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Quali siano questi strumenti (o almeno, alcuni di essi) lo si è già raccontato su queste pagine. In particolare, nella cartella dedicata a Milano. In quella città, la città di Mani pulite, sono in atto due processi convergenti: l’uno sul piano teorico, l’altro su quello dei fatti. Da una parte, nell’incapacità di aggiornare le regole della pianificazione tradizionale in modo da superarne i limiti e di renderle adeguate alle esigenze dell’operatività, nell’accademia se ne teorizza le morte, nella politica le si cancella e nella pratica le si sostituisce con l’egemonia dell’iniziativa privata. Dall’altra parte, calpestando allegramente quanto di legge comune pur sopravvive, si riempiono di calcestruzzo e asfalto, acciaio e vetro, tutti gli spazi resisi disponibili, con l’unica preoccupazione di fare soldi.

“Speculazione immobiliare”: è un’espressione certamente arcaica: ne parlano gli storici fin dai tempi della Roma di Nerone. È abusata, ed è troppo sintetica per rappresentare la ricchezza delle pulsioni e degli errori, delle illusioni e degli interessi che hanno suscitato quei due processi (fatalmente convergenti, e anzi intrecciati). La storia della riutilizzazione dell’area dell’ex Fiera è un esempio efficace di come gli interessi economici parassitari (la speculazione immobiliare non produce ricchezza, ma la distrugge), la compiacenza dei pubblici poteri, lo sguardo benevolo della cultura, progredendo con sicurezza sui binari delle new theories e delle old practices, distrugga la città: il più alto prodotto, quindi, della civiltà europea. Illustra quindi in modo adeguato la sinteticità di quel termine, ne aggiorna il significato.

La storia è molto semplice; l’ha raccontata Sergio Brenna anche in questo sito. L’Ente Fiera di Milano ha spostato la sua attività in un’altra area, ottenendo dal Comune, nella vecchia area, una utilizzazione idonea ad assicurargli un ampio tornaconto economico. L’Ente fiera (un istituto di diritto privatistico) ha bandito un concorso per la “valorizzazione” dell’area, indipendentemente da qualsiasi ragionamento (e naturalmente da qualsiasi decisione pubblica) sia sull’assetto urbanistico sia sulle funzioni, definendo per di più quantità di volumi ancora superiori a quelle concesse dal Comune. Un’operazione nella quale il motore e, al tempo stesso, l’arbitro è stato costituito dall’interesse economico aziendale. La ricerca non è stata diretta a valutare che cosa serve alla città e ai cittadini, quali esigenze di spazio vi siano per gli usi collettivi e il verde, quali necessità di decongestionamento e di accessibilità, ma semplicemente, in che modo può essere ottenuto il maggior tornaconto in termini di “immagine” e in termini di valuta. Il risultato,eccolo qui. Novecentomila metri cubi di residenze e uffici, stipati nei tre stravaganti oggetti illustrati qui accanto, con un disegno urbano che – lungi dall’integrarsi con i quartieri circostanti, come studi in corso da decenni proponevano – si oppone alla città e la nega. E con un carico urbanistico che, se volesse essere soddisfatto in base alle norme vigenti nella Regione Lombardia, richiederebbe paradossalmente la cessione dell’intera area (anziché del 50% contrattato).

L’apparire dei risultati figurativi della decisione ha naturalmente suscitato scalpore. Alcuni intellettuali, rivelandosi singolarmente retro, hanno celebrato nel gigantismo faraonico e fuori scala e nella bizzarria delle forme le magnifiche sorti e progressive della “Rinascimento di Milano”. Renato Mannheimer ha addirittura affermato che “la nuova iniziativa edilizia accentua considerevolmente il processo di rinascita di Milano”, che “le ricerche motivazionali hanno mostrato come essa stimoli nei cittadini la voglia di fare, di sfidare in qualche modo la natura attraverso la tecnologia” e che “essa simboleggi proprio il 'puntare in alto', tipico dei milanesi nei periodi migliori”. Osservatori diversamente intelligenti hanno invece rilevato come “il ‘fàmolo strano’ sembra infatti essere l'unica regola certa di una professione che ha rinunciato alla pretesa etica di governare la trasformazione riducendo il governo del territorio a un problema di audience di massa”, e ha ricordato “l'acre battuta di Noel Coward in Law and Order: Non so dove stia puntando Londra, ma più si alzano i grattacieli, più si abbassa la morale” (Fulvio Irace).

Forme d’accatto, bizzarrie d’importazione, che (a differenza delle parole scritte sui libri o dei quadri immessi nei musei) si pavoneggiano agli occhi di tutti, contribuiscono al degrado della città, propagandano la sua dissoluzione da ordinata e armoniosa casa della società ad accumulo disordinato di oggetti la cui smisurata arroganza celebra unicamente la presunzione dei suoi autori e dei suoi giudici.

Un ampio servizio dell’Espresso, oltre a illustrare la questione, elenca altri quindici progetti che potrebbero avere caratteristiche analoghe. Forse non adotteranno le medesime forme e la medesima indifferenza al contesto figurativo. Ma è certo che la cornice nella quale si collocano lo spingerà verso il medesimo risultato urbanistico e sociale. Essa è infatti determinata da quel documento “Ricostruire la Grande Milano”, che è stato illustrato e criticato anche in questo sito, adottato dalla Giunta milanese, apprezzato in più sedi accademiche e utilizzato ampiamente per il progetto di legge urbanistica della Casa delle Libertà. Dio salvi Milano, e soprattutto i milanesi.

9 gennaio 2004– Un incidente tecnico ha mandato in fumo il nuovo EddyburgRiprendo, con l’anno nuovo, l’aggiornamento del vecchio. E mi domando che cosa vorrei vedere accadere nel 2004 (oltre alla nascita del nuovo Eddyburg) per dare torto al pessimismo di Altan. Tante cose.

Cominciamo da casa nostra.

Mi piacerebbe vedere tutte le variegate formazioni dell’area di centro-sinistra riuscire a individuare i valori fondamentali della convivenza civile e battersi coerentemente per farle sopravvivere e trionfare. Il rispetto della legalità, la tutela dei deboli e dei posteri, il primato del comune rispetto all’individuale, la parità dei diritti e dei doveri nel campo dell’informazione dovrebbero essere in cima all’elenco. La sconfitta di Berlusconi e la difficile ricostruzione di tutto ciò che ha distrutto ne dovrebbero essere la conseguenza.

Mi piacerebbe veder fare un passo indietro a quelli che preferiscono i partiti alla politica, la tattica alla strategia, il potere agli obiettivi, le formule ai contenuti. Mi rendo conto che questo comporterebbe molte autocritiche, e un rinnovamento profondo del ceto politico, ma in assenza di ciò l’anno resterà bisestile.

Mi piacerebbe veder crescere, almeno a sinistra, la consapevolezza del fatto che episodi come la crisi della Fiat e il saccheggio Parmalat, fenomeni come l’invasione dei cervelli infantili (leggete l’articolo di Roberto Cotroneo), eventi come l’accresciuto numero di incidenti e catastrofi nel vasto campo dei servizi pubblici, non sono una fatalità, ma l’emergere delle insufficienze di un Mercato per troppi anni idolatrato a destra e a sinistra, e delle perversioni di un sistema economico reso di nuovo senza freni.

Allarghiamo lo sguardo.

Mi piacerebbe che nei popoli dell’Europa e dell’America maturasse la convinzione che, se in alcune dimensioni dello spirito e della convivenza civile la cultura nata sulle sponde del Mediterraneo (quella definita greco-giudaico-cristiana) ha prodotto valori e istituzioni superiori a quelli elaborati da altre civiltà, in altre dimensioni essa ha ancora molto da imparare ascoltando quanto è nato sotto altri soli. E che comunque nessuna civiltà ha il diritto (e neppure il potere) di imporre ad altri i propri modelli, per quanto superiori essi possano essere.

Mi piacerebbe che i reggitori di tutti i popoli – a Nord e a Sud, a Est e a Ovest – comprendessero che il destino dell’umanità che abita il Pianeta Terra è unico, e che la sopravvivenza della specie impone regole che devono prevalere su qualunque altro interesse. Che queste regole non possono essere sostituite da politiche, più o meno generose, di aiuti, ma impongono la costruzione di una economia radicalmente diversa (sul versante della produzione come su quello del consumo) da quella attuale.

Mi piacerebbe che, una volta avviato lo svuotamento dell’oceano di ingiustizie e di violenze che costituisce il brodo di cultura del terrorismo (e restituite in primo luogo dignità, potestà e diritto al popolo palestinese nell’ambito di confini ragionevoli e certi), scomparisse, magari con più veloce gradualità, la tragedia degli atti terroristici, nei quali la rabbia dei “dannati della terra”, intrecciandosi con la perfidia dei criminalie l’insania dei folli, colpisce i giusti e gli innocenti.

Ricordiamone alcuni elementi. Una critica dello Stato sociale della Prima Repubblica privo della proposta di un nuovo Stato sociale: di un nuovo sistema capace di garantire, più e meglio di quello vigente, i diritti comuni in materia di salute, assistenza, sicurezza sociale, istruzione. Un cedimento ai principi della nuova destra dell’Occidente fino a mutuarne gli slogan più infecondi (più mercato e meno Stato, privato è bello ecc.). La rincorsa al secessionismo di Bossi e alle demagogie localistiche, dimenticando che “federalismo” significa unificazione e non divisione, e che in paese “normale” non si fa un secondo passo (il “federalismo”) senza aver discusso il bilancio del primo (il regionalismo).

Le forze politiche della sinistra hanno certo delle scusanti. Non è facile misurarsi con i problemi di una fase indubbiamente nuova dell’assetto del mondo senza avere alle proprie spalle un’analisi compiuta ed efficace come quella che, nel precedente assetto, era stata fornita dal marxismo. Un’analisi, non una descrizione: una lettura scientifica della struttura della società e dell’economia, delle tendenze profonde e dei possibili futuri, un’individuazione delle forze in gioco e – all’interno di queste – di quella o di quelle cui può essere affidato il progresso dell’umanità. Si può comprendere quindi l’oscillazione della sinistra, le sue stesse divisioni, l’alternarsi di fughe in avanti proposte, e di passi indietro praticati. Si può comprendere, ma non giustificare, poiché nell’arsenale delle pratiche e dei principi della “democrazia borghese” e di un buongoverno coerente con il sistema capitalistico esistevano, come esistono, strumenti e valori capaci di assicurare (almeno entro i limiti di quella democrazia e di quel sistema) una decente soddisfazione delle esigenze dell’umanità e del suo sviluppo civile: quindi, di tenere aperte le strade di un più ricco futuro nel quale trovassero soluzione anche i problemi di fondo del mondo contemporaneo.

Il primo valore e strumento è il primato della legge comune: dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alle regole stabilite. Ha giovato a ribadire e a praticare questo primato la tolleranza verso il conflitto d’interessi, e il fastidio a volte manifestato verso la magistratura (quasi espressione di una difesa corporativa della politica)? Non credo proprio. Non si può anzi escludere che un simile atteggiamento, oltre a giovare direttamente al peggior satrapo che l’Italia abbia conosciuto, abbia contribuito al distacco della politica dal popolo.

