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'"io" al “noi” dopo l’ubriacatura distruttiva dell’individualismo può comportare i rischi dei recinti. Come esiste il “duale” tra il singolare e il plurale perché non coniare una parola per un “noi” inclusivo? Il manifesto, 29 maggio 2003

«Le nuove identità nell’epoca dei social network . Da Kant a oggi cosa sta a indicare il pronome fondativo di gruppi, classi e comunità»

Se l’io è, secondo Pascal, il più detestabile dei pronomi, il noi è il pronome più misterioso. Poniamo che quattro persone giochino a poker e che qualcuno chieda loro che cosa stiano facendo. Una risposta come «io sto giocando a poker, e anche lui, e anche lui, e anche lui» suonerebbe a dir poco strana. La risposta ovvia è «noi stiamo giocando a poker». Ora, in questo “noi” si nascondono parecchi enigmi del mondo sociale che hanno interessato i filosofi (e su cui ritorna proprio in questi giorni Roberta De Monticelli in un capitolo centrale di Sull’idea di rinnovamento,Raffaello Cortina): che cosa intendiamo davvero dire, e fare, quando diciamo “noi”?

Il punto più rilevante è che, contrariamente alle apparenze, l’uso del “noi” è funzionale, più che a u na identificazione, a una esclusione. Dal “noi spiriti liberi” di Nietzsche al “noi padani”, al “noi moderni”, lo scopo principale del “noi” sta nel costruire una aggregazione, in cui un singolo si autonomina rappresentante di una classe, ma, ancor più, nel generare il fantasma dei “loro”, degli altri, di quelli che non sono noi. In questi casi, a differenza da ciò che accade con i nostri quattro giocatori di poker, il confine tra il “noi” e il “loro” è estremamente mobile e soprattutto infinitamentevago e manipolabile.

Ecco perché, a mio avviso, uno degli scopi centrali della filosofia come critica della ideologia deve consistere proprio nella condanna della finzione universalizzante del “noi”. Jacques Derrida è stato un campione di questa prospettiva, per esempio facendo notare come l’appello ermeneutico al dialogo e alla “fusione di orizzonti”, alla creazione di un discorso universale dotato di una piena trasparenza comunicativa era sempre sul punto di tradursi nell’evocazione di un fantasma di totalità. Ma come può esercitarsi una vigilanza critica nei confronti della costituzione del “noi”? Probabilmente, lo strumento più efficace è l’analisi dei connettivie dei contesti che rendono possibile il “noi”. Storicamente ne abbiamo avuto molte versioni, raramente rassicuranti. La prima è infatti quella del sangue e della terra, cioè l’idea che il “noi” sia assicurato dalla condivisione di certi attributi genetici e di uno spazio geografico. Ma anche l’idea che il “noi” abbia invece una base spirituale non è di per sé meno minacciosa. Basti pensare all’ambigua tesi di Fichte, nei Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), che definiva i tedeschi come il popolo dello spirito, e poi procedeva a dire che dunque chiunque creda nel progresso dello spirito appartiene alla stirpe tedesca (mentre poteva darsi il caso dichi, non credendo nello spirito, non sarebbe stato tedesco anche se geneticamente lo era).Nella filosofia contemporanea, la risposta prevalente alla domanda sull’origine del “noi” è fornita dalla teoria della intenzionalità collettiva, proposta dal filosofo finlandese Raimo Tuomela e sviluppata da John Searle. L’idea è che ci sarebbe questo elemento primitivo e naturale (una specie di ghiandola pineale intersoggettiva) che ci fa dire “noi” invece che “io” in un certo numero di situazioni, e che sta alla base della costruzione del mondo sociale.

Qui avrei più di un dubbio, perché in effetti al “noi” ci si arriva attraverso un addestramento. È vero che un gruppo di persone in gita può dire “noi camminiamo”, ma si tratta ancora di “intenzionalità collettiva” quando a camminare è un gruppo di prigionieri tenuti sotto tiro?Se le cose stanno in questi termini, alla versione naturalistica di Searle è di gran lunga preferibile la versione culturalistica che, quasi duecento anni fa, ha dato Hegel con l’idea di “spirito oggettivo”. Quello che noi abbiamo nella nostra testa, le nostre intenzioni e le nostre aspirazioni morali non può restare in un puro mondo intelligibile, come pensava Kant, ma ha bisogno di manifestarsi nella storia.

