperto la strada ai piani per zonizzare le città. Non voglio annoiare la platea spiegando in dettaglio i piani elaborati per la zonizzazione. Si è già detto tutto più di due anni fa all’incontro di Toronto. Lasciatemi però ricordare brevemente qual era il piano per Los Angeles.

Fu approvato un’ordinanza municipale, in base alla quale la città venne divisa in tre zone principali – zona industriale, zona residenziale e quella che fu chiamata “eccezione alla residenza” una sorta di zona ibrida dove alcune industrie non dannose erano consentite.

In una delle zone che l’ordinanza definiva residenziali c’era una fabbrica di mattoni, proprietà di un certo Hadacheck, un nome destinato a rimanere celebre.

Non so se Hadacheck fosse un tipo eccessivamente litigioso, ma, ad ogni modo, era determinato a scoprire se lo Stato avesse il diritto di privarlo della sua fabbrica.

L’ordinanza in questione era retroattiva e non solo proibiva la localizzazione futura di qualsiasi fabbrica di mattoni in una zona residenziale, ma dichiarava illegittima qualsiasi fabbrica già esistente e imponeva che venissero smantellate.

Il caso fu portato all’attenzione della Suprema Corte della California e nonostante il fatto che Hadacheck riuscì a dimostrare alla Corte che la fabbrica era stata costruita lì in un’epoca in cui il quartiere non era entro i limiti del centro abitato, che esisteva da molto prima che si sviluppasse il carattere residenziale del quartiere, che il sito era molto più idoneo alla produzione di mattoni che alla residenza, che il suo investimento di 50.000 dollari sarebbe stato completamente inutile se gli fosse stato imposto di abbandonare la fabbrica – nonostante tutti questi elementi, la Suprema Corte della California stabilì che l’ordinanza era costituzionale e ad Hadacheck fu imposto di dismettere la produzione di mattoni in quel luogo.

Sull’esempio della California, ma apparentemente ignare di ciò, diverse altre città hanno emanato simili ordinanze e alcuni Stati hanno approvato leggi in materia.

Quelli di noi che credevano nel principio della zonizzazione aspettavano di vedere cosa avrebbe fatto la massima autorità del Paese, la Suprema Corte degli Stati Uniti, quando avrebbe esaminato il caso, sperando che venisse confermata la decisione della California.

A dire il vero, molti di noi non credevano che sarebbe stata confermata, anche se ci speravamo fermamente. Gli avvocati che avevamo consultato sulla costa orientale ci dissero “Si, certo, è una decisione della California, ma i tribunali qui non tengono in grande considerazione le decisioni della California”.

Eravamo ormai arrivati ad un punto in cui avremmo voluto sapere con chiarezza cosa potevamo e cosa non potevamo fare e alcuni di noi erano dell’idea che sarebbe stato saggio prendere un caso tipo e portarlo fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, in modo da chiarire una volta per tutte se fosse possibile controllare il carattere residenziale di una zona usando i poteri di polizia. Come già detto, era ora che la massima autorità del paese ci dicesse se questo era possibile e, se si, come avremmo dovuto farlo.

Ce l’hanno detto a Gennaio, quando la Suprema Corte degli Stati Uniti prese una decisione nel caso Hadacheck. Non solo confermarono la costituzionalità dell’ordinanza e che fosse legittimo l’uso dei poteri di polizia, ma scrissero una sentenza che è una pietra miliare della storia della giurisprudenza Americana, una sentenza a cui aveva lavorato l’intera Corte. Si tratta della sentenza più radicale che ho mai avuto il piacere di leggere. A mio giudizio, rivoluzionerà le condizioni di vita delle città americane e la vita quotidiana di tutti noi.

Voglio richiamare la vostra attenzione su due punti di questa sentenza che sono di particolare importanza.

Per la prima volta nella giurisprudenza americana abbiamo una legge di questo tipo sostenuta non sulla base della salute pubblica o della pubblica sicurezza ma da un principio nuovo, più generale e radicale, “il benessere generale”.

Si apre uno spiraglio, che potrebbe allargarsi molto di più. Fino a che punto, pochi di noi possono dirlo. Sappiamo tutti che i poteri di polizia sono piuttosto vaghi e non ben definiti. Le corti li hanno saggiamente mantenuti tali e all’epoca a molti sembrava che si fossero tenuti abbastanza larghi. [...].

Naturalmente, non dobbiamo fare tutto mediante regolamenti comunali. Non possiamo, ad esempio, definire lo stile architettonico nello sviluppo di Shaker Heights; non possiamo nemmeno fare in modo che le abitazioni in quella zona costino non meno di 10.000 $ o 15.000 $. Non possiamo stabilire che tutti i tetti di una certa zona debbano essere rosa, come sono in Forest Hills. Qualcuno sarà contento che non possiamo farlo.

Ci sono ancora molti altri aspetti che saranno affidati ad atti di convenzione privati. Senza dubbio molti vincoli di questo tipo avranno effetti per molti anni, e il mio consiglio a chi lottizza è di restare nei paraggi, non importa quanti siano i regolamenti comunali.

Prima di chiudere, due parole sulla mia New York. E’ stato fatto un lavoro colossale per suddividere in zone quella enorme comunità cosmopolita di oltre 5 milioni di persone e i cittadini di New York e dell’intero paese devono molto agli uomini che hanno fatto questo lavoro. Mi riferisco in particolare a uomini come Ed. Bassett, il Presidente della Commissione per la Zonizzazione di New York, che vi ha dedicato gran parte del suo tempo e non è solo bravo ma sembra anche uno bravo! Non è solo un uomo imparziale, ma sembra assolutamente imparziale; almeno a tutte le audizioni pubbliche.

Perchè, signori e signore, uno può sottoporre un caso a Bassett, tornare a Flatbush e ritornare a Manhattan per la prima udienza e Bassett ha già preso una decisione definitiva.

Uno degli aspetti interessanti del lavoro di New York è stato l’atteggiamento del pubblico. Con grande sorpresa dei membri della Commissione e dei loro amici, le maggiori critiche sono arrivate non dagli riformisti e dagli urbanisti, ma dagli operatori immobiliari e dai proprietari, e non perché le sue raccomandazioni erano troppo radicali ma perché non erano abbastanza severe.

Praticamente tutti i quotidiani di New York hanno scritto editoriali in merito quasi ogni settimana, lodando il lavoro della Commissione e sottolineando la grande importanza di vedere le sue raccomandazioni trasformate in legge.

Questo atteggiamento della stampa è dovuto in larga parte al modo intelligente in cui la Commissione si è occupata della cosa.

Così come è stata la Commissione di Bassett, è stata anche la commissione di Ford – ma non nel modo in cui pensate voi - perchè Ford, come molti di voi sanno, è stato una delle tre guide del lavoro. L’altro è stato Whitten, il segretario della Commissione. Whitten, comunque, è talmente impegnato da non poter essere qui. Non voglio dire che Ford non faccia nulla, ma qualcuno deve pur lavorare e dato che Ford è il più mondano dei due, Whitten è rimasto a casa.

Mentre organizzavo questa sessione della conferenza, ho chiesto a Ford se volesse darci qualche suggerimento su cosa dovessimo discutere in questa sessione.

Mi ha spedito cinquantasette temi, ognuno dei quali diceva essere fondamentale, per poi scoprire che ognuno di essi avrebbe impegnato in una discussione praticamente tutto il pomeriggio.

Appena seduto, lascerò a Ford qualche istante per discutere di quei 57 temi, se il Presidente gliene concederà facoltà.

Scherzi a parte, il problema a New York è di una certa dimensione e il lavoro fatto è di portata epocale. Naturalmente la Commissione è riuscita a fare la metà di quello che avrebbe dovuto fare. Gli standard che hanno stabilito non sono molti, ma non avrebbero potuto stabilirne quanto avrebbero voluto e riuscire allo stesso tempo a mantenere il consenso dell’intera comunità – gli interessi immobiliari, quelli finanziari, quelli degli edifici, praticamente di tutti. Con i loro regolamenti, non hanno fatto tutto quelle cose che qualcuno di noi avrebbe voluto facessero e che loro stessi avrebbero voluto fare, ma è un buon inizio.

Nè il merito del loro lavoro è limitato alla sola New York City. Come tante altre cose fatte in questo grande centro abitato, ciò che è fatto qui ha valore per l’intero paese. Con l’adozione di regolamenti di questo tipo a New York City, un’ondata si propagherà per tutto il paese, anche nei paesi più piccoli, un’ondata di sensibilità pubblica che porterà all’adozione di regolamenti di questo tipo.

In molte città del paese si sente dire sempre più spesso “Se lo fa New York, perché noi non possiamo?” e loro cominceranno a zonizzare le loro città.

Quella che vedo è la situazione più favorevole che il gruppo degli urbanisti abbia mai fronteggiato. Lo ripeto, siamo sul punto di assistere a un grande cambiamento nelle condizioni di vita in America. Stiamo per rivoluzionare la situazione nell’arco di una sola generazione, al punto tale che la generazione che verrà dopo di noi dirà: “Non è quella un’interessante dimostrazione della timidezza e della mancanza di coraggio degli uomini che sono venuti prima di noi? Perché mai hanno perso tempo a decidere quando avrebbero potuto iniziare a zonizzare una città?

Nota. Vale la pena evidenziare due questioni cruciali poste dalle parole di Veiller, ben sintetizzate nel titolo originale “Districting by Municipal Regulation”. La prima è di ordine semantico: il termine “districting” definisce l’azione di suddividere la città in distretti omogenei. Oggi viene spontaneo pensare alla “zonizzazione” e alle “zone territoriali omogenee”, ma il fatto che il termine “zoning” non venga mai adoperato dimostra il carattere fondativo e “pionieristico” del dibattito che si sviluppa intorno al Piano di New York in quegli anni.

La seconda questione è più sostanziale. I “vincoli privati” e le “convenzioni vincolanti” di cui si parla traducono rispettivamente “restrictions” e “restrictive covenant”. Ci si riferisce a particolari accordi privati, con i quali i primi proprietari e lottizzatori dei terreni pongono delle limitazioni che vanno dalle destinazioni d’uso fino alla manutenzione degli spazi aperti e che valevano anche in caso di vendita dei terreni e degli edifici.

Vincoli di questo genere costituivano un limite per lo zoning, che non poteva definire con sufficiente precisione gli usi delle diverse parti della città, limitando, di fatto, l’efficacia dell’intero piano. Da qui l’esigenza che alcuni aspetti essenziali venissero regolamentati solo attraverso regolamenti comunali.

Infine, vale la pena ricordare la figura di Lawrence Veiller (1872–1959), che fu uno dei maggiori esperti americani di politiche abitative. Fu segretario della Commissione per le Case Popolari dello Stato di New York e tra i promotori della prima Legge per l’Edilizia Popolare. E vale la pena ricordare che questo documento fa parte della ricca antologia curata da John Reps, liberamente accessibile on-line all’indirizzo www.library.cornell.edu/Reps/DOCS/homepage.htm. (g.b.)

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Parliamo bene, scriviamo così così. A volerla ridurre a uno slogan, spogliandola della polpa di indagini complesse, è questa la sintesi cui arriva Luca Serianni dopo un lungo ragionare sullo stato di salute dell’italiano. Serianni insegna Storia della lingua alla Sapienza di Roma (i suoi ultimi libri sono una imponente Grammatica italiana per la Utet e un’agile Prima lezione di grammatica per Laterza). È uno dei protagonisti del piccolo fenomeno cui si assiste da qualche tempo: un gran parlare e scrivere di lingua, di grammatica e di sintassi. Al Festivaletteratura di Mantova ha partecipato agli affollati incontri di "pronto soccorso" grammaticale organizzati dall’Accademia della Crusca. Da domani sarà a Pordenonelegge, dove Enzo Golino cura cinque dibattiti dedicati a "Che lingua fa?". Intanto oggi, a Modena, si apre un convegno organizzato dall’Associazione degli storici della lingua, intitolato «Storia della lingua e storia della cucina». Ma ecco anche due libri, molto diversi fra loro: L’italiano. Lezioni semiserie di Beppe Severgnini (Rizzoli) e Tra le pieghe delle parole di Gianluigi Beccaria, (Einaudi). A luglio, poi, si è conclusa la grande ricognizione sulla lingua letteraria del secondo Novecento, diretta da Tullio De Mauro (Utet). Infine fioriscono nuove edizioni di dizionari.

Perché tanta attenzione alla lingua, professor Serianni?