Il secondo valore e strumento è la cura del patrimonio comune della nazione. Non c’è bisogno di essere ambientalisti, non c’è bisogno di avere consapevolezza del valore di quella quota della ricchezza del mondo che è depositata nei nostri territori e nelle nostre città, per comprendere che una visione anche aziendalistica (la “azienda Italia”) imporrebbe di avere una cura di quel patrimonio ben diversa da quella attuale. Non solo di quella praticata dai demolitori riuniti nell’accampamento berlusconiano, ma anche di quella dimostrata dalle formazioni politiche della sinistra: tutte mi sembra, nessuna esclusa.

Una prova di questa carenza della sinistra, dell’infezione che dalla destra berlusconiana si è propagata altrove? L’assoluta assenza, nella campagna elettorale appena conclusa dei temi relativi al governo del territorio, alle politiche urbane, alla pianificazione territoriale e urbanistica. Un’assenza antica, che ha fatto dimenticare il passato dei partiti della sinistra negli anni 60 e 70: quando la modernizzazione del paese e il buon governo passavano dall’impegno per la riforma delle strutture (ivi compresa quella urbanistica) e da quello nell’amministrazione urbanistica delle città dove la sinistra era al governo. Un’assenza che, fino a quando permarrà, peserà sul futuro. Lo testimonia un episodio che ha condiviso la cronaca con i risultati elettorali: la questione dello smaltimento dei rifiuti in Campania.

Il personale politico italiano non ha ancora compreso che la pianificazione del territorio, dentro e fuori le città, è uno strumento essenziale se si vuole risolvere a priori i potenziali conflitti nell’uso del suolo, se si vuole trovare una sintesi tra le diverse esigenze (quelle della tutela e quella della trasformazione, quella delle funzioni private e quelle dei servizi collettivi, quelle che inquinano e quelle che risanano). Probabilmente perché, al tempo stesso, non ha compreso che i problemi di oggi vanno risolti con una visione di prospettiva, di lungo periodo, strategica. La tattica di affrontare i problemi accantonandoli, di evitare i conflitti dando ragione all’ultimo che protesta, consente forse di vincere una campagna elettorale, non di rendere l’Italia un “paese normale”, all’altezza delle sue risorse e della sua storia.

Si veda anche la Lettera a Micromega, firmata da alcune decine di urbanisti molti mesi fa (e ancora senza risposta).

Esemplare del clima che si è già instaurato è il modo in cui i mass media hanno informato sulla vicenda di Rete Quattro. Per la stragrande maggioranza dei giornalisti della televisione (privata e pubblica: ormai lo stile e le veline sono uguali) il dramma del giorno era il destino di Emilio Fede e della struttura che dirige. Sembra che i cattivi, i comunisti (nelle cui file è arruolato, non da oggi, il presidente Ciampi) abbiano come unico obiettivo togliere il posto ai lavoratori della Mediaset in odio al loro padrone. Ma quanti hanno messo in evidenza che quel posto è usurpato? Quanti hanno informato che Berlusconi e Fede lo hanno illegittimamente sottratto a un altro gruppo, che da anni ha avuto l’assegnazione di quelle frequenze e che, nonostante avesse tutti i titoli in regola, non l’ha ottenuto per la proterva prepotenze dalla banda B.?

Il dominio è già quasi completo. Bisogna chiudere il cerchio, completamente. Le voci di dissenso possono rimanere, ma devono diventare del tutto marginali. Può restar vivo qualche circolo intellettuale, ma l’opinione pubblica “di massa” deve ricevere la voce d’un solo padrone: deve guardare una sola televisione. Questo è il disegno. Questo spiega perchè Ciampi (così esitante a usare il suo diritto/dovere di rinvio alle camere) non ha firmato la legge Gasparri. Questo motiva l’incredibile scandalo dell’evento di Natale, B. che come primo ministro firma il decreto che premia B. come imprenditore (e punisce l’imprenditore che aveva ottenuto la concessione usurpata da Rete Quattro).

e’ una vergogna difficile da sopportare. È un piano inclinato nel quale si scivola sempre di più. E l’opposizione? Gioca, litiga, balbetta, si divide, parla d’altro. Le differenze sono certo profonde tra Fassino e Di Pietro, tra Bertinotti e Parisi. A me personalmente Rutelli e D’Alema non piacciono affatto, nel senso che non sono d’accordo con le loro posizioni su molte cose (in primo luogo, sol modo di affrontare il berlusconismo, che il secondo ha addirittura favorito). Ma, come ha scritto Paolo Sylos Labini ( Berlusconi e gli anticorpi, Editori Laterza, 2003), il compito più urgente è non dare tregua a Berlusconi. Vincerlo, a cominciare dalle prossime elezioni.

Riuscire a far questo è l’unico augurio che riesco a formulare per il 2004, a me e ai miei amici. A combattere il berlusconismo che è fra noi penseremo dopo.

L’avevo chiarito aderendo all’iniziativa “un voto in prestito per una sinistra nuova e unita in una coalizione ampia e vincente”. Questo è oggi l’obiettivo: una sinistra che riesca a superare le sue divisioni e, pur conservando la ricchezza costituita dalla molteplicità delle sue anime, sappia trovare le ragioni della sua unità. E che poi, su questa base, possa diventare uno dei momenti determinanti di una coalizione di governo – quale quella che il sistema maggioritario richiede e che è necessaria per battere non solo Berlusconi, ma anche la destra in Italia.

È sulla base di un risultato positivo, largamente positivo, che bisogna ora cominciare a lavorare. Lo ha detto con chiarezza il coordinatore della segreteria dei DS, Vannino Chiti, nel suo primo commento ai risultati elettorali: «Il centrosinistra aumenta i consensi rispetto al 1996, quando vinse le elezioni politiche. Ora inizia il lavoro per elaborare un programma che permetta di costruire un'alleanza in grado di vincere e di arrivare al governo del Paese». Credo che si debba subito raccogliere l’invito di Chiti: noi elettori aspetteremo e valuteremo a questo primo traguardo le formazioni del centro e della sinistra.

Io credo che al primo punto debba esserci (che non possa non esserci) altro obiettivo che il ripristino della legalità. È su questo punto che Berlusconi ha inferto le peggiori ferite alla convivenza e alla democrazia, al sentimento comune e ai diritti di tutti. Mi piacerebbe che al primo punto di un programma comune ci fosse questo impegno: e l’elenco preciso delle piante velenose da sradicare e di quelle virtuose da piantare al loro posto. Mi rendo conto che è una questione delicata. La linea perversa di Berlusconi e dei suoi accoliti è cominciata negli anni di Craxi, e il suo prodromo si chiama Tangentopoli: quel male non è stato sradicato, e solo dal suo sradicamento passa la possibilità di costruire una reale alternativa di governo.

Da questo primo punto molti altri ne nascono. Ripristinare la legalità comporta anche ripristinare i diritti: quegli degli uomini di oggi, della loro salute, del lavoro, della formazione. Ma anche quelli degli uomini di domani: quindi, l’obiettivo dell’impiego virtuoso delle risorse e dell’esercizio, a questo proposito, della virtù della parsimonia.. Sarebbe bello, e anche utile, riprendere alcune intuizioni lasciate cadere frettolosamente: da quella dell’austerità a quella della “riconversione ecologica dell’economia. È su questo terreno (oltre che su quello della pace e dell’affermazione di un’idea non imperialistica del rapporto tra le culture diverse) che si gioca il futuro del mondo: come, con quali profonde innovazioni nelle scienze dell’uomo e in quelle delle cose, è possibile operare perché i limiti del nostro pianeta non diventino fonti di sperequazioni, di drammi e infine di catastrofi, ma suggeriscano nuove strade allo sviluppo dell’uomo e del suo bisogno?

Molti, anche fuori dai nostri confini, vedrebbero come un segnale importante che dall’Italia, dal paese che ha avuto la più alta percentuale di votanti alle elezioni europee, la discussione sul governo da costruire dopo Berlusconi si aprisse con un respiro universale. E credo che anche le nuove generazioni si entusiasmerebbero più a questi temi che a quelli che la cronaca politica squaderna ai loro occhi.

A me, come urbanista, mi farebbe piacere, e mi sembrerebbe giusto, anche per un altro motivo. Affrontare la questione di un impiego ragionevole e durevole delle risorse porterebbe in primo piano il tema del governo del territorio e delle sue trasformazioni, della tutela delle ricchezze in esso depositate dalla natura e dalla storia, della pianificazione come strumento indispensabile per portare a sintesi le differenti esigenze che si manifestano nell’uso del suolo. È un tema che da troppo tempo è scomparso dall’attenzione delle forze politiche (e degli stessi mass media), con grave danno per il futuro del paese e per le esigenze attuali delle cittadine e dei cittadini.

Eddytoriale 47, 7 giugno 2004

Un voto in prestito

Intanto, i fatti. Un bravo agronomo, appassionato del suo mestiere e professionalmente serio, ha analizzato il PTCP di Napoli e ha scoperto che gran parte delle aree agricole più pregiate erano lasciate senza tutela, affidando alla disponibilità dei comuni la maggiore o minore trasformazione, in alcuni casi prevedendola esplicitamente. Conoscendo bene l’Italia, la Campania e la provincia di Napoli, lui e quanti hanno avuto modo di esaminare le sue carte (e quelle del piano) si sono fortemente preoccupati. Si sa che, tra la possibilità di coltivare e quella di edificare, il dio mercato sceglie la seconda alternativa, e la maggior parte dei comuni pure. I pochi che hanno visto questo rischio hanno gettato gridi d’allarme. Una volta tanto l’opinione pubblica è stata allarmata.

Alcuni uomini politici, di rilievo nazionale, si sono allarmati anch’essi. Nelle sedi istituzionali più vicini al fatto è esplosa una bagarre: dichiarazioni, dimissioni, critiche e recriminazioni. La politica è apparsa imbarazzata: ha compreso di aver compiuto (o lasciato compiere) un errore, ma non è sembrata capace né di valutare la portata dell’errore né l’opportunità (la convenienza) di porvi riparo. Più che il merito della questione (è necessario o no tutelare ambienti e paesaggi di eccezionale valore ecologico, culturale, produttivo anche sacrificando le prospettive di sfruttamento immobiliare? come utilizzare quello strumento, il PTCP, per raggiungere quell’obiettivo?) hanno dominato gli sforzi di coprire l’alleato o scoprire l’avversario (magari all’interno della stessa formazione politica), e magari di coprirsi tutti quanti insieme (le elezioni sono vicine).