È qui che si introduce la variante hegeliana: lo spirito ha bisogno strutturalmente di manifestarsi, di solidificarsi in istituzioni. È lì che si manifesta il “noi”: nelle costituzioni, nelle imprese e nelle tradizioni condivise. Ma, attenzione, è importante capire che questo spirito è oggettivato, non è una nostra proprietà personale.

È per questo che, in alternativa a queste forme di costruzione del “noi”, ho suggerito che l’elemento fondamentale è costruito da quello che chiamo “documentalità”. È attraverso la condivisione di documenti e di tradizioni che si costituisce un “noi”. Ed è proprio per questo motivo che la società si è dotata così presto di scritture e di archivi: per far sì che lo spirito possa manifestarsi e diventare riconoscibile, acquisendo visibilità e permanenza temporale. Da questo punto di vista, la forma più trasparente del “noi” è un documento che reca delle firme, e che manifesta con onestà i termini, i confini e gli obiettivi del “noi”, che in questa versione appare come l’accordo cosciente tra un numero definito di persone per un obiettivo riconoscibile. Oggi la documentalità è rappresentata soprattutto dal web, questo immane apparato che alcuni ottimisti sono portati a definire come l’espressione di una intenzionalità collettiva, per esempio rifacendosi al ruolo del web nella primavera araba, o più recentemente nel successo del Movimento 5 Stelle. A mio avviso però è proprio nei confronti del web che appare più che mai necessaria una vigilanza critica nei confronti della produzione di un “noi”. Perché le condizioni regolate della documentalità, quelle che appunto possiamo trovare in un atto espresso in forma esplicita (costituzione, compravendita, testamento), e cioè la riconoscibilità dei confini del “noi”, la piena consapevolezza e la solennità dell’impegno vengono meno. Pensate alle pagine di Facebook in cui il tribuno di turno chiama a raccolta i suoi sostenitori per condividere delle idee che normalmente trovano la loro forma di aggregazione nella condanna dei “loro”, degli altri. Qui si crea una illusione di intenzionalità collettiva chiaramente ingannevole. I sostenitori che scrivono “mi piace” lo fanno magari senza pensarci, tanto non sono impegnati a niente. Le quantità sono soggettive: già una decina di “mi piace” sembra indicare un consenso assoluto. I commenti sono estemporanei come i discorsi al bar, ma diversamente da quelli permangono, e soprattutto sono prevalentemente positivi, rafforzando la convinzione del tribuno di aver ragione. E il “noi”, da potenziale veicolo di intelligenza collettiva, si trasforma in una manifestazione non confortante di stupidità di massa, anzi, non esageriamo, di gruppo.

Il manifesto, 30 aprile 2013

Sul binario morto della crescita, senza mai citare la miseria morale e lo sfaldamento della nostra comunità nazionale

In Parlamento ogni volta che la telecamera inquadrava qualche deputato regolarmente si vedeva che stava guardando il telefonino. Il discorso del resto non sembrava rivolto ai parlamentari in aula. Per fare le cose che Letta ha indicato ci vorrebbe un governo di cento anni. E invece sarà una storia molto più breve. E in questa storia ci sono parole di economia aziendale. Sapevo che non sarebbero arrivate parole a me care. L'Italia è una terra di montagne e paesi. E queste tre parole sono mancate. Niente terra, niente montagne, niente paesi. Non ho sentito nessun riferimento alla crisi ecologica del pianeta, nessun riferimento alla cultura. Mi pare che abbiamo al governo un diligente applicato di segreteria. Il preside è il Cavaliere, è lui che decide cosa fare. Dall'altra parte c'è un partito che deve ancora decidere cosa essere.

