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Legge urbanistica.

Vi hanno accennato di recente un paio di ministri “tecnici”. Succede ad ogni evento che scuota il territorio (come l’ultima alluvione in Liguria), o a ogni campagna che scuota l’opinione pubblica (come quelle per lo scempio del paesaggio). Questo non è male; il male è che i politici d’oggi non studiano, non conoscono che cosa in altri tempi legislatore e governante hanno fatto o non fatto, perciò non sanno che le sciagure avvengono anche perché non sono state applicate con rigore leggi che le avrebbero scongiurate. Alcune proposte estemporanee a proposito di legislazione urbanistica le abbiamo lasciate cadere, come quella del ministro Clini, che non è stata più di una battuta; altre le abbiamo criticate, come quella del ministro Ornaghi, che sembrava promettere un provvedimento strutturato (ma non sarebbe meglio se si occupasse delle sue competenze, per esempio della pianificazzone paesaggistica?).

Della proposta Ornaghi abbiamo criticato il fatto che essa sembrava voler generalizzare «i bonus volumetrici, lo spostamento delle volumetrie, le modifiche a go-go delle destinazioni d'uso». E abbiamo ugualmente criticato l’INU, che di quella proposta aveva condiviso - in particolare - la promessa di definire «con una normativa dello Stato strumenti da tempo presenti nelle leggi regionali ma mai consolidati giuridicamente come la perequazione e la compensazione urbanistica». Giuseppe De Luca, autorevole esponente di quell’istituto, ci ha risposto che era «basito» della nostra critica, la quale non coglieva la necessità di una legge che evitasse di «lasciare ai caotici interventi dei provvedimenti finanziari di turno l’introduzione di normazioni urbanistiche e pianificatorie» quali quelle della perequazione, dei crediti edilizi e così via.

La “perequazione” è stata ed è tuttora un disastro; “consolidarla” è un danno ulteriore rispetto alla sua invenzione. Il modo in cui la perequazione è stata proposta e praticata ha costituito uno dei peggiori strumenti adoperati in Italia per consolidare e accrescere il peso della rendita e il potere della speculazione immobiliare. Sappiamo che è stato cospicuo il contributo che l’INU, e i suoi maggiori e più autorevoli esponenti, hanno dato a questo strumento, a partire dall’inizio degli anni Novanta. Lo abbiamo più volte denunciato, come abbiamo denunciato il fatto che un poderoso sostegno intellettuale all’accresciuto potere della speculazione immobiliare (e un pesante intralcio ai tentativi di contrastare, con una corretta pianificazione, il potere dell’immobiliarismo) è stata costituita dall’invenzione – da parte del presidente onorario dell’INU - dei “diritti edificatori”, fino ad allora sconosciuti al diritto e ai suoi operatori.

Oggi la perequazione urbanistica generalizzata, i diritti urbanistici e i suoi “derivati”, i “crediti edilizi”, sono diventati prassi corrente, grazie al sollievo che le pratiche simoniache della vendita dei diritti pubblici sul territorio offrono ai comuni strangolati dalla provocata asfissia dei bilanci locali. Se una legge urbanistica serve oggi è per cancellare ogni “perequazione urbanistica” che vada al di là da quella prevista dalle legge ponte del 1967, per ristabilire l’inesistenza di “diritti edificatori” e per condurre a compimento il tentativo compiuto dal “sovversivo” ministro Piero Bucalossi, con la sua legge del 1977, precisando che l’edificabilità (e in generale la trasformabilità del territorio) è il prodotto di una concessione dell’autorità pubblica sulla base di un atto di pianificazione territoriale e urbanistica socialmente, ambientalmente e culturalmente orientata.

La continuità del legislatore di oggi con quello di ieri non induce a sperare che una simile legge possa oggi emergere dal parlamento o dal governo (non si sa bene dove risieda il potere legislativo), per quanto duro ciò sia per le quotidiane fatiche di chi, nelle oscure trincee degli enti locali, ancora si impegna a difendere la buona urbanistica – e magari a praticarla. Tanto più se si sollecita illegislatore a finalizzare la futura legge urbanistica al consolidamento, «con un normativa dello stato», di quei devastanti strumenti.

Energia

Secondo tema, la questione energetica. Il governo ha minacciato di eliminare gli incentivi alle energie alternative. Alle pressioni perché questi fossero mantenuti si sono contrapposte sollecitazioni perché invece essi fossero rivisti in particolare per ridurre il peso dell’eolico. Un conflitto nell’ambito del mondo ambientalista? Probabilmente è un rischio che esiste, grazie al modo sussultorio, causale, dominato dall’emergenza che volta a volta detta le regole della discussione e della decisione su questioni notali – e perciò stesso meritevoli di ragionamente complessivi e di decisioni coerenti e di portata strategica.

Una discussione seria sull’energia dovrebbe partire da una riflessione e decisione su un interrogativo di fondo, il cui esito condiziona l’intro quadro: quanta energia è necessaria all’Italia, oggi e in una prospettiva di medio periodo? E’ evidente che questa domanda avrà risposte diverse a seconda del modello di sviluppo che si decide di scegliere: se quello tipico della “società opulenta”, della produzione indefinitia di merci indiopendentemente dalla loro utilità sociale, oppure quello alternativo che da tempo ha iniziato a configurarsi. E’ evidente quale sia il modello che l’attuale maggioranza politica condivide, ma una discussione e una scelta esplicita (e la conseguente quantificazione) farebbero chiarezza sulle scelte di merito.

La seconda premessa dovrebbe essere quelle di scegliere, per avviare operativamente la soluzione (qualunque essa sia), il metodo della programmazione: la definizione cioè di un programma nazionale dell’energia, che stabilisse la cornice tenendo conto di tutti gli aspetti del problema: quali energie produrre e quali energie consumare, dove, come, quando, con quali risorse, tenendo conto delle ricadute che la produzione di energia ha su settori delicati come la salute delle persone e quelle dell’ambiente, sull’assetto del territorio e del paesaggio e su quello dei consumi energetici, e così via. E’ evidente che le scelte in merito alla mobilità e al consumo di territorio, all’organizzazione dell’habitat e alla progettazione delle strutture necessarie per la produzione di energia (compresa quella delle caratteristiche tecniche delle pale eoliche), dovrebbero far parte del programma, ed essere assunte in piena autonomia e indipendenza dalle suggestioni delle aziende produttrici e dalle loro lobbies.

E’ probabile (o almeno, è fortemente auspicabile) che nell’ambito di un simile programma non trovino spazio né la scelta di un ritorno al nucleare, o allo sviluppo ulteriore delle fonti fossili, né le connotazioni distruttive del paesaggio e di numerose risorse (da quelle finanziarie a quelle agricole) che ha assunto lo sviluppo incontrollato dell’eolico e rischia di assumere quello del solare nel nostro paese. Come è fortemente auspicabile che l’utilizzazione delle biomasse sia strettamente finalizzato al recupero dei residui, e non provochi (come sta provocando) nuove forme di sottrazione di suoli alle produzioni agricole finalizzate all’alimentazione.

Anche a proposito della questione energetica è peraltro assai difficile che, nell’attuale quadro politico, il “decisore finale” assuma l’impegno di seguire un procedimento come quello che sembra ragionevole proporre. Ciò che conduce al terzo e ultimo tema che si voleva affrontare: la politica.

La politica

Occorre avere una visione della politica diversa da quella corrente se non si vuole cascare nell’antipolitica (così come, del resto, si deve avere una visione dell’economia diversa da quella corrente se non si vuole cascare nel rifiuto di ogni discorso economico). Per fortuna i frequentatori più assidui di eddyburg condividono una definizione di politica che ho più volte proposto mutuandola da Lorenzo Milani: politica è l'unirsi tra più persone per “uscire insieme” da un problema che è di tutti. E’ una definizione di carattere generale, quindi va specificata. A me sembra che il “problema” oggi condiviso dalla grande maggioranza di quanti appartengono al vasto mondo dei partiti politici (e a gran parte del mondo delle istituzioni, dai partiti fortemente permeate) sia quello che si definisce sinteticamente “il potere per il potere”. In altre parole, conquistare e mantenere, per sé e per il proprio gruppo, tutto il poitere possibile, indipendente da qualsiasi finalità di carattere generale. Una vasta letteratura disponibile per illustrare questa forma della politica. Rinvio per tutti al recentissimo libretto rosso di Piero Bevilacqua, Elogio del radicalismo (Laterza, 2012).

Rifondare la politica, costruire una nuova politica, è impresa difficilissima. I germi di una nuova politica (anche questo è un concetto ampiamente sviluppato in questo sito) sono presenti nel vasto movimento nato dal disagio provocato in tutto il mondo dalla forma attuale del capitalismo (quello che Luciano Gallino ha battezzato “finanzcapitalismo”) e dalla sua ideologia, il neoliberalismo, e dalle conseguenti reazioni critiche. A partire dalla condivisione del disagio e della critica delle sue cause sono sorti, e cntinuano a sorgere, tentativi di organizzare confluenze tra diversi gruppi, oppure soggetti politici nuovi, che costituiscano forme utilizzabili fin dall’immediato come credibili alternative alla “politica” dominante.

Tuttavia non bastano il disagio e la critica - per quanto estesi - per modificare un radicato sistema economico sociale. Non basta l’affiorare, nell’ambito della società, di germi, segnali, inizi di una possibile contro-egemonia. E’ necessaria anche un’analisi accurata del sistema vigente, della storia da cui è nato e si è affermato, dei suoi vizi ed errori, delle forze su cui può contare per sopravvivere. E’ necessario anche individuare una forza sociale che abbia, nelle intime ragioni della sua esistenza, la ragione stessa del suo porsi come motore dell’alternativa. Ed è necessario individuare e condividere una nuova ideologia (un insieme coerente di principi, sentimenti, convinzioni) da una parte vasta, e potenzialmente maggioritaria, della società.

Nel frattempo, l’unica linea possibile è quella che tende – da un lato – ad approfondire la ricerca, la discussione e la sperimentazione di ciò di coerente con la nuova affiorante ideologia già si manifesta nella società e – dall’altro lato, sul piano delle istituzioni della democrazia attuale – a resistere e attaccare perché restino aperti più spazi possibili per costruire basi più solide e prospettive più certe e convincenti per una “nuova politica” capace di conquistare e gestire il potere: governare.

In questo quadro, un compito importante (ed essenziale perché l’affermazione di un sistema economico-sociale profondamente rinnovato sia possibile) è quello di risvegliare le coscienze dal torpore in cui mezzo secolo di oscuro lavoro del “persuasori occulti” le ha gettate. Il compito, insomma, di risvegliare e alimentare lo spirito critico che è decisivo per poter immaginare un mondo diverso da quello in cui oggi viviamo: anzi, sopravviviamo con crescente difficoltà.

Si tratta di una nuova proposta di legge, promossa dalla struttura delle Camere di commercio volte a valorizzare le iniziative immobiliari (Tecnoborsa), con la complicità (ovviamente culturale) del Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori (Cnappc), del Consiglio nazionale degli ingegneri (Cni), del prof. Paolo Stella Richter, coadiuvati da alcuni tecnici.

La proposta è volta di fatto a consolidare e a renderli permanenti, introducendole nel diritto e nella prassi politica e amministrativa, due delle peggiori e più devastanti “innovazioni” della malcultura urbanistica degli anni Novanta: i “diritti edificatori” come ineluttabile privilegio assegnato al proprietario di un suolo per effetto di una decisione di uno strumento urbanistico generale; la “perequazione”, ossia l'attribuzione di un quantum di edificabilità a ciascun terreno investito dalla pianificazione urbanistica, sia esso destinato a edificazione privata o pubblica, a servizi e verde, a strade e così via.

Sul documento che ci accingiamo a commentare (e che riportiamo in calce), i promotori intendono «ricercare il più̀ ampio consenso possibile presso altri stakeholders istituzionali; per cui al fine di favorire una larga condivisione il testo sarà̀ trasmesso anche agli enti ed alle organizzazioni che compongono il Comitato tecnico scientifico di Tecnoborsa, nonché́ alle associazioni interessate ai settori della pianificazione, delle costruzioni e dell’immobiliare e alle pubbliche amministrazioni, in particolare comuni e regioni alle quali la legge attribuisce la competenza in materia». Cercheremo di fare altrettanto.

In rapida sintesi le proposta si concreta in una premessa, un premio e un passaggio operativo.