«In Inghilterra, dove è molto diffusa, la chiamano "fedeltà linguistica". Da noi si riteneva che l’attaccamento di solito manifestato da una comunità nei confronti della propria lingua fosse scarsissimo. E invece dobbiamo ricrederci. Qualche anno fa il libro di Bice Mortara Garavelli non sulla lingua, e neanche sulla grammatica, ma sulla punteggiatura, ha ricevuto fior di recensioni e ha venduto al di là di ogni previsione»

A cosa è dovuta questa effervescenza?

«Al fondo ci vedo un’aspirazione normativa. Si vuol sapere l’uso corretto di una forma. Poi il linguista risponde in termini storici, problematici. Generando spesso delusione».

Chissà quante volte le avranno chiesto un parere sul declino del congiuntivo.

«Lì vado sul sicuro. Il congiuntivo non è affatto morto. Un mio collega, Giuseppe Antonelli, ha adottato l’espressione "temperatura percepita". Sembra che faccia un freddo terribile e invece il termometro non va sotto lo zero. Sembra che il congiuntivo stia sparendo, ma tutte le indagini, persino quelle sulla lingua parlata, attestano, per esempio, che dopo il verbo spero il congiuntivo viene adoperato dalla quasi totalità del campione: spero che tu venga, spero che tu stia bene».

Da qui si può dedurre che l’uso dell’italiano non sia tanto sciatto quanto si dice?

«Distinguerei fra lingua parlata e lingua scritta. La prima circola ormai diffusamente. Non abbiamo mai avuto nella storia d’Italia tanti italofoni. E per ottenere questo risultato conviene pagare il prezzo di una certa semplificazione nelle strutture grammaticali. Ma tenga conto che il buon parlante non è colui che parla come un libro, ma colui che sa alternare, a seconda delle circostanze, una lingua ricca a una lingua semplificata».

E la lingua scritta?

«Il discorso è complesso. Non esiste più una lingua della letteratura, ed è la prima volta nella nostra storia. Gli scrittori tutto si propongono fuorché di essere modello. Ora occupano i diversi livelli della stratificazione linguistica e si riferiscono prevalentemente al parlato. La terza parola che compare in Come Dio comanda, il romanzo di Niccolò Ammaniti che ha vinto lo Strega, è "cazzo". È invece migliorata rispetto al passato la "lingua pubblica", la lingua della burocrazia. Le istruzioni di un medicinale, poi, sono generalmente più leggibili. Una regressione si avverte, viceversa, per la lingua scritta della scuola».

Cosa non va?

«Intanto la scrittura non è più uno dei fulcri della scuola. E poi si è allentato quel controllo che invece sarebbe necessario».

Torniamo alla matita blu?

«Sono venute meno le sanzioni. Prenda una questione apparentemente marginale: sta sparendo nella scrittura l’uso di andare a capo. I compiti in classe sono dei blocchi compatti, senza scansione. Viceversa si assiste a un recupero del passato remoto, fortemente inculcato in nome di criteri grammaticali ultratradizionali».

E per quanto riguarda la competenza linguistica, la comprensione delle parole?

«Tullio De Mauro insiste giustamente sui dati allarmanti dell’analfabetismo di ritorno: un quaranta per cento di persone in Italia fa fatica a cavarsela anche con frasi elementari. L’esperienza mi dice che molti adolescenti scolarizzati hanno problemi con dirimere, evincere, faceto, arguto. Un’attesa dubbiosa, poi, li coglie di fronte all’alternativa: legislazione o legislatura?».

La situazione peggiora?

«Se facciamo un raffronto con vent’anni fa vediamo segnali preoccupanti. Non poter capire il contenuto di un editoriale su un quotidiano impedisce di avere una visione ampia del mondo».

Qualcuno darebbe la colpa alla lingua sincopata degli sms.

«E farebbe una sciocchezza. Gli sms abituano a scrivere molto e a fare i conti con lo spazio».

Quanto resiste l’italiano ai forestierismi?

«Il francese o lo spagnolo importano meno termini stranieri. Ma questo dipende dalla storia linguistica nostra e di quei paesi. Andando nel terreno minato dell’informatica, gli spagnoli usano ratón invece di mouse. Ma in fondo in Italia continuiamo a dire memoria o allegato. Il forestierismo è come il neologismo: se occupa uno spazio vuoto resiste, altrimenti va in disuso».

Altrove si praticano interventi politici sulle lingue. In Germania è stata semplificata l’ortografia. Da noi è possibile?

«Una politica per la lingua deve tendere ad alimentare la competenza linguistica. Altra cosa è mirare a una certa igiene. Negli anni Cinquanta il linguista Arrigo Castellani scrisse al Corriere della sera invitandoli a usare sempre sopralluogo con due "l". Oggi farei una battaglia per sé stesso, che bisogna scrivere con l’accento, a differenza di quanto si prescrive anche a scuola. L’accento l’hanno sempre usato grandi firme come Oriana Fallaci o Pietro Citati. Che io sappia fra i giornali lo adotta sistematicamente solo Famiglia cristiana. Non farei una battaglia, perché non ne vale la pena, ma un qualche impegno lo metterei per imporre l’accento sui nomi propri sdruccioli. Altrimenti sbaglieremmo sempre quando dovessimo citare Àlice, un piccolo paese in Piemonte, oppure Àtena in Campania».

Titolo originale: A New Park – Ricerche, editing, traduzione, a cura di Fabrizio Bottini

Speriamo che gli sforzi per realizzare un nuovo grande Parco nella nostra Città siano coronati dal successo. È una delle cose di cui New York ha bisogno, di cui ha assolutamente bisogno. Possiede quasi tutto il resto. Le sue dimensioni fisiche iniziano a sfidare e competere con quelle delle più popolose città d’Europa. Lo spirito dei tempi è con lei. Disdegna i ritmi lenti della normale crescita, balzando in avanti nella corsa alla ricchezza e grandezza, quasi fosse sospinta dal vapore e dall’elettricità. Apre le sue porte ai figli vagabondi della terra, che qui trovano la loro casa. Preme sulle acque che la imprigionano e spinge la propria strabordante popolazione a cercar casa nelle vicine contee e stati. Importuni, uomini e imprese bussano alle porte del Common Council per il permesso di trasportare lontano a dormire il nostri concittadini, e riportarli poi la mattina per le faccende della giornata.

L’Isola che occupa è troppo piccolo per lei. Invade I fiumi, e ha ricavato nuove strade nei loro letti. L’eccesso delle navi che si affollano lungo i suoi numerosi moli, trova approdo nelle acque di Long Island o New-Jersey. Nuove, popolose città le crescono attorno, formate da chi viene sospinto oltre i suoi confine, e che può legittimamente considerare parte di sé stessa. Da un lato, un continente in crescita riversa in lei ricchezza e popolazione; dall’altro, il mondo contribuisce alle sue risorse. La situazione instabile del Vecchio Mondo, pure contribuisce alla sua crescita, accelerando e moltiplicando le prue delle navi che puntano verso il suo porto. Le sue strade si affollano sino a soffocare. Tra le ruote che scorrono, il pedone è a rischio. Su due lati del triangolo isoscele si è raggiunta la massima possibilità di crescita. In queste direzioni non è più possibile espandersi, a meno di non superare gli instabili confine del mare. Può solo crescere verso l’alto. Nuovi imponenti edifici si infittiscono, troppo numerosi per contarli. Masse solenni si ergono nel sole. Opulenza e solida grandezza si fanno sempre più visibili, giorno dopo giorno. Il nostro commercio si alimenta della linfa vitale di tutte le nazioni della terra.

Nel pieno di questa fiera lotta per la ricchezza, di questo intenso scontro commerciale, c’è il rischio che si possano dimenticare alcune delle piccole gioie e amabili aspetti dell’esistenza: quelle influenze meditative che nutrono e calmano l’anima. Siamo soprattutto alla ricerca del primato negli affari. Facciamo in modo che non sia solo così. Per quanto gloriosa sia la supremazia commerciale, per quanto indice di grandi vantaggi e poteri, ricordiamoci quanto è dovuto alla bellezza e al riposo: che esistono altri aspetti della mente da coltivare, oltre al calcolare centesimo per centesimo; qualità che il nostro successo ci consente, se lo vogliamo, di coltivare ancor meglio.

Pensiamo che, se il progetto di costituire un nuovo, grande e magnifico Parco si porterà a termine con successo, si sarà realizzato un passo importante nel distogliere l’attenzione del pubblico sul solo svolgimento degli affari: verso l’apprendere che queste attività non sono l’unico fine e scopo della vita.

Questo luogo di piacere eserciterà un’influenza benefica sulla salute della Città. Non c’è forse altra città al mondo che si collochi in una posizione tanto salubre quanto New York: affacciata sul mare su ogni lato, con due grandi fiumi che la lambiscono sui fianchi e soffiano una brezza salutare attraverso le strade, mentre l’Oceano ci permea della sua atmosfera salina, frizzante della fragranza delle onde. Nondimeno, qui esiste una grande concentrazione di umanità. Più di un milione di polmoni lavorano di continuo, giorno e notte, a respirare l’aria della città, molti dentro a vicoli affollati sino all’eccesso, a edifici colmi sino a traboccare. Non abbiamo uno spazio adatto per poter respirare. Se un uomo ci prova, a respirare a fondo, sulla Broadway, si ritrova a boccheggiare polvere, anziché ossigeno. Si può annusare un po’ di brezza sulla nobile Battery, ma ci sarà il costante viavai di carri e omnibus tutto attorno. Il commercio ha usurpato tutto lo spazio. La gloria della Battery è sparita. I nostri concittadini non la frequentano per la sosta, e per tutto ciò che riguarda salute e divertimento, un’onda si abbatte su antiche mura, invano.

Quanti pochi comparativamente i bambini che, dopo aver aperto gli occhi nei confini cittadini, riescono a sopravvivere! Non abbiamo tabelle statistiche a portata di mano, ma possiamo supporre che la gran maggioranza, prima di raggiungere il decimo anno, sia portata alla tomba. Migliaia di vite umane che, nell’aria pura della campagna sarebbero sopravvissute per contribuire alla ricchezza, al sapere e all’onore della nazione, sono così prematuramente perdute. Certo, senza alcun dubbio è vero che questa mortalità sia attribuibile a una grande varietà di cause. Ma per rimuoverle, dobbiamo combatterle una alla volta. Dobbiamo spezzare la fascina bastone per bastone. Messi tutti insieme, sono troppo resistenti per la nostra forza. Non ultima, fra queste cause, è l’aria corrotta, la reclusione all’interno degli edifici a cui sono costretti i nostri bambini. Carcerati dentro casa. Se si avventurano all’esterno, il pericolo di incidente per loro è maggiore di quanto non siano I più lenti rischi della reclusione. Quale possibilità ha un piccolo, quando sono in pericolo gli uomini più forti e attivi, dentro il flusso tonante di una legione di carri e omnibus lanciati? Vogliamo spazi pubblici per la quiete, dove possa circolare aria pura senza alcuna interferenza, che i nostri concittadini possano frequentare a scopo di ricreazione e piacere.

Infondiamo un po’ più di Campagna nella nostra Città. Lasciamo che i nostri occhi gioiscano nel soffermarsi su qualcosa di diverso dalle interminabili facciate di mattoni e pietra. Facciamo sì che nasca un luogo di bellezza naturale, verdeggiante, nel mezzo dell’attuale aridità – che accolga nel suo grembo fitto fogliame, pieno d’aria fragrante che ci distolga dai nostri troppo assorbenti affari – ben tenuto e curato; ed entro questi confine ombrosi, le magnifiche creazioni artistiche – dove il genio porta le sue offerte, e Natura e Arte si mescolano ad evocare immagini di placida e serena bellezza – egualmente aperte al ricco e al povero – a contribuire alla gioia e all’elevazione del sano e del malato, dell’uomo contemplativo come di quello d’azione.

Non abbiamo un Parco, ora, degno di questo nome, o di dimensioni commensurate a quelle della città e dei suoi bisogni. Certo ci sono alcuni giardini, che potrebbero sparire dalla sera alla mattina, se non ci fossero leggi contro i piccoli furti: graziose gemme, magnifici, squisiti. Ma New-York dovrebbe avere un Parco di dimensioni e magnificenza proporzionate al proprio rango e popolazione, e con riferimento particolare al futuro che l’aspetta. Perché New-York è così parsimoniosa con la propria terra? É forse il Mondo Occidentale troppo piccolo per i Parchi? È possibile che l’Inghilterra, con la sua popolazione tanto più densa, compressa al suo interno dall’Oceano su tutti i lati, riesca a destinare nella propria Capitale spazi pubblici consacrati al riposo, in quantità tanto maggiore di quanto non accada nel nuovo Continente?