Letta è un democristiano del terzo millennio. Il suo pensiero, come quello della maggioranza dei suoi colleghi, è chiuso nella religione dominante del denaro. L'Europa e la crescita sono il suo binario, ma è chiaro che si tratta di un binario morto. Non ha fatto nessun riferimento alla miseria spirituale dilagante, allo sfaldamento della comunità. È la lettura del mondo di un uomo cresciuto nei palazzi del Potere, un uomo che sembra non aver mai camminato su un sentiero di campagna. Una lingua astrattamente concreta, lontana da qualsiasi tensione mitica e mistica. Un uomo senza utopie che parla a una nazione concepita come un insieme di interessi economici. Questo è il danno più grande della politica, ben oltre le note e annose ruberie. Una politica che elenca politiche mai realizzate, che ha una visione piccola della vita. Nell'elenco delle parole lettiane che seguono sono tante quelle che non troverete. Non c'è Dio, non c'è la morte, non c'è la poesia. Non troverete la citazione di uno scrittore, di un'artista, di un filosofo, di un musicista. Come se nel bene e nel male l'Italia fosse solo una questione politica. Insomma, non sanno fare neppure la cornice e pretendono di fare il quadro. Anche se il suo governo riuscisse a farci diventare più ricchi della Germania, io penso che saremmo di fronte a una storia misera e minima.
Abbiamo bisogno di una lingua emozionata ed emozionante e invece il verbo è questo: Presidente della Repubblica, momento eccezionale, emergenza, volontà di servizio e senso di responsabilità, costituzione, situazione economica grave, finanza pubblica, vincoli, strategie, crescita, risanamento finanza pubblica, sviluppo, governo europeo ed europeista, integrazione, intese, sostegno, elaborazione, risanamento, politiche per la ripresa, crescita, coesione, ripartire, conti pubblici, incentivi, provvedimenti, crescita economica, meccanismi virtuosi, banche, imprese, attori economici, crescita, produttività, competitività, arena globale, investimenti, regole e incentivi, imprenditori italiani e stranieri, strumenti, defiscalizzazione, salari, peso fiscale, costo del lavoro, incentivi monetari, imprenditorialità, fare tesoro, spirito imprenditoriale, investire, politica industriale moderna, piccole e medie imprese, motore dello sviluppo, alta tecnologia, ottica organica, processo di integrazione, la burocrazia, snellire le procedure, equità, attrarre investimenti, valorizzare, inadempienze, classi dirigenti, la questione del lavoro, crescita non fine a stessa, crescita, rifinanziamento, imprese e lavoratori, innovazione, debiti, ostacoli burocratici, spirito d'impresa, economia, vita economica, crescita del paese, obiettivi europei, crescita della persona, welfare universalistico, ammortizzatori sociali, precari, valorizzare, ricostruzione, autocritica, innovazione, partecipazione, trasparenza, autorevolezza del potere, legge elettorale, competenze, percorsi, decisioni, procedure, coesione nazionale, patto di fiducia, convergenza, politica, politiche, ruolo del parlamento, forze politiche, regole, processo costituente, veti, contrapposizioni, prese di posizione, riforma, convenzione, principi, democrazia governante, ridurre i costi, responsabilità, ottica di alleanza, maggioranze ampie e coese, mercato unico, rilancio, equilibri mondiali, politica comune, processi globali, rinnovato impegno, forze armate, soluzione equa e rapida, economia, esportazione, sfida, decisioni, proposte, obiettivo complessivo, l'Europa e la crescita, la crescita e l'Europa.

Corriere della Sera, 27 gennaio 2013 (f.b.)

Non bisogna andare lontano per avvicinarsi alla storia. «La storia siamo noi» dice una famosa canzone di Francesco De Gregori; ed è un'affermazione ineccepibile. Noi: noi uomini, cioè, nel mondo in cui viviamo, e che non sappiamo quale futuro avrà, ma ben sappiamo che ha avuto, come ciascuno di noi, un passato, una storia. Ed è, per l'appunto, quando, per ricordare o per una qualsiasi necessità, ci volgiamo al passato, che ci chiediamo: «Che cos'è mai la storia?».