La premessa è un postulato assiomatico : esistono suoli che hanno una «vocazione edificatoria», ossia una «oggettiva predisposizione alla edificabilità̀». Essi non comprendono solo le aree già edificate legittimamente e quelle vincolate da un titolo abilitativo (concessione edilizia, permesso di costruire o altro) legittimamente rilasciato e non decaduto, ma anche le ulteriori categorie: «b) aree destinate all’edificazione dal piano urbanistico vigente alla data di entrata in vigore della presente legge; c) aree non edificate che risultino comprese nel perimetro dell’agglomerato urbano, o siano comunque già dotate delle opere di urbanizzazione primaria o per le quali le opere stesse risultino già̀ previste dal programma triennale delle opere pubbliche del Comune o per le quali infine il proprietario abbia già̀ assunto l’impegno di procedere alla loro realizzazione».

Chi cosa ottiene il premio, e in che consiste? Lo ottiene, manco a dirlo, il proprietario delle aree che hanno una siffatta vocazione. Innanzitutto quelle aree sono «soggette a perequazione urbanistica» (art. 3, comma 2); cioè, se il comune, con un successivo piano urbanistico, ritiene di dover eliminare o ridurre l'edificabilità su quell'area e su altre in analoghe condizioni (perché c'è sotto una falda idrica o una villa romana, o perché è ridotto il fabbisogno di aree edificabili, o perché l'esigenza della tutela del paesaggio e dei beni culturali ha indotto lo Stato ad ampliare le categorie di beni territoriali da sottoporre a protezione, o per qualunque altra motivata ragione che abbia indotto a modificare il precedente piano) il comune deve assicurare al proprietario di ottenere altrove il lucro che gli è stato donato con l'edificabilità, o comunque deve indennizzarlo per il ben tolto. E “naturalmente”, in caso di espropriazione per pubblica utilità, al proprietario verrà pagata un'indennità la quale comprende l'entità della sua “vocazione edificatoria”, mentre per le altre aree non “vocate” l'indennità sarà determinata applicando «la disciplina vigente per le aree agricole» (art. 8, comma 3). Insomma, l'articolo 42, comma 2 della Costituzione, che dispone che la Repubblica può espropriare un'area per motivi d'interesse generale salvo indennizzo, attua questa disposizione nel senso di renderla più favorevole al privato di quanto già oggi non sia.

Questi i vantaggi derivanti dalla premessa: premio al privato, penalità al pubblico. . Ma la “vocazione edificatoria” (questa espressione ci fa inorridire, ma dobbiamo continuare a scriverla) è tutt'altro che “oggettiva”. Lo si comprende dall'elencazione che il documento fa delle categorie di aree che la compongono. Diciamolo pure, è altamente discrezionale. Il passaggio operativo allora è quello di stabilire chi decide. Decide il comune: anzi, gli 8mila e passa comuni italiani, i quali, «con proprio atto tecnico di accertamento [...] individuano il perimetro dell’agglomerato urbano e le aree esterne a vocazione edificatoria». La regione, per conto suo, stabilirà quali sono «i presupposti specifici per il riconoscimento della vocazione edificatoria» (art. 3, comma 3).

Tralasciamo di segnalare, in questa prima valutazione della proposta immobiliarista, le incredibili norme sul trasferimento delle cubature una volta concesse e mai riducibili; trascuriamo le eccezioni di costituzionalità che si potrebbero fare a una siffatta legge, che accresce le sperequazioni tra i diversi soggetti interessati (non solo quella, fondamentale sebbene nessuno se ne preoccupi tra proprietari e non proprietari, ma quelle interne all'universo dei proprietari fondiari) e colpisce al cuore la responsabilità della Repubblica (in primo luogo dello Stato) di tutelare il paesaggio. Trascuriamo le incoerenze interne del pur breve articolato proposto (quale quella tra aree “vocate” e aree definite fabbricabili dal piano urbanistico). Ci sembra che già le nostre rapide annotazioni rivelino la vera natura del documento: accrescere ulteriormente il peso della rendita fondiaria urbana in Italia, rafforzare la disponibilità dei suoli a essere “vocati” alla trasformazione. Il “risultato atteso” dell’accettazione della logica, delle definizioni e dei meccanismi del progetto degli Immobiliaristi &Co. è quello della ripresa della spinta all’ulteriore consumo di suolo, all’espulsione dell’agricoltura dalle aree periurbane e via via da quelle più lontane, e in definitiva all’ulteriore estensione di quella repellente crosta di cemento e asfalto che già avvolge il nostro presente, e il futuro degli abitanti del Belpaese.

La speranza è che la proposta di Tecnoborsa e dei suoi volenterosi collaboratori raccolga la pronta e indignata reazione – in primo luogo – di quanti hanno abbracciato la causa della critica al “consumo di suolo”, della difesa del paesaggio e dell'ambiente, della promozione delle identità locali, e della costruzione di un'economia fondata sul lavoro (e sul suo impiego socialmente produttivo) e non sull'incremento della rendita fondiaria.

Il decreto Monti dispone infatti l’abrogazione delle norme «che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi».

Il significato di questa abrogazione (deregolamentazione) è chiaro. La pianificazione e programmazione degli enti pubblici elettivi (“autoritativa”) deve avere quale suo obiettivo principale, cui tutti gli altri sono subordinati, lo sviluppo delle attività economiche. Poiché (e finché) “le finalità pubbliche perseguite” (la “crescita”, l’aumento del PIL, la produzione di maggiore valore di scambio) non saranno raggiunte, ogni altro obiettivo sarà ad esso sacrificabile. La tutela dei beni culturali e del paesaggio, il benessere degli abitanti delle città e dei territori, la salute, l’equità nell’accesso ai beni comuni, quindi un’organizzazione dello spazio che consenta di soddisfare queste esigenze, tutto ciò diventerà, insieme al lavoro, variabile subordinata della “crescita”.

Domandiamoci qual è, nell’Italia di oggi, la “crescita” che trova ostacoli nella pianificazione e programmazione “autoritative”. E’ forse quella caratterizzata dall’innovazione e dalla ricerca, dal perseguimento del migliore valore d’uso del prodotto? Certamente no. L’attività economica più redditizia, quella alla quale si sono pesantemente convertite, fin dagli ani Settanta del secolo scorso, le stesse aziende capitalistiche “moderne e avanzate”, è quelle del mattone: dell’incremento e della massima valorizzazione della rendita fondiaria urbana.

Non è necessario ricordare ai frequentatori di eddyburg, e neppure alle migliaia di persone che dedicano parte del loro tempo e della loro attenzione politica ai gruppi e comitati di cittadinanza attiva, quale sia la realtà dello “sviluppo economico” che trova ostacoli in quel poco che resta (o che si teme possa restare) della pianificazione urbanistica e territoriale, specie se con “specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali”.

Lo “sviluppo economico” che trova ostacoli nella buona pianificazione e programmazione “autoritative” è quello stesso a favore del quale il governo Berlusconi ha emanato i suoi condoni edilizi e il suo “piano-casa” e ha disegnato, nel salotto di Emilio Fede, il suo programma di infrastrutture e “grandi opere”. Non c’è alcuna discontinuità tra la politica berlusconiana e quella montiana a questo proposito. Del resto non poteva essere altrimenti, se pensiamo alla maggioranza sulla quale il nuovo governo si regge. Oltre agli uomini di Berlusconi essa infatti comprende quel PD che troppo spesso ha seguito, condiviso, accettato – o, quando è stato più feroce – subito le scelte di politica territorile di Berlusconi. Non è stata forse la regione Toscana la prima ad accettare la logica del “piano-casa”? e non sono decine e decine i sindaci del PD che hanno seguito la logica della deregolamentazione urbanistica, o del sovradimensionamento dei piani in omaggio allo “sviluppo”, o hanno riconosciuto negli interessi dei “finanziatori” quelli da premiare nelle scelte urbanistiche, o hanno puntato il loro successo su “grandi opere” celebrative della loro persona – prima ancora del loro governo?

Certo, il decreto Monti è pieno di ambiguità lessicali e procedurali: chi, quando e come definirà, ad esempio, il carattere ««vessatorio» di determinate procedure? Chi stabilirà, volta per volta, qual è «l’interesse pubblico», e quali regole o vincoli siano «non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche»? Qualcuno, magari, potrà essere tranquillo pensando: ma questi intellettuali, moralmente ineccepibili e ricchi di cultura e buon gusto, oltre che di buon cuore, staranno attenti a non far danno. Ma anche questi ottimisti dovrebbero tremare pensando che cosa succederà se, e quando, a Monti subentrerà un nuovo Berlusconi, che si troverà in cassaforte questo provvedimento. E di Caimani ce ne sono tanti, in giro.

Con un documento approvato da una recente assemblea dei soci l’INU (l’Istituto nazionale di urbanistica, una volta autorevole espressione della cultura specialistica) prende le distanze dalla legge Lupi-Mantini e ripropone, con una certa genericità e qualche scivolone, tesi meno devastanti di quelle del quinquennio trascorso. Interessante, invece, il dibattito che prosegue sulle pagine del Giornale dell’Architettura, l’utile mensile diretto da Carlo Olmo. Interviene questa volta (n. 42, luglio-agosto 2005) Bruno Gabrielli, con una tesi articolata in due punti con i quali concordo: 1) non basta predicare la necessità del consumo di suolo; 2) il consumo di suolo si combatte compiutamente solo se contemporaneamente si interviene sulla rendita immobiliare.

Ma è necessario precisare un paio di questioni, sulle quali le rapide argomentazioni di Gabrielli non mi convincono. Ciò servirà anche a ribadire alcuni punti delle proposta ormai denominata “legge di eddyburg” e onorando in tal modo questo sito.

Scrive Gabrielli: “Contenere il consumo di suolo è certamente una priorità. Ma è suffìciente l'enunciazione di principio? Davvero si può risolvere la questione con un divieto generalizzato imposto da una nuova legge urbanistica?” La “enunciazione” non basta certamente, e neppure è sufficiente “un divieto generalizzato”. Perciò nella proposta di legge degli “amici di eddyburg” proponiamo di stabilire un metodo. Di prescrivere cioè che in linea generale e di principio si possano utilizzare, per gli usi urbani, aree attualmente non urbanizzate solo alla condizione che sia previamente dimostrato che le esigenze che lo richiedono non possano essere soddisfatte altrimenti.

Questo principio metodologico sollecita a un modo di pianificare (che spetta alla legislazione regionale di definire, viste le più larghe competenze in materia che sono state attribuite alle regioni dalle modifiche costituzionali del 2001) basato su due pratiche, largamente dimenticate dagli urbanisti e dagli amministratori loro complici. La pratica dell’accurata determinazione dei fabbisogni di trasformazione, e quella della preliminare definizione delle condizioni poste alle trasformazioni dalle caratteristiche proprie dei territori.

Il calcolo del fabbisogno viene oggi considerato, dalla pratica amministrativa e da quella professionale, uno strumento obsoleto. La decisione sulle aree da sottrarre al ciclo naturale, e da conglobare nella “repellente crosta di cemento e asfalto” che Antonio Cederna stigmatizzava, avviene per motivi ben diversi: gli interessi immobiliari, le esigenze di “valorizzazione” di questa o di quell’altra area (appartenente a questo o a quell’altro proprietario), l’incremento dell’occupazione nell’edilizia, l’illusione di agevolare il traffico costruendo nuove arterie, l’arrendevolezza nei confronti delle multinazionali che, devastando aree rurali, scimmiottano la città antica (e la svuotano dal commercio).

Ritornare alla vecchia prassi del calcolo del fabbisogno nei diversi settori della “domanda di spazio”, ossia della preliminare individuazione della quota che è possibile assorbire in trasformazioni delle aree già urbanizzate è la prima conseguenza tecnica del principio della riduzione del consumo di suolo.

Non va sottovalutato che un contributo consistente al consumo di suolo è fornito dalla generalizzazione della “perequazione”, che lo stesso Gabrielli sembra proporre. Altro è estendere a tutte le aree che si è deciso motivatamente (sottolineo motivatamente) di urbanizzare o ri-urbanizzare l’ambito d’applicazione della procedura, introdotta con la legge 765/1967 con i piani di lottizzazione convenzionata, altro è premiare tutte le proprietà “in attesa di edificazione” spalmando sul territorio quote di edificabilità da riconoscere a tutti i proprietari spostandone l’applicazione. È un principio, quello della “spalmatura”, contro il quale Giovanni Astengo scrisse parole di fuoco, e i cui malefici risultati sono perspicuamente espressi dal nuovo PRG di Roma, che rende edificabile grandissima parte dell’Agro romano ancora libero.

Ricondurre la perequazione al ristretto ambito dell’attuazione di scelte di trasformazione definite dalla pianificazione generale, a partire da un rigoroso calcolo del fabbisogno socialmente motivato, eliminare il suo impiego quale strumento per aumentare la dotazione di spazi pubblici e di verde, è dunque una componente importante di una conseguente lotta all’inutile consumo di suolo.