Se il Parco di cui abbiamo valutato la possibilità non si realizza in fretta, potremmo non averlo mai più. La crescita della città è così rapida, che esso sarebbe presto occupato in ogni possibile localizzazione, gli isolati costruiti a rendere impossibile la conversione del terreno su cui si trovano a prato e verzura. Ogni momento che passa, aumentano i valori delle aree. Ogni giorno di ritardo va a serio detrimento dell’impresa. Si deve agire subito, o rinunciare per sempre.

Nota: come precisato nell'occhiello, questo dal New York Times è soltanto uno dei tanti editoriali attraverso i quali l'opinione pubblica più avanzata della città cerca di spingere l'amministrazione ad agire in favore del Parco. Un processo iniziato con una serie di interventi del poeta e intellettuale William Cullen Bryant sulle pagine dello Evening Post nel 1844, a cui si aggiungeranno altre figure di grande prestigio, fra cui il fondatore della landscape architecture moderna, Andrew Jackson Downing. Indipendentemente dal suo specifico valore nella storia del parchi urbani, il Central Park ha anche un ruolo fondativo per quanto riguarda l'urbanistica moderna: rappresenta infatti una vistosa correzione del piano esclusivamente "di mercato" per Manhattan del 1811, sottraendo all'edificazione per tempo una grande superficie baricentrica all'insediamento, e considerata all'epoca di valore relativamente contenuto a causa dell'asperità del terreno e della presenza di alcuni impianti tecnici e militari. La valorizzazione, nelle forme che conosciamo ancor oggi, avverrà alcuni anni più tardi, dopo gli espropri e il concorso bandito dalla Commissione per il progetto generale di allestimento. Questo concorso per il Parco verrà vinto dal gruppo formato da Frederick Law Olmsted (che subentra a uno degli ispiratori originari: Andrew Jackson Downing) e Calvert Vaux; un ampio estratto della loro Relazione, pubblicato dal New York Times il 1 maggio 1858, è disponibile sul Mall nella sezione Antologia (f.b.)

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Per inquadrare il potenziale ruolo innovativo degli usi civici nella riqualificazione dei territori rurali, introduco una definizione generale di “territorio” come ilbene comune per eccellenza. Il territorio è il prodotto di lunga durata di processi di civilizzazione e di domesticazione della natura che si sono susseguiti nel tempo trasformando il medesimo ambiente fisico in un evento culturale (il paesaggio urbano e rurale) attraverso relazioni coevolutive fra insediamento antropico e ambiente. Quando si parla di sostenibilità come insieme di risorse da trasmettere alle generazioni future, parliamo innanzitutto del patrimonio territoriale che ereditiamo da millenni di processi di territorializzazione. In Toscana l’impianto infrastrutturale che utilizziamo è principalmente etrusco e romano, il paesaggio che viviamo è quello del fitto reticolo di città medio-piccole medievali e rinascimentali, il paesaggio agrario storico che ammiriamo è quello mediceo-lorenese.

Questa immensa opera d’arte vivente (prodotta e mantenuta nel tempo dalle “genti vive”, come le ha nominate Lucio Gambi), il territorio appunto, deve essere considerato bene comune in quanto esso costituisce l’ambiente essenziale alla riproduzione materiale della vita umana e al realizzarsi delle relazioni socio-culturali e della vita pubblica. Territorio non è quindi soltanto il suolo o la società ivi insediata, ma il patrimonio (fisico, sociale e culturale) costruito nel lungo periodo, un valore aggiunto collettivo che troppo spesso viene distrutto, anche da amministrazioni di centro-sinistra, in nome di un astratto e troppo spesso illusorio sviluppo economico di breve periodo, finalizzato alla competizione sul mercato globale.

Mettere al centro delle politiche pubbliche il bene comune “territorio” consente di perseguire la dimensione qualitativa, non solo quantitativa, dei singoli beni che lo compongono: acqua, suolo, città, infrastrutture, paesaggi, campagna, foreste, spazi pubblici e cosi via. La soluzione delle più importanti crisi ecologiche – ecosistemi, energia, salute, clima, alimentazione, relazioni città-campagna, impronta ecologica– passa attraverso la difesa e la valorizzazione dei caratteri peculiari di ogni luogo, nelle sue componenti urbane, naturali e agroforestali, perché è nella specifica modalità di interrelazione di queste tre componenti che si fonda in ogni luogo la forma puntuale della riproduzione della vita umana materiale e sociale.

L'insieme dei beni comuni che connotano ogni luogo e la sua specifica identità, dovrebbe costituire il nucleo fondativo, collettivamente riconosciuto, dello “statuto” di ciascun luogo e dei diritti dei cittadini rispetto ai singoli beni che lo costituiscono.

I piani che regolano le trasformazioni del territorio, a tutte le scale, dovrebbero pertanto essere preceduti e coerenti con un corpus statutario socialmente condiviso che definisce, con riferimento a un orizzonte temporale di medio-lungo termine, i caratteri identitari dei luoghi, i loro valori patrimoniali, i beni comuni non negoziabili, le regole di trasformazione che consentano la riproduzione e la valorizzazione durevole dei patrimoni ambientali, territoriali e paesistici.

Ma quali elementi del territorio possono iniziare un percorso di reidentificazione collettiva come beni comuni, non privatizzabili e non alienabili? Molti sono gli elementi in via di privatizzazione e sottrazione alla fruizione e alla gestione collettiva: le riviere marine, lacustri e fluviali, molti paesaggi agroforestali recintati, molti spazi pubblici urbani (sostituiti da supermercati e mall), gli spazi aperti interclusi della città diffusa, delle villettopoli e della disseminazione dei capannoni industriali, le gated communities e le città blindate, i paesaggi degradati e anomici delle periferie urbane, la ricca rete della viabilità storica (sostituita dai paesaggi semplificati delle autostrade e superstrade) e cosi via.

In questo quadro di processi di deterritorializzazione, va sottolineato il potenziale ruolo innovativo che possono assumere gli spazi aperti agroforestalinella produzione di beni e servizi pubblici per la riqualificazione della qualità dell’abitare il territorio e la città. Ruolo che può richiamare, con forme e attori sociali nuovi, le complesse e integrate funzioni storiche di governo pubblico dei beni comuni (nella classificazione estensiva richiamata da Giovanna Ricoveri[1]), dei beni demaniali e di uso civico come classificati più specificamente, ad esempio da Pietro Nervi[2]: Inoltre diviene fondamentale il ruolo degli spazi agroforestali nella rideterminazione di equilibri sinergici fra città e territorio, e nell’elevamento del benessere delle città (l’agricoltura periurbana, i parchi agricoli multifunzionali, ecc).

Molte di queste funzioni di produzione di beni e servizi pubblici si fondano potenzialmente su microimprese a valenza etica (in campo ambientale, agricolo e sociale), in grado di riappropriarsi di saperi produttivi, artigiani, ambientali, artistici per la cura del territorio.

E’compito dei municipi, delle province e delle regioni[3], favorire l’insediamento di questi attori negli spazi agroforestali agevolandone le attività produttive, le forme associative, (contro il dominio esogeno della grande industria agroalimentare), promuovendo forme sperimentali di ripopolamento rurale nelle quali le attività di produzione di “ beni comuni” siano riconosciute per agevolare il ritorno dei giovani (incentivi per il recupero e la riqualificazione dell’edilizia rurale, dei piccoli centri urbani e delle infrastrutture storiche come i terrazzamenti, le piantate, i fossi, i canali; remunerazione delle attività di cura ambientale e del paesaggio; servizi tecnici alle aziende; agenzie locali di sviluppo; promozione di forme associative e cooperative; promozione del microcredito, tutela degli interessi dei titolari dei diritti di uso civico, ecc).

In queste linee di rinnovamento delle politiche municipali sugli spazi agroforestali, i beni demaniali e gli usi civici residui, invertendo la deriva in atto dell’alienazione e della privatizzazione[4], potrebbero essere valorizzati, in questo contesto più generale, come laboratori sperimentali per forme collettive di ripopolamento rurale; il tema della proprietà collettiva degli usi civici si potrebbe trasferire in forme associate e pattizie fra enti pubblici e produttori/abitanti per la gestione delle terre.

L’azione di ripopolamento con queste caratteristiche di uso sperimentale degli usi civici e dei beni demaniali potrebbe avere l’obiettivo di ricostrurire comunità locali consapevoli dei beni comuni e forme comunitarie per la loro cura e gestione, attivando sinergicamente funzioni produttive, energetiche, paesistiche, economiche, e di elevamento di qualità della vita delle città, rivalutando il ruolo degli agricoltori quali fornitori di beni e servizi pubblici.

In questa prospettiva che, a partire dai laboratori sperimentali dei territori gravati da usi civici, dovrebbe riconsiderare il ruolo generale degli spazi agroforestali, non è più sufficiente considerare il territorio non edificato come bene pubblico (che lo stato, le regioni e gli enti locali possono vendere per far cassa, come sta avvenendo per molti beni demaniali); occorre che sia considerato come un bene comune, che non può essere venduto né essere usucapito, alla stregua delle terre civiche storiche. Occorre pertanto ricostruire la geografia delle terre civiche e di quelle comunitarie, da usare come laboratorio di un modello di sviluppo locale alternativo, ecologicamente sostenibile.

Attivando queste politiche è possibile superare la dicotomia fra uso pubblico e uso privato del territorio e dei suoi beni patrimoniali, reintroducendo il concetto “terzo” di uso comune di molte componenti territoriali: innanzitutto riconoscendone il valore di bene (o fondo) comune dotato di autonomia rispetto ai beni privati e pubblici; e individuando forme di gestione attraverso processi partecipativi di cittadinanza attiva che consentano di riprendere il senso (non necessariamente la forma storica[5]) degli usi civici: la finalità non di profitto ma di produzione di beni, servizi e lavoro per i membri della comunità e, più in generale, beni e servizi di utilità pubblica generale; la comunità costituita da una pluralità di abitanti/produttori di una collettività territoriale, che in qualche modo si associano per esercitare un uso collettivo dei beni patrimoniali della società locale; questo uso, essendo collettivo, conforma le attività di ogni attore allo scopo comune della conservazione e valorizzazione del patrimonio, la salvaguardia e valorizzazione ambientale, paesistica, economica del patrimonio stesso in forme durevoli e sostenibili (autoriproducibilità della risorsa), sviluppando forme di autogoverno responsabile delle comunità locali.

Il problema principale di questa prospettata inversione di tendenza è infatti che non si può dare una gestione del territorio come bene comune se esso è gestito da una sommatoria di interessi individuali in una società individualistica di consumatori[6]. E’ necessario dunque che esistano forme di reidentificazione collettiva con i giacimenti patrimoniali, con l’identità di un luogo, ovvero che sia agevolato un cambiamento politico-culturale (che ho denominato coscienza di luogo [7]) attraverso processi di democrazia partecipativa che ricostruiscano propensioni al produrre, all’abitare, al consumare in forme relazionali , solidali e comunitarie[8].