Domanda antichissima, ma di quelle che perpetuamente si pongono e si ripropongono. Per il grande storico tedesco Leopold von Ranke, la storia consiste nel cercare che cosa realmente (realmente è qui la parola più importante; wirklich in tedesco) sia accaduto nel passato, come, cioè, siano veramente andate le cose nel passato. Una definizione semplice solo in apparenza. Essa implica, infatti, in primo luogo, che il passato è diverso da noi, ha una sua alterità rispetto a noi; e, in secondo luogo, che noi al passato possiamo accedere, che lo possiamo conoscere e riconoscere come passato, ossia in quella sua oggettiva alterità dovuta al fatto che, appunto perché passato, esso è diventato immutabile.

Ma, essendo così il passato, qual è poi la ragione per cui lo vogliamo o dobbiamo conoscere? Perché ci interessa il passato?
La verità è che noi abbiamo un bisogno di storia, che non nasce nel corso della nostra vita, nasce insieme con noi. In nessun momento possiamo, infatti, essere noi stessi sia come singoli, come individui sia come collettività o comunità, se non abbiamo una visione storica di noi stessi. Se non abbiamo, cioè, un'idea di ciò che eravamo nelle varie fasi della nostra vita e di ciò che ci ha fatto diventare quel che siamo oggi. Nessuna identità può, in effetti, sussistere senza un tale retroterra di memoria e di coscienza. Né si tratta di un retroterra fissato una volta per sempre. In ogni momento della nostra vita noi lo ricordiamo e lo raccontiamo in modo nuovo, e magari anche molto diverso da ieri. Certo, anche perché atteggiamo il nostro passato in modo che convenga al nostro presente, ma allo stesso tempo perché in quel passato diventiamo sempre più capaci di leggere meglio e più a fondo.

Ecco, dunque, perché ci interessa il passato e perché ci interessiamo ad esso. Sono i problemi e i bisogni del presente a spingerci verso di esso. È il nostro perenne, inesauribile bisogno di autocoscienza e di identità, è la nostra continua ricerca di noi stessi a spingerci a riformulare e a riatteggiare il nostro senso e la nostra immagine del nostro passato, spesso con mutamenti radicali rispetto alle immagini che ne avevamo prima. Perciò a ogni stagione della vita ci diamo idee e immagini differenti del nostro essere di ieri e dell'altro ieri. Sono le necessità e le spinte del presente a portarci a queste continue riletture del nostro passato. E questo è vero (occorre ripeterlo) sia per gli individui, dal meno provveduto di un suo patrimonio intellettuale e culturale al più geniale e multiforme, sia per qualsiasi gruppo umano, dal più piccolo e più primitivo al più grande, complesso e avanzato. Ed è, dunque, per questo che la storia viene scritta e riscritta a ogni generazione, e secondo le vedute e le necessità dei vari, innumerevoli grandi e piccoli gruppi umani compresenti sulla scena del mondo.

Un perenne fare e rifare che, però, non è affatto, come si potrebbe credere, un perenne disfare. Il passato è il passato. La sua alterità e immutabilità sono sempre fuori discussione. Se noi lo alteriamo per nostro piacere o per nostro interesse, prima o poi questa alterazione si ritorce contro di noi e ci costringe a un più serio ripensamento. E questo perché il passato lo possiamo far rivivere solo se ne abbiamo qualche documento. Come in una famosa réclame, la regola è: no documents, no history.

È come nella nostra vita privata. Il tempo rende sfocati, incompleti, inesatti i nostri ricordi, ma se abbiamo qualcosa alla mano (lettere, fotografie, filmini, oggetti, giochi e giocattoli, carte di identità o altri documenti, atti notarili, qualche mobile o qualche attrezzo, le pagelle della scuola, vecchi indumenti e qualsiasi altra cosa superstite del nostro passato) il nostro ricordo ne sarà ravvivato e sul nostro passato non ci potremo raccontare troppe favole. Che è quel che, per l'appunto, accade anche a livello collettivo e che costituisce il mestiere dello storico. Un mestiere che produceva in origine miti e leggende a cura di sacerdoti e altre simili figure sociali, ma diventato già presso i Greci e i Romani e, poi, soprattutto nell'Europa moderna, una «scienza», con suoi statuti e metodi, con criteri rigidamente documentari e con una capacità sempre più ampia di studio del passato, secondo moduli sempre più complessi, dalla semplice biografia alla «storia universale», ossia a una storicizzazione complessiva delle vicende di tutta l'umanità. È, dunque, la visione storica del nostro essere, di quello che siamo in quanto continuatori di quel che siamo stati, come singoli e come comunità o collettività, a consentirci di riconoscerci come tali, ossia ad assicurarci della nostra identità.