La cultura urbanistica, poi, è stata del tutto assente. Hanno taciuto le associazioni degli urbanisti (il cui ruolo sembra ridotto alla promozione professionale degli iscritti), e ha taciuto l’accademia (il cui ruolo sembra ridotto alla trasformazione in prodotti accademici degli incarichi di pianificazione). Se qualche eco la vicenda del PTCP di Napoli ha avuto in quegli ambienti, si tratta di cenni di fastidio “per il polverone sollevato”, o difese dell’autonomia dei comuni contro chi vorrebbe “immaginare vincoli totalizzanti che [ne] espropriano la potestà programmatoria”.

Mi sembra che si dovrebbe rispondere ad alcune domande, che vorrei porre con molta precisione nella speranza di avere, da qualcuno dei visitatori di questo sito, risposte altrettanto precise.

1. È vero o no che il PTC della provincia di Napoli, presentato dall’assessore Riano e adottato dal Consiglio provinciale a maggioranza di centrosinistra, consente di edificare in “25.000 ettari di aree agricole pregiate, che rappresentano il 42% circa delle aree agricole provinciali”, consentendo così di fatto “l’estinzione dei paesaggi agrari di più elevato valore ecologico-ambientale, storico ed estetico percettivo presenti nel territorio provinciale”, come ha dimostrato l’agronomo Antonio Di Gennaro?

2. È vero o no che la legge stabilisce che il PTC provinciale “indica le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti”, mentre tra i compiti che la legge attribuisce alla Provincia vi sono “difesa del suolo, tutela e valorizzazione dell'ambiente e prevenzione delle calamità”, “valorizzazione dei beni culturali”?

3. È vero o no che, anche a prescindere dalla legge, sulla base di una corretta applicazione dei saperi dell’urbanistica e del principio europeo della sussidiarietà, la tutela delle qualità del paesaggio rurale, dei valori ecologici e culturali dei territori aperti, delle potenzialità della produzione agricola di qualità, non è cosa che possa essere affidata alla sfera delle competenze comunali perché palesemente trascende dalla loro scala e dalle loro competenze?

4. È vero o no, uomini della politica e delle istituzioni, che il primo dovere degli eletti e dei loro controllori più diretti è quello di operare perché nelle istituzioni si traducano coerentemente in atti amministrativi efficaci le promesse di tutela e valorizzazione delle risorse naturali, culturali, economiche presenti nelle aree nelle quali vi fate eleggere, e di rispetto per quanto di buono e di bello i nostri antenati hanno saputo costruire, perché anche i posteri ne possano godere?

5. E infine, colleghi urbanisti, è vero o no che la pianificazione del territorio, a scala provinciale e regionale, è vana esercitazione accademica se si riduce ad analisi, esortazioni, raccomandazioni, suggerimenti, direttive, prediche, ammonimenti, scenari e (mi si passi l’orrenda espressione) quant’altro?

Mi riferisco, evidentemente, ai danni inferti alla componente fisica del patrimonio comune: il paesaggio, l’ambiente, il territorio. Raccolgo lo spunto dall’introduzione di Maria Serena Palieri a un utile libretto, che ha curato, nel quale sono raccolti contributi di Giuseppe Chiarante e Vittorio Emiliani e documenti sugli “sprovvedimenti” del governo sui beni culturali ( Patrimonio SOS – La grande svendita del tesoro degli italiani, L’Unità). Una consapevolezza sottolineata al recente convegno di Italia Nostra ( ancora “Italia da salvare”, Roma, 23 maggio 2004).

Scrive Palieri, commentando la richiesta, sacrosanta, di mettere al primo punto del programma elettorale dell’Ulivo l’impegno di cancellare tutte le leggi del governo Berlusconi: “Ma il colpo di bacchetta magica, quando sarà il momento, cancellerà le controriforme di sanità, scuola, pensioni, abrogherà la legge Cirami. Una cosa non potrà fare: restituirci il tesoro “nostro” che, nel frattempo, “loro” avranno dilapidato”.

Fanno parte del tesoro dilapidato i pezzi del demanio pubblico venduto, i paesaggi devastati dall’incentivo ricorrente all’abuso urbanistico, ma soprattutto le “opere pubbliche” realizzate scavalcando con arroganza tutti quei controlli (urbanistici, paesaggistici, ambientali) che nei paesi civili costituiscono il filtro tra le tecniche settoriali e i duraturi interessi generali. Fa parte del tesoro dilapidato la Laguna di Venezia, che comincia a essere distrutta in alcune sue parti essenziali delle opere collaterali al MoSE.

In questi giorni stanno distruggendo dighe ottocentesche tutelate ope legis e con vincoli specifici, stanno asportando 3,5 milioni di metri cubi di fondale consolidato da seimila anni (il “caranto”), stanno installando distruttivi cantieri su oasi naturalistiche protette (oggi quella di Ca’ Roman, domani quella degli Alberoni), stanno approfondendo i canali che immettono acque marine nella Laguna, stanno avviando la costruzione si una muraglia alta sette metri sulla diga nord della Bocca di Lido, dove si preparano a costruire una nuova isola di 13 ettari (in Laguna da decenni è vietato ogni nuovo interrimento) e a distruggere la celebre Secca del Bacàn. Tutto ciò per un progetto che non sarà mai completato, che se fosse completato non funzionerebbe, di cui per di più nessuno ha valutato i costi di gestione (che non saranno inferiori a quelli della gestione di un aeroporto), né ha deciso a chi accollarli.

Non c’è più tempo da perdere. Non si può aspettare un nuovo Parlamento e un nuovo governo per tentare di fermare i vandali. Occorre che le associazioni, i rappresentanti degli interessi diffusi si mobilitino concretamente. Occorre che i candidati alle prossime elezioni si impegnino ad arrestare già da subito la dilapidazione del tesoro comune.

Occorre che ciascuno di noi elettori esprima la sua preferenza per quelli, tra i candidati e tra le liste, che più chiaramente, esplicitamente e operativamente si schierino a difesa del patrimonio della nazione. Segnando una discontinuità non solo nei confronti della maggioranza berlusconiana, ma anche nei confronti degli atteggiamenti opportunistici e tatticistici – e in definitiva corrivi con il clima culturale del berlusconismo – che si sono manifestati all’interno delle precedenti maggioranze.

Vedi anche ancora Salvare Venezia

Vedi anche La Laguna di Venezia e gli interventi proposti

Secondo il presidente dell’INU il conflitto è tra due sistemi di pianificazione: “autoritativo vs contrattuale”. Vorrei cominciare ad osservare che, definire la pianificazione “classica” (come Luigi Mazza definisce quella basata sul sistema giuridico che nasce dalla legge del 1942 rivisitata nel dopoguerra e va fino alle più recenti leggi regionali) come urbanistica “autoritativa” o “autoritaria” significa scambiare i consigli comunali (e provinciali e regionali) con i carabinieri. Il sistema classico della pianificazione si basa sull’assunto che le scelte sul territorio sono appannaggio sostanziale (e non solo formale) del potere pubblico democratico. Il che significa che sono i consigli, liberamente eletti, a decidere, e che sono strutture da loro dipendenti e controllate a preparare gli atti tecnici necessari alla scelta.

Significa questo negare la “contrattazione”? Affatto. (Evidente che parlo della contrattazione esplicita, non di quella sottobanco, giustamente perseguita dalla giustizia). La contrattazione esplicita fa parte della pianificazione classica almeno a partire dal 1967, anno della regolamentazione dei piani di lottizzazione coinvenzionata. Significa, però che la contrattazione con gli interessi privati avviene nel quadro, e in attuazione e verifica, di un sistema di scelte del territorio autonomamente stabilito dal potere pubblico democratico.

Questo rapporto tra pubblico e privato comporta almeno due vantaggi, l’uno civile l’altro tecnico. Il primo è che il potere di decidere è, nella forma e nella sostanza, nelle mani di chi è stato eletto per decidere ed esprime l’intera comunità (nei modi, certo imperfetti ma oggi non sostituibili, della democrazia rappresentativa). Il secondo è che si evita il profondo danno urbanistico del sistema basato sulla sostituzione dellla contrattazione all’autorità (alla democrazia rappresentativa): il danno, cioè, di avere il disegno e l’assetto della città determinati dal succedersi, giustapporsi e contraddirsi di una congerie di decisioni spezzettate, dovute alla promozione di questo e di quello e di quell’altro promotore immobiliare. Non è questa la ragione per cui, agli albori del XIX secolo, fu inventata l’urbanistica moderna?

E’ un sistema, quello della pianificazione classica, che funziona bene? Certo che no. Giovanni Astengo, tra i fondatori dell’urbanistica italiana ne criticò i limiti con parole che dovrebbero essere ricordate oggi (qui sotto il link). Da molti decenni gli urbanisti - una volta soprattutto gli urbanisti dell’INU - suggerivano le modifiche necessarie: una maggiore attenzione all’attuazione (“dal piano alla pianificazione”), un rafforzamento consistente delle strutture tecniche, una maggiore attenzione alla domanda e alle risorse della società e dell’economia. Risultati raggiunti solo in parte, molto modesta. Anche perché sia la politica che la cultura urbanistica hanno cominciato ad occuparsi d’altro e a inseguire altri modelli: non da oggi, se già potevo rilevarlo in un mio scritto del 1985 (qui sotto il link).

Sarò più breve sul secondo idola tribus, ribadito dal presidente dell’INU: che sia necessario “fare pressione per avere finalmente la legge statale di riforma urbanistica”. Su questo punto la mia risposta è molto semplice, ed è articolabile in pochi punti tra loro connessi:

1) una legge statale di riforma urbanistica è necessaria se è una buona legge (ho riassunto, nell’Eddytoriale 20 del 14 luglio 2003, i contenuti che una buona legge dovrebbe avere per essere utile a migliorare l’assetto delle città e del terriorio);

2) era vicina alla legge necessaria quella il cui testo unificato fu predisposto da Lorenzetti allo scadere della scorsa legislatura, e che colpevolmente i partiti che oggi compongono l’Ulivo (e anche gli altri) fecero cadere (a proposito, mi domando come fa l’INU a essere favorevole sia alla Lorenzetti che alla Lupi, che sono agli antipodi);

3) non mi sembra immaginabile che un regime il quale privilegia il privato sul pubblico, l’occasionale sul duraturo, la svendita del patrimonio comune al suo accrescimento, gli affari dei suoi leader al rispetto della legalità – che da un simile regime possa essere tollerata una legge urbanistica utile.

Vogliamo discutere su questi punti? Le pagine di Eddyburg sono aperte. Sarebbe bello se lo fossero anche quelle di Urbanistica informazioni e del sito dell’INU.

Sugli stessi argomenti:

Eddytoriale 36 del 21 gennaio 2004

Eddytoriale 38 del 2 marzo 2004

Il “testo unificato”, come si commentava nell’eddytoriale 36, “è una riproposizione peggiorata della proposta Lupi, con inserito qualche brandello della Mantini”. Ne enuclea i punti salienti il documento presentato all’audizione parlamentare dall’associazione Italia Nostra (è nella cartella dedicata alla legislazione nazionale, insieme ai documenti dell’INU e al testo Lupi). Li sintetizzo ulteriormente.