La coscienza di luogo si sviluppa anche come attivazione (e riattivazione) di saperi per la cura del luogo: conoscenza densa e profonda dei valori patrimoniali dal punto di vista ambientale, estetico, culturale, economico; capacità di distinguere le trasformazioni coerenti con la loro tutela e valorizzazione da quelle distruttive; capacità di attivare saperi e tecniche per la loro trasformazione (riappropriazione di saperi ambientali, territoriali, produttivi, artistici, comunicativi, relazionali)

L’introduzione di questo terzo attore comunitario (attraverso la proprietà collettiva di beni comuni) nella gestione e governo del territorio, favorirebbe una trasformazione politica generale, nel senso di contenere i processi di privatizzazione e mercificazione di beni comuni e di riattribuire all’ente pubblico territoriale il ruolo di salvaguardia dei beni stessi e della valorizzazione del patrimonio civico; favorirebbe inoltre la ricostituzione di momenti comunitari di gestione delle risorse favorendo la crescita di economie solidali nel campo alimentare, ambientale, paesistico, turistico, artigianale, culturale, formativo

[1] “una prima categoria include l’acqua, la terra , l’aria, le foreste e la pesca e cioè i beni di sussistenza da cui dipende la vita….saperi locali, spazi pubblici, biodoversità;…spazi di autorganizzazione delle comunità locali; una seconda categoria comprende i beni comuni globali come l’atmosfera, il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace… su cui non esistono diritti comunitari territoriali; una terza categoria è quella dei servizi pubblici: acqua, scuola, sanità, trasporti…”

G. Ricoveri, “Il passato che non passa” in: G. Ricoveri, Beni comuni fra tradizione e futuro,EMI, Bologna 2005

[2] a) produzione di beni: forestali legnosi e non legnosi, pascoli, frutti, selvaggina, prodotti dl sottobosco, qualità e tipicità alimentare, risorse del sottosuolo; reti corte di produzione e consumo, produzione energetica locale; b) produzione di servizi naturali finali: salvaguardia idrogeologica e valorizzazione dei sistemi fluviali, produzione di equilibri ambientali, conservazione della biodiversità, fruizione escursionistica, caccia e pesca, funzioni culturali (informazioni ecomuseali), funzioni estetico-paesaggistiche ; c) base territoriale di risorse naturali e antropiche trasmissibile alle generazioni future: il carattere intergenerazionale del demanio e degli usi civici ne determinano il carattere “costituzionale” di autosostenibilità nella riproduzione temporale delle risorse. In: Pietro Nervi, “La gestione patrimoniale dei demani civici fra tradizione e modernità” in G. Soccio (a cura di), Terre collettive ed usi civici , Edizioni del Parco del Gargano, Foggia 2003

[3]“In questo spirito, invitiamo gli Enti Locali (Comuni, Province e Regioni) a salvaguardare e difendere gli usi civici presenti nel loro territorio, garantendone in primo luogo l’inalienabilità e la proprietà collettiva, contro il moltiplicarsi degli abusi e delle usurpazioni di interesse esclusivamente privato che oggi vi allignano e, d’intesa con i legittimi proprietari e le comunità locali, a favorire e promuovere forme innovative di gestione associata e cooperativa di questo patrimonio ai fini della salvaguardia e valorizzazione ambientale ed ecologica del territorio” (appello contro la privatizzazione degli usi civici promosso dall’associazione Ecologia Politica, 1995)

[4] “La Regione Toscana ha proceduto alla messa in vendita del patrimonio agricolo e forestale, attraverso la legge 9 del 29 gennaio 1997. Dopo avere reso disponibile ciò che fino a qualche anno prima faceva parte del demanio pubblico, gli enti locali hanno fatto un inventario dei loro beni individuando quelli suscettibili di vendita. La cultura della privatizzazione risulta ben evidente dal titolo stesso della legge dove si parla di “valorizzazione ed alienazione”: non può esistere valorizzazione senza appropriazione da parte di soggetti privati. Con questo orizzonte culturale, la legge ha permesso la vendita, in due successivi bandi, di circa 345 beni, comprati in parte dai concessionari (40%) e da soggetti stranieri (5%)”.

Riccardo Bocci, La privatizzazione delle terre pubbliche in Toscana , Relazione al Seminario:”Terra e usi civici in Italia”,Ecologiapolitica. Ricerche per l’Alternativa, in collaborazione con la Rete del Nuovo Municipio, Terra Futura, Firenze l’8 aprile 2005.

[5] ..”le comunità titolari dei diritti civici non esistono più, talora fisicamente – perché i vecchi contadini sono morti o sono emigrati lontano, in città – talora culturalmente – perché non sanno e non sono interessati a sapere dei diritti che pur potrebbero esercitare. La proposta che Ecologiapolitica avanza in proposito è quella di mantenere ferma la destinazione d’uso e il vincolo di incommerciabilità dei demani civici e insieme di iniziare a ricostituire le comunità proprietarie, associando in tutte le forme possibili i soggetti che vi hanno titolo – affidando per esempio la coltivazione delle terre e la manutenzione dei boschi a cooperative concessionarie, garantendo loro tutti i finanziamenti reperibili ed i servizi minimali: la casa, mediante l'acquisizione e il restauro degli abitati abbandonati; le strade, che vanno di regola risistemate e non solo per le gite domenicali; le scuole, che vanno riattivate, ecc., in modo che su queste terre si possa condurre una vita civile, traendone reddito ed assicurando nel contempo una gestione conservativa dell'ambiente”. In: G. Ricoveri, relazione al seminario Terra e usi civici in Italia, seminario Terra Futura cit.

[6] “fondamentali sarebbero, ove venisse attuato il ruolo della pianificazione paesistica, la tutela e la valorizzazione della proprietà collettiva….sono proprio le terre collettive a evidenziare che nessun funzionamento, normativa, azione di controllo, riuscirebbero a gestire correttamente l’uso sociale del territorio in assenza di consapevolezza da parte dei residenti e quindi di impegno da parte delle amministrazioni comunali” Pietro Federico, “Usi civici e ambiente” in Serafina Bueti (a cura di ) Usi civici, Grosseto, 1995

[7] vedasi il mio: Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000

[8] Il processo partecipativo deve consentire di avviare processi di trasformazione di produttori alienati e atomizzati, consumatori passivi, appendici della democrazia televisiva, in cittadinanza attiva in grado di associarsi per la gestione e la produzione dei beni comuni, di decidere sul futuro delle città, di ricomporre le figure di produttore, abitante e consumatore ricostruendo identità comunitarie e relazioni sociali capaci di autogoverno e di pensare collettivamente futuro e di praticarlo.

L’homo civicus si da in una società civile che si associa e si occupa, attraverso un patto fra individui, gruppi, rappresentanze di interessi, della cosa pubblica.

Titolo originale Beneficial effects of zoning plan - Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Il programma delineato dalla Commissione per le altezze degli edifici e lo zoning ha ricevuto il consenso di chiunque vedesse i propri interessi toccati dalla zonizzazione e l’approvazione è stata data proprio a causa di un interesse personale.

Vorrei fare alcune considerazioni positive sul piano, sotto più punti di vista, perché credo ne trarranno largo beneficio non solo quei quartieri in cui vengono impedite le cosiddette “attività indesiderate” ma anche quelle zone in cui tali usi saranno consentiti. La Commissione per lo zoning ha fatto anche un ottimo lavoro delimitando quei quartieri in cui la manifattura può essere consentita o meno.

Un grave danno è stato arrecato in passato non tanto dalla costruzione di fabbriche in certi quartieri quanto dai continui cambi di localizzazione di tutti i tipi di attività commerciali. E infatti il piano di zonizzazione dice che “ sarà consentita l’espansione commerciale nei quartieri in cui quest’uso è già presente, ma dovrà rimanere entro questi quartieri e dovrà cessare la sua costante delocalizzazione”. Il piano per “ salvare la Fifth Avenue” è un semplice aspetto, anche se interessante, di un’idea più complessa.

A questo punto, quale sarà l’effetto sul mercato immobiliare di Manhattan? La mia personale opinione, basata su venticinque anni di esperienza, è che alla fine gli affitti e i valori di mercato si ri-stabilizzeranno in tutte le zone commerciali.

Credo che nei vecchi quartieri, dalla Trentatreesima Strada fino a Chambers Street, i valori aumenteranno gradualmente fino a riallinearsi a quelli vigenti prima che le attività commerciali si trasferissero verso nord. I quartieri di più recente costruzione, dalla Trentatreesima strada fino alla Cinquantanovesima, aumenteranno il loro valore più rapidamente di quanto sia avvenuto in passato e, una volta stabilizzati, i valori immobiliari di entrambi i quartieri si manterranno costanti nel tempo.

Il piano di zonizzazione è la soluzione di uno dei più grossi problemi che New York abbia mai affrontato in molti anni. Tutti sanno che i valori immobiliari si abbassano da Chambers Street verso la Trentatreesima strada, con l’eccezione della Fourth Avenue, proprio a causa del continuo spostamento dei centri di attività commerciale. Nella zona di Broadway, da Chambers Street fino alla Quarantesima strada, i valori sono crollati dappertutto, con percentuali che variano tra il 40 e il 70 per cento.

L’area tra la Quattordicesima e la Trentesima Strada, anche se non nelle stessa misura, ha perso abbastanza valore da bloccare qualsiasi investimento e da provocare un mancato introito per la città di milioni di dollari.

”Salviamo New York”, lo slogan dei commercianti della Fifth Avenue, non viene vale soltanto per quell’area. Il piano di zonizzazione salverà l’intera New York, perché recupererà tutte quelle grandi aree a sud della Trentatreesima Strada, oggi a rischio per il costante spostamento dei centri di attività commerciale.

Il piano di zonizzazione prevede, logicamente, per questi vecchi quartieri una destinazione d’uso commerciale, dato che già oggi gli scambi e la produzione tendono a concentrarsi qui.

Il ritorno dei commerciati in quei quartieri che sono stati migliorati apposta per loro, tra la Quattordicesima e la Ventitreesima strada, significa che gli spazi oggi sfitti verranno presto riutilizzati. Gli affitti, così, aumenteranno e i valori immobiliari di conseguenza ricominceranno a salire.

Con l’aumento della domanda, si costruiranno nuovi edifici e ci saranno strutture progettate appositamente per l’uso previsto, dalle quali si trarrà il maggior guadagno possibile. In questi quartieri è previsto di limitare la manifattura in certe zone lungo Broadway, Fifth Avenue e Madison Avenue e lungo tutta la Fourth Avenue.

Credo che la zona tra la Quattordicesima e la Trentatreesima strada, lì dove la manifattura sarà consentita dal piano di zonizzazione, diventerà zona di rifornimento per la grande area di commercio al dettaglio subito a nord e sarà il mercato di riferimento per la vendita al dettaglio in tutto il paese. Sarà, consentitemi l’espressione, il quartiere manifatturiero di classe di New York.

Ci sarà competizione per accaparrarsi gli edifici meglio posizionati e, poichè l’area è decisamente limitata, non ci sono dubbi sul fatto che i valori aumenteranno con regolarità.

La riqualificazione del quartiere a sud della quattordicesima strada è già nei fatti. Le cronache delle ultime settimane hanno registrato l’intenzione di molti grossi proprietari di valorizzare i loro terreni con edifici dotati di moderne strutture antincendio per destinarli alla manifattura leggera.

La parte bassa della zona commerciale deve praticamente essere ricostruita, dato che gli edifici esistenti sono completamente inadeguati e non rispondono ai severi requisiti richiesti per la sicurezza richiesti dai vari dipartimenti. E dato che i valori dei terreni in questa zona sono più bassi che altrove i margini di guadagno per costruire sono sicuramente più alti.

Oltre al piano di zonizzazione, la nuova metropolitana di Broadway riuscirà senza dubbio a riportare la produzione in quest’area. Dichiarazioni ufficiali del Dipartimento delle Finanze dicono che l’anno scorso i valori di questa zona hanno raggiunto il livello più basso ma che la tendenza al rialzo è già evidente.

Sono completamente d’accordo, e credo che, anche se non si ritornerà ai valori del passato con la stessa rapidità con cui sono scesi, credo che il ripopolamento dei vecchi quartieri commerciali porterà ad un costante aumento di valore.

Chi investe con i valori di oggi trarrà grandi soddisfazioni dai propri investimenti.

here English version

Sempre sull’introduzione dei principi di zoning nel piano di New York trovate qui un altro articolo pubblicato sul New York Times. E qui un brano tratto dal libro di Franco Mancuso “Le vicende dello zoning” (g.b.)

Titolo originale: "A city of homes" Aim of zoning plan - Traduzione per eddyburg di Giorgia Boca

Una vita domestica decorosa e confortevole la chiave di lettura del rapporto della Commissione - Le fabbriche danneggiano la residenza - L’insalubrità e la mancanza di igiene sono causate dalla mancanza di aria e luce nei quartieri sovraffollati.

La Commissione per la suddivisione in distretti e le restrizioni alle costruzioni consegnerà domani la bozza del suo rapporto alla Commissione Bilancio, contenente le raccomandazioni riguardanti i regolamenti per contenere le costruzioni in alcune zone, limitando le altezze degli edifici, e più in generale per mantenere stabili i valori immobiliari e promuovere l’igiene e la bellezza dell’ambiente urbano.

Il rapporto rileva come nel costruire la città anche una pianificazione insufficiente sia meglio di niente e come nella crescita di New York non sia stato seguito alcun piano. La città ha ormai raggiunto un punto oltre il quale la crescita non pianificata non può non portare al disastro economico e sociale. Già oggi, a causa di una crescita edilizia casuale e del diffondersi di usi inappropriati – rileva la commissione – il valore capitale di intere aree si è fortemente svalutato.

“Mentre a New York le forze economiche spingono a concentrare le grosse fabbriche lungo i corsi d’acqua e presso i terminal ferroviari e a concentrare alcune piccole industrie in prossimità del commercio all’ingrosso e al dettaglio, di hotel e dei terminal passeggeri nel centro di Manhattan, ci sono molti altri tipi di piccole attività che non hanno vincoli di alcun tipo e vengono localizzate indiscriminatamente per tutta la città” dice il rapporto. “Le fabbriche danneggiano il tessuto residenziale. Distruggono le comodità, la quiete e i vantaggi della vita domestica. Non c’è nulla di più vitale per una città dell’abitare della propria popolazione. Non c’è nulla di più essenziale per garantire la qualità dell’abitare che escludere i traffici commerciali e la produzione industriale dalle strade residenziali.