Nel corso del tempo, a volte, la soddisfazione comunitaria di questa esigenza ineludibile è più forte della sua dimensione e soddisfazione individuale; e nelle comunità vi è un fortissimo senso storico della propria identità. In questi casi la soddisfazione comunitaria di quel bisogno assorbe e risolve in sé, più o meno largamente, anche la sua soddisfazione a livello individuale. Ci si riconosce come individui in quanto membri della comunità e partecipi della sua identità. In altri casi, invece, da un lato, le comunità avvertono il bisogno storiografico in maniera attutita, mentre, dall'altro lato, il senso dell'individuo e dell'individualità si presenta molto più forte. In tali casi l'esigenza individuale di soddisfare il bisogno di storia prevale nettamente; il senso e la coscienza individuale non si sentono e non si ritengono più assorbiti e soddisfatti appieno dalla pratica storiografica comunitaria, collettiva.

Oggi vi sono condizioni nuove di questa connotazione sociale e individuale della storiografia; e ciò perché nella civiltà moderna uno dei fili rossi più importanti appare il potenziamento simultaneo sia del piano e delle esigenze sociali, collettive, comunitarie sia della presenza e della forza dell'individuo e del conto che se ne fa. E questo significa che, permanendo sempre il bisogno di storia con le sue esigenze di pensiero e di immagine, vi è pure l'esigenza di soddisfarlo in relazione alle circostanze per cui, a livello sia individuale sia collettivo e sociale, la domanda di storia si è tanto moltiplicata.

Una domanda nella quale non si è mai spenta l'antica aspettativa che la storia ci dica il nostro da fare di oggi, che sia, come si diceva un tempo, maestra della vita. Ciò che è stato ci dovrebbe dire ciò che sarà. Ma non è così. Il passato illumina il presente, ma non lo determina, diceva Hannah Arendt. Il presente lo facciamo noi, con le nostre azioni, idee, volontà, passioni, interessi. Il passato ci condiziona, ma non ci costringe. Se fosse altrimenti, in tanto tempo, da Adamo ed Eva in poi, avremmo appreso molto bene a dedurre il futuro dal passato. Anche i genitori ammoniscono i figli in base alla propria esperienza e i figli riluttano ai loro ammaestramenti, e hanno ragione. Il presente dei figli non è quello dei genitori, e nessuno rinuncia al diritto di formarselo a propria misura.

Perciò, la storia ci dice da dove veniamo e dove ci troviamo e di questo non possiamo fare a meno. Ma dove andare da oggi in poi lo decidiamo noi, ora. E, insomma, né i padri possono rifiutare la responsabilità di aver condizionato in un certo modo i loro figli né i figli possono giustificarsi di quel che fanno con le responsabilità dei genitori. La storia, a ben pensarci, è una scuola inesorabile che impone a tutti, senza eccezioni, esami senza fine; è una palestra di esercizi e di gare senza pause di riposo o di minore impegno.

Eddyburg è stato sempre molto attento alle parole. Nel sito c’è una cartella dedicata a questo tema, e una che contiene un Glossario. Un'altra cartella, curata da Fabrizio Bottini, contiene un'ampia anntologiache raccoglie Testi per un glossario. Una lezione intitolata Glossario è stata svolta nellaseconda e nella terza edizione della Scuola di eddyburg, vi troverete pianificazione, governance, paesaggio, territorio,sviluppo, beni e merci, e molte altre ancora. Un piccolo glossario è in appendice del libro Ma dove vivi?.
In passato ci si è preoccupati soprattutto di fornire alcune definizioni da assumere come comuni per comprendersi meglio, offrendo magari punti di vista diversi ma non contraddittori. Da quest’anno ci si propone di fare un passo avanti: di ragionare sulle parole con maggiore attenzione al loro significato letterale, al contesto in cui sono nate e, soprattutto, ai diversi contesti in relazione alle quali si sono trasformate, il loro significato ha slittato e ne è cambiato il senso.