Un elemento significativo della proposta è l’abbandono del principio (da decenni acquisito alla cultura urbanistica e al sistema legislativo italiano) secondo il quale tutto il territorio nazionale deve essere governato mediante atti di pianificazione, capaci di assicurare coerenza e trasparenza alle scelte sul territorio da chiunque compiute, assunti dagli enti territoriali elettivi.

Secondo il “testo unificato” le regioni possono invece individuare a loro piacimento sia “gli ambiti territoriali da pianificare” (e possono anche decidere che alcune aree del territorio non siano pianificate), sia “l’ente competente alla pianificazione”, cioè chi deve pianificare (articolo 5, comma 1).

Osserva Italia Nostra che “una regione potrebbe, a esempio, attribuire le competenze pianificatorie soltanto alle province, escludendo sé medesima e i comuni, mentre un’altra regione potrebbe attribuire le medesime competenze a speciali agenzie, e limitare la pianificazione solamente agli ambiti di trasformazione morfologica urbana”. Abbandono di principio, insomma, del cardine del sistema europeo della pianificazione, per cui la coerenza d’insieme e l’unitarietà del sistema delle scelte di governo del territorio sono attribuiti al loro riferirsi con certezza al sistema degli enti territoriali elettivi a rappresentanza generale (in Italia, comuni, province, regioni, stato).

Del tutto diverso l’atteggiamento dell’INU, che nel documento dell’ottobre 2003 aveva già dichiarato che “si tratta certamente di una innovazione di grande interesse, rispetto alla attuale situazione”, e si limitava ad indicare l’opportunità che “decisioni di questo tipo [siano] assunte nel contesto della concertazione istituzionale“.

Ma la scelta più significativa che emerge dallo smilzo testo legislativo è la sostituzione, agli “atti autoritativi” (che costituiscono la prassi della pianificazione urbana e territoriale come atto di governo pubblico del territorio), di “atti negoziali” tra i soggetti istituzionali e i “soggetti interessati” (articolo 4, comma 3). Nella concreta situazione italiana, ciò significa l’esplicito ingresso, tra le autorità formali della pianificazione, degli interessi della proprietà immobiliare: è evidente infatti che sono questi “soggetti interessati” che hanno la forza di esprimere la propria volontà, i loro progetti di “valorizzazione”, e di promuovere e condizionare le scelte sul territorio.

Italia Nostra osserva che una simile impostazione “è pienamente coerente con l’assunto della piena e totale mercificazione del territorio e degli immobili che lo compongono”, cioè “con un assunto che è stato respinto dai massimi teorici dell’economia liberale classica dei secoli trascorsi, in considerazione del fatto che il territorio, e gli immobili che lo compongono, non possiedono per nulla, o scarsissimamente, quei requisiti di divisibilità, riproducibilità e fungibilità che costituiscono i presupposti essenziali e irrinunciabili dell’efficiente funzionamento del libero mercato”.

Al ribaltamento della gerarchia tra interesse pubblico e interesse privato (immobiliare) applaude invece l’INU, che “condivide senz'altro che tale funzione [il governo del territorio] possa essere svolta anche con la partecipazione e il contributo diretto di soggetti privati”.

L’analisi dell’inaccettabile impostazione del “testo unificato” potrebbe proseguire (e nel documento di Italia Nostra prosegue). Voglio limitarmi a concludere che l’impostazione della “Casa delle libertà” è talmente distante da quella non solo della sinistra, ma anche di una corretta tradizione liberale europea, da risultare incomprensibile che, a sinistra e al centro, vi sia ancora chi si attarda in una logica di emendamenti e “depeggioramenti”: o, come arditamente scrive l’INU, addirittura di “miglioramenti”. Ma l’attuale gruppo dirigente dell’antico istituto degli urbanisti italiani sembra ormai pienamente conquistato dall’ideologia urbanistica negoziale e contrattuale del regime.

Questi hanno trovato nuovo alimento, e indubbia grinta, nell’avvento di Berlusconi e dei suoi Viceré: primo fra tutti il “governatore” del Veneto, Galan; l’ex funzionario della Fininvest, con un inaspettato blitz, ha forzato la Commissione per la salvaguardia di Venezia a dare il parere (naturalmente favorevole, date le maggioranze) senza neppure esaminare i voluminosi dossier che compongono il progetto.

Ma essi contano alleati di rilievo nelle stesse file della maggioranza di centro-sinistra. Il sindaco ulivista Paolo Co sta è considerato non solo sostenitore del Consorzio Venezia Nuova e dei suoi progetti, ma anche disinvolto manipolatore delle volontà espresse dalla maggioranza comunale e abile utilizzatore delle sue incertezze. I quotidiani di oggi esprimono stupore per l’accordo che Costa ha trovato con Berlusconi nel formare un Ufficio di piano (incaricato di delicati compiti di coordinamento tecnico dei progetti per il riequilibrio della Laguna): un Ufficio di piano nel quale non solo i critici del MoSE, ma perfino le competenze ambientalmente orientate sono presenti in misura irrilevante (1 su 12).

Riepiloghiamo i fatti. Mentre – prevalentemente a livello locale - dopo anni di studi e di dibattiti, dopo aver compreso le ragioni per cui l’equilibrio della Laguna, conservato per circa un millennio, è divenuto precario per dissennati interventi antropici, si era trovato largo consenso su un programma di interventi molto ampio, diffuso e sostanzialmente morbido, rivolto a eliminare le cause del degrado (e quindi dell’aggravarsi del fenomeno delle acque alte), dall’altra parte –e soprattutto a livello di governo – si affrontava il problema in termini riduttivi, costosi, meramente ingegneristici e meccanici. Nel 1984 si giunse ad affidare a un consorzio di imprese di costruzione, il Consorzio Venezia Nuova (impresa leader la Impregilo) lo studio, la sperimentazione, la progettazione e l’esecuzione delle opere necessarie per “il riequilibrio della Laguna e la difesa dei centri storici dalle acque alte”. Un’anomalia assoluta in un sistema economico basato sulla concorrenza e sul mercato e in un sistema giuridico fondato sulla prevalenza degli interessi pubblici. Ma tant’è: un altro tassello dell’inquietante mosaico definito “anomalia italiana” (una illustrazione semplice degli eventi qui riassunti è nel mio scritto “La Laguna di Venezia e gli interventi proposti”).

Il Consorzio Venezia Nuova è diventato il vero potere nella città. Grazie agli ingenti finanziamenti pubblici ha tessuto una rete di relazioni negli ambienti imprenditoriali, accademici, politici, editoriali, tecnici, a Venezia e a Roma. L’oggettiva complessità della vicenda (e della stessa Laguna) ha reso distratta l’opinione pubblica nazionale, abilmente sollecitata a commuoversi invece per il rischio dell’affondamento di Venezia e delle sue inondazioni, che il MoSE miracolosamente (magia dell’eco biblica!) scongiurerebbe. Resistono le associazioni ambientaliste (in prima linea la sezione veneziana di Italia Nostra), alcuni nuovi comitati di base, e i partiti dell’area rosso-verde (peraltro incapaci di reagire alle manovre del sindaco con atti più incisivi di un sommesso brontolìo).

Una scoperta di queste ultime settimane testimonia il danno che l’appalto unico al Consorzio Venezia Nuova provoca non solo alla Laguna, ma anche al pubblico erario. E’ stato reso noto il progetto di un gruppo di ingegneri, particolarmente esperti nelle costruzioni marine, il quale ha tre attributi rilevanti: è estremamente più morbido nell’approccio tecnico, nelle soluzioni proposte, nell’impatto esercitato nell’ambiente lagunare; rispetta i tre requisiti decisivi, posti dal legislatore e non rispettati dal MoSE, della gradualità, sperimentalità e reversibilità; costerebbe da un terzo alla metà del progetto MoSE nella fase di costruzione, e infinitamente meno nella gestione (che al MoSE pone rilevantissimi problemi, ancora non risolti né quantificati). Forse è per questo che i padroni della città non lo hanno preso in considerazione.

Il primo principio non può che essere (mi piace ribadirlo proprio oggi, anniversario della presa della Bastiglia e dell’instaurazione dei valori della rivoluzione borghese) la prevalenza dell’interesse pubblico. Accanto a questo ne porrei altri due:

- il principio di pianificazione, ossia la regola che le decisioni sul territorio vengono espresse con atti precisamente riferiti al territorio, sintetici (ossia comprendenti l’insieme delle scelte sul territorio che competono all’ente decisore), formati con procedure trasparenti che comprendano la partecipazione dei cittadini o delle loro rappresentanze, e il

- il principio di competenza, ossia la prescrizione che la formazione degli atti di pianificazione compete solo agli enti elettivi di primo grado: Stato, Regione, Provincia e Città metropolitana, Comune.

In una legge nazionale mi sembrerebbe indispensabile generalizzare la prassi della co-pianificazione, ossia della concertazione istituzionale: le conferenze di pianificazione instaurate da alcune regioni sono una buona strada, a condizione che ne siano definite con chiarezza le modalità; le intese tra interessi pubblici di settori diversi, introdotta da l’articolo 57 del decreto legislativo 112/1998, possono divenire efficaci se diventano prassi generalizzata. La “carta unica del territorio” potrebbe diventare un obiettivo non irrealizzabile a queste condizioni, ed una enorme semplificazione per il cittadino e per l’operatore.

A questa prassi dovrebbe però affiancarsi il principio che gli accordi di programma, e in generale gli strumenti che prevedono il concorso nelle decisioni di soggetti, pubblici o privati, diversi dagli organi degli enti elettivi di primo grado, non possono comunque derogare rispetto alle scelte stabilite dal sistema ordinario della pianificazione.

Una ulteriore serie di principi dovrebbe regolare alcune questioni decisive del rapporto tra interessi privati e interessi collettivi nelle trasformazioni territoriali: le questioni attinenti l’edificabilità e i relativi “diritti”, i vincoli e così via. Ma prima di questi (o al vertice di questo gruppi di temi) ne porrei uno che riguarda i diritti dei cittadini: Si tratta della questione che, negli anni Sessanta, portò anche il nostro paese a stabilire dei requisiti minimi essenziali di vivibilità che dovevano essere garantiti a tutti i cittadini: i cosiddetti “standard urbanistici”. Questi devono certamente essere rivisti, aggiornati e integrati, tenendo conto delle nuove esigenze sociali e di antiche esigenze mai risolte (come quella alla casa), ma certamente alcuni “limiti non derogabili” di tali requisiti devono essere garantiti a ciascun cittadino della Repubblica, quale che sia la regione in cui abbia il suo domicilio.