Una decorosa vita domestica la chiave di lettura

Il rapporto spiega nel dettaglio questo disagio ed è proprio l’importanza di condizioni opportune per la vita domestica la chiave di lettura. Il problema del sovraffollamento è strettamente connesso alla localizzazione degli spazi per gli scambi e per la produzione. La commissione rileva come in molti casi è il costruttore che specula il principale responsabile del posizionamento del primo edificio in un isolato. Il primo ha luce e aria in abbondanza e lo spazio al piano terra si affitta con facilità. Seguono poi gli altri e i loro costruttori non hanno motivo per tenere le altezze più basse o dotarli di più ampi cortili o corti interne rispetto al primo. Aree di questo tipo sono cresciute per singole aggiunte successive e molte sono ormai al punto di rimanere soffocate dalla propria stessa crescita.

“L’attrattività sociale ed economica di edifici contenuti in altezza e dotati di un minimo di cortile o di spazi aperti è stata chiaramente riconosciuta dalle case-appartamento promosse dalla legge sull’edilizia popolare”, continua il rapporto. “Se un regolamento simile fosse stato adottato per gli uffici e i laboratori si sarebbero evitati gravi danni. Solo attraverso un piano che divida l’intera città in zone, gli utili principi contenuti nella legge per l’edilizia popolare possono essere mutualmente applicati a tutti i tipi di edifici in ogni parte della città. Si dovrà procedere prima ad un raggruppamento parziale degli edifici in relazione all’uso e poi ad una differenziazione delle altezze e delle previsioni di spazi aperti, in conformità con l’intensità d’uso, attuale e prevista, nelle varie parti della città”.

La Commissione ritiene che un piano per zone omogenee consenta di stabilire norme appropriate e ragionevoli per ogni singolo edificio e, allo stesso tempo, di garantire la sostanziale uniformità normativa relativamente ad altezze e spazi aperti per tutti gli edifici dentro un unico isolato. Ma questo piano guarderà anche al futuro. La difficoltà del piano, comunque, è che non si possono radere al suolo gli edifici né si possono mettere in discussione i diritti acquisiti per ripartire da zero. Il piano deve partire dalle condizioni esistenti. La Commissione ritiene, tuttavia, che senza dubbio alcune norme porteranno mutui benefici sia ai proprietari che alla collettività. Le proposte relative alle zone omogenee, perciò, si limitano a dare solo quelle indicazioni che la magistratura competente può considerare contemplate dalla legge. Il regolamento proposto si applica solo alle future costruzioni e ai relativi usi.

Lo spazio per le abitazioni è salvo

Il piano di zonizzazione divide la città in aree residenziali, aree per il terziario e aree senza restrizioni. Nei quartieri residenziali il piano lascia alle abitazioni i fronti stradali dovunque sia possibile. I viali e le strade principali vengono incluse quasi sempre nei quartieri d’affari, dato che la destinazione d’uso a uffici sul viale si può estendere per circa 300 metri sul retro delle strade residenziali. Nei quartieri meno costruiti è sembrato realistico destinare solo seconda o terza strada ad uffici. Un piano complessivo per il futuro assetto della città non è stato ancora elaborato.

Un piano complessivo per i porti e le attrezzature ferroviarie non è stato ancora messo a punto. Lo sviluppo futuro dei parchi non è stato ancora approfondito. Per questo un uso realistico o auspicabile per molte aree è ancora estremamente incerto e il rapporto cita ad esempio le aree intorno Jamaica Bay e Gravesend Bay e la riva sud di Richmond. Di conseguenza queste e alcune aree in simili condizioni non sono state classificate e non sono state poste restrizioni.

Sono previsti cinque limiti di altezza. L’altezza dell’edificio viene limitata in relazione alla larghezza della strada. I multipli variano da due volte e mezzo la sezione stradale, nei quartieri d’affari e finanziari di Manhattan, a una volta la sezione stradale in molti quartieri non edificati negli altri quattro distretti.

La Commissione, comunque, ha attenuato la rigorosa applicazione di questo principio stabilendo che, per calcolare l’altezza limite sulla base della larghezza della strada, una strada più stretta di 15 metri deve essere considerata come una di 15 metri ed una strada più stretta di 30 metri deve essere considerata come una di 30 metri

Consentiti edifici fino a 20 piani

Per una parte dell’area della Fifth Avenue vengono proposti i limiti di un quarto e di una volta e mezzo la sezione stradale. L’altezza di due volte la larghezza della strada è consentita in una stretta fascia sul waterfront di Manhattan e lungo l’East River waterfront di Brooklyn, Queens e nel Bronx; anche per una piccola area intorno gli uffici principali e il centro d’affari di Brooklyn. Nelle zone dove il limite è due volte la larghezza delle strade da 18 metri, gli edifici possono arrivare a 36 metri, o circa 10 piani, sul fronte stradale e, arretrando di circa 4 metri, possono salire di altri 4 piani oltre quell’altezza.

Sulle strade di 30 metri gli edifici possono arrivare a 60 metri, o circa 16 piani, sul fronte stradale e, arretrando di circa quattro metri, possono salire di altri 4 piani oltre quell’altezza.

L’unico distretto in cui viene proposta un’altezza limite di due volte e mezzo la sezione stradale è l’area degli uffici della Lower Mahattan. L’altezza di due volte la larghezza della strada è consentita nelle aree residue dei quartieri commerciali e industriali più intensamente sviluppati, in un’ampia fascia nel centro dell’isola, dalla parte più bassa della città fino alla Cinquantanovesima Strada.

Quando lo zoning diventa strumento per un ordine razziale oltre che edilizio: un brano tratto da "Le vicende dello zoning" di Franco Mancuso. (g.b.)

here English version

[...] E’ nel quadro della “democrazia politica” che si afferma necessariamente il principio della “urbanistica democratica”. Ed allora possiamo affermare che l’urbanistica democratica o è urbanistica partecipata o non è.

Ritornando alle nostre iniziali riflessioni etimologiche, ritroviamo dunque la pienezza del principio di democrazia espressa dalla polis greca come comunità autonoma di cittadini liberi e sovrani, dalla cui assemblea promana l’organizzazione della città.

Il riferimento simbolico alla polis non deve però cedere alla tentazione della semplificazione. La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie.

Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione. [...]

Si veda il testo integrale della relazione di Silvano Bassetti L’urbanistica partecipata: Ossimoro o tautologia? (2001)

Non c’è nulla che non possa essere cambiato da una consapevole e informata azione sociale, provvista di scopo e dotata di legittimità. Se la gente è informata e attiva e può comunicare da una parte all’altra del mondo; se l’impresa si assume le sue responsabilità sociali; se i media diventano i messaggeri piuttosto che il messaggio; se gli attori politici reagiscono al cinismo e ripristinano la fiducia nella democrazia; se la cultura viene ricostruita a partire dall’esperienza; se l’umanità avverte la solidarietà intergenerazionale vivendo in armonia con la natura; se ci avventuriamo nell’esplorazione del nostro io profondo, avendo fatto pace fra di noi; ebbene, se tutto ciò si verificherà, finché c’è ancora il tempo, grazie alle nostre decisioni informate, consapevoli e condivise, allora forse riusciremo finalmente a vivere e a lasciar vivere, ad amare ed essere amati.

Dopo aver descritto il grande piano per Chicago di Daniel Burnham, Patrick Abercrombie affronta per i lettori della Town Planning Review un altro grande esperimento della City Beautiful americana: il cosiddetto “McMillan Plan” per Washington, dal nome del senatore che si impegnò per realizzarlo. Protagonista, ancora, Burnham, e insieme a lui un architetto americano di formazione europea, McKim, e il paesaggista Frederick Law Olmsted Jr. Come aveva ricordato Charles Reilly nell’introduzione a questa breve serie di articoli, parlare di “american planning” significa, spesso, trattare di architetture, prospettive, vedute, e non certo delle questioni sociali come la casa o l’igiene, che sono al centro del dibattito europeo.

E, come il lettore può scoprire da solo, nel caso di Washington Abercrombie orienta la sua prosa sempre più verso la critica di architettura, lasciando ai margini (quantitativamente, ma non qualitativamente) osservazioni di tipo urbanistico come per esempio gli strumenti di attuazione. (fb)

Patrick Abercrombie, “Piani regolatori in America – Proposte di trasformazione a Washington”, The Town Planning Review, luglio 1910 (traduzione di Fabrizio Bottini)

Uno studio sulla città di Washington è particolarmente interessante in questo momento, in vista delle proposte per una capitale dell’Australia, e le stesse vicissitudini attraverso cui è passato questo piano suggeriscono spunti e cautele di grande valore per altre città. In generale, si può dire che tutte le caratteristiche di nobiltà possedute ora da Washington si devono al suo piano originario, e ovunque ci siano state divergenze rispetto ad esso i risultati sono stati deplorevoli. Le proposte attuali sono di ritornare per quanto possibile al progetto originario e di arricchirne e ampliarne gli obiettivi, senza alterarne il carattere originale.

Un altro elemento interessante per noi, sta nel fatto che queste proposte, vecchie ora di circa otto anni, sono state in generale adottate, e molte di esse messe effettivamente in pratica, compresa quella che a un orecchio inglese suona come la meno praticabile dell’intero progetto: la rimozione totale di una grande stazione ferroviaria di testa da una parte della città, e il concentramento di tutte le linee in ingresso in una sola stazione unificata. Questo ora è un fatto compiuto, e un esempio di praticabilità anche per le ipotesi più audaci.

La nostra descrizione del caso di Washington si limiterà quasi solo a considerare la zona centrale, che con la sua concentrazione di edifici pubblici costituisce la vera e propria “Città Capitale”, essendo questa la caratteristica distintiva di Washington, così come i problemi del transito commerciale erano quella di Chicago.

Il soggetto si articola naturalmente in tre sezioni: 1) Un esame del piano originario di Washington progettato dal Maggiore L’Enfant e realizzato fra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo; 2) Le variazioni rispetto al piano, nella crescita della città durante il XIX secolo; Il Rapporto della Commissione nominata allo scopo di suggerire miglioramenti, il recupero e ampliamento del piano L’Enfant, i lavori già realizzati secondo le raccomandazioni della Commissione.

Il rapporto conclusivo dei Commissari affrontava anche la questione generale di Washington, cresciuta sulle colline che circondavano la pianura dove L’Enfant aveva disegnato la sua Capitale. Per la zona, si è preparato un piano urbano, indicando come questa crescita dovrebbe essere controllata. Non ci proponiamo di analizzare questo piano, con l’eccezione del sistema di parchi, che proponiamo come esempio, degno di ammirazione, di pianificazione americana, e in relazione a Washington come città, indipendentemente dal suo ruolo di capitale.

Il sito per la Capitale Nazionale degli Stati Uniti fu scelto da Washington nel 1790. Occupava un’area di circa 250 chilometri quadrati, su entrambe le sponde del fiume Potomac, e fu ceduta dagli Stati del Maryland e della Virginia. Alla fine la parte della Virginia, a sud del fiume, fu restituita, con l’eccezione del cimitero di Arlington; restò una superficie di circa 170 chilometri quadrati, comprendente quello che è ora noto come District of Columbia. Non costituisce municipalità, dato che i cittadini non votano né controllano le questioni locali, ma il distretto è governato da Commissari nominati direttamente dal Presidente e dal Congresso. Questo tipo di organizzazione senza dubbio faciliterà la messa in pratica di qualunque piano generale di trasformazione.

Il Piano di L’Enfant

Cinquanta chilometri quadrati del distretto formano una pianura solo lievemente ondulata, delimitata su due dei lati dal fiume Potomac e dalla sua diramazione orientale, l’Anacosia River, e sugli altri due dal Rock Creek e da ripide colline. Questo fu il luogo scelto da Washington per la Città Capitale, e a Peter Charles L’Enfant, un maggiore del Genio Francese, fu commissionata la stesura di un piano.

L’Enfant probabilmente conosceva bene i grandi giardini francesi, e poteva aiutarsi con la collezione di mappe delle città che Jefferson, il Segretario di Stato, aveva raccolto in Europa. Dunque, per primo si considerò l’aspetto monumentale del piano. L’idea centrale consisteva nella correlazione reciproca che avrebbe dovuto esistere fra gli edifici pubblici, suddivisi fra due centri di importanza, il legislativo e l’esecutivo. Questi due centri avrebbero dovuto essere circondati da propri gruppi di edifici dipendenti, e da essi si sarebbero irradiate le principali strade della città; essi avrebbero anche dovuto essere collegati l’un l’altro, uniti da giardini, canali, viste sul fiume, così da formare un unico e coerente insieme artistico.