Il fatto è che le parole, il linguaggio, i discorsi hanno un’importanza enorme: non solo per comunicare per intenderci tra noi, ma anche per comprendere la realtà, i mutamenti e le trasformazioni del passato, del presente, e quelle proposte per il futuro. Non solo, il linguaggio, se lo intendiamo come pratica sociale, può contribuire a cambiare la realtà. La prima parte del testo ( Linguaggio, discorso, potere) che presentiamo a questa IV edizione della Scuola vuole soffermarsi sull’importanza di parole, sui loro significati, sul fatto che questi cambiano, al cambiare della società e il potere che queste hanno.
Vorrei sottolineare sei aspetti:
1. Il linguaggio è un fenomeno sociale, cioè esiste una relazione di influenza reciproca tra linguaggio e società. Quando parliamo, scriviamo, ascoltiamo, leggiamo lo facciamo in un modo che dipende dalla società, dall’insieme delle relazioni e delle contingenze socio-economiche, politiche e culturali in cui la nostra società si trova. Nello stesso tempo il nostro modo di parlare, scrivere ecc. ha degli effetti, delle ricadute sulla società.
2. Il discorso comprende sia il testo, scritto, parlato visivo, che processi che mi consentono di interpretarlo e poi produrlo. Per potere affrontare questi processi noi attingiamo ad una serie di risorse nella nostra mente, sia quelle linguistiche, la grammatica, la sintassi ma anche quelle legate ai valori alle credenze. Queste risorse a cui attingiamo e che si formano via via nel corso della vita, attraverso le relazioni con le altre persone, il lavoro, la scuola ecc. dipendono da una serie di convenzioni che la società attraverso le istituzioni, i comportamenti, le pratiche stabilisce.
3. Questo insieme di convenzioni è determinato dalle relazioni di potere. Sia le convenzioni più banali, come le regole comportamentali implicite nel modo di salutarsi, di mangiare ecc, sino a quelle più complesse che coinvolgono il modo di comprendere il mondo che ci circonda, dare un senso del perché agire in un certo modo piuttosto che un altro in questioni politiche, economiche ecc,. Queste relazioni di potere sono fortemente influenzate dal modo in cui una società organizza la sua produzione economica. Nella nostra socità capitalistica le relazioni di potere sono influenzate dal rapporto tra chi detiene il capitale e chi detiene la forza lavoro.
4. I discorsi, scritti e parlati, sono un ottimo veicolo per il potere perché attraverso essi si può affermare una certa idea del mondo, e attraverso questa idea si possono quindi affermare certe pratiche, certi modi di fare piuttosto che altri. Il potere che si esercita attraverso il discorso, attraverso la parola non è un potere coercitivo, ma un potere che si acquisisce attraverso il consenso, sia attraverso la comunicazione con la quale si convince e attraverso l’inculcazione, cioè una sorta di persuasione che avviene in maniera recondita, non consapevole.
5. Occorre comprendere e agire nel mondo non attraverso ilsenso comune, cioè attraverso la passiva e acritica acquisizione di supposizioni, credenze, aspettative che altri elaborano, ma piuttosto attraverso il buon senso, connettendo la vita concreta ad una profonda e critica comprensione di ciò che avviene intorno.
6.Per poterlo fare occorre innanzitutto una consapevolezza critica del linguaggio per comprendere quello che ci viene detto, e quindi essere in grado di reagire ai discorsi attivamente e non passivamente. Senza questa consapevolezza non può esserci un’effettiva cittadinanza democratica, ed non è possibile promuovere un qualsiasi progetto di cambiamento sociale alternativo.

L’argomento di questa edizione della scuola rimanda a parole relativamente nuove (vivibilità, rigenerazione, riqualificazione), ma la loro comprensione deve muovere da parole più antiche, che nel tempo hanno profondamente modificato il loro significato: povertà, disagio, degrado.