Una ulteriore conseguenza tecnica è quella stimolata dalla legge 431/1985 (la “legge Galasso”), e dalle successive applicazioni in sede amministrativa e professionale (numerose leggi regionali e non poche esperienze di pianificazione) e in sede giurisprudenziale (numerose sentenze costituzionali). Occorre cioè, prima di decidere nel piano urbanistico che “qui si urbanizza per questa necessità, qui per quest’altra, e in questo e quest’altro modo”, individuare quali sono le componenti del territorio connotate da una qualità, da un valore, che richieda non necessariamente la conservazione assoluta di quello che c’è, ma le “regole” che l’esigenza di tutelare quelle qualità, quei valori, pone a ogni intervento dell’uomo.

Tanto per fare un esempio. Se così si procedesse, prima di ragionare se rendere edificabile l’area della famosa lottizzazione berlusconiana (junior) della Cascinazza, si sarebbe deciso che sulle golene dei fiumi, e sulle aree comunque interessate o interessabili dalle sue escursioni e interessate al suo subalveo non si costruisce nulla che non sia immediatamente amovibile.

Se mi è consentita una testimonianza personale, nelle proposte che ho avanzato a partire dal 1984 suggerivo appunto che la componente a tempo indeterminato del piano (quello che oggi viene denominato “piano strutturale”) consistesse, sostanzialmente e in primo luogo, in “una lettura attenta della risorsa territorio, in tutte le sue componenti” e nell’individuazione, per ciascuna di esse, di quali siano “i gradi e i modi della trasformabilità: quali sono le porzioni del territorio, o le classi di unità dello spazio, che devono essere conservate, quale e come possono essere trasformate in modo più o meno radicale, quali regole deve seguire la loro trasformazione” (Convegno nazionale “Luoghi e Logo”, 27-28 nov. 1984, Bologna).

È appunto a questa lettura attenta del territorio e alla conseguente definizione delle regole alle trasformazioni che invita la legge Galasso. Essa è stata assunta dall’INU nel 1994, e fatta propria da numerose leggi regionali. Ma lo è stato in modi così disordinati e pasticcioni, e così intrisi di quella logica di potere nella quale la delega totale ai comuni è integrata dalla più torbida discrezionalità regionale, da fornire risultati molto insoddisfacenti.

È alla logica della legge Galasso, ripresa e ribadita dalle successive edizioni del Codice del paesaggio (una delle poche cose non malvagie fatte dal governo Berlusconi) che la proposta di legge degli “amici di eddyburg” si ispira. Essa infatti propone, riprendendo una proposta di Italia Nostra, di aggiungere il territorio rurale tra le categorie di beni protetti dalla legislazione paesaggistica. Rafforzando in tal modo, e in nome d’un evidente “interesse nazionale”, la difesa dallo sprawl del territorio non urbanizzato.

Gabrielli ritiene che sarebbe necessario incidere su quelle che sono, a suo parere, le tre componenti del consumo di suolo: l’edilizia economica e popolare, i piani di lottizzazione, l’edilizia “spontanea”. Poiché il più contiene il meno, i principi proposti dalla “legge di eddyburg” e la loro corretta applicazione nelle legislazioni regionali soddisfano pienamente questa esigenza. Ma oltre che all’edilizia abitativa (pubblica, privata-programmata o privata “spontanea”) componenti sempre più consistenti sono gli interventi pubblici per le infrastrutture e gli interventi aziendali di grandi dimensioni e di portata territoriale: dalle grandi strutture per il commercio a quelle per la logistica, da quelle per l’intrattenimento a quelle igieniche.

L’unico modo per ricondurre all’ordine anche queste componenti dello sprawl è quello di affermare con forza (non solo con le perorazioni accademiche, ma con precise prescrizioni legislative) che “la pianificazione del territorio è lo strumento fondamentale attraverso cui si realizzano gli obiettivi propri” del governo del territorio: come appunto si afferma nella “legge di eddyburg”.

Pianificazione a tutti i livelli: nazionale, regionale, provinciale oltre che comunale. Pianificazione in cui le competenze siano articolate tra i diversi livelli di governo in relazione al livello d’incidenza, “alla scala dei loro effetti”,come stabilisce il principio di sussidiarietà nella sua accezione europea. Pianificazione cui sono subordinati tutti gli interventi di trasformazione del territorio, da chiunque operati. Pianificazione “autoritativa” e pubblica, ben diversa quindi da quella della malfamata legge Lupi-Mantini.

Per combattere lo sprawl, sostiene Gabrielli, occorre affrontare la questione della rendita fondiaria. Giustissimo, a meno che non si tratti di “benaltrismo”,cioè di evasione da un obiettivo raggiungibile perché “la questione è ben altra!”. Per ottenere qualche risultato è necessario fare almeno tre cose, puntualmente presenti nella “legge di eddyburg”.

Occorre in primo luogo invertire la prassi att uale, che vede nella rendita immobiliare il motore della pianificazione,come è stato praticato in decine di comuni italiani e come si voleva generalizzare con la legge Lupi-Mantini. Occorre cioè ripristinare e rafforzare il principio, e la conseguente prassi, per cui la pianificazione del territorio e delle città è esclusiva competenza pubblica: è “autoritativa”, e i soggetti con i quali dialoga sono in primo luogo i cittadini in quanto tali (e non in quanto proprietari di vasti possedimenti o di piccoli lotti), e in secondo luogo le aziende che producono profitti, non rendite.

Occorre poi ribadire il principio che non esistono “diritti edificatori” se non quando è intervenuta una autorizzazione pubblica a costruire o trasformare, concessione edilizia o permesso di costruire che si chiami, conformemente e in attuazione del piano urbanistico, ed entro determinati termini di tempo. Di conseguenza, occorre ribadire (quanti principi sacrosanti sono già presenti nei nostri codici, e sono colpevolmente ignorati da urbanisti e amministratori!) che gli immobili vanno espropriati pagando una indennità che corrisponde al valore derivante dall’uso in atto, e non dalle speranze di “valorizzazione”.

Occorre infine saldare la politica urbanistica con politiche che consentano di incidere sui livelli della rendita, restituendo alla collettività la parte che le spetta. Ciò che è compito sia della politica fiscale, che di quella volta ad assicurare ai cittadini i diritti ai beni essenziali, tra cui primario quello dell’abitazione.

l'immagine è di John S. Pritchett ed è tratta da http://www.pritchettcartoons.com/sprawl.htm

Sono due fatti molto distanti tra loro, ma entrambi indicativi delle difficoltà che si presenteranno: la prima quando, ricondotte le istituzioni italiane a un minimo di decenza, si vorranno affrontare i nodi politici in un rapporto civile tra posizioni alternative; la seconda, quando si avvieranno le politiche per il futuro.

Sul Corriere della sera Piero Ostellino ha colpito con pesantissime accuse il giurista Ugo Mattei (che i frequentatori di eddyburg conoscono bene). Oggetto della critica un articolo di Mattei sul manifesto. L’autore aveva osato affermare (nella sintesi di Ostellino) che «il diritto costituzionale d'accesso alla casa di abitazione si può emancipare dal ruolo subordinato alla presenza delle condizioni economiche dichiarate dallo Stato e dagli enti chiamati a soddisfarlo come diritto sociale concesso dal welfare pubblico. Nel quadro della funzione giuridica offensiva e della piena destinazione dei beni comuni esso può invece soddisfarsi tramite occupazione acquisitiva legittimata dalla pubblica necessità di spazi socialmente percepiti come abbandonati. Il diritto anche in questo caso sgorga dalla fisicità del conflitto e non può essere generato dalla riflessione astratta di chicchessia».

Mattei aveva insomma espresso un principio antico, che era stato bandiera di rivendicazioni di massa negli anni Sessanta, abbandonato nella ventata neoliberista che si è abbattuta sul mondo, e ripreso negli ultimi decenni sia nella letteratura internazionale che nelle migliaia di episodi di contestazione dei danni apportati dalle pratiche neoliberiste alle condizioni di vita nella società e nella città: il principio del “diritto alla città”. La rivendicazione espressa da quel “diritto” ha, tra le sue componenti, proprio l’appropriazione. Che Ostellino non conosca Lucien Lefebvre e gli altri studiosi che hanno esplorato l’argomento, che non sia informato delle pratiche sociali in atto nel mondo, tutto ciò non costituisce scandalo. E neppure lo costituisce che non condivida la tesi di fondo, e che si proponga anzi di contrastare i movimento che la agita, per difendere invece i vecchi interessi dominanti. Ciò che invece colpisce, e preoccupa ogni spirito autenticamente liberale, è la conclusione che Ostellino trae dalla critica.

Una conclusione minacciosa, ci verrebbe voglia di definire “fascista”. Chi sostiene quella tesi – secondo Ostellino – è oltre la Costituzione, oltre il welfare state, oltre la realtà effettuale, oltre il formalismo giuridico. Quindi, secondo Ostellino, chi sostiene quella tesi è un terrorista. Se non direttamente, è certamente un “cattivo maestro”: di quelli, dice il buon maestro, che vogliono perpetuare la «”guerra civile“ che insanguinò l'Italia nell'immediato dopoguerra e ne impediscono la modernizzazione».

Guai a tutti voi insomma, se volete andare oltre la Costituzione e non siete Calderoli, se mirate alla sostanza delle cose, se pretendete di migliorare il welfare state (intanto difendendolo dalla demolizione). Sarete implacabilmente denunciati all’opinione pubblica come demoni terroristi, o loro perfidi mandanti.

Non ci sembra difficile comprendere, se non le ragioni, il movente dell’anatema lanciato dal giornale di via Solferino. Il fatto è che il principio stesso della proprietà privata è messo in discussione dalla ventata di rivendicazioni dei beni comuni, proprio nel momento in cui la classe che il Corriere esprime si è gettata con precipitazione sul loro saccheggio attraverso la catena mercificazione / privatizzazione / appropriazione. Gettate alle ortiche le vesti del liberalismo si svela i vero volto del potere. É un colpo di coda del passato che non vuole morire, gravido di rischi per la democrazia italiana. Un’ipoteca pesante sul dopo Berlusconi, per chi ritiene che la democrazia abbia alla sua base il reciproco rispetto delle posizioni dverse..

Di carattere diverso è l’altra ipoteca espressa dal secondo avvenimento cui ci riferivamo. Sulla rivista Micromega, in un numero dedicato al “Programma per l’altra Italia”, non è stato pubblicato un articolo espressamente richiesto a Paolo Berdini, dal titolo “Città e territori come beni comuni. Nove proposte per salvare il Belpaese”. I frequentatori di eddyburg conoscono l’articolo di Berdini: la redazione della rivista non lo ha pubblicato sull’edizione cartacea, più diffusa e autorevole, ma l’ha inserita nella newsletter. Così lo abbiamo letto, apprezzato e diffuso.

L’evento ci ha colpito particolarmente perché è la seconda volta che capita, sulla stessa rivista e sullo stesso argomento. Eravamo nel 2002, in una fase difficile per l’urbanistica. Era giunto a piena maturazione il mutamento iniziato con la svolta del craxismo vent’anni prima e proseguito con l’abbandono da parte della sinistra d’ogni rigore sui temi del territorio. Uscì un numero monografico della rivista Micromega, dal titolo “”Un’altra Italia è possibile. Una ventina di saggi delineavano un programma alternativo a quello della destra, che da un anno dirigeva il paese col secondo governo Berlusconi. Da quel programma l’urbanistica, la pianificazione del territorio, le politiche urbane erano del tutto assenti. Scrivemmo una lettera aperta a Paolo Flores d’Arcais, direttore della rivista, sulla quale raccogliemmo l’adesione di 75 urbanisti. Nella lettera dichiaravamo di essere fortemente preoccupati per un’assenza, che ci sembrava clamorosa. E proseguivamo:

«Se nei capitoli del programma di Micromega non mancano (e giustamente) la sanità e la giustizia, l’immigrazione e il lavoro, l’università e le carceri, l’ambiente e i beni culturali (e altri numerosi temi), manca completamente il territorio. Questo, infatti, non si riduce all’ambiente (nell’accezione che questo termine ha assunto negli ultimi decenni, e che è ben rappresentato nel testo di Ermete Realacci) né ai beni culturali (nonostante l’accezione giustamente ampia che Salvatore Settis attribuisce a questa espressione). Ragionare e proporre un capitolo del programma per “un’altra Italia” che riguardi il territorio e la città significherebbe infatti farsi carico insieme delle ragioni dell’ecologia e di quelle dell’armatura urbana del nostro territorio, della tutela della natura e della dotazione delle infrastrutture, della difesa del paesaggio e del miglioramento delle condizioni di vita nelle città».