Per gli altri aspetti del rapporto tra interessi privati e interessi pubblici ciò che andrebbe stabilito, ribadendo con chiarezza posizioni giuridiche spesso radicate nella dottrina e nella giurisprudenza, si può sintetizzare come segue:

- la facoltà di edificare (ciò che taluni chiamano “diritti edificatori”) si costituiscono solo in presenza di atto abilitativo (concessione edilizia o approvazione di progetto che sia) e ove i lavori siano iniziati;

- i vincoli ricognitivi, quelli cioè che costituiscono la concreta individuazione sul territorio di beni appartenenti a categorie tutelate da leggi nazionali e regionali (beni architettonici, ambientali, storici, paesaggistici) non sono indennizzabili, come stabilito da una costante giurisprudenza costituzionale;

- i vincoli funzionali, quelli cioè che derivano dalla scelta di riservare determinate aree (diverse da quelle di cui al punto precedente) alla realizzazione di servizi o impianti di pubblico interesse e pubblica fruizione, possono essere compensati nel rispetto delle prescrizioni urbanistiche vigenti;

- la perequazione tra proprietari di aree cui il piano attribuisce differenti possibilità di utilizzazione, può essere praticata solo nell'ambito di ciascun comparto d’intervento operativo, come del resto previsto, sia pure con qualche ambiguità, dalla proposta dei deputati della Margherita.

Infine, se sostenibilità significa non lasciare ai posteri meno risorse di quante ne possiamo godere, e se le risorse non sono soltanto acqua, aria, terra ed energia, ma anche cultura, storia e bellezza, allora mi sembra maturo il momento per riprendere ed estendere la tutela dei valori essenziali che la nostra storia ha sedimentato nel territorio accrescendo la sua qualità estetica. È giunto il tempo di dichiarare che il paesaggio rurale, come quello naturale, sono beni che non devono essere sottratti al godimento delle generazioni presenti e di quelle future, e quindi i terreni esterni a quelli definiti come urbani o urbanizzabili devono essere preservati da qualsiasi edificabilità. Nell’occasione, non sarebbe male riproporre per i centri storici una tutela più immediata, generalizzata e legata a programmi d’intervento finanziati, come aveva a suo tempo (1997) proposto l’allora ministro Veltroni.

Ho iniziato questa nota con l’affermazione che le due proposte di legge presentate dai deputati della Margherita e dalla “Casa della libertà” sono riconducibili (sia pure nella loro indubbia diversità) a una medesima matrice culturale. Ho argomentato questa tesi in un articolo scritto per la rivista Archivio di studi urbani e regionali, per cui ho appunto proposto il titolo: “Due le proposte di legge, una la matrice culturale”. Come di consueto, una bozza non corretta è in eddyburg. (agg. 17.7.03)

L’imbecillità degli sciacalletti di periferia amministratori della Banana non meritano davvero altro che il sarcasmo della lettera che Mariangiola Gallingani mi ha inviato. Non c’è nulla da aggiungere alle sue parole: leggetela (il link è qui sotto), e se non siete d’accordo scrivetemi. L’articolo di Michele Serra (anche il collegamento che vi ci conduce è qui sotto) apre la strada a una riflessione più profonda. Il suo articolo mi sembra quasi interamente condivisibile (la riserva riguarda quella frase sulle “le risposte sbagliate perché brusche, e presuntuose”, il cui bersaglio non mi è chiaro). È condivisibile ma va sviluppato..

Serra conclude con una domanda: “Ma il discorso su bellezza e bruttezza, in un paese come l’Italia, non dovrebbe essere pane quotidiano, anche in politica, perfino in politica?”. Già, soprattutto quando si tratta di ragionare “sulla propria vita quotidiana”.In quale sede la politica dovrebbe affrontare “il discorso su bellezza e bruttezza”? Questo è il problema. A molti dei frequentatori di questo sito la risposta à evidente. La sede è quella del “governo della città”, dei suoi obiettivi, strumenti, tecniche. La sede è quella della scelta tra gli interessi che nella città confliggono. La sede è quella della pianificazione territoriale e urbanistica. È questa sede che la politica da tempo ha disertato,e continua a disertare.

Chi si occupa professionalmente di questioni urbane non ignora che le periferie costituiscono, non da oggi, un problema. Spesso, si è descritto perché quel problema è nato,per effetto di quali errori e del prevalere di quali interessi; spesso si è indicato come affrontarlo e a quali condizioni è oggi possibile risolverlo. In altri paesi il problema non è rimasto solo all’attenzione deli urbanisti: lo hanno affrontato nella realtà, gettando in campo il peso di un’amministrazione pubblica autorevole ed efficace, dotata di strutture tecniche di prim’ordine, e di una volontà politica lungimirante e durevole: penso alla Francia e alla ristrutturazione urbanistica e sociale di aree come Vaux-en-Velin, e all’attuale politica di smobilitazione dei Grands Ensembles.

Ma le periferie non sono tutte uguali. Una cosa sono le periferie progettate in regime pubblicistico, nelle città amministrate da forze politiche che, tra i diversi interessi in campo, privilegiavano quelli dei cittadini su quelli della proprietà immobiliare e della speculazione . In quelle città sono nate periferie civili, “europee”, in cui a ciascuno di noi (per riprendere un passaggio dell’articolo di Serra) piacerebbe abitare. Quantri sindaci, in Toscana, in Emilia Romagna, in Umbria hanno scelto di abitare nelle periferie dei PEEP. Io personalmente ne ho conosciti parecchi (e ricordo con commozione quello di Grosseto, Giovanni Battista Finetti, prematuramente scomparso molti anni fa).

Certo, anche in alcune delle “periferie pubbliche” sono stati commessi errori: le Vele di Scampìa a Napoli, lo Zen di Palermo, il Corviale a Roma. E sono errori nei quali anche gli urbanisti hanno avuto la loro parte. A me sembra (ma voglio provocare una discussione anche su questo punto) che il loro errore principale sia stato d’aver creduto troppo nella capacità della politica di fare il suo mestiere: di saper modificare le condizioni generali (urbanistiche, amministrative, gestionali) che quegli interventi pretendevano per essere completati. Hanno costruito cattedrali nel deserto perché chi doveva occuparsi di trasformare quel deserto in un giardino non è riuscito a farlo.

Certo, si tratta di errori. E gli errori vanno criticati, anche se sono errori di “valutazione del contesto”, di astrattezza, di illuministica fiducia in una realtà desiderata ma impossibile.

Ma da errori ben diversi sono state generate la stragrande maggioranza delle periferie che oggi costituiscono l’ambiente della non vivibilità, il luogo della socialità inesistente, la culla del disagio patologico, che il delitto di Rozzano ha portato allo scoperto. L’errore, in queste periferie, ha un solo nome: la scelta politica di privilegiare gli interessi economici legati allo sfruttamento più rapace, più immediato, più miope (ma più lucroso) della risorsa collettiva costituito dal suolo urbano. La Napoli raccontata da Francesco Rosi nel film Le mani sulla città e la Roma illustrata da Italo Insolera nel libro Roma moderna sono descrivono magistralmente logiche analoghe di asservire la forma e la sostanza della città, e i destini di migliaia di uomini, alle fortune personali di pochi malfattori. Quella logica non è morta; la realtà analizzata da Rosi e da Insolera è ancora viva. Come direbbe Bertold Brecht, il grembo che le ha generate è ancora fertile.

È di questo che la politica dovrebbe parlare, e non di sottrarre potere all’uno o all’altro livello dello Stato (ora si parla di trasferire alle Regioni le competenze delle soprintendenze ai beni culturali) o di imbellettare qualche quartiere premiando le architetture griffate (è la novità lanciata da Urbani). È di questo che dovrebbe parlare se volesse fare il proprio mestiere, come Serra auspica, e se volesse intraprendere qual lavoro di lunga lena, di ampia prospettiva, di durata misurabile in molti mandati elettorali, che è necessario per restituire alle nostre città la bellezza che i decenni della speculazione hanno loro sottratto.

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scritti di Gallingani, Serra, Salzano (e altri)

Sul versante delle cose positive c’è indubbiamente da registrare il fatto che la consapevolezza dei valori della Laguna (della sua eccezionalità, del suo potenziale d’insegnamento universale, della sua modernità) si è consolidata. Il fronte che reagisce alle minacce e agli attacchi è, almeno localmente, reattivo e solido: ha sostanzialmente lo stesso segno e gli stessi caratteri di quel composito fronte nazionale di resistenza al regime che va sotto il nome dei Girotondi. E ugualmente si deve sottolineare che questo fronte è stato capace di precisare, aggiornare e rendere più convincente il programma alternativo al MoSE il testo di Italia Nostra Venezia lo riassume molto efficacemente.

Come spesso capita in questi tempi grigi, le nuove negatività sono però più consistenti. Il “volume di fuoco” che il Consorzio Venezia Nuova (il consorzio di imprese private “concessionario unico” dello Stato per lo studio, la sperimentazione, la progettazione e l’esecuzione dei lavori in Laguna: un’aberrazione!) può sviluppare ha annebbiato l’opinione pubblica nazionale e internazionale, e acquisito fette importanti di consenso in quella locale. Il governo attuale è certamente più vicino alla ideologia delle Grandi Opere (e dei Grandi Investimenti) di quanto non lo fossero i precedenti. La complessità della questione della salvaguardia della laguna si è rivelato un oggettivo ostacolo alla comprensione disinteressata del problema e delle soluzioni possibili in un’epoca in cui la semplificazione, lo slogan, lo spot televisivo sono la forma esclusiva di comunicazione di massa.

Ma ciò che soprattutto preoccupa è che non si vede luce a livello di chi dovrebbe decidere: le forze politiche istituzionali. Qui veramente il cambiamento è stato profondo. La storia tracciata da Luigi Scano ci rinvia a un’epoca (parliamo degli anni che vanno dal 1966 al 1985) in cui era condivisa in modo amplissimo, tra le forze politiche veneziane e nazionali, la posizione che si caratterizza per un approccio morbido, “sistemico”, saggio, ispirato alla tradizione storica del governo della laguna: la posizione che trovò il suo condiviso slogan nei tre attributi che gli interventi avrebbero dovuto in ogni caso possedere “gradualità, sperimentalità, reversibilità”.

Nel commentare i testi di Scano ho sviluppato questo ragionamento, che ripropongo qui. Osservavo che lo scontro di oggi, che vede opporsi i sostenitori del MoSE ai suoi avversari, trova le sue radici in due “logiche” opposte: quella che “concepisce la laguna veneziana come un comune bacino d'acqua regolato da leggi essenzialmente meccaniche”, e quella che “intende invece la laguna come un delicato ecosistema complesso, regolato da leggi che, con qualche forzatura, sono piuttosto apparentabili alla cibernetica, e rivolge i propri interessi alla conservazione ed al ripristino globale delle sue essenziali caratteristiche di zona di transizione tra mare e terraferma attraverso un complesso coordinato di interventi diffusi”.

Le due concezioni sussistono entrambe, ma il loro “peso politico” è oggi ben diverso. Allora, la posizione “meccanicista” era sostenuta, tra le forze locali, quasi esclusivamente dalla componente craxiana del PSI, autorevolmente rappresentata da Gianni De Michelis e da componenti minoritarie della DC, mentre a livello nazionale era appoggiata anche dalla potente pattuglia dei socialdemocratici del PSDI. Oltre che, naturalmente, dalle lobby legate all’edilizia e all’ingegneria pesante. Oggi quella medesima concezione è sostenuta dalla destra al potere a Roma e da una parte consistente del centrosinistra veneziano, a partire dal suo massimo esponente e sindaco della città.