L’edificio legislativo, il Campidoglio, era collocato su una collina naturale, con l’asse puntato su un vasto viale, il Mall, diretto a ovest verso il fiume; l’edificio esecutivo, la Casa Bianca, era collocato su un asse nord-sud, perpendicolare al primo e spostato a ovest; all’intersezione fra questi due assi doveva essere collocata una statua equestre di George Washington. Una strada diagonale, la Pennsylvania Avenue, collegava direttamente Campidoglio e casa Bianca. In questo modo la composizione formava un triangolo rettangolo, con i due edifici principali piazzati a ciascuna estremità dell’ipotenusa, e il monumento sull’angolo retto.

Entrambi gli edifici si affacciavano su un’ampia parkway, il più vasto spazio aperto della città, pensato per offrire un nobile contesto a queste due caratteristiche dominanti della Capitale. Da essi si irraggiavano anche dei viali, a formare le vie principali della città. Che questo non fosse un semplice “piano accademico”, è dimostrato dal fatto che le intersezioni dei viali erano studiate a formare piazze su spazi la cui posizione era determinata dal loro definire una particolare prospettiva, o da altri vantaggi naturali. Massachusetts Avenue, una delle arterie più importanti che non si irradia dal Campidoglio o dalla Casa Bianca, fu così progettata per generare incroci su questi “predeterminati” punti. Questo metodo pratico, è descritto a margine della mappa di L’Enfant, col titolo di “Osservazioni esplicative del Piano”.

1) Le posizioni dei differenti edifici, e delle molte piazze e spazi di diversa forma, così come disegnati, furono in primo luogo definite sui terreni più favorevoli, secondo le visuali prospettiche più ampie, e il più possibile suscettibili a quei miglioramenti che uso o abbellimento possano suggerire in futuro.

2) Le linee dei viali di comunicazione diretta sono state studiate per unire gli oggetti più lontani e separati coi principali, e inoltre per mantenere attraverso il tutto una reciprocità di visuale.

3) Le direttrici nord e sud, tagliate da altre in direzione est e ovest, costruiscono una distribuzione della città secondo strade, piazze, ecc. e queste linee sono state combinate in modo da incontrarsi in certi punti coi viali divergenti, così da formare sugli spazi “predeterminati” le diverse piazze o aree.

L’ultima sezione divide l’intera città secondo una griglia normale agli assi principali di Campidoglio e Casa Bianca. I quadrati della griglia non sono tutti della stessa dimensione; sono sistemati per quanto possibile a formare isolati regolari all’incrocio delle due avenues diagonali.

Le due imperfezioni del piano di L’Enfant sono l’asimmetricità della composizione centrale – il triangolo rettangolo – e la carenza di relazione fra la “Griglia” e i viali diagonali. Il lato ipotenusa, Pennsylvania Avenue, con la visuale contenuta su entrambe le estremità da una vista laterale del Campidoglio e della Casa Bianca, naturalmente diventa la via principale della città; ma la sua complementare a sud del Mall, Maryland Avenue, disegnata secondo linee egualmente ampie e generose, non ha uno scopo particolare, col risultato che se sull’una si allineano importanti edifici, l’altra scade in una strada residenziale secondaria. C’è di fatto la forte sensazione che la Casa Bianca debba essere controbilanciata a sud da un altro edificio, o monumento, in un punto che nel piano di L’Enfant sarebbe collocato nel fiume.

L’altra imperfezione, la griglia, su cui i viali diagonali sembrano sovrapposti, ha come risultato quello di produrre goffi lotti triangolari sulle vie principali. Lo si nota in modo particolare su Pennsylvania Avenue, ed è pregiudizievole a qualunque realizzazione monumentale continua. Nelle città antiche, quando le vie diagonali devono essere tracciate attraverso un sistema esistente di strade ad angolo retto, questi angoli sgraziati sono inevitabili (la Avenue de l’Opera a Parigi è un esempio di come si sia superata la difficoltà nel modo migliore possibile), ma disegnando un piano per una città nuova le strade laterali ovunque possibile dovrebbero essere ad angolo retto col viale principale.

Con queste eccezioni, l’idea è magnifica. La nobile ampiezza del Mall (450 metri), la sua progettazione, come largo viale alberato al centro, con edifici monumentali collocati su ciascun lato. La posizione del Campidoglio sulla sua collina che guarda verso il Mall e il fiume. La logica “reciprocità” fra i centri del Legislativo e dell’Esecutivo e il loro simbolico punto di incontro sulle linee delle due grandi prospettive, al monumento di Washington. Tutto questo rende il piano per Washington uno dei più grandi risultati dell’urbanistica.

Il Diciannovesimo Secolo

Il piano di L’Enfant fu disegnato più o meno nell’anno 1800, e per quanto riguarda la direzione dei viali principali, le piazze e spazi aperti ai loro incroci, la zona del Mall e gli spazi degli Esecutivi, oggi è realizzato.

Fortunatamente, anche i due edifici principali furono collocati secondo il piano L’Enfant, e in uno stile architettonico ad ogni modo adatto ad esso, di guida per edifici futuri. Il Campidoglio è stato più volte ingrandito e alterato, ma il risultato è piuttosto soddisfacente. Le ali laterali e l’alta cupola furono aggiunti nel 1851 da T.U. Walter, ed è improbabile che l’aspetto esterno venga fisicamente modificato, ora.

La Casa Bianca, d’altra parte, ha subito parecchie trasformazioni, ma sono di carattere tale da poter essere spazzate via in qualsiasi momento.

Con queste eccezioni il significato e l’idea di fondo del piano di L’Enfant per la zona centrale sembra siano stati completamente persi di vista durante il diciannovesimo secolo. Il Mall era considerato semplicemente un parco a cui capitava di trovarsi in un posto vicino al centro città. È quasi incredibile per noi, guardando al piano di L’Enfant e alle proposte della Park Commission per il suo ripristino, quanto totalmente siano state abbandonate e dimenticate le sue relazioni col Campidoglio. Ne furono cedute in uso strisce a varie istituzioni, che ci collocarono edifici a caso, con giardini progettati secondo le migliori linee del pittoresco, senza nessun riguardo per il Campidoglio che li sovrastava. Infine, si consentì a una ferrovia di stendere i suoi binari attraverso il Mall e di realizzare una stazione su un suo lato. Per venticinque anni la vista dal Campidoglio fu sfigurata dal passaggio dei treni, e il massimo si raggiunse in tempi più recenti, nel 1900, quando il Congresso, ritenendo che il passaggio a livello in entrata al Mall fosse pericoloso, decise di consentire la costruzione di un grande viadotto e di una rimessa ferroviaria alti cinquanta metri, attraverso il Mall.

Un’altra importante modifica rispetto al piano riguardò la posizione del monumento. Perché la statua equestre di Washington prevista da L’Enfant fu sostituita, nel 1848, con un colossale obelisco di marmo bianco. Questo monumento è tanto semplice ed elementare che difficilmente potrebbe, di per sé, essere definito bello, ma è in grado di entrare ad alto livello in una composizione, insieme ad altri elementi. Se consideriamo il tipo di memoriali che veniva eretto in Inghilterra a quell’epoca, dobbiamo congratularci con gli americani per la nuda semplicità del loro monumento a Washington. Sfortunatamente, vuoi per incuria o per ignoranza, o per la scelta solo empirica di una collocazione con sottosuolo adatto, l’obelisco non fu piazzato all’incrocio dei due assi, ma oltre cento metri fuori linea in una direzione, e quaranta nell’altra.

Il resto della deturpazione è causato dai primi tre edifici connessi al Campidoglio e alla Casa Bianca, ciascuno a violare uno dei principi essenziali del piano L’Enfant. Due ampi edifici dell’Esecutivo furono piazzati su ciascun lato della Casa Bianca (il loro appropriato vicino): quello dei Dipartimenti di Stato, della Guerra e della Marina, e quello del Tesoro. Ma entrambi furono collocati in modo da tagliare la visuale della Casa Bianca dal viale. Così, la “reciprocità visiva” a cui mirava L’Enfant fra Campidoglio e Casa Bianca lungo Pennsylvania Avenue è troncata dall’angolo dell’edificio del Tesoro.

Il terzo edificio, la Biblioteca del Congresso, è il più recente e il più vistoso. Messo al termine del ramo meridionale di Pennsylvania Avenue, una delle principali radiali dal Campidoglio, è sovrastato da una cupola colorata e dorata che rivaleggia con quella dello stesso Campidoglio. In questo modo, il principio base secondo cui l’edificio del Legislativo dovesse stare in cima alla collina, a dominare la Capitale Nazionale, non fu colto se non recentemente, nell’anno 1890.

Un altro fattore, che fortunatamente non danneggiò il piano L’Enfant ma fu un’aggiunta diretta alle sue potenzialità, fu la bonifica della piana del Potomac a ovest e sud del Mall, che aggiunse oltre un chilometro di visuale sull’asse principale, distanziando il Campidoglio di quattro chilometri dalla riva del fiume.

Ci fu anche una proposta, con relativa delibera di finanziamento, per un ponte commemorativo attraverso il Potomac, verso il cimitero di Arlington. Fu suggerito di realizzarlo come prolungamento della New York Avenue, uno dei viali che partono dalla Casa Bianca, e avrebbe tagliato obliquamente la visuale principale, ma senza alcun rapporto con essa.

Proposte della Park Commission per Washington

La Commissione che fu nominata nel 1901 per esaminare lo stato di Washington, suggerire interventi, e redigere un piano che ne prefigurasse il futuro, era composta da D.H. Burnham, C.F. McKim, Augustus St. Gaudens e Frederick Law Olmsted Jr. Dopo un’indagine preliminare fu deciso che prima di considerare seriamente qualunque piano di intervento sull’area centrale, dovesse essere esclusa dal Mall e anche dai dintorni la stazione ferroviaria.

Dopo molte discussioni e opposizioni, la compagnia accettò il trasferimento, ed infine fu trovata una nuova collocazione su Massachusetts Avenue, per una Union Station che comprendesse tutte le linee in ingresso a Washington. Allora questa stazione, in quanto unico accesso ferroviario alla città, assunse un nuovo carattere, di vestibolo della capitale, ed è stata pensata coerentemente come uno degli edifici pubblici più importanti di Washington, con un’enorme piazza aperta di fronte, che attraverso Delaware Avenue conduce poi al Campidoglio, ad una distanza di circa mezzo chilometro.

Ora il terreno era aperto per qualsiasi progetto coordinato sul Mall e dintorni, e i Commissari, dopo un viaggio in Europa, prepararono il loro rapporto, di cui quanto segue è l’essenza.

Il sistema del Mall

Il primo aspetto da considerare è il Mall stesso. I lotti separati in cui è stato suddiviso devono essere rimossi, e l’intero spazio aperto al pubblico. Poi al posto della pittoresca mescolanza di alberi con cui ora è piantato, deve tornare il grandioso viale di L’Enfant, con visuale aperta dal Campidoglio al Monumento. L’eccentricità di quest’ultimo sull’asse non è tanto pronunciata che la parte centrale del Mall non possa essere resa obliqua, lasciando i lotti a nord leggermente più grandi di quelli a sud. È una di quelle irregolarità di pianta che si notano sulla carta, ma sono assolutamente invisibili nella realtà.

L’intervento generale sul Mall prevede un viale lungo due chilometri e mezzo, fiancheggiato da un quadruplo filare di olmi, con una semplice striscia d’erba nel centro (suggerito dal tapis vert di Versailles) larga novanta metri. La sezione più vicina al Campidoglio, comunque, dove la Pennsylvania e Maryland Avenue convergono, sarà occupata da una piazza, da progettarsi in modo formale, con sculture e arredo a verde, e che conterrà il monumento a Grant e ai suoi due luogotenenti Sherman e Sheridan. Questo sarà uno spazio di traffico di dimensioni simili a Place de la Concorde a Parigi. Da questa Union Square al Monumento il viale prosegue ininterrotto.

Il Mall in sé stesso non ha in alcun modo ruolo di via di traffico, nonostante ci siano strade di fianco agli olmi; ma non si suggerisce di escludere il traffico di attraversamento nord-sud. La scala del Mall è ampia abbastanza perché la sua continuità non possa essere disturbata dal passaggio di carrozze e veicoli. In effetti al centro si ipotizza di utilizzare questi assi di attraversamento trattando lo spazio fra le due strade come un giardino, simile a quello di Union Square. Su ciascun lato dei filari di olmi saranno collocati edifici pubblici in spaziosi giardini.