Concludevamo scrivendo che l’assenza del territorio e della città, dell’urbanistica, della pianificazione tra i 24 capitoli del programma proposto ci sembrava un’assenza grave e proponendo di aprire, sulla rivista, una discussione sulle ragioni di questa assenza. «Che non sono certamente – concludevamo - né la distrazione né la fretta ma, forse, qualcosa di più profondo, su cui tutti dovremmo interrogarci». Non ricevemmo alcuna risposta.

Oggi la storia si ripete. Ma nel frattempo qualcosa è cambiato. Migliaia di vertenze si son aperte in ogni città e regione per contestare e scelte della dissennata politica territoriale del neoliberismo straccione dei Berlusconi e proporre indirizzi alternativi. I temi della difesa dei beni comuni costituiti dalle qualità naturali, culturali e sociali delle città e dei territori, della loro vivibilità minacciata della deregulation, della riduzione dei rischi all’integrità fisica del territorio che frana ad ogni pioggia e a ogni passaggio di grande opera pubblica sono temi ormai attribuiti esplicitamente alla mancanza di una corretta pianificazione delle città e dei territori.

Bisogna dire che i pensosi redattori di MicroMega non sono gli unici, a sinistra, a mostrare questo ritardo culturale. Esso è espressivo di un vizio ampiamente diffuso su quel versante dello schieramento politico. Esso si manifesta in numerosissimi episodi, soprattutto a livello locale, di pieno accodamento dei politici e degli amministratori dei partiti di sinistra (anche di quella “radicale”) sulle questioni del territorio. Noi vi leggiamo l’incapacità, a un tempo, di cogliere le aspirazioni, le speranze, le aspettative che maturano sempre più vistosamente nella società civile, e di proporre soluzioni adeguate ai problemi che più direttamente colpiscono il patrimonio delle città e dei territori provocandone il degrado e minandone l’efficienza. E vi leggiamo anche una subalternità culturale a quella ideologia dell’indefinita crescita quantitativa che è diventata la matrice di un pensiero – se non ancora “unico” – certo largamente dominante.

Tra i colpi di coda reazionari della destra che si richiama al liberalesimo e la persistente cecità della sinistra, anche la stagione del dopo-Berlusconi si presenta davvero gravida non solo di incertezze, ma anche di rischi.

Eravamo pochi, nel 2005, quando cominciammo a documentare e denunciare l’irrazionalità devastante del consumo di suolo in Italia. Abbiamo salutato con gioia, aderendovi fin dall’inizio, la nascita e la rapida espansione del movimento Stop al consumo di territorio. Seguiamo con attenzione gli sforzi di quanti, dentro e soprattutto fuori dalle istituzioni, si battono per studiare, misurare, denunciare, combattere il consumo di territorio. La proposta di legge che presentammo nel 2006 costituisce ancor oggi, mi sembra, un contributo utile al quale riferirsi.

Credo che oggi quello che è necessario più d’ogni altra cosa sia estendere il movimento per la difesa del territorio da ogni utilizzazione e trasformazione che non sia resa necessaria per inderogabili necessità sociali. La terra, così come la natura e la storia l’hanno consegnata a noi, è un patrimonio che va amministrato con la massima saggezza sapendo che è un valore, che è limitata, che non è riproducibile, e che senza di essa la vita dell’uomo sarebbe impossibile.

Questa è la premessa da cui bisogna partire, e che deve condizionare ogni azione di trasformazione. La sottrazione di un solo metro quadrato di suolo ai ritmi della natura è un prezzo, che può essere pagato solo se è strettamente necessario alla società umana nel suo insieme e se non ci sono modi alternativi di soddisfare l’esigenza che chiede il pagamento di quel prezzo. Nessuna casa nuova, nessuna strada nuova, nessun nuovo piazzale se prima non si è completamente utilizzato ciò che di artificiale già c’è. E di inutilizzato in Italia, malauguratamente, c’è tanto, se si guarda al nostro paese con lo sguardo fuori dalle bende della mitologia proprietaria e di quella economica.

La necessità, oggi, è di far diventare queste affermazioni una consapevolezza di massa. É di rendere cosciente il maggior numero di persone di verità che condizionano la vita di ciascuno di noi: e ciascuno di noi, prima di essere casalinga o banchiere, operaio o poeta, professore o studente, spazzino od orefice, sfruttatore o sfruttato – è uomo e donna, è abitante del pianeta Terra, e la sopravvivenza è la prima esigenza di tutti noi e di ciascuno di noi.

Se guardiamo alla terra da questo punto di vista allora una cosa diventa subito evidente. Combattere il consumo di territorio non significa solo ostacolare l’irrazionale espansione della città, lo sprawl urbano. Certo, questa è un componente essenziale, soprattutto nel nostro paese, in cui il trionfo della rendita immobiliare ha dominato, soprattutto negli ultimi decenni, in ogni aspetto delle politiche territoriali. Difendere il territorio non significa solo tutelare la natura e il paesaggio, la capacità di rigenerazione fisica ed estetica che il territorio fornisce, ma anche quella che è la sua prima funzione: alimentare l’umanità in ciascuno dei suoi componenti.

Combattere il consumo di territorio significa perciò anche difendere l’agricoltura: non necessariamente tutte le agricolture, ma certamente quelle che servono agli uomini che vivono il territorio, e li servono là dove essi lo vivono. Significa combattere la sostituzione delle colture locali con le colture industriali, le colture funzionali a primarie esigenze umane a quelle che sussistono solo perché premiate dal mercato globalizzato. Significa coinvolgere il più ampiamente possibile nella stessa grande vertenza le numerose associazioni (già numerose sono presenti in questa iniziativa) che si impegnano per promuovere la difesa dell’agricoltura, l’approvvigionamento equo e salubre, la filiera corta, la difesa delle diversità colturali.

E significa, al tempo stesso, legare le nostre battaglia - italiane, europee, nordatlantiche - a quelle dei paesi del terzo mondo, soggetti a quella rapina delle terre che ha già devastato le loro economie e la stessa sopravvivenza di interi popoli.

Eddyburg intende impegnarsi ancora di più in questa direzione, anche con una prossima iniziativa della sua Scuola estiva di pianificazione. E partecipa con piena condivisione alla grande manifestazione di domani: grande, anzi grandissima, per i temi che agita e il futuro che indica, altrettanto robusta – speriamo – anche nelle presenze fisiche e in quelle morali.

L’inclusione nel decreto di una norma che consente il traffico delle cubature è, al tempo stesso, la fanfara che scatena le armate dei barbari alla distruzione del territorio in tutti i suoi aspetti (come patrimonio della civiltà e come habitat dell’uomo) e la dimostrazione del ritardo della cultura (anche quella urbanistica, anche quella della sinistra, anche quella liberale) a comprendere la portata delle ragioni della crisi e quindi della sua “soluzione”.

Il nodo della questione è quella che i giuristi chiamano “appartenenza dell’edificabilità”. A chi appartiene la potestà (il diritto) a trasformare il suolo di sua proprietà al di là dei tradizionali usi rurali? Da alcuni secoli in tutto il mondo toccato dalla civiltà nordatlantica la natura, spesso fortemente privatistica, della proprietà del suolo è stata temperata dalla decisione che la quantità, i modi e i tempi delle trasformazioni di tipo urbano vengono decise dall’autorità pubblica: è a questa, in ultima istanza, che spetta la responsabilità di decidere in che modo il territorio deve essere trasformato per diventare più efficacemente l’habitat dell’uomo. Questa decisione storica (che ha accompagnato i forti processi di urbanizzazione generati dall’affermazione del sistema capitalistico borghese) ha assunto procedure Da quando si sono affermate forme più estese di partecipazione del popolo (degli elettori) al governo le decisioni sulle trasformazioni di tipo urbano sono state caratterizzate da una “pianificazione” (cioè a una visione e disciplina olistica delle trasformazioni) “democratica” (cioè caratterizzata da subordinazione ai poteri eletti e trasparenza nel procedimento di formazione delle scelte). Il principio implicito in quella decisione storica, e nelle sue conseguenze procedurali, era evidentemente che l’edificabilità “appartiene” al potere pubblico: alla collettività, e non al singolo proprietario o possessore.

Questo principio non è mai stato affermato in modo esplicito nel diritto italiano; ma non è stato neppure contraddetto. Quando in un famoso progetto di piano regolatore (quello di Roma, nei primi anni 2000) si è parlato di “diritti edificatori” che debbano essere riconosciuti de jure ai proprietari beneficiati” da una decisione urbanistica ho cercato di capire se era vero. Con l’aiuto dell’indimenticabile Luigi Scano ho studiato la questione e ho potuto dimostrare che tutta la giusrisprudenza era concorde nell’ammettere che la decisione di rendere edificabile a fini urbani un suolo era una decisione che spettava all’autorità pianificatrice, e che pertanto questa poteva modificarla senza pagare alcun indennizzo al proprietario. Alle stesse conclusioni è arrivato un illustre giurista, uno dei pochi esperti veri di diritto urbanistico italiano, Vincenzo Cerulli Irelli

Tuttavia l’espressione “diritti edificatori” (appartenenti ai privati proprietari) ha circolato ed è diventa pensiero corrente: a destra e a sinistra, tra gli inesperti e tra gli esperti, tra i politici e tra gli urbanisti. É diventato un passepartout per motivare pratiche “perequative” sempre più estese e – su un terreno solidamente strutturale – per allargare il dominio della rendita urbana nell’economia e nella società.

In molte città e paesi (non in tutti, per fortuna) si è cominciato a ragionare e a decidere in termini di mercato delle cubature. Questo sembrava finalmente libero (grazie al luminoso esempio del PRG “riformista” di Roma) dai rischi corsi da chi aveva praticato l’urbanistica contrattata negli anni di Mani pulite.

Ma la volontà di includere una norma che “liberalizza” il trasferimento di cubature da una parte all’altra del territorio dimostra che prima questa “libertà” non c’era. Prima, cioè oggi, chi ha ottenuto dal comune, attraverso la decisione di un piano, la facoltà di edificare sul suo terreno non era (non è) “libero” di trasferirla da un’altra parte. Ergo, non era legittimo farlo. Ergo, la “perequazione allargata”, la concessione di “crediti edilizi” in cambio di cessione di aree, quindi in definitiva l’appartenenza privata di “diritti edificatori” era (è) illegittima. A partire dal PRG di Roma, in cui i “diritti edificatori” furono fortemente voluti dagli urbanisti che lo proposero, ma consapevolmente accettati dal sindaco che li difese.

Giustamente lo stesso giornale della Confindustria dimostra preoccupazione per la “Cubatura in libera vendita”. Liberati dal fastidioso pensiero di dover pagare per un atto illegittimo i promotori immobiliari si affaccenderanno più tranquilli a mediare tra gli interessi dei possessori di fondi (di soldi) e le amministrazioni comunali. Certo, quelle dove un’avveduta “cultura della pianificazione” (e dell’interesse collettivo) resta ancora solida negli eletti, lì si potrà impedire con i piani urbanistici che la commercializzazione del diritto a edificare produca effetti: ove il Prg non consente i trasferimenti di cubatura e simili procedure, il “diritto di edificare” rimane un flatus vocis. Ma quanto, e quanti, resisteranno? Quanti hanno resistito, per restare nel campo dello stravolgimento delle norme della politica urbana, alla facoltà di destinare a spese correnti le somme raccolte per realizzare le opere di urbanizzazione tecnica e sociale?

La legittimazione del traffico di cubature è veramente un tassello di grande rilievo nella campagna di “superamento della crisi” per mezzo del saccheggio dei beni comuni. Ancora più se lo leggiamo legato all’altra grande questione sulla quale si dibatte da mesi: come utilizzare l’alibi della crisi senza toccare i portafogli del compound finanziario e di quello militare, cogliere qualche refolo del vento dell’antipolitica, e finalmente smantellare quel poco, o tanto, del patrimonio di governo pubblico istituzionale che ancora sopravvive. Nessuno sano di mente può pensare di difendere l’assetto istituzionale italiano così com’è. Ma una cosa è affrontare i suoi veri nodi, liberare i luoghi della democrazia esistente dall’abbraccio mortifero di partiti che non rappresentano più la società, rendersi conto delle ragioni che giustificano un assetto istituzionale multiscalare (corrispondente quindi alla realtà profonda del territorio), e configurare un nuovo ordinamento delle istituzioni elettive da attuare perché la volontà comune si esprima e diventi operativa in modo più efficace, altro è smantellare pezzo per pezzo ciò che decenni di storia hanno costruito. Proseguire lo sgretolamento dei luoghi del potere pubblico è comunque operazione utile ai saccheggiatori del territorio per ridurre i “lacci e lacciuoli” che ne possono ostacolare le scorrerie.