Allora, anche per la presenza nello schieramento locale di personalità di rilievo a livello nazionale (come Bruno Visentini e Gianni Pellicani), la posizione “sistemica” godeva di un appoggio più largo rispetto a oggi dell’opinione pubblica nazionale, e in particolare nei settori legati all’ambientalismo e alla tutela dei beni culturali.

Come osservavo più sopra, ha indubbiamente inciso, nel provocare l’indebolimento del fronte antagonista alla “logica MoSE”, sia il profondo mutamento del quadro politico e culturale generale (Berlusconi non rappresenta solo se stesso, né solo l’ideologia della destra), sia l’immane potere di condizionamento dell’informazione dispiegato da quella vera e propria macchina di guerra che è il Consorzio Venezia Nuova, praticamente monopolista dell’informazione con i mezzi forniti dal contribuente. E per conquistare consenso ad una soluzione di un problema complesso come quello dell’equilibrio della Laguna, il monopolio dell’informazione è l’arma vincente.

All’importanza politica del cibo ci richiamano le parole di Frances Moore-Lappe, in una bella intervista rilasciata all’ Espresso. La studiosa britannica sostiene, con argomentazioni che mi sembrano fondate, che un circolo perverso lega l’obesità progredente tra gli USA (e, sembra, ormai anche tra gli europei), la denutrizione e la morte nei continenti poveri, la produzione di cibi geneticamente modificati e l’inquinamento da additivi chimici per l’agricoltura. La cosa singolare è che questo circolo perverso è scaturito da un’emergenza economica che ha provocato una radicale modificazione delle diete prevalenti nei paesi sviluppati. In sostanza, poiché negli anni 50 “il prezzo delle granaglie era al di sopra delle capacità d’acquisto di gran parte della popolazione mondiale” e di conseguenza “il mercato registrava una situazione di intasamento”, per stabilizzare i prezzi “i produttori decisero di dare da mangiare il surplus agli animali d’allevamento”. Da allora le quantità di cereali “date in pasto agli animali da macello superano di gran lunga quelle che vengono consumate dalla popolazione mondiale".

La Moore-Lappe illustra le conseguenze di questa decisione economica: “Gli effetti di questa scelta sulla salute mondiale si vedono e sono deleteri: l’obesità e tutte le malattie legate a questo tipo di dieta ricca di grassi animali dilagano. Interi continenti sono stati costretti ad abbandonare coltivazioni autoctone per dedicarsi alla crescita di cibi per l’esportazione. Il numero di aziende agricole a conduzione familiare è diminuito drasticamente come pure la varietà dei cibi coltivati. Il potere agricolo si e concentrato nelle mani di un pugno di società multinazionali e in molti casi, vedi l’Africa, i Caraibi e l’Asia, questo ha avuto un effetto frenante sullo sviluppo del sistema politico-economico del paese. Oggi, più che nel passato, nutrirsi non è solo un atto di sopravvivenza, è un atto politico. Riprendersi il controllo della propria alimentazione significa anche riprendersi il controllo del proprio destino politico".

La dieta mediterranea, o un’analoga dieta “nella quale ci siano cereali non raffinati coltivati quanto più possibile localmente e senza pesticidi o fertilizzanti chimici”, nella quale per integrare “le verdure, il grano e la frutta si usano legumi, noci e semi” e, se si vuole, “vi si aggiungono carne e prodotti di animali che però non siano stati stati alimentati con granaglie e siano cresciuti nei pascoli aperti”. Questa, secondo l’autrice, “non solo è la dieta più salutare, ma anche quella che pesa di meno sulle risorse della Terra”.

Questa tesi è nota da tempo alla cultura ambientalista e “No global” mondiale. Se l’ho richiamata ai frequentatori del mio sito è, oltre che per la suggestione della tesi, per due circostanze, l’una urbanistica l’altra personale.

La prima. Un’agricoltura basata sulla utilizzazione locale delle risorse, sulla qualità dei prodotti anziché sull’efficienza quantitativa della loro produzione, sull’accurata ricognizione e protezione di tutte le infinite nicchie di produzione naturale e storica sfuggita all’omologazione, è certamente quella più adatta a governare il territorio coerentemente con le esigenze di sostenibilità (sulle distorsioni di questo termine occorrerà ritornare), di tutela del paesaggio e delle risorse naturali e storiche, di promozione della qualità della vita e di difesa sociale del suolo.

La seconda. Nel curare l’edizione inglese delle mie ricette mi sono reso conto che quelle a base di cereali, verdure, legumi e prodotti del mare costituiscono la stragrande maggioranza di quelle ospitate in eddyburg, e quindi utilizzate da me e dai miei amici. Non mi dispiace scoprirmi, nella mia vita quotidiana, in sintonia con l tendenze più sagge della politica planetaria.

Non a caso, la leadership di Firenze non è berlusconiana, come non lo era quella di Venezia quando si sono lasciate esibire le automobili a piazza San Marco e si sono cancellate le norme che ostacolavano i fast food e gli affittacamere. Del resto, la politica di privatizzazione/liquidazione dei beni culturali dell’attuale governo non era stata innescata dai precedenti governi “alternativi”? Lo hanno raccontato sia Stefano Settis sia Giuseppe Chiarante, come i lettori di Eddyburg sanno bene.

Non ho nessuna intenzione di fare d’ogni erba un fascio e di dire che tutti sono uguali. Il problema è questo: se chi deve difendere il patrimonio comune dal saccheggio degli altri non ha valori diversi, non esprime una diversa idea di società, non riuscirà ad essere convincente nel tentativo di mobilitare chi sente il regime di Berlusconi come una vergogna e un delitto. E – seppure riuscirà a battere l’antagonista sul campo elettorale – non riuscirà a governare durevolmente.

Il problema della sinistra, e del centro democratico, è in primo luogo questo, e questo è il problema dell’Ulivo (allargato, come spero, o meno). Da quali valori ripartire, su quali valori costruire la propria identità, per quali valori chiedere il consenso? Non dovrebbe essere difficile individuare nella solidarietà, nella responsabilità verso il futuro, nella tutela del patrimonio fondante della propria storia, nel primato del lavoro, nella custodia dei diritti personali, nell’eguaglianza di fronte alla legge i cardini di in sistema condiviso di valori.

Più difficile, però, il passo successivo. Comprendere che solidarietà deve anche significare vivere la diversità dell’ altro non solo una particolarità da rispettare, ma una ricchezza da amare. Comprendere che la responsabilità verso il futuro (sostenibilità) comporta il sacrificio nell’immediato di alcune comodità e privilegi, e l’abbandono di molte miopie. Comprendere che i diritti personali hanno la loro garanzia di base (e insieme il proprio limite) nel diritto comune. E comprendere che vi sono valori che le leggi dell’economia non sono (ancora?) in grado di apprezzare, che il mercato non sa riconoscere. Che vi sono beni, insomma, non riducibili a merci: come la dignità del lavoro, come le qualità dell’ambiente, come i patrimoni della cultura e della storia.

Che quest’ultima realtà sia stata così rapidamente dimenticata a sinistra dimostra quanto superficiale e scolastica fosse stata la comprensione dell’analisi marxista della società.

Le voci presenti a Venezia venivano da Bolzano e dall’Ofanto, dal Cilento e dal Ticino, dalla Regione Emilia Romagna e dalla Toscana, dalla Daunia e dal Montalbano, dal comune di Sesto fiorentino a quello di Sesto San Giovanni, dai comuni dell’alto Brenta a quello di Mogliano veneto, dalla provincia di Prato a quella di Venezia. Si illustravano esperienze che riguardavano piani urbanistici e territoriali alle varie scale, politiche messe in opera su piani diversi, analisi finalizzate ad azioni molteplici.

Le voci esprimevano professionalità e interessi diversi. C’erano gli urbanisti nelle diverse applicazioni del loro mestiere: quelli impegnati a formulare e amministrare il quadro normativo e quelli operanti nella progettazione del territorio, quelli dedicati alla lettura dei contesti e a quella dei documenti e delle esperienze, quelli applicati all’insegnamento e quelli gettati nel campo dell’amministrazione. Ma accanto a loro politici e amministratori, esperti nelle politiche economiche e cultori delle discipline dell’ambiente naturale, agronomi e valutatori.

Tante voci diverse, dunque, ma una singolare convergenza dei linguaggi. Preceduta e consentita, forse, da una consapevolezza comune, impensabile qualche anno fa.

Se l’obiettivo comune è il migliore impiego di risorse preziose e finite, a beneficio dell’umanità di oggi e di quella di domani, se questo obiettivo è minacciato da una tendenza distruttiva e potente, se il nostro lavoro è per due serie di ragioni complesso e difficile, allora tutti gli strumenti devono essere impiegati unitariamente. Le nuove leggi sono necessarie ma non bastano; ugualmente servono, ma non bastano, i buoni piani e le buone analisi, le buone politiche e la buona didattica (dentro e fuori le mura degli atenei). Gli strumenti devono essere adoperati tutti, senza privilegiare l’uno a scapito dell’altro poiché mutuamente si sorreggono. Ciascuno, da solo, non è sufficiente. Sono tutti solidalmente necessari per raggiungere quell’obiettivo.

A due condizioni, anche queste emerse diffusamente nel convegno: che effettivamente gli strumenti siano finalizzati all’impiego lungimirante (durevole) delle risorse territoriali, e che essi siano chiaramente orientati alla prevalenza dell’interesse comune.