Sono parole tra loro collegate, che a volte vengono confuse o utilizzate indifferentemente l’una per l’altra. Tutte indicano che c’è un problema, se vogliamo di natura e con caratteristiche diverse: c’è un problema, e quindi ci si deve adoperare per risolverlo, superarlo, curarlo e muoversi verso una situazione che sia invece di ricchezza, benessere, agio, ecc. Sono parole che implicano un giudizio negativo verso quella condizione individuata. Vorrei sottolineare solo alcuni punti:
1. La parola povertà ha subito molte trasformazioni, da una serie ampia di significati profondi e diversi e non tutti di segno negativo, si è arrivati praticamente ad un unico significato. Oggi la povertà significa principalmente la mancanza di mezzi per il raggiungimento di quello standard di vita che l’ideologia dominante e il complesso delle pratiche sociali indica come l’obiettivo universalmente prescritto. Questo standard viene identificato con un livello di consumo di beni materiali, che tende ad essere sempre più opulento.
2. Disagio è il secondo lemma di questo gruppo. È una parola che denota una situazione di difficoltà, di sofferenza, di malessere generalizzato in cui l’individuo si trova. È una condizione soggettiva, che riguarda il sentire del singolo individuo, ma è strettamente legata alle condizioni economiche, sociali, culturali della società in cui l’individuo si trova, quindi assume in questo senso un carattere sociale.
3. I termini povertà e disagio sociale, spesso usate come sinonimi, indicano realtà diverse sebbene vi siano connessioni e sovrapposizioni. Vi sono persone povere che non manifestano stati di disagio, e contemporaneamente vi sono persone in stato di disagio che non sono povere. Nel testo si descrive come questi termini si siano intrecciati e come la parola disagio abbia in anni recenti soppiantato la parola povertà, nel senso che i problemi della nostra società vengono sempre più ascritti alla sfera del disagio e solo in questi ultimissimi anni, nelle società cosiddette avanzate, riemerge questo problema della povertà. Ma va sottolineato che la povertà, indipendentemente dal fatto che se ne parli o meno, esiste ancora, non è stata debellata neanche dalle nostre società opulente.
4. Sono rilevanti ai nostri fini, i riferimento alle connessioni di queste parole con la città. Disagio urbano, invivibilità, insicurezza, vulnerabilità, “malessere del benessere” sono altre parole ed espressioni esplorate nel testo per individuare le condizioni delle nostre città.

Benessere, vivibilità, urbanitè. Se il primo gruppo di parole indica il problema, la situazione da combattere e sanare, il secondo gruppo esprime in qualche modo l’obiettivo da raggiungere. Si tratta delle parole benessere, vivibilità, e una nuova parola cui nel testo accenniamo soltanto: urbanitè.
1.Il concetto di benessere ha una gamma di significati molto ampia. Nel testo si riprendono le accezioni più significative: a)benessere come piacere e soddisfazione di desideri. Questa è l’espressione usata, direi piuttosto retoricamente, dagli economisti. È, per intenderci il benessere espresso dal livello di reddito o di consumo e a livello nazionale dal prodotto nazionale lordo, o dal pil; b) poi abbiamo il benessere come opulenza, cioè dove la ricchezza materiale è l’elemento chiave per il raggiungimento della soddisfazione; c)il benessere come possesso di opportunità, e infine d) il benessere come qualità della vita, che apre la strada verso il concetto di qualità urbana.
2. Sulla qualità della vita si intrecciano due diversi filoni di ricerca. Uno di carattere più quantitativo, quello degli indicatori sociali, finalizzato a individuare obiettivi e parametri capaci di indicare scalarità e graduatorie. E un altro che si muove su un piano politico-filosofico a partire da una critica della società industriale. Entrambi questi filoni incontrano la tematica dei movimenti ecologici e ambientalistici e il concetto di sviluppo sostenibile. La sintesi e la mediazione tra la linea degli indicatori sociali, quella della qualità della vita, nonché i ragionamenti sullo sviluppo sostenibile conducono all’elaborazione di un nuovo obiettivo: la qualità urbana. Ne parleremo molto in questi giorni.
3. Attraverso un percorso assai diverso si afferma il terminevivibilità. Questo termine ha un’ interessante storia. Intanto, in sé il termine viene dalla biologia e significa sostanzialmente capacità di sopravvivenza. E negli Stati Uniti viene ripreso negli studi urbani, per paragonare la città al metabolismo e studiarla in termini di la natura metabolica della città, in termini di input (le risorse materiali, energie, il suolo ecc.) e output (gli scarti da una parte cioè i vari tipi di rifiuti e la vivibilità, in termini di prestazioni utili al nostro vivere dall’altra). Il termine,livable, livability, viene poi ripreso a partire dagli anni Ottanta, sempre negli Stati Uniti, per individuare una serie di miglioramenti da effettuare per rendere le condizioni delle metropoli più piacevoli. Adesso, almeno in inglese, è fortemente associato al lavoro di un gruppo di americani che annualmente fanno delle convegni su questi temi e che come modello di città vivibile assumono le città europee, con le loro piazze. Ma su questo termine sarebbe interessante discutere, so che Paola Somma ha cose da dire a proposito e credo che saranno molto utili sia a voi che a me, che dopo questa scuola avrò da rivedere tutte queste parole, anche alla luce di queste 4 giornate.