É giusto l’allarme che da molte parti si leva per il decreto che nei prossimi giorni sarà discusso dal parlamento nazionale. Giusto l’appello che nasce dal movimento che ha dato vita alla stagione dei referendum, preparati dalla miriade di lotte per la difesa dei beni comuni territoriali che hanno caratterizzato l’Italia dell’ultimo decennio. Giusta anche la preoccupazione che la stagione dei referendum e delle recenti elezioni amministrative si disperda come un fiume nella sabbia e non trovi la propria configurazione organizzativa. Ancor più giusta, se è possibile dirlo, la decisione della Cgil di proclamare per il 6 settembre prossimo uno sciopero generale nazionale. Ostacolare la via delle panzerdivisionen dei saccheggiatori del territorio fisico e storico, materiale e morale, culturale e sociale del nostro paese è il primo impegno di chiunque tema il futuro che ci preparano, e voglia contrastarlo. A volte, anche di recente, i ribelli inermi hanno vinto; anche in Italia.

Il fatto. Il centrosinistra, al governo da 12 anni, dopo una lunghissima discussione tutta su nomi di candidati che via via venivano proposti e bocciati, si presenta spaccato alle prossime elezioni comunali.

Un candidato (Felice Casson), magistrato stimato per la grinta con cui ha istruito processi famosi, espresso da una coalizione che raggruppa i Verdi (ridotti a Venezia all’area “sociale” dopo la spaccatura di qualche anni fa), Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Lista Di Pietro e Democratici di sinistra (spaccati quasi a metà).

Un altro candidato (Massimo Cacciari), notissimo filosofo ed ex sindaco, proposto da se stesso e sostenuto dalla formazione cui appartiene, la Margherita, dall’UDC e da un numero consistente dei Democratici di sinistra.

A complicare il quadro, Prodi sostiene Casson, Rutelli difende Cacciari. Casson è criticato perché si è appena posto in aspettativa (come del resto prescrive la legge) come magistrato. Cacciari è criticato perché ha smesso di fare il sindaco a metà mandato per futili motivi, passando le consegne a Paolo Costa, criticatissimo sindaco uscente: ma Costa, benché della Margherita e “figlio” di Cacciari, sostiene Casson. Il raggruppamento che fa capo a Casson ha una matrice ambientalista (il “polo rossoverde”), ma annovera tra i suoi sostenitori i promotori della sublagunare e della deregulation urbanistica nonché, nella persona dell’ex sindaco Costa, i complici del MoSE: posizioni che sono del resto presenti anche nell’altra sponda dello scompaginato centrosinistra.

Ulteriore complicazione: fuori sia dal centrosinistra sia dal centrodestra si è formata un’ulteriore candidatura. Carlo Ripa di Meana, già presidente della Biennale e commissario europeo all’Ambiente, è sostenuto da un gruppo di spiccato colore ambientalista, formato da eccellenti persone con un ottimo pedegree di tenaci campagne in difesa della città e della Laguna, ma che sembra poter svolgere solo un ruolo di testimonianza.

Unico elemento positivo, per il centrosinistra: sul versante opposto, c’è il nulla. Il centrodestra si presenta ancora più diviso, e il suo meno oscuro esponente locale, l’economista Renato Brunetta, ha minacciato: la prossima volta mi presento io.

Il commento. Venezia è stata spesso anticipatrice di tendenze nazionali: nel 1952 (il decentramento amministrativo), nel 1974 (i governi di sinistra). Adesso esprime nel modo più limpido un fenomeno che è nazionale: la crisi della politica. Testimonia insomma l’incapacità (generale, non solo veneziana) dei partiti di rappresentare alcunché di serio: un progetto politico, un blocco coeso di interessi sociali, una speranza di futuro. (E anche, diciamolo, l’incapacità di espressione di un’altra politica, sgorgata magari dalla “società civile”, o più sommessamente dagli esclusi dai partiti).

A Venezia questa crisi si svolge in un contesto ed ha una coloritura particolari.

Essa si sviluppa in un ambito caratterizzato da un sistema di poteri economici del tutto anomalo. Alla forza del comparto locale (ma non solo) legato allo sfruttamento commerciale della città, e di quello multinazionale legato al polo chimico di Porto Marghera, si aggiunge il potere del Consorzio Venezia Nuova: un consorzio di imprese di costruzione private, padrone (per concessione statale) del destino fisico della Laguna e della fortuna economica dell’universo tecnico, culturale, politico che ha saputo legare a sé.

La crisi, poi, è testimoniata e caratterizzata dal fatto che sulle scelte di fondo della città (il MoSE e la devastazione della Laguna, la sublagunare e la turistizzazione selvaggia della città, il destino di Porto Marghera e i provvedimenti da prendere per il rischio della chimica, la politica della casa e il rapporto con la proprietà immobiliare) i partiti hanno taciuto, si sono rivelati incerti, divisi: non tanto nelle analisi, quanto nel passare dalle parole ai fatti.

Lo scontro ha attraversato tutte le formazioni. Non è apparso esplicitamente, se non nelle punzecchiature del pettegolezzo politichese, perché esporre esplicitamente le diverse opzioni avrebbe condotto a rotture non compatibili con l’esigenza di governare a tutti i costi.

Tant’è. A un governo della città che ha cavalcato arditamente, tra i marosi delle critiche e dei mugugni, la promozione della sublagunare, la tolleranza per il MoSE, la deregulation urbanistica, l’abbandono di una politica pubblica della casa, nonchè qualunque interesse legato alla commercializzazione della città, si è accompagnato il crescere di posizioni di disagio più o meno profondo e di dissenso anche esplicito.

Ma non di questo si è parlato nella lunga fase di preparazione alle elezioni. Non si è andati a un confronto tra posizioni, linee, strategie. Non si è partiti da un’analisi critica (a mio parere severamente critica) dei comportamenti delle giunte Cacciari, e soprattutto della giunta Costa. Tutto è rimasto sottotraccia. Si è discusso solo di nomi. Poteva andare diversamente? Oggi, sui nomi si muore.

La dichiarazione. Non sono soltanto un osservatore, sono anche un elettore. Ho molte incertezze, ma anche alcune certezze.

Non posso votare Massimo Cacciari. Non posso dimenticare che fu la sua giunta ad aprire la strada alla deregulation urbanistica, alla rinuncia al controllo delle destinazioni d’uso, al corteggiamento di qualsiasi iniziativa commerciale, all’abbandono (in questa città storica!) di una politica della casa governata dalla mano pubblica; che fu lui ad abbandonare il governo della città nelle mani del peggior sindaco che la città abbia avuto, fautore del Mose, della sublagunare, della "apertura al mercato" della città e di ogni connessa privatizzazione.

Voterei volentieri Carlo Ripa di Meana, un galantuomo, sostenuto da una pattuglia di intrepidi ambientalisti, ma non lo voterò per la stessa ragione per cui non voterò, al primo turno, scheda bianca: perché non credo che sia giusto dare un voto di mera testimonianza.

Seguirò quindi con attenzione la campagna elettorale di Felice Casson, un uomo serio, rigoroso, che nel suo mestiere si è battuto per cause che ho condiviso, “non guardando in faccia a nessuno”. Se dimostrerà di esprimere posizioni vicine a quelle che a me sembrano giuste, se si impegnerà a fare le cose che un’amministrazione comunale può fare in ordine ai problemi principali della città in una direzione radicalmente diversa da quella della giunta Costa, allora voterò per lui.

Anch’io ho finito per parlare, in definitiva, di nomi. A questo ci hanno ridotto le riforme della Seconda Repubblica.

Sulle questioni cui accenno nella nota (in particolare MoSE e sublagunare) ci sono molti materiali nella cartella dedicata a Venezia e la sua Laguna . Per una valutazione complessiva sulle ultime giunte e a cciò che si sarebbe dovuto fare rinvio a una mia nota di due anni fa dal titolo " Fabiani per un'altra Venezia".

L'immagine nella presentazione è il logo lanciato dall'ex sindaco Paolo Costa per "aprire Venezia al mercato"

Il primo è la speranza. Il declino di tutto ciò che vale, dintutto ciò che rende la vita degna d’essere vissuta, sembrava accentuarsi ad ogni azione del governo. Sgretolati da un inesorabile degrado sembravano la democrazia e la giustizia, la bellezza dei territori e la vivibilità delle città, il lavoro e le condizioni economiche delle persone, la salute e la cultura, la scuola e la ricerca, la solidarietà e la virtù civile. Troppo blandamente gli autori del declino e del degrado sembravano ostacolati da chi aveva la responsabilità di farlo: la politica dei partiti e, con qualche lodevole eccezione, le istituzioni repubblicane. Il pluridecennale lavorio compiuto dai massmedia per inculcare nelle teste degli italiani un’ideologia antitetica a quella nata nella Resistenza e codificata nella Costituzione sembrava aver trasformato la maggioranza degli italiani, da persone dotate di spirito critico, in spettatori passivi di dementi spettacoli, e da cittadini in clienti. L’ideologia dominante sembrava non avere alternative, poiché le sue parole d’ordine erano accettate su ogni versante dello schieramento politico, e da gran parte delle stesse istituzioni della cultura.

Insomma, la speranza era diventata (là dove, come in questo sito, resisteva) una pallida fiaccola destinata a spegnersi. La forza della volontà alternativa che si è esressa nelle vicende del maggio e del giugno le ha ridato fiato e alimento. Ed è il primo risultato positivo dei tre pronunciamenti popolari; forse il più rilevante.

Il secondo elemento è la rinascita della politica. Non la politica del “palazzo”. Questa ha fornito un ulteriore segno della sua decrepita vecchiezza, della sua distanza dalla società. Non parliamo solo della politica della destra: la miserabile destra italiana, così lontana da quella del resto del mondo atlantico e da quella stessa che costruito lo stato unitario, ha dato nelle vicende dei referendum un’immagine grottesca di sé. Parliamo anche della politica delle sinistre. Innanzitutto di quella del PD, saltato sul carro di una vittoria che solo nelle ultime settimane aveva concorso a costruire, mentre per molti mesi aveva ignorato, a volte sbeffeggiato, spesso ostacolato quelli che i referendum avevano promosso e ottenuto. Ma parliamo anche della politica delle altre sinistre, incapaci di fornire un quadro di riferimento unitario alle tensioni che si rivelavano nella società.

Non è quindi la politica dei partiti che ha iniziato a rinascere, ma quella che (come ha scritto don Lorenzo Milani) si manifesta quando più persone riconoscono che un problema che soffrono è comune, coinvolge molti, e chi ne patisce si mette insieme per affrontarlo insieme. «Compresi che il mio problema era il problema di tutti, e che affrontarlo da soli è l’avarizia, affrontarlo insieme è la politica», fa dire Milani a uno dei ragazzi della Scuola di Barbiana.

Questa rinascente politica si è manifestata ed espressa – e ha raggiunto un risultato sperato solo dai più audaci – perché ha saputo intrecciare “intellettuali” e “popolo”. Perché hanno saputo incontrarsi e lavorare insieme (nei comitati, nelle reti, nei forum) quanti avevano avuto la possibilità di conoscere, studiare, riflettere, approfondire, e insieme la capacità di adoperare parole semplici, e quanti erano disposti ad ascoltare, a comprendere, a condividere, e a far comprendere e condividere agli altri, avendo scoperto in sé l’indignazione per un modo sbagliato di affrontare questioni essenziali della vita: la voglia di rialzare il capo e di riscoprire le capacità di una critica che nasceva dal mondo delle emozioni e dei sentimenti.

Il terzo elemento che occorre sottolineare è l’obiettivo della protesta, ciò che con il voto amministrativo e con la plebiscitaria risposta ai referendum si è voluto colpire. Da un lato, soprattutto con l’adesione al referendum sul “legittimo impedimento” e con il clamoroso sostegno a candidati sindaci atipici come Pisapia, De Magistris, Zedda, si è voluto colpire il modo vecchio di fare politica: un modo che ha sacrificato la ricerca del bene comune agli interessi separati della conventicola , o addirittura del singolo potente. E il merito maggiore del raggruppamento di Di Pietro è stato dia aver compreso(e uno dei torti maggiori del PD è stato di non aver compreso) che Berlusconi non poteva essere un partner politico poiché era l’epitome di ciò che della vecchia politica era più stantio, putrido – e comunque era la smaccata espressione della distanza della “politica” dalle esigenze e dalle speranze del popolo. Con il SI clamoroso al referendum contro il nucleare si è voluto far prevalere il “principio di precauzione” su quelle che sono state percepite come le ragioni di un’economia che allo “sviluppo” sacrifica ogni altra realtà, dimensione, esigenza. Saggiamente i promotori di quel referendum hanno insistito sul SI a nuove forme di utilizzazione dell’energia disponibile nell’universo; c’è semmai da rilevare che e stato lasciato in ombra, almeno a livello di massa, il tema dell’eccesso di domanda di energia peculiare a un sistema economico basato sulla crescita indefinita della produzione e del consumo di merci.