Il Giardino del Monumento

Quando il Mall arriva al Monumento, gli olmi si allargano a circondare un giardino ribassato. Il Monumento non può essere riportato sull’asse della Casa Bianca, ed è impossibile pensare a qualcosa di concreto che possa enfatizzare l’incrocio di assi senza competere con Monumento, ed esserne schiacciato: è stato così deciso di contrassegnare l’incrocio con un vuoto, una vasca circolare circondata da un giardino depresso contenente padiglioni e statue. Una scalinata di marmo, dell’intera larghezza dello spazio aperto del Mall, conduce dalla base del Monumento al giardino, dodici metri più in basso. Questa sistemazione del Monumento, che ha dato alla Commissione più crucci di ogni altra parte del Rapporto, è un audace studio di contrasti. L’Obelisco, un monumento di semplicità e dimensioni eguagliate solo dalla grande Piramide, contrasta con la delicatezza, grazia e fantasia di un giardino. La continuità del Mall è conservata dai filari circostanti di olmi. La posizione del Monumento così corrisponde a quella dell’altare maggiore in una cattedrale, collocato leggermente a est dell’incrocio fra la navata e il transetto.

Ampliamenti del Piano L’Enfant

Fino a questo punto, le proposte della Commissione sono in pratica un ripristino dei progetti di L’Enfant, con le necessarie modifiche. Oltre a questo, esse ne diventano un ampliamento, o piuttosto un logico completamento reso possibile dalla bonifica della piana del Potomac. Il completamento consiste nel prolungare l’asse del Campidoglio a ovest di Monument Garden, e di quello della Casa Bianca a sud di esso.

Sezione Occidentale del Mall

La parte del Mall che si estende per un chilometro e mezzo a ovest del Monumento fino al Potomac sarà attrezzata a bosco con percorsi e corsie tagliate attraverso, del tipo di quelli della Foresta di St. Germain. La porzione centrale prosegue la larghezza della Mall Avenue, e contiene un canale largo sessanta metri e lungo più di un chilometro.

Alla testa di questo canale, al centro di un rond point, sarà collocato un grande edificio commemorativo, che chiuda la visuale dal Campidoglio così come fa l’Arco di Trionfo dal Louvre. Il memoriale proposto è quello di Abramo Lincoln, in quanto secondo personaggio nella storia americana.

Questo rond point segna la connessione fra la zona centrale della città e il sistema di parchi del District of Columbia, i cui rami settentrionale e meridionale si incrociano in questo punto, Riverside Drive da Rock Creek a nord, e Potomac Park coi collegamenti all’area dell’Anacostia a sud.

Memorial Bridge

Per vent’anni si è discusso di un ponte commemorativo attraverso il Potomac verso il Cimitero Nazionale di Arlington sul lato della Virginia, e sono state fatte varie proposte. La Commissione suggerisce di includerlo in un piano generale, e comunque di non collocarlo sull’asse principale, ma attraversare il Potomac ad angolo retto, con l’aiuto di un’isola al centro, e il vantaggio aggiunto che la vista del ponte sia chiusa dal bel portico in stile Greco Dorico della Lee Mansion sulle alture di Arlington. L’audacia nello staccarsi dall’asse principale è ampiamente giustificata.

Sezione meridionale

La parte a sud del Monumento deve essere adibita a parco per il tempo libero. Qui deve esserci uno Stadio, palestre all’aria aperta, campi da tennis ecc. Un bacino per spettacoli sull’acqua con una progettazione formale, collega il fiume con la lunga striscia d’acqua, Washington Channel, fra la piana del Potomac e la città. Dove l’asse della Casa Bianca interseca quello di Maryland Avenue è individuato il sito per un monumento commemorativo, da dedicarsi a un personaggio che la Commissione lascia al futuro di decidere.



Localizzazione degli edifici pubblici

La Commissione stabilisce anche i siti per gli edifici pubblici, secondo le intenzioni originali di L’Enfant. Adotta anche la saggia precauzione di proibirli quando siano fra le strade, così da prevenire un ripetersi dello svarione della Biblioteca. Attorno al Campidoglio devono essere collocati gli edifici connessi direttamente a Legislazione e Giustizia. Edifici ministeriali, come richiesto, saranno attorno a Lafayette Square, a nord della Casa Bianca, sviluppando le linee già definite dagli edifici del Dipartimento di Stato, della Guerra, della Marina e del Tesoro. Il Rapporto suggerisce anche che l’Ufficio Esecutivo del Presidente sia spostato dalla Casa Bianca, e posto al centro di Lafayette Square, circondato dai suoi edifici ministeriali.

Su ciascun lato del Mall devono essere collocati musei e altri edifici di generale interesse pubblico, ma non di tipo ministeriale.

Di fronte allo spazio della Casa Bianca devono trovar posto edifici di carattere pubblico o semipubblico, come quelli occupati da associazioni. La Corcoran Art Gallery è già localizzata qui.

Il triangolo fra la Pennsylvania Avenue e il Mall deve essere lasciato agli uffici del District of Columbia: un edificio distrettuale, un archivio, una caserma per la milizia ecc. L’ufficio postale esiste già, in questo settore. È difficile pensare come possa mai diventare, la Pennsylvania Avenue, una bella strada, per via dei continui sgraziati incroci. E le proposte di modifica di quella che è la più importante strada della città, sono le meno soddisfacenti del Rapporto.

Opere realizzate secondo il Rapporto della Commissione

È un peccato che questo piano generale per la ricostruzione e lo sviluppo futuro di Washington non possa essere adottato ufficialmente, come la dittatura con cui è governato il District of Columbia sembrerebbe rendere fattibile. Ma a quanto pare il Congresso può stabilire solo se un particolare edificio o monumento è collocato secondo le raccomandazioni della Park Commission. Altre parti del piano sono apparentemente nelle mani dell’uno o dell’altro Dipartimento Esecutivo, come i Commissari per il District of Columbia, l’Ufficio responsabile dei Suoli ed Edifici Pubblici, e persino i Segretari delle Istituzioni confortevolmente localizzate sul Mall, e che le proposte del piano cacceranno via dal proprio territorio privato.

Ci pare che per portare a compimento questo splendido piano sia necessaria una certa dose di autoritarismo.

Comunque si è iniziato, con la localizzazione di nuovi edifici, il che mostra come il Congresso e i Commissari di Distretto siano entrambi convinti ad attuare il piano.

La Stazione ferroviaria unificata

È stata costruita su progetto di D.H. Burnham, ed è da ogni punto di vista un vestibolo per il campidoglio. La piazza sul fronte è stata completata, sollevando l’intera area di dodici metri, il che ha richiesto un milione e mezzo di metri cubi di materiale. La facciata della stazione a dire il vero è di qualche metro più ampia del Campidoglio, ma l’edificio è stato mantenuto basso, semplice, e il suo carattere di porta della città è suggerito dalla parte centrale, ispirata all’arco di Costantino.

Palazzi per gli uffici del Senato e della Camera

Questi due enormi blocchi, contenenti le stanze private dei componenti le assemblee legislative, sono stati collocati su ciascun lato del Campidoglio. Gli edifici, di Carrère e Hastings, sono identici nel progetto, e nel contegno di subordinazione al Campidoglio costituiscono un buon precedente per l’insieme degli edifici Legislativi. Speriamo che le idee per tagliare la cupola della Biblioteca siano messe in pratica.

Edifici sul Mall

Devono essere realizzati due grandi edifici sul lato nord del Mall, entrambi con caratteristiche e materiali adatti per la loro posizione: il nuovo Museo Nazionale, di Hornblower & Marshall, che prenderà il posto del grottesco edificio in mattoni ora sul Mall, e quello del dipartimento all’Agricoltura. Al principio, sembrava che questo edificio sarebbe stato collocato insieme a quelli Esecutivi attorno alla Casa Bianca, ma la necessità di laboratori e di un museo privato collegati alla parte amministrativa ha suggerito come più appropriato un sito sul Mall. Il progetto è di Rankin, Kellog e Crane. Questi edifici sono stati studiati in correlazione reciproca e le linee della copertura trattate in modo armonioso, alzando l’una e abbassando l’altra all’estremità a questo scopo.

Palazzo Distrettuale

È stato costruito un nuovo District Building (praticamente, un Municipio) sul fronte della Pennsylvania Avenue, nel triangolo fra questa e il Mall, su progetto di Cope & Stewardson.



Lincoln Memorial e Ponte

Sono stati effettuati gli espropri per il Lincoln Memorial e il Memorial Bridge, e la loro localizzazione sarà determinante per tutta la parte occidentale del sistema Mall.



La zona della Casa Bianca

Il restauro della Casa Bianca è stato curato dallo scomparso Mr. McKim per restituirla all’uso come residenza del Presidente. Sono stati sistemati uffici temporanei negli spazi circostanti, sin quando non si inizieranno i lavori per il centro di Lafayette Square.

Gli edifici della George Washington University, e delle Daughters of Revolution sono pure stati collocati di fronte allo spazio della Casa Bianca.

Il piano per Washington così si sta gradualmente realizzando, e speriamo che nel futuro prossimo si metta mano alla piantumazione della parte esistente del Mall.

Il sistema dei parchi

Come già detto, il sistema esterno di parchi si trova sui terreni alti che circondano la città originaria. A questi vanno aggiunti gli spazi bonificati nella piana del Potomac e i progetti di bonifica e di laghi sull’Anacostia River. Il ramo nord del sistema a parchi comincia con la strada lungo il fiume al Lincoln Memorial, e tramite l’esistente Rock Creek che entra nel Potomac si collega al Giardino Zoologico e al Rock Creek Park, formando una valle continua, molto pittoresca, lunga più di otto chilometri. Questa sezione settentrionale si collega anche al parco nel settore più settentrionale del Potomac.

Il raccordo fra molte riserve esistenti, interessa il nord-ovest e il sud-est con centro attorno all’Anacostia River; per quest’ultimo si propone di trasformarlo in un lago circondato da terreni di bonifica convertiti a parco. Più a est, la cima di un’alta e boscosa collina, in linea diretta con Massachusetts Avenue, sarà destinata a parco. Infine le strade lungo le rive dell’Anacostia completano il circuito, congiungendo la piana del Potomac e il sistema del Mall.

Entro questo percorso, si mira alla massima varietà di paesaggi, e si intende conservare il carattere di ciascuno, connettendoli con una serie di viali e parkways.

Nota: Il rapporto della Park Commission per Washington, qui riassunto e commentato “in diretta” da Patrick Abercrombie, è in gran parte letteralmente riportato sul ricchissimo sito di John Reps alla Cornell University. La puntata precedente, delle osservazioni critiche di Abercrombie sul piano di Chicago di Burnham, è disponibile in questa stessa sezione di Eddyburg.

Nota: quello che segue è un estratto, se pur molto ampio, dal documento (edito dalla Tipografia del Commercio di Venezia nel 1867), che copre la parte analitica, ma non le proposte di progetto (f.b.)

Il presente scritto ha per iscopo di studiare quelle riforme materiali, che se furono sempre un bisogno indiscutibile di Venezia, tanto più vengono domandate d’urgenza, ora che le sue mutate condizioni politiche le permettono di pretendere che i progressi delle scienze e delle arti vengano applicati a formare di essa quell’insieme perfetto, che non soltanto dai suoi cittadini ma viene desiderato dagli italiani tutti e dagli stranieri.

Prima di passare al dettaglio di quelle innovazioni e migliorie che io intendo proporre, avendo di mira l’igiene, la comodità, la proprietà e la bellezza, metto sott’occhio al lettore una breve descrizione topografica della città nella quale farò anche risaltare la distribuzione degli abitanti in ragione di numero e di qualità nei differenti circondari, in cui trovo conveniente di dividerla mentalmente.

Una linea retta che si tiri fra il centro dell’isola di S. Pietro di Castello da un’estremità e la Chiesa del Corpus Domini dall’altra, linea che risulta della lunghezza approssimativa di chilometri quattro; questa linea costituisce l’asse longitudinale della città, la quale si distribuisce quasi simmetricamente al dissopra e al dissotto di quest’asse, raggiungendo la larghezza massima di metri 2500 tra la fondamenta delle zattere e gli orti di S. Alvise, e la minima di metri 700 al rivo delle gorbe.

Se a poca distanza dall’asse (metri 150) e precisamente alla metà del campo S. Luca noi facciamo centro e con un raggio di metri 800 descriviamo una circonferenza, ci sembra di aver diviso la città in quattro scompartimenti, ciascuno dei quali ha una fisionomia propria e circostanze particolari che noi tenteremo di delineare partitamente per poi comporne una sintesi, o, come dicono i matematici, trovare la risultante di questi quattro enti o forze che ci darà la fisionomia generale della città.