Anche i termini concorrenza e competizione all’inizio sembrano semplici e scontati. Poi, quando si cerca di approfondire, ci si rende conto di quanto invece siano complessi. Non voglio sintetizzare il testo scritto. Voglio limitarmi a sottolineare quattro aspetti:
1.Etimologicamente concorrenza ha due significati essenziali. Quello più antico esprime il correre insieme, nel senso di convergere, quindi cooperare. Il secondo esprime il gareggiare, il lottare l’uno contro l’altro per prevalere. Oggi è di gran lungo quest’ultimo significato che è prevalso.
2. Anche nella accezione più usuale, di concorrenza economica, il termine ha subito diversi slittamenti di significato in relazione alle modifiche del sistema economico – il capitalismo – al quale si riferiva. Li troverete nel documento.
3. Solo molto tardivamente il termine competizione è stato attribuito alla città. Nel documento troverete la descrizione particolarmente ampia di questa fase, in relazione ad una interessante descrizione delle trasformazioni urbane in relazione alle diverse fasi del capitalismo che ho ripreso da David Harvey.
4. La domanda finale è: la competizione è effettivamente utile alla città, oppure provoca più danni che vantaggi. Non vi do la risposta perché altrimenti non leggete il documento!

Prima chiudere vorrei accennare brevemente aRigenerazione e riqualificazione. Ne riparleremo venerdì e troverete questo gruppo di parole su eddyburg tra qualche settimana.
1.Il termine rigenerazione urbana viene dalla pianificazione britannica della metà degli anni ’70 e si riferisce a quell’insieme di politiche e strumenti che permettono il riutilizzo di aree ed edifici dismessi, obsoleti, sottoutilizzati, creando nel contempo nuovi posti di, un miglioramento dell’ambiente urbano e dell’apparato sociale. Si cerca così di dare una risoluzione ad ampio spettro dei problemi funzionali della città, cercando di soddisfare contemporaneamente questioni sociali ed economiche e tentando di generare delle ricadute sulla qualità urbana complessiva.
2. In Italia l’uso di questa parola sembrerebbe improprio perché la pianificazione urbana non ha cercato di affrontare necessariamente la componente economica (e spesso, almeno in un primo tempo, neanche quella sociale). Ci sono diversi motivi, innanzitutto la tradizione di pianificazione italiana, in cui vi è una netta separazione tra programmazione e politica economica da una parte, e politiche urbane e territoriali dall’altro. E poi il differente sviluppo economico dei due paesi.
3. In Italia si parla soprattutto di riqualificazione urbana, riferendosi soprattutto alla componente fisica, ambientale, anche se l’espressione “rigenerazione” è diffusa, ma talvolta appunto utilizzata in modo improprio, cioè non riferita al suo significato inglese originario.
4. Ma diciamo che anche le differenze concettuali si sono andate via via smorzando. Tant’è che all’interno della più recente strumentazione complessa è inclusa soprattutto la componente sociale, e in taluni casi anche quella economica.
File allegati

1. Linguaggio, discorso, potere
2. Povertà, disagio, degrado
3. Benessere, vivibilità, urbanité
4. Concorrenza, competizione
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