Ma la risposta più interessante è stata quella del referendum sull’acqua pubblica. Grazie a una faticosissima e intelligente azione politica, che è partita da un’élite di intellettuali e si è propagata a livello di massa, con un impiego straordinario di lavoro volontario, di creatività, di capacità di relazione, di ascolto e di parola, si è ottenuto il radicamento - in una parte non più minoritaria di cittadine e cittadini - di alcune verità profondamente innovative, che vale la pena di sottolineare. La nozione di “bene comune”, come qualcosa che deve essere utilizzato da tutti senza discriminazione alcuna perché è un “diritto” per ogni persona umana. La consapevolezza dell’intollerabilità di un sistema economico-sociale, di un assetto della proprietà, delle appartenenze e del diritto che riduce ogni bene a merce, che spinge alla privatizzazione d’ogni bene comune, che sostituisce ogni “governo” (ogni finalizzazione degli strumenti a obiettivi trasparenti e condivisi) a gestione “aziendale”, che finalizza ogni intervento di uso delle risorse all’arricchimento dei soggetti privati che possono venirne in possesso. Ciò che molti economisti non hanno compreso è che la rivendicazione dell’acqua come bene comune non è valutabile mediante il paradigma dell’economia data (quella capitalistica, in sé e nella sua attuale configurazione), poiché pretende un suo superamento e la costruzione di una nuova economia, basata su un diverso paradigma.

Si può dire che la battaglia per l’acqua pubblica sia, proprio per queste ragioni, il possibile fondamento della costruzione di un nuovo paradigma, basato appunto sul concetto di bene comune. In questo senso si può dire della vertenza per l’acqua pubblica che ce n’est qu’un debut, non è che un inizio. Come molti hanno già rilevato (sulle pagine di eddyburg se ne trovano testimonianze numerose) altre vertenze si sono aperte negli ultimissimi anni per difendere dalla mercificazione e dalla liquidazione altri beni comuni, altrettanto importanti per la vita dell’umanità e per il suo futuro: dalla scuola al lavoro, dalla salute all’informazione, dalla formazione alla ricerca, dall’habitat dell’uomo al paesaggio, dalla cultura alla storia.

E’ in questo quadro che si pongono gli interessi specifici di eddyburg. La difesa della città e del territorio, del paesaggio e dei beni culturali come beni non riducibili a merci, come patrimoni dell’umanità di oggi e di quella di domani è parte di un’azione più generale, che esige una costante attenzione alle tre dimensioni della realtà fisica e funzionale dell’habitat dell’uomo (l’urbs), di quella sociale (la civitas) e di quella politica (la polis). Molto cammino resta da compiere perché queste tre dimensioni trovino una sintesi. In particolare, perché la nuova politica, espressa degli eventi recenti, si consolidi in nuove forme capaci di durare nel tempo portando a sintesi, e finalizzando a obiettivi generali, l’insieme delle esigenze di cambiamento profondo di cui gli italiani hanno dimostrato consapevolezza inaspettata.

E’ un cammino difficile e lungo. Con lo sgretolamento del regime di Berlusconi è iniziato: il masso che ostruiva il tunnel nel quale siamo immersi ha cominciato a disgregarsi, si vede la luce. Ma dal tunnel non siamo ancora fuori. E al di là, il panorama che troveremo non sarà dei più allettanti. Molto ci sarà da costruire e ricostruire, con pazienza. Ma la speranze è rinata.

É una reazione che non nasce solo dal mondo degli apologeti del sistema dato come il migliore possibile, né da quello dei rassegnati all’esistente perché there is no alternatives, ma trova spazio anche tra quanti non sono succubi del sistema capitalistico. É il caso, ad esempio, della recente critica di Rossana Rossanda a una ragionevole proposta avanzata da Guido Viale alla crisi dell’automobile.

Ed è una reazione che è anche un indicatore delle difficoltà che incontra chi ritiene che una risposta adeguata al presente modello di sviluppo potrà aversi unicamente se si costituisce un’alleanza tra i gruppi sociali che sono più direttamente minacciati dalla sua egemonia, Nel Nord del mondo, a cominciare da quelli che soffrono e protestano per le condizioni delle risorse naturali, dei patrimoni culturali, delle conquiste sociali raggiunte negli anni del welfare, e quanti hanno perduto o rischiano di perdere la base stessa della loro esistenza sociale: il lavoro.

Credo che sia necessario affrontare il tema del lavoro in tutta la sua ampiezza, per comprendere non solo le ragioni per cui la difesa del lavoro è essenziale, ma anche quali sono le alternative possibili all’uso che attualmente il sistema economico ne fa. Per avviare una riflessione su questi temi conviene partire da un’affermazione di Nichi Vendola. Egli ha recentemente ricordato che, se «essere radicali significa andare alla radice delle cose, alla radice di ogni cosa c’è l’essere umano». Di ogni cosa, anche del lavoro.

Ecco allora la domanda: il lavoro è necessario all’uomo solo perché riceve in cambio una retribuzione che gli consente di sopravvivere e vivere, oppure il significato del lavoro, la sua utilità e necessità per l’uomo (e per la società) ha un’altra e più profonda (più radicale) ragione? Perché se così fosse, se il lavoro ha un significato per l’uomo al di là della sua attuale dimensione economica, allora si dovrebbe dire che il lavoro viene prima dell’economia, ed è l’economia che deve adeguarsi al fatto che il lavoro dell’uomo (di tutti gli uomini) è una realtà indispensabile allo sviluppo della ciiviltà umana: allo “sviluppo” vero, non solo a quello oggi socialmente riconosciuto come necessario al sistema, cioè asservito alla produzione di merci.

Un po’ di teoria...

Il lavoro non è solo il mezzo mediante il quale, in una società complessa, l’uomo ottiene un reddito idoneo a soddisfare la esigenze al livello storicamente dato. Esso è «per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine» (C. Napoleoni 1980, p.4 segg.). Esso peraltro, per poter essere erogato e socialmente utilizzato, ha bisogno di un riconoscimento di utilità sociale al quale corrisponda l’assegnazione al lavoratore di una quota di reddito commisurata alle sue esigenze.

Un mondo nel quale il lavoro venga reso inutile o impossibile è un mondo nel quale la civiltà è destinata a spegnersi. Eppure, tale è un mondo abbandonato al dominio dell’economia data, cioè ai meccanismi di produzione e consumo propri del capitalismo, ai connessi dispositivi proprietari, giuridici e ideologici. Non posso in questa sede argomentare adeguatamente questa affermazione; provo a farlo appena un po’ più ampiamente nel mio libro Memorie di un urbanista, al quale rinvio (E. Salzano, 2010, p. 26 segg). Sono convinto che è a partire da essa che si può dimostrare: 1) che il lavoro è un bene comune indispensabile per il progresso dell’umanità; 2) che occorre fondare un’economia, diversa da quella capitalistica, nella quale ogni tipo di produzione dei valore d’uso abbia un’adeguata remunerazione, e tutte le capacità lavorative siano impiegate con pienezza. Sono anche convinto che un simile orizzonte non è dietro l’angolo, e che il suo raggiungimento esige l’impiego di tutte le risorse disponibili: da quelle della riflessione e dello studio dell’insieme dei saperi necessari, a quelle sperimentazione delle forme di produzione e consumo che l’umana fantasia può escogitare.

Lasciando aperti problemi di preoccupante spessore vorrei arrivare a sostenere una proposta concreta e positiva che da varie parti è emersa, con particolare evidenza dopo il dibattito suscitato dalla decisione della Fiat di modificare sostanzialmente le condizioni di lavoro a Pomigliano d’Arco, e dalla conseguente resistenza a tali modifiche opposta da una parte consistente del mondo operaio.

…e un po’ di storia

Non è detto che l’economia debba comandare sulla politica. Non è detto che sia l’economia (le sue regole, i suoi decisori, i suoi strumenti) a stabilire per che cosa il lavoro debba essere impiegato. Meno che meno la scelta può essere affidata al “mercato”. Questo e infatti divenuto uno strumento che solo gli sciocchi o gli imbroglioni possono spacciare come il luogo dove si manifesta la “sovranità del consumatore”; dimenticando che viviamo orma in un mondo in cui le scelte di consumo sono la conseguenza di un possente meccanismo di coartazione fatto di ideologia, di propaganda, di induzione compiuto - con i mezzi più sofisticati - dai padroni e gestori della produzione.

Basta sollevarsi dall’ottica di un Marchionne a quella che dovrebbe essere propria di un uomo pensoso del bene comune (di un “cittadino governante”) per comprendere qual è oggi il lavoro necessario in Italia. Partiamo da qui per ragionare: non domandiamoci come bisogna fare per consentire alla Fiat di produrre automobili sempre più inutili e dannose, e neppure predichiamo l’inevitabilità che la fabbrica italiana di automobili chiuda. Domandiamoci invece quale possa essere l’incontro virtuoso tra la capacità produttiva dei lavoratori impiegati nei diversi settori della produzione materiale e immateriale, e la soluzione dei problemi reali (non quelli degli investitori, ma quelli dei cittadini) che si pongono oggi nel nostro paese.

Chi conosce un po’ la nostra storia, o l’ha vissuta, ricorderà un precedente significativo: l’iniziativa di proporre ai partiti e al governo un Piano del lavoro, avanzata nel 1949 dalla Cgil, allora guidata da Giuseppe Di Vittorio. Era un programma orientato a raggiungere due obiettivi convergenti: da un lato, dare una risposta alla forte offerta di lavoro manifestatasi nell’immediato dopoguerra, per effetto sia degli eventi bellici che dalla profonda miseria presente in molte zone del paese; dall’altro lato, affrontare alcuni problemi allora emergenti con un impiego mirato di tutte le risorse disponibili.

Si trattava di tre grandi progetti: «la nazionalizzazione dell’industria elettrica e la costruzione di nuove centrali e bacini idroelettrici […]; l’avvio di un programma di bonifica e irrigazione di vasti terreni;[…] un piano edilizio immediato a carattere nazionale per far fronte alla drammatica carenza di case, scuole e ospedali» (P. Ginsborg 1989, p. 283). Il finanziamento avrebbe dovuto avvenire «attraverso una tassazione fortemente progressiva, ma Di Vittorio annunciò che anche la classe operaia sarebbe stata pronta a nuovi sacrifici se il piano fosse stato accettato» (ibidem).

Il governo non accettò. Lo sviluppo dell’economia e la ristrutturazione del paese scelsero altre strade: edilizia a go go, autostrade, automobili e altri beni di consumo individuale durevoli, abbandono non governato dell’agricoltura e della cura del territorio. Si accumularono le cause dei danni e dei disagi dei nostri giorni. E forse è proprio dalla riparazione dei danni provocati dal non aver accettato allora il piano del lavoro della Cgil che si può partire per trovare una sintesi tra la difesa del lavoro e quella degli altri beni comuni.

Un nuovo “Piano del lavoro”

Su quattro grandi progetti sembra necessario oggi investire il massimo possibile di lavoro: (1) una nuova organizzazione della mobilità che sia sostenibile, efficiente, amichevole, equa e che si ponga l’obiettivo di ridurre la domanda di mobilità mediante una corretta localizzazione delle funzioni sul territorio e la promozione delle “filiere corte”; (2) nell’ambito di una decisa riduzione degli scarti del consumo e della dipendenza dall’energia, l’utilizzazione delle energie alternative con modalità, tecnologie e localizzazioni non configgenti con la tutela delle risorse e dei patrimoni comuni; (3) un risarcimento del territorio che lo riscatti dall’attuale degrado delle risorse fisiche e culturali che in esso storia e natura hanno investito, gli restituisca bellezza, sicurezza, fruibilità, elimini i generatori di rischio, di degrado e d’inquinamento, avvii un’opera di manutenzione sistematica e ordinaria; (4) un programma che si ponga l’obiettivo di garantire una residenza (abitazione più servizi) a tutti gli abitanti a condizioni adeguate alle loro necessità di vita e al loro reddito, mediante il recupero e la rigenerazione sociale del vastissimo stock edilizio accumulato.