Questi quattro circondari sono:

I – Lo spazio racchiuso nella circonferenza suaccennata, e che noi, quantunque abbiamo poca deferenza agli immortali, chiameremo di S. Marco.

II – Lo spazio racchiuso tra il rivo dei Mendicanti, la circonferenza suddetta, la riva degli Schiavoni, i Giardini, S. Pietro, l’Arsenale e che denomineremo Castello.

III – Lo spazio che resta a sinistra di S. Marco al dissopra dell’asse, detta da principio, e che chiameremo Cannaregio.

IV – Finalmente, lo spazio a sinistra di S. Marco al dissotto dell’asse, al quale poniamo, più o meno impropriamente, il nome di Giudecca.

Il circondario di S. Marco

Questo circondario, che è rappresentato sulla carta dal circolo compreso nella circonferenza descritta, è tutto ciò che di più singolare contiene Venezia e che potrebbe paragonarsi allo scudo di Achille, così riccamente descritto da Omero. E difatti qui abbiamo S. Marco e i suoi annessi, i principali monumenti sacri quali le chiese di S. Marco, la Salute, i Frari, S. Zaccaria, Ss. Giovanni e Paolo, i Miracoli; abbiamo le piazze più spaziose della città, quelle di S. Marco, di S., Stefano, di S. Paolo, di S. Angelo, di S. Maria Formosa, di Ss. Giovanni e Paolo; tutti i cinque teatri della città; Rialto e i suoi mercati; la Borsa; l’Accademia di belle arti; il Governo; i Tribunali; gli Archivi; la Dogana di mare; gli Alberghi; e finalmente, come se ciò non bastasse, abbiamo due terzi (2.700 metri), la parte più ricca di Palazzi di questa strada unica al mondo che si chiama il Canalazzo. Tutta la vita cittadina qui si concentra, la borghesia e la nobiltà predominano sulle altre classi sociali; vi hanno ricetto le belle arti, e le classi operaie in generale, e specialmente le industrie che hanno genesi dal mare, vi sono affatto escluse. Eppure qui ebbe origine e sede la prisca città, la quale, si vede, che prosperando e aumentando, gli strati, dirò così di nuova formazione invece di sovraporsi o inestarsi indistintamente ai più antichi ne li scacciavano a dirittura verso la periferia la quale andava sempre più allargandosi, ma il nocciolo d’oro restò sempre nel centro, vicenda non nuova nelle città antiche e che si ripete a Parigi a Vienna, che mostra l’indole assolutistica della classe dominante; quando viceversa a Milano, splendida officina del medio-evo, le arti industriali avevano ricetto all’ombra del Domm.

Ma l’epoca moderna rovescia gran parte delle istituzioni vetuste, le classi sono avvicinate, certe anomalie non possono e non devono più sussistere e ne viene di conseguenza che a chi studia i miglioramenti di Venezia si presenta a risolvere il seguente:

PRIMO PROBLEMA – Ottenere che la popolazione delle classi elevate si persuada a spostarsi dal centro alla periferia, e perciò facilitare non solo le comunicazioni ma provvedere alle comodità della popolazione lontana.

Di ciò si parlerà nel seguito del presente scritto.

La superficie di questo primo circondario, detraendo quella occupata da Gran Canale e dalla parte di laguna tra la piazza e la Dogana, ascende a decare o pertiche censuarie 1.607, circa la quarta parte della superficie occupata dall’intera città che risulta di 6.154 pertiche, delle quali 275 costituiscono l’Arsenale e di queste 109 in acqua, e 822 le due isole della Giudecca e di S. Giorgio.

Ora vediamo la quantità di popolazione dalla quale questo circondario viene abitato. Qui devo premettere che pei confronti che ho istituiti sulla popolazione mi sono servito dell’anagrafi del 31 ottobre 1862 e questo per due ragioni; la prima perché quell’anno è circa a una eguale distanza dalle due epoche di commozione 1859 e 1866, e per conseguenza si può ritenere che la cifra della popolazione si avvicini alla media più generale, la seconda perché negli uffici dell’Anagrafi, il 1862 è l’ultimo in cui si sieno compilati i prospetti della popolazione divisa per sestieri e parrocchie, i quali fanno tanto al caso mio.

Sopra 122.391 abitanti che conteneva l’intera città 51.483, poco meno della metà, erano stipati nel I° circondario, cioè sopra una superficie che non è che il quarto della totale, ed il terzo se si vuole non tener conto dell’arsenale e delle isole di Giudecca e di S. Giorgio.

Dall’esame di queste cifre noi siamo condotti a conchiudere che la popolazione più agiata è quella altresì che è più soggetta alla privazione di quei due splendidi doni che la natura non ha dato in proprietà a nessuno, l’aria e la luce.

Né io mi chiamo pago di ciò e voglio condurre il lettore alla conoscenza di più muniti particolari.

La parrocchia di S. Marco con una superficie totale di 86 pertiche ha una popolazione di 4.799, cioè per ogni pertica abitanti 56,04. Io feci però il calcolo minuzioso della superficie puramente abitata e cioè escludendo le vie, i canali, le piazze, i cortili i luoghi pubblici ecc., si ha per questa parrocchia la superficie di sole pertiche 62 e per ogni pertica 77,52 abitanti. Questo calcolo che avrei voluto fare per tutte le parrocchie se ne avessi avuto il tempo, ma che però intendo di fare in seguito, istituito sopra alcune delle principali parrocchie, mi da pel I° Circondario il seguente prospetto:


Parrocchie Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
totale abitata totale abitata
S. Marco 86 62 56,04 77,52
S. Maria del Giglio 63 44 49,21 70,32
S. Luca 65 42 48,39 74,45

La media risultante di abitanti 74 per ogni pertica di superficie si può tenere per approssimazione la media del I° Circondario.

Il circondario di Castello

Per la posizione marittima di Venezia il secondo circondario di Castello ha un’importanza tutt’altro che secondaria, specialmente poi quando l’arsenale ed il commercio marittimo ritornino in fiore e le relazioni coll’Oriente; aspirazione sempiterna della città sieno ristabilite come ai tempi antichi.

Questo circondario forma da sé una cittadella nella città, ha abitudini proprie e quasi un linguaggio particolare. Tutti gli adifizi che alla marina militare si riferiscono sono inchiusi in esso, l’arsenale, le caserme, il bagno, e tutti i cittadini appartenenti al ceto marittimo. Ma sopra una superficie totale di 1.162 pertiche, poco meno di un sesto della città con 20.635 abitanti, sesto del totale, non ne ha che appena 541 circa di superficie abitata e abbiamo, analogamente a quanto fu calcolato nel 1° circondario, il seguente prospetto:


Parrocchie Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
Totale abitata totale abitata
S. Pietro di Castello 252 83 37,02 111,81
S. Giovanni in Bragora 93 34 44,05 110,68

Qui ci è giuocoforza confessare, che queste cifre ci parlano in un senso molto desolante. Dunque la popolazione operaia, arsenalotti, costruttori, velieri, che abitano in S. Giovanni in Bragora e in S. Pietro di Castello è realmente più stipata di tutta la popolazione benestante che abita il centro della città. Ma non solo è più stipata, ma se si considera in quali specie di lupanari essa è rinchiusa, si può ben dire che questa classe infelice non ha niente da farsi invidiare dalla popolazione agricola che nelle città dell’Italia meridionale forma il ribrezzo dei viaggiatori. Noi annunciamo qui un fatto che forse si collega assai di più di quello che sembra allo studio che veniamo tracciando. Nel 1863, il primo posteriore a quello in cui fu fatta l’anagrafi su cui basiamo i nostri studj, sopra la mortalità di 3.585 individui, 429 morirono da tisi polmonare ed altre malattie affini e 129 da idropisia il che costituisce nientemeno che l’11,94 per % di tisici e il 15,54 per % comprendendovi le idropisie, malattie che sentono l’influenza della mancanza d’arieggiamento, di comodità, di pulizia. E notisi che negli anni successivi la proporzione aumentò di maniera che nei primi cinque mesi del 1866 essa raggiunse nel primo caso il 12,61 per % e nel secondo il 18,11 per %.

Dall’esposto scaturisce la necessità di studiare il seguente

SECONDO PROBLEMA – Costruire delle case operaie nel circondario di Castello e dilatare la superficie abitata specialmente nelle parrocchie di S. Pietro di Castello, di S. Giovanni in Bragora e di S. Martino.

III circondario di Cannaregio

Il circondario di Cannaregio ha una superficie di 1.467 pertiche, poco meno della quarta parte della città e una popolazione di 30.331 abitanti, il quarto del totale, che vivono sulla superficie abitata di 1.031 pertiche. Qui i polmoni incominciano a respirare, non troviamo più le miserabili viuzze di Castello, né il labirinto di S. Luca, ma canali e vie larghe, case arieggiate, benefiche ortaglie; qui infine il padrone del secolo, il vapore, vi pose, come doveva porre, la sua dimora. Occupano una gran parte di questo circondario stabilimenti industriali, opificj a vapore, depositi di legnami, macello, stazione della ferrovia e la maggior parte della popolazione industriale è qui raccolta. La difficoltà di calcolare sollecitamente le aree delle abitazioni non ci permette di dare il soli prospetto che per la sola parrocchia di Ss. Ermagora e Fortunato dove abbiamo:


Parrocchia Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
Totale abitata totale abitata
Ss. Ermagora e Fortunato 140 65 34,25 72,94

Questi dati si devono ritenere superiori alla media generale di tutto il Circondario, considerando che S. Geremia e S. Marziale sono parrocchie disabitate.

Secondo dunque le nostre idee di riforma un centro d’attrazione della popolazione dovrebbe cadere in questo circondario, dove le condizioni generali sono nello stato il più soddisfacente. Ne emerge che qui si deve far capo a un terzo problema, il quale è in istretta colleganza col primo.

PROBLEMA TERZO – Trovare nel 3° Circondario di Cannaregio un centro di attrazione e proporre i modi di renderlo rispondente a tutte le esigenze della popolazione.

IV circondario di Giudecca

Il quarto circondario di una conformazione complessiva, parte continentale e parte isolana ha una superficie totale di 1.900 pertiche, poco meno di un terzo della intera città, delle quali 87 costituiscono il Campo di Marte, 733 l’isola della Giudecca, e 87 quella di S. Giorgio; ha una popolazione di 19.942 abitanti (un sesto del totale) dei quali 17.146 nella parte continentale e 2.796 nella isolana. La superficie abitata nella parte continentale è di 756 pertiche. Anche qui non si è calcolato il prospetto che per una parrocchia.


Parrocchia Superficie in pertiche Popolazione per pertica di superficie
Totale abitata totale abitata
S. Maria del Rosario (I Gesuati) 180 79 21,05 47,78

Questo circondario che è nelle più felici condizioni, ha il suo avvenire legato a quello del commercio marittimo. Comprende la Dogana di mare e, sia conservata questa e posta in comunicazione a vapore colla ferrovia o sia avvicinata alla ferrovia stessa, è certo che in questo circondario i docks e i magazzini generali dovranno sorgere. Egualmente i cantieri da costruzione e da raddobbo, che l’ingeg. Romano propone giustamente di erigere alla punta occidentale dell’isola della Giudecca saranno in esso compresi. Anche qui sorgerà il bisogno di case operaie ed di un mercato nell’isola, ma, pur troppo, questo bisogno non è urgente per la mancanza degli stabilimenti da costruzione.

Anche qui si presenta il

PROBLEMA QUARTO – Trovare un centro di attrazione del 4° circondario, studiando se sia più conveniente ch’esso sia nella parte continentale o nell’isolana, sottomettendo la risoluzione del problema a un piano concreto di magazzini generali e di cantieri da costruzione.

Riepilogando, dai confronti numerici istituiti, risulta:

- che la popolazione di Venezia è inequabilmente distribuita nei vari quartieri della città;

- che la maggioranza della classe educata è agglomerata nella parte centrale, e qui aggiungiamo che per le sue esigenze difficilmente si persuade ad allontanarsi da questo nucleo dove trova sfogo agli affari e molti compensi che contrabilanciano il difetto di comodità e libertà;

- che per conseguenza non è solo il materiale allargamento od accorciamento delle vie che bisogna studiare come un fatto isolato, ma che esso va subordinato all’idea di un discentramento da attuarsi contemporaneamente;

- che questo discentramento non si può ottenere se non che procurando che altri centri secondarj di attrazione sorgano alla periferia in modo da invogliare la popolazione al suo dislocamento e a una modificazione di abitudini che torni a vantaggio anche delle classi sociali che per essere, come si credono, meno elevate, non pertanto hanno il diritto al rispetto e al soccorso di tutti.

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