Le condizioni di lavoro non sono le migliori: da tutti i punti di vista. Quello delle condizioni materiali, per cominciare. Mentre fiumi di moneta sonante viene diretta verso opere spesso inutili e ancor più spesso dannose (per i modi in cui vengono attivate, se non sempre per la loro natura), si lesinano le risorse minime per il funzionamento delle istituzioni: ad un aumento dei carichi di lavoro dei comuni, per esempio, corrisponde il blocco delle assunzioni e finanche del turnover. Non parliamo dei luoghi dove si conserva la memoria, gli archivi di Stato, dove si tagliano le bollette della luce e non si possono comprare le fettucce per chiudere i faldoni. Non parliamo dei luoghi dove si sviluppa la ricerca e si amministra l’insegnamento, che devono cercare nel “mercato” le risorse (e i corrispondenti vincoli di servitù) per la loro sopravvivenza. Si sa, la “gente” non ha bisogno di memoria né di amministrazione, rinuncia volentieri al sapere e al futuro, solo i “cittadini” se ne servono.Quello delle condizioni morali, poi. Chi lavora per la collettività sa fare a meno dei riconoscimenti e delle gratificazioni (sebbene gli pesi). Ha bisogno, però, di vedere che il suo lavoro ha uno sbocco, che le linee che propone di tracciare (e che l’eletto accetta e approva) divengano effettivamente elementi della realtà. Ha bisogno del rispetto del suo “padrone”, tanto più che esso non è lì per proprio conto ma come mandatario della società che lo ha espresso con il voto: rispetto per il suo lavoro, per il sapere tecnico che in esso ha investito. Le “Bassanini” hanno accresciuto la sua responsabilità personale, non gli hanno dato gli strumenti per rendere più solida la sua rispettabilità professionale.Non c’è da meravigliarsi di tutto ciò. In Italia la pubblica amministrazione non ha mai goduto della stima di cui può giovarsi in altri paesi. Figuriamoci oggi. Un amico francese, alto funzionario dell’amministrazione dei lavori pubblici e dell’urbanistica, mi diceva che, in sede europea, gli riusciva spesso difficile comprendersi con i colleghi di altri paesi a proposito di alcune parole chiave, come ad esempio quella di “interesse pubblico”. Come italiano comprendevo benissimo la sua difficoltà. Se Berlusconi è l’apoteosi di una concezione per la quale gli strumenti dell’interesse pubblico sono finalizzati a servire l’interesse privato, non si può dire che nei petti dei suoi oppositori alberghi sempre una concezione del tutto diversa. “Meno Stato e più mercato” e “privato è bello” sono stati slogan agitati dal centro-sinistra non solo contro la holding di Stato che produceva panettoni.Che in molti comuni, province, regioni si continui a lavorare per rendere la nostra terra e le nostre città più accoglienti e umani (come il convegno di Venezia certamente testimonierà) è un segno di speranza per un futuro verso il quale occorre tenere aperta ogni prospettiva. Con maggiore tenacia e impegno, da parte di ciascuno, quanto più esso appare incerto e lontano.Pianificazione e ambiente 2003

Devo motivare questo giudizio di cattivo governo? L’ho già fatto in molte occasioni: i documenti sono in eddyburg. Li sintetizzo. Sulle scelte di fondo della città (il MoSE e la devastazione della Laguna, la sublagunare e la turistizzazione selvaggia della città, il destino di Porto Marghera e i provvedimenti da prendere per il rischio della chimica, la politica della casa e il rapporto con la proprietà immobiliare) le giunte che si sono succedute si sono rivelate incerte, divise, e fin dall’inizio sono prevalse le posizioni più corrive con il processo di mercantilizzazione della città e di subalternità rispetto ai poteri forti.

Il sindaco Costa è diventato il più fervido e tenace fautore di questa linea distruttiva, ma essa non è stata inventata all’ultimo momento. I primi atti sono stati compiuti quando era sindaco Cacciari. Tra le prime deliberazioni della sua giunta ci fu lo smantellamento (mediante il bulldozer dell’assessore D’Agostino) di tutti gli strumenti che avrebbero consentito di controllare le destinazioni d’uso: dalla revoca della delibera comunale di recepimento della Legge Mammì sui vincoli alle tipologie di attività commerciali e assimilabili nei centri storici, al piano regolatore della città storica che fu profondamente snaturato proprio sul punto del controllo delle destinazioni d’uso. Si avviò (con il progetto Giudecca) il rovesciamento della linea perseguita per un ventennio, con l’accordo di tutti:”nessuna casa nuova se non pubblica e per i cittadini veneziani”. Si avallò la proposta della sublagunare, utile solo ad aumentare l’afflusso del turismo “mordi e fuggi”. E si iniziò con l’atteggiamento remissivo nei confronti del MoSE (“è inutile opporsi, tanto non si farà mai”).

Potrei proseguire. Ma non è questo il punto: il punto è valutare oggi se – una volta constatata l’assoluta incapacità dei partiti, di tutti i partiti, di basare su una critica del passato una proposta diversa per il futuro – l’indispensabile elemento di discontinuità con il passato possa venire dal candidato Felice Casson o dal candidato Massimo Cacciari: poiché è tra questi due che dobbiamo scegliere.

Al primo turno non ho votato per nessuno dei due: il mio è stato un voto sprecato. Adesso non voglio sprecarlo. Non voterò Cacciari, perché è lui che ha avviato la linea che critico, perché è lui che ha abbandonato il campo a metà legislatura, perché è lui che ha incoronato Costa nominandolo suo erede, perchè è lui che ha abbandonato la politica dell’urbanistica all’uomo che rappresenta il più robusto elemento di continuità tra le prime giunte cacciariane e l’ultima.

Voterò invece Felice Casson. Perché è l’unico possibile elemento di discontinuità con il recente passato, pur nella fedeltà ai valori di difesa della città che tutti professano e che lui non ha tradito. E perché ho seguito il suo lavoro di magistrato con stima, con partecipazione, con il costante riconoscimento del suo valore civile: che non può essere estraneo ad alcun mestiere e ad alcun ruolo. Perché ciascuno di noi, quale che sia il suo lavoro, quale che sia la delicatezza del suo ruolo, è innanzitutto un cittadino. Spero vivamente che il cittadino Casson sia eletto sindaco di Venezia, e che sappia dimostrare nel governo della città la stessa autonomia che ha caratterizzato il suo lavoro di magistrato.

E voterò Casson anche perché il suo antagonista ha dichiarato recentemente (8 aprile 2005) che “gli elettori di destra certamente preferiscono Cacciari”. Io sono un elettore di sinistra.

Quattro cose mi hanno colpito. Le racconto nell’ordine degli articoli.

La prima, articolo 3. La pianificazione del territorio avviene “sentiti i soggetti interessati” (comma 2). Si precisa che “le funzioni amministrative” (la pianificazione) “sono svolte in maniera semplificata, prioritariamente mediante l’adozione di atti paritetici in luogo di atti autoritativi, e attraverso forme di coordinamento tra i soggetti istituzionali e tra questi e i soggetti interessati ai quali va comunque riconosciuto comunque il diritto alla partecipazione ai procedimenti di formazione degli atti” (comma 3). Fino ad oggi il piano urbanistico esprimeva la volontà dell’amministrazione elettiva, e solo dopo veniva sottoposta al parere dei privati. Adesso il procedimento è invertito: il piano è redatto sulla base delle espressioni di volontà dei “soggetti interessati”. Siamo in Italia, non in Olanda. Qualcuno può pensare che, quando si parla di “soggetti interessati” ci si riferisca alla cittadina e al cittadino? Qui tutti sanno che si tratta della proprietà immobiliare.

La seconda, articolo 4. “Le regioni individuano gli ambiti territoriali da pianificare e l’ente competente alla pianificazione […]”. Fino a oggi l’ambito e l’ente competente erano quelli dei comuni, della cui competenza a pianificare nessuno aveva mai dubitato. In nome dell’efficienza ci si propone di affidare alle regioni (ma è costituzionale?) la facoltà di annullare una delle fondamentali storiche competenze dei comuni. È giusto?

La terza, articolo 7. L’attuazione del piano urbanistico (è il titolo dell’articolo) non può essere illustrata in poche righe. Basti annotare che si sollecita l’impiego di “strumenti e modalità di perequazione e di compensazione” (comma 2), e che per la prima volta si introduce nell’ordinamento giuridico italiano il concetto di “diritti edificatori” i quali vengono attribuiti dal piano urbanistico nei modi che dovranno essere regolamentati dalla regione. Ciò palesemente significa ribadire e rafforzare i poteri della proprietà immobiliare. (Significa anche che, fino a oggi, le premesse su cui si basava il di sovradimensionamento del PRG di Roma erano infondate, c.v.d.).

La quarta, ancora articolo 7. Il proprietario di un’area destinata a servizi pubblici (un parco, una scuola, un ospedale) può chiedere al comune “la realizzazione diretta degli interventi d’interesse pubblico o generale previa stipula di convenzione con l’amministrazione per la gestione dei servizi” (comma 5). Prosegue la marcia verso la privatizzazione di tutto ciò che, dopo la rivoluzione borghese del 18° secolo, si era mano a mano affidato al pubblico nel corso dei successivi due secoli, per correggere le storture di un sistema imperfetto.

L’analisi della legge merita di essere approfondito. Nel farlo, occorrerà verificare quante delle innovazioni (come si vede pesanti) che si propongono nascano dagli ambienti culturali e politici del centrosinistra degli ultimi anni. A mio parere molte. Aspettavano una maggioranza di destra (e quale destra!) per essere tradotte in legge dello Stato.

Il dialogo non è possibile con chi nega, con parole che sono fatti, secoli di maturazione della democrazia liberale.

Con chi pretende di riassumere in se stesso i tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) la cui separazione e il cui equilibrio sono garanzia di libertà per tutti.

Con chi crede di essere il rappresentante diretto di tutto il popolo italiano, quando è solo il rappresentante di un coacervo di forze (la Casa delle libertà) che è stata eletta da una risicata maggioranza degli elettori.

Con chi presume che, per aver conquistato il ruolo di Presidente del consiglio grazie alle sue fortune, gli sia lecito costruire una sua propria e particolare Giustizia (allo stesso modo in cui si è costruito un proprio e particolare Mausoleo).

È difficile comprendere che cosa possa fare la politica, in un regime parlamentare, al cospetto di simili perversi poteri. Resistere è certo necessario: applicando con rigore le regole la propria professione e la propria “missione”.

Come ha dimostrato di saper fare la magistratura; adoperando gli strumenti del proprio potere di garanzia.

Come ha dimostrato di saper fare il Presidente della Repubblica, eletto (anch’egli indirettamente, come B.) da una ben più larga maggioranza.

Come ha dimostrato di saper fare la stampa non asservita al Monarca, che non si riduce alla pattuglia dei giornali più affilati nella denuncia.

Come hanno dimostrato di saper fare i cittadini (di sinistra, di centro e anche di destra) gioiosamente riuniti nella protesta dei girotondi.

Ma resistere non è sufficiente: deve entrare in campo la politica. E perciò la fonte di preoccupazione più grande (placata l’onda dell’indignazione) è quella delle divisioni che dominano ancora nel campo degli oppositori. Soprattutto (duole dirlo a un uomo di sinistra) nel territorio della sinistra.

È accaduto altre volte che le divisioni della sinistra aprissero la strada a lacerazioni dell’intera società, e della stessa storia dell’umanità: avremmo potuto ricordarlo anche tre giorni fa, nel Giorno della memoria. Compito della politica è quindi oggi costruire l’unità del dissenso a questo regime: l’unità quindi di un progetto che proponga al paese la ricostruzione delle basi dello Stato del diritto, della libertà di tutti, del primato degli interessi comuni. All’interno di questo progetto ciascuno maturi ed esprima le proprie posizioni per confrontarle dialetticamente con le altre.

Se è così, bisogna rispondere. Lo sforzo da fare oggi, l’impegno maggiore che occorre esprimere, è di unire tutte le forze che vogliano opporsi a Berlusconi. Non perché è di destra, non perché sostiene gli interessi politici e ideologici della destra, ma perché sta distruggendo le basi della convivenza civile.