Si tratta di progetti strettamente connessi tra loro, che singolarmente riecheggiano i temi del Piano del lavoro di Di Vittorio. Non a caso i problemi di allora (il lavoro, la casa, il territorio agricolo, l’energia) sono rimasti gli stessi. Oggi sono certamente, modificati nelle loro caratteristiche, ma spesso resi più gravi per le scelte allora compiute: in primo luogo per quella di privilegiare la spontaneità delle azioni, l’individualismo delle soluzioni, il privato tra gli attori.

Non è difficile, per un’equipe di volenterosi cittadini dotati dei saperi necessari, tradurre questi progetti in linee d’azione operative, e su questa base individuare la quantità, la qualificazione e l’attrezzatura tecnica e imprenditoriale necessarie, correlandola alle disponibilità attuali e alla loro riconversione. E non è neppure difficile individuare quali siano le risorse necessarie e dove sia possibile reperirle.

Per quanto riguarda quelle finanziarie c’è molto da tosare nei malfunzionamenti sostanziali del sistema vigente. Basterebbe partire dalla rinuncia alle Grandi opere inutili o dannose, dall’eliminazione dei fenomeni di spreco intollerabile legati al sistema corrotto degli affidamenti di opere, dalla riduzione delle rendite finanziarie e immobiliari e dalla loro tassazione, fino ad affrontare finalmente quello che si giustificherebbe da solo come una grande obiettivo di civiltà: la rinuncia agli armamenti militari e alle guerre, quali che siano i suoi travestimenti.

É chiaro che in questa prospettiva due altre grandi risorse, oggi lasciate al deperimento, diventerebbero decisive e richiederebbero un consistente rafforzamento: il governo pubblico del territorio, la formazione e la cultura. Il primo è indispensabile per fornire al nuovo “piano del lavoro” il quadro di partecipazione civile, di programmazione economica, di pianificazione territoriale e urbanistica, di gestione amministrativa, di monitoraggio che sono indispensabili per impiegare in modo efficacemente finalizzato il lavoro e le altre risorse. La formazione e la cultura sono essenziali perché costituiscono il campo nel quale si costruiscono le basi di ogni futuro che voglia superare il presente aumentando la consapevolezza , consolidando i principi della convivenza, costruendo le condizioni materiali e morali per lo sviluppo della civiltà umana.

Chi può essere il promotore di un simile piano? In una fase della nostra vita nella quale la politica delle decisioni (quella delle istituzione e dei partiti) è scandalosamente assente o distratta da altri interessi, e la politica delle esigenze e delle speranze (quella dei comitati, delle associazioni e degli altri gruppi di cittadini attivi) non riesce a costruire una strategia unitaria all’altezza del sistema, forse è dalla nostra storia che ci viene una risposta possibile: dal sindacato dei lavoratori, oggi guidato da Susanna Camusso, quindi dall’esponente di un genere, quello femminile, che oggi è particolarmente sacrificato su tutti i versanti della crisi – come lo era allora la classe del bracciantato agricolo, espresso da Giuseppe Di Vittorio.

Ginsborg, P. (1989), Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica, 1943-1988 Torino, Einaudi.

Napoleoni, C. (1980) Elementi di economia politica, Firenze, La Nuova Italia.

Salzano, E. (2010), Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Venezia, Corte del fòntego.

L'icona è lo stralcio di un'mmagine che illustra la partecipazione delle mondine allo sciopero generale nazionale dei lavoratori agricoli del 1949 37 giorni), da una pubblicazione della CGIL. Tratto dal blog di Laura E. Ruberto

Novità certamente positive. In primo luogo perché dimostrano l’estensione e la molteplicità della resistenza al trend distruttivo. Ci si mobilita per la difesa di essenziali beni comuni che devono essere disponibili per tutti gli abitanti del pianeta, come per la quercia millenaria che si vuole abbattere per costruire un ponte inutile e dannoso. Si contesta alla speculazione immobiliare l’area sistemata a verde di vicinato, e ci si batte contro la riduzione della sfera pubblica come possibilità d’incontro per protestare e proporre. Si lotta per un apprendimento aperto a tutti, come per i diritti del lavoro duramente conquistati e pesantemente minacciati. Ci si oppone alla riduzione dei servizi del welfare, come all’erezione di monumenti utili solo agli affaristi (e spesso alle mafie).

Sono novità positive anche, e forse soprattutto, perché sottolineano la possibilità (oltre che la necessità) di aggregazione, in assenza della quale ogni solida affermazione di un’alternativa è negata. Frammentazione e dispersione condannano a restar subalterni al cospetto di forze e tendenze (quella della globalizzazione capitalista) che hanno un carattere generale, di sistema, e che dispongono di mezzi materiali e immateriali che consentono loro di esercitare il loro potere in modo estensivo e penetrante. Frammentazione e dispersioneendono particolarmente difficile far nascere, per contrastare l’ideologia prevalente, una contro-ideologia (per adoperare i termini di Antonio Gramsci, un italiano il cui pensiero è oggi più frequentato all’estero che nel suo paese).

Gli elementi positivi espressi dalle novità nascondono tuttavia un elemento problematico. Perché le differenti azioni di critica, di protesta e di contrasto, e le proposte alternative che ne scaturiscono, raggiungano una sufficiente unitarietà, occorre che entrino nella vertenza contro il saccheggio dei beni comuni due dimensioni: la politica e l’urbanistica. Vogliamo oggi soffermarci su quest’ultima, perché più peculiare a questa sede. Vogliamo sottolineare l’esigenza che la pianificazione urbanistica (più propriamente, la pianificazione delle città e dei territori) non venga più considerata come una congerie di adempimenti burocratici e di procedure incomprensibili, né come il luogo nel quale inevitabilmente prevalgano gli interessi dell’urbanizzazione intesa come cementificazione del territorio, ma venga considerata - e pienamente diventi - uno dei principali strumenti mediante il quale la collettività esprime il suo progetto di uso, conservazione e trasformazione della porzione del pianeta Terra che gli è dato di abitare.

Bisogna allora in primo luogo prendere consapevolezza di ciò che il territorio è. Esso non è la mera aggregazione di elementi diversi (gli elementi naturali, i beni culturali, le comunità che lo abitano ecc. ecc.). Di conseguenza non è comprensibile, e quindi neppure governabile, secondo approcci che lo contemplino dal punto di vista di una sola delle “discipline” nelle quali si è frantumato il sapere dell’uomo. Il suo destino non è dominabile affrontando separatamente l’uno o l’altro degli elementi che lo compongono.

Il territorio è comprensibile, governabile, dominabile unicamente se lo si considera come sistema, nel quale intrinsecamente s’intrecciano natura e storia, patrimoni da conservare ed esigenze sociali da soddisfare; come sistema che può essere compreso, difeso, trasformato unicamente se è considerato nell’insieme dei suoi aspetti e degli elementi che lo compongono. Il territorio, insomma come habitat dell’uomo, per riprendere la definizione non di un urbanista, ma di uno storico dell’ambiente e della società, Piero Bevilacqua.

La pianificazione è lo strumento (più precisamente, il metodo e l’insieme degli strumenti) inventato per poter governare il territorio in modo coerente con il suo carattere sistemico.Programma le trasformazioni del territorio nel loro complesso, quindi tenendo conto delle reciproche interrelazioni tra le varie parti e funzioni. Definisce le regole delle trasformazioni, quindi è in grado di tener conto delle differenti esigenze di tutela espresse dalle qualità delle diverse parti del territorio. Dopo la “legge Galasso” del 1985 può assicurare la tutela delle qualità naturali e storiche del territorio su ogni altra trasformazione. Può stabilire i tempi e le priorità delle azioni, quindi controllare i loro effetti sulle condizioni di vita del territorio e della società che lo abita. Rende visibili, controllabili, criticabili e migliorabili le trasformazioni nel loro insieme. Può (se le procedure sono accortamente stabilite e rigorosamente rispettate) consentire un processo delle decisioni aperto e democratico.

Naturalmente, la pianificazione è anche la sede nella quale si esprimono i conflitti tra le diverse utilizzazioni del territorio. Poiché alcune di queste sono estremamente remunerative per i proprietari ma in contrasto con gli interessi della collettività (e in particolare delle sue componenti più deboli), essa è un terreno di scontro politico e sociale. O meglio, può esserlo se alla pianificazione viene assicurata la trasparenza che ne è parte costitutiva.

Raramente, in Italia, la pianificazione è stata applicata bene.

Lo è stata quando per la politica il territorio era importante (era la casa della società), e quindi lo era la pianificazione. Qualche tempo fa abbiamo sentito in una registrazione Renato Pollini, il mitico sindaco di Grosseto negli anni 50 e 60 del secolo scorso, ricordare che allora, per il partito maggioritario (era il PCI) la scelta politica più importante, che gli assicurò un lungo successo di consensi, fu la decisione di fare il piano regolatore, tra i primi nell’Italia del dopoguerra. Oggi per la politica il territorio esiste in ragione della sua “vocazione edilizia” (espressione che fa inorridire); è divenuto lo strumento dello “sviluppo”: del trionfo dell’immobiliarismo e dell’espansione della rendita urbana, componente parassitaria del reddito secondo la scienza e il pensiero liberale. Nella recente sessione della Scuola di eddyburg abbiamo ragionato a lungo su questo argomento.

Ed è stata applicata bene quando l’urbanistica era un mestiere del quale la prevalenza dell’interesse collettivo su quello individuale era la base di una deontologia non scritta né giurata, ma praticata fin dalle università. Oggi gli urbanisti si dividono in due grandi categorie: i “facilitatori” degli interessi immobiliari, e delle ambizioni dei sindaci che li favoriscono, e gli “urbanisti in trincea” nelle amministrazioni pubbliche, il più delle volte dominate da quegli stessi interessi, o, nel migliore dei casi, ridotte all’impotenza dalla scarsità delle risorse.

Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avvenne in Italia ciò che era già avvenuto pochi decenni prima in aree meglio governate. La pianificazione fu finalizzata non solo alla maggiore efficienza del sistema produttivo, ma anche al soddisfacimento di bisogni che postulavano modi collettivi per il loro soddisfacimento: l’apprendimento, la salute, la cultura, la rigenerazione fisica, la ricreazione. La stessa esigenza dell’abitare diede luogo a trasformazioni territoriali finalizzate a soluzioni collettive. Ciò avvenne soprattutto grazie alla pressione per migliori condizioni di vita che le organizzazioni politiche ed economiche delle classi lavoratrici riuscirono a strappare. La riflessione teorica accompagnò l’affermazione del “welfare urbano” proponendo un nuovo diritto: il diritto alla città. Il primo teorizzatore di questo termine, Henry Lefebvre, lo espresse in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio, e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni. Naturalmente queste due possibilità possono divenir effettuali se esiste un’organizzazione urbana del territorio (ossia, se il territorio utilizzato come habitat dell’uomo non è una mera aggregazione di frammenti) e se ne esiste un governo unitario, e cioè un metodo che consenta di configurare un insieme sistematico delle trasformazioni desiderate. É esattamente ciò che chiamiamo pianificazione urbanistica e territoriale (ma più esatto sarebbe parlare di pianificazione della città e del territorio).

Negli anni immediatamente successivi altre esigenze si aggiunsero a quelle del welfare urbano. Si comprese che le risorse della natura sono limitate, mentre vengono utilizzate dalla macchina produttiva come se fossero inesauribili; si comprese che considerare il territorio come un giacimento da sfruttare e il recipiente d’ogni sozzura prodotta provocava rischi crescenti per la stessa vita degli uomini; si comprese che alcune caratteristiche proprie del territorio costituivano qualità meritevoli d’essere conservate e aperte alla fruizione di tutti. Nacquero, insomma, le esigenze e le proposte dell’ambientalismo. E anche la pianificazione territoriale e urbanistica arricchì i propri strumenti, finchè – negli orribili anni 80 – questa venne via via abbandonata.

Oggi stanno riemergendo i contenuti delle parole d’ordine di quegli anni lontani. I due obiettivi che costituiscono il “diritto alla città” diventano parte integrante della difesa della “città (e del territorio) come bene comune”. A tutti gli abitanti del pianeta – a quelli oggi presenti e a quelli di domani, al di là dei recinti antichi e di quelli nuovi – deve essere garantita la possibilità di fruire del territorio, nelle sue componenti naturali come in quelle storiche. E a tutti deve essere consentito di partecipare al processo delle decisioni. Ciò può essere ottenuto solo da una politica che riprenda il suo ruolo di sintesi dei bisogni e delle soluzioni nell’interesse generale, e da una pianificazione delle città e dei territori guidata da quella politica, che sappia assumere come criterio di valutazione d’ogni la domanda: a chi giova, e chi ne paga il prezzo?

Questo sembra maturare nell’esperienza dei gruppi di cittadinanza attiva più sensibili alle esigenze generali di trasformazione della società, delle sue regole, del suo rapporto con il territorio, e con il futuro di noi tutti. Se quelle esperienze diventeranno il lievito del vasto mondo di associazioni, comitati, reti impegnati nella resistenza al saccheggio, si potrà avviare a una duratura inversione di tendenza.

L’obiettivo è chiaro: far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.

Per raggiungere quest’obiettivo le componenti della strategia sono chiare. Il primo passaggio ha a che fare con il peso assegnato alle diverse dimensioni della vita dell’uomo e dei saperi che ne determinano le condizioni. L’unica scienza valida è l’Economia. Tutti gli altri saperi sono squalificati, sono ridotti, da Scienza, a Tecnica: anzi, a mera Tecnologia. E per scienza economica s’intende quella che descrive e ipostatizza l’economia data, questa economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, l’unico capace di misurare il valore delle cose.

Bisogna negare l’esistenza di beni non riducibili a merci, perchè se ogni cosa è “merce”, ogni cosa è soggetta al calcolo economico, e il mercato diventa la dimensione esclusiva delle scelte. Bisogna abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie; l’unica regola ammessa è quella del mondo dei pesci, grazie alla quale il grosso mangia il piccolo.

I beni che si vogliono ridurre a merci, i “comuni” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza quotidiana e dalle cronache che su eddyburg registriamo. Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, nè rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.

Le armi

Tra le armi che si adoperano nella strategia dei saccheggiatori due sono quelle decisive, una distruttiva l’altra distorsiva. Si devono distruggere le regole, con l’unica eccezione di quella del mondo dei pesci, e si deve trasformare la testa della “gente”.

Via tutte le regole elaborate nel corso dei secoli per sottoporre i beni (il territorio, le sue risorse e qualità, l’ambiente della vita degli uomini) a una finalità d’interesse comune, o generale, o collettiva. Via gli strumenti mediante i quali quelle regole si concretano e diventano efficaci: non solo le leggi, ma anche la pianificazione delle città e del territorio. Via le strutture che dovrebbero garantire la corretta formazione e applicazione delle regole (a partire dalla pubblica amministrazione) e quelle che dovrebbero consentire l’ancoraggio del potere normativo alla volontà della maggioranza dei cittadini (i parlamenti, i consigli elettivi). Ed ecco allora l’incentivo all’abusivismo, la generalizzazione della deroga ai piani, il passaggio dalla “urbanistica autoritativa” alla “urbanistica contrattata” (anzi, addirittura alla registrazione delle scelte immobiliari decise dai proprietari), la sostituzione dei controlli ex-post a quelli ex-ante (addirittura con una modifica della Costituzione), il discredito della pubblica amministrazione e la sua tendenziale distruzione (Brunetta sta lì per questo). E via addirittura le regole del mercato, se questo è manipolabile dai pesci più grossi.

Ma distruggere le regole non si può senza ottenere il consenso necessario, finché si opera in un contesto nel quale non si possono abbandonare le forme della democrazia. Un Berlusconi alla fine del secolo non può fare ciò che fece un Mussolini nei primi decenni. Allora bisogna cambiare la testa della gente. Via lo spirito critico, via la conoscenza, via il sapere diffuso. Via la memoria, se il passato recente ricorda ai più anziani che cosa era stato conquistato e che cosa ci stanno togliendo. E via la storia, magistra vitae e testimonianza del fatto che non tutto è già scritto e che il futuro non è necessariamente appiattito sul presente (non è vero che “There Is No Alternatives”).

Per cambiare le teste basta cambiare gli strumenti della formazione: non più la scuola, la parrocchia, la casa del popolo, è la televisione commerciale che foggia le teste e le coscienze della gente da almeno trent’anni. E allora, disponendo di questo strumento si può far diventare pensiero corrente gli slogan utili alla strategia del saccheggio (“meno stato più mercato”, “privato è bello”, “padrone a casa mia”, “meno tasse per tutti”) e far credere alla “gente” che benessere significa modernizzazione, sviluppo significa crescita, democrazia significa a votare una volta tanto, privato è meglio che pubblico, Io è meglio che Noi.

Un saccheggio globale

Il saccheggio del territorio è un aspetto di un processo culturale e sociale molto più ampio, che degrada e cancella, oltre alla “nicchia ecologica” dell’uomo e della società, altre dimensioni e valori essenziali della vita . Il lavoro, la salute, l’eguaglianza, la solidarietà, l’etica. Il meccanismo è lo stesso: ridurre ogni cosa a merce e cancellare tutto ciò che lo impedisce; plagiare le persone e trasformarle, da cittadini a clienti (e sudditi), da produttori a consumatori (o schiavi).

É davvero un saccheggio globale, anche nel senso che riguarda tutte le dimensioni della vita personale e sociale. Esso genera reazioni, poiché provoca disagi e sofferenze. Proteste nascono a partire da ciascuno dei moltissimi aspetti minacciati: dalle diverse componenti del mondo del lavoro (i lavoratori licenziati, i precari, gli inoccupati), delle molteplici sfaccettature dell’ambiente e del territorio (gli spazi pubblici erosi, gli interventi invasivi, il degrado dei paesaggi), dalla riduzione della qualità della vita (l’assenza di abitazioni a prezzi ragionevoli, il costo dei servizi, i disagi della mobilità).

E tuttavia l’insieme di questi malesseri sociali non si unifica, non raggiunge un livello di sintesi capace di competere con l’unitarietà del processo che provoca i mille aspetti del disagio: si illude di poter vincere la piovra che l’avvolge colpendo uno solo dei suoi mille tentacoli. A una strategia compatta non sa contrapporre una strategia alternativa, ma solo un pulviscolo di proteste e proposte. (E quand’anche strategie alternative si manifestano, come accade nella frammentata sinistra iìtaliana, esse sono molteplici, e sono in competizione tra loro prima che contrapposte a quella dominante). Questo è il limite che occorre superare.

Quali errori?

Il processo che abbiamo descritto non nasce oggi. Le sue radici sono antiche, ma esso ha avuto un’accelerazione consistente e indubbi successi nei decenni più vicini: i decenni del neoliberismo, rappresentati da David Harvey nel poker d’assi Reagan, Tatcher, Deng Xiaoping, Pinochet. In Italia, esso ha cominciato ad affermarsi a partire dagli anni Ottanta, negli anni del doroteismo democristiano e del craxismo. É utile domandarsi quali errori, compiuti nel campo della cultura democratica e di sinistra, ne abbiano agevolato il successo; soprattutto, su queste pagine, quali siano state le responsabilità della cultura urbanistica.

Alcune sono evidenti, e se ne abbiamo trattato spesso in questo sito. É stato certamente un errore (ha agevolato il propagarsi dell’ideologia neoliberista) l’enfasi data all’estensione della perequazione, proposta come strumento generalizzato per risolvere il conflitto tra appropriazione privata della rendita e salvaguardia degli interessi collettivi nelle trasformazioni della città e del territorio. Un errore ancora più grave è stato l’affermare l’esistenza di un diritto edificatorio, giuridicamente ed economicamente fondato, che apparterrebbe al proprietario di un suolo cui un piano urbanistico avesse attribuito una previsione di edificabilità. Si sono date così armi possenti a chi voleva anteporre il privato al pubblico, l’interesse economico del singolo all’interesse collettivo nelle decisioni sul territorio. Su questo sito ci siamo così spesso intrattenuti su questi errori che non è necessario dilungarvisi ora.

Ma è stato un errore altrettanto grave il rinchiudersi dell’urbanistica su se stessa, sulla sua tecnicità, ridursi all’accademismo o al professionismo. É stato un errore promuovere o subire un “fare” disancorato dai princìpi, preoccuparsi di essere operativi abbandonando lo spirito critico, il senso di ciò che si contribuiva a fare. Ed è stato un errore impoverire i collegamenti con la società nel suo complesso, con le aspirazioni, le esigenze, i disagi, le sofferenze che in essa si esprimevano.

É vero, una volta la società era rappresentata dalla politica dei partiti, e questa si esprimeva nelle istituzioni della democrazia; riferirsi ai partiti e alle istituzioni era dunque sufficiente a un’urbanistica che volesse esprimere la società e servirla. Oggi non è più così. La politica dei partiti è in crisi vistosa proprio sul punto che la rendeva una dimensione cardine dell’urbanistica operativa: nel suo essere espressione della società. Le istituzioni della democrazia (in quanto organismi rappresentativi della società) sono ancora il riferimento obbligato per un’azione che voglia avere il bene comune come suo fondamento, ma esse sono largamente conquistate dal’ideologia dominante e signoreggiate dai partiti .

É in altri ambiti che l’urbanistica deve allora ritrovare oggi i suoi collegamenti con la società. Due mi sembrano particolarmente rilevanti: quelli nei quali si formano conoscenza e coscienza delle persone, e soprattutto dei più giovani; quelli nei quali si esprimono il disagio e la protesta per il saccheggio dei beni comuni – e in particolare quelli territoriali.

Si tratta di due ambiti che in gran parte coincidono. Nei processi formativi classici (la scuola, l’università) mi sembra particolarmente necessario far riemergere lo spirito critico, oggi seppellito dal nozionismo e dalla sterilità dell’accademismo. Ma si può svolgere una funzione formativa anche nel collaborare a una di quelle numerose forme della cittadinanza attiva (associazioni, comitati, reti locali e settoriali) nelle quali trova espressione collettiva il disagio e la protesta. In quelle sedi, generalmente, lo spirito critico è già presente. Ma non è sempre immediato né facile il passaggio dalla percezione di quel determinato problema in relazione al quale il disagio e la protesta sono nati, alla consapevolezza delle connessioni col resto del saccheggio: quindi alle sue cause e alle possibili soluzioni. Così come non è facile (ed ha bisogno dell’aiuto degli esperti) l’individuazione delle soluzioni positive, delle alternative possibili, delle proposte da formulare per ottenere un consenso più ampio.

Qualcosa da fare

Se si guarda a ciò che succede sul territorio, e a ciò che si muove nella società, alcuni concreti temi d’azione emergono subito.

Il più immediato è la difesa dei beni comuni territoriali. É un tema che richiede la formulazione di analisi chiare e facilmente comprensibili, la presentazione efficace delle ragioni per cui quel bene deve essere tutelato e fruito nell’interesse non solo dei suoi immediati fruitori, l’individuazione degli strumenti utilizzabili per tutelarlo e delle alternative possibili alle azioni minacciate. Sono già disponibili esperienze di situazioni in cui la collaborazione tra specialisti e risorse locali ha consentito successi.

Un altro tema sul quale gli urbanisti dovrebbero impegnarsi è l’illustrazione del modo nel quale determinate esigenze della vita individuale sociale – oggi divenute problemi – possono essere affrontate e risolte, e delle ragioni per le quali, al contrario, certe ipotesi ricorrenti di trasformazione urbana sono negative. Ad esempio, a quanti di quelli che propongono la “densificazione urbana” finalizzata a meri interessi immobiliari si oppone – da parte di chi vuole contrastarla – la buona ragione che a ogni metro cubo di nuovi volume destinato alla residenza o al lavoro devono corrispondere tot metri quadrati di spazio pubblico, utilizzato per il verde e i servizi collettivi, e che comportarsi in modo diverso è non solo irresponsabile ma anche illegittimo?

Connesso a questo tema è poi quello della difesa della memoria: non solo come collaborazione alla generale imprese di rivendicare la storia come momento fondativo della comprensione del presente e quindi della progettazione del futuro, ma anche come dimostrazione che, ove esistano determinate condizioni spesso ripetibili, sia possibile affrontare in termini positivi problemi che oggi appaio no risolubili solo perché non se ne vogliono mutare le condizioni. Penso ad esempio al problema della casa, per il quale in Italia, negli anni 60 e 50 del secolo scorso, si raggiunsero obiettivi e si costruirono strumenti di eccezionale rilevanza.

Più in generale, spetta certamente agli urbanisti (non da soli, ma certamente in modo del tutto particolare) la progettazione di alternative al modo in cui città e territorio oggi vengono organizzati e trasformati nell’ambito della strategia del saccheggio. Come si può ridurre, o fortemente limitare, lo scandalo dell’appropriazione privatistica del plusvalore determinato dalle decisioni e dalle opere della collettività (la rendita urbana)? Quale città nella quale vita personale e vita sociale vivano in armonioso equilibrio può essere definita, sulla