Distrugge lo Stato, basato sull’equilibrio dei poteri e sul primato dell’interesse collettivo su quello individuale. Distrugge la Repubblica, dileggiando i suoi valori fondativi. Distrugge la Democrazia, sostituendo in modo sempre più marcato la “gente” (e gli spettatori) ai cittadini. Distrugge la Politica, riducendola alla difesa dei suoi personali interessi. L’unità di tutti. E in primo luogo l’unità della sinistra, dunque. L’ispirazione degli appelli all’unità (come quello di Giorgio Ruffolo su Repubblica del 9 maggio) sono perciò sacrosanti. Ma unità nella chiarezza. E chiarezza vuole che si prenda atto che la sinistra è “plurale”. In essa convivono posizioni politiche diverse: non solo nella sinistra nel suo complesso, ma anche in quella sua parte (ancora rilevante) che sono i DS.


Nessuno può nascondersi che all’interno di quella formazione ci sono, e svolgono ancora ruoli dominanti, posizioni politiche che hanno oggettivamente cospirato (spirato insieme) con il berlusconismo. Non parlo degli errori politici (quelli che ha compiuto l’on. D’Alema,, per intenderci, che in un’alto paese, dopo aver aperto la strada al suo avversario, si sarebbe ritirato per qualche anno a vita privata). Parlo delle concrete politiche che si sono promosse su terreni rilevanti: l’aver dimenticato che in Italia il mercato ha bisogno di più Stato (nella speranza di togliere voti a Berlusconi), l’aver contribuito alla dissoluzione dell’unità della Repubblica (nell’illusione di tagliare l’erba sotto i piedi a Bossi), l’aver ridotto l’autorità degli strumenti dell’azione pubblica (dal pubblico impiego all’urbanistica) e la centralità dei valori pubblici (dai beni culturali all’ambiente).

Sarebbe interessante domandarsi il perché di questi cedimenti (se lo facessimo ci imbatteremmo del difficile ragionamento sui limiti dell’attuale democrazia). È invece necessario rendersi conto che sono cedimenti non solo rispetto a una impostazione politica di sinistra, ma rispetto a una impostazione di moderna democrazia europea. È a questa che occorre tornare, se si vuole davvero battere il crescente regime e costruire un sistema di alleanze più solido di quello che si tentò con Bossi.

In una cartella che ha come simbolo l’Italia rovesciata (il link è qui sotto) conservo alcuni testi. Un breve profilo del giudice Carfì (a cui dedico anche l’inserimento nell’Antologia della poesia di Leopardi che sembra preferire, “A Silvia”). Un’intervista al magistrato che ha diretto la procura di Milano, D’Ambrosio. E due commenti: uno “da sinistra”, di Ezio Mauro, e uno “da destra”, di Sergio Romano. Per memoria.

Mi sembra che la situazione sia di una gravità eccezionale. L’aggressiva arroganza supera ogni immaginazione. Altro che Bush. E le armi sono potenti: sei televisioni, le principali; alcune case editrici, le principali; il più dotato impero economico d’Italia; e poi, i poteri istituzionali del governo. L’enorme capacità che questo potere esercita colpisce argini che hanno resistito e finora si sono dimostrati efficaci (la presidenza della Repubblica, la magistratura, la stampa cartacea), ma non sono eterni. Possono esercitare una resistenza contro il regime che avanza, non possono sconfiggerlo.

La fine dello strapotere del signor B., e la salvezza della democrazia italiana, possono venire solo dalla politica. Questa una volta ha già fallito, quando non ha inciso – come avrebbe potuto – il bubbone maligno del conflitto d’interessi (ed è stupefacente che i responsabili della sconfitta non abbiano ceduto il passo, come sarebbe accaduto in qualsiasi democrazia non capovolta).

Non sembra esistere una destra alternativa a quella del signor B.: l’Italia è questa, non come vorremmo che fosse. La sinistra esiste, è larga, abbraccia un arco di posizioni e d’interessi capaci di esprimere, nel loro complesso, una maggioranza molto ampia delle componenti sociali, culturali, ideali del paese. Esiste ma è divisa, forse come non mai (eccetto forse negli anni che prepararono il fascismo). Che si aspetta? Se qualcosa non cambierà presto, nelle prossime elezioni politiche aumenterà ancora una volta il partito, via via più grosso e più impotente, di quelli che rifiutano di votare, perché non sanno per chi. “Ma è tardi, sempre più tardi” (E. Montale, Dora Markus).

Si tende così (poco importa se per ignoranza o per sapienza) a far scomparire quella che l’appello “SOS per gli Archivi” (vedi il link qui sotto) definisce “il fondamento dell'identità nazionale”. In che cos’altro risiede infatti quest’ultima se non nella consapevolezza di un comune passato, di un comune tessuto di legami, di costumi, di cultura, di sentimenti, di passioni, di virtù e di vizi, che si è sedimentato nel tempo? È questo l’humus che alimenta le radici della nostra civiltà, dunque di ciò che siamo e ciò che i nostri posteri potranno essere. Riaffiora nella ragione del presente proprio perché le sue testimonianze sono custodite negli archivi, e in essi amministrate e distribuite.

Cancellazione della memoria scritta, e accanto a questo, cancellazione della memoria depositata nel territorio: è una direzione parallela nella quale sempre più velocemente ci si incammina. Così avviene quando si abbandonano i centri storici al degrado provocato dalla banalizzazione turistica e dalla devastazione delle grandi opere (penso a Venezia e alla sua Laguna perché ci vivo, ma non solo a questo sito), quando si cancellano dal territorio le tracce di antichi armoniosi rapporti tra la natura e il lavoro dell’uomo, quando si assume quale unico motore e arbitro delle trasformazioni territoriali l’interesse individuale alla valorizzazione del proprio privato patrimonio immobiliare, piccolo o grande che sia.

Altra direzione, del resto, non può essere seguita dagli eventi, se si abbandona quel metodo della pianificazione urbana e territoriale, che fu inventato due secoli fa proprio perché gli interessi comuni non potevano trovare altri strumenti per correggere le storture provocate dallo spontaneismo del sistema economico.

Se ci si pensa, ci si rende conto che viviamo proprio in una strana stagione. Alla cancellazione del passato fa da complemento la cancellazione del futuro. Se è vero, come a me sembra indubbio, che la politica ha perduto ogni tensione verso il futuro, verso un progetto che non consista semplicemente e immediatamente nella conservazione o nella conquista del potere. Ciò che investe più d’un mandato elettorale non interessa più nessun politico. Ciò che interessa più d’una generazione non interessa più nessun cittadino (anzi, nessun membro della “gente”). Come stupirsi allora se scompare ogni valore che non sia quello del successo immediato? (Guardate la lettera di Fatarella nella Posta ricevuta, per avere un’immagine efficace del clima di oggi, dei guasti già provocati).

Sarà allora una stagione lunga quella in cui siamo immersi, quella in cui il passato e il futuro non contano più? La sua durata dipende anche da quanto ciascuno di noi vuol fare e sa fare.

Due anni dopo, a Copenhagen, in un incontro internazionale si decise di dedicare quel giorno alla Festa internazionale della donna. Da allora, l’8 marzo si è intrecciato alla vicenda del progressivo affrancamento delle donne dalle condizioni imposte alla loro umanità e dignità dall’altro sesso (e più precisamente, dalle regole dei sistemi economico-sociali che si sono succeduti nei secoli).

È una festa quindi, quella di oggi, che sollecita a riflettere in molte direzioni. Perché è nelle molte direzioni che il progresso economico, politico, sociale e culturale ha percorso nel secolo scorso che il movimento delle donne ha dato il suo contributo: non solo all’affermazione dei diritti di un genere maggioritario me emarginato, ma a quello della società nel suo insieme. ”Che ‘a piasa, ‘a tasa e ‘a staga a casa”, è il vecchi detto veneto: se avesse accettato questo tabù posto al suo ruolo (piacere, tacere, fare la casalinga) molte delle conquiste di cui oggi tutti ci gioviamo non sarebbero state raggiunte (o lo sarebbero stato molto molto più tardi). Vogliamo ricordarne alcune?

Il suffragio universale, che ha reso la democrazia lo strumento realmente utilizzabile per basare il governo sulla volontà del popolo: il migliore degli strumenti fin qui inventati dall’uomo, nonostante i suoi difetti. Condizioni di lavoro migliori per tutti nelle fabbriche, nelle campagne, negli uffici, ottenuti grazie all’ingresso delle donne nelle vertenze sindacali. I nuovi diritti civili di tutti i soggetti, maschi e femmine, raggiunti nel nostro paese grazie alle grandi battaglie per la liberazione della donna degli anni Sessanta e Settanta. E l’odierna campagna mondiale per la pace, che si ricollega alle infinite manifestazioni animate dalle donne (quasi geneticamente ostili a tutto ciò che minaccia la specie) in tutto il corso del secolo che sta alle nostre spalle.

Poiché sono urbanista, voglio ricordare il contributo che diede il movimento delle donne, negli anni Sessanta, all’introduzione anche in Italia di uno strumento essenziale per rendere più vivibile la città: gli standard urbanistici. In quegli anni era forte la rivendicazione organizzata, soprattutto delle associazioni delle donne, per ottenere più spazio nelle città per gli asili, il verde, le scuole: come strumento per essere sollevate dall’obbligo del lavoro casalingo, come tensione a uscire dalle mura domestiche e impadronirsi della città. La rivendicazione condusse a stabilire, per legge (765/1968), che i piani urbanistici dovevano riservare, per ogni abitante, un certo numero di metri quadrati nella città a spazi pubblici e di uso pubblico. Naturalmente non basta una soglia quantitativa per migliorare la città e renderla più vivibile. Serve – una volta raggiunto quell’obiettivo - il lavoro degli urbanisti, e quello degli amministratori; servono l’elaborazione e l’attenzione della cultura e della politica, che alimentano e sorreggono gli operatori sul campo.

Il lavoro di questi attori non si è sempre diretto nella direzione giusta, né sempre con la necessaria intelligenza e determinazione. Spesso, troppo stesso gli standard sono stati considerati un mero adempimento burocratico, e non un primo passo verso la progettazione di una città radicalmente diversa da quella attuale. Spesso gli standard sono stati utilizzati come pedaggio da pagare (più scarsamente possibile) per uno sviluppo urbano misurato in termini di cubature edificabili.

Spesso, non sempre. E uno degli auguri che vorrei fare oggi a tutte le donne (e a tutti gli uomini) è che gli esempi positivi si moltiplichino e si generalizzino. Che le conquiste quantitative strappate nei decenni trascorsi non vengano tradite, ma tradotte nella qualità di una città finalmente resa amica delle donne e degli uomini.

L’altro augurio nasce da questi giorni, in cui governi inetti minacciano di gettare il mondo nell’abisso di una guerra targata USA. Queste tre lettere ci spingono oggi a ricordare che la festa di oggi esprime anche la solidarietà con le 129 donne che, quasi un secolo fa, morirono negli USA per i loro e i nostri diritti. Mimosa e pace, sulle due sponde dell’Atlantico, come un arcobaleno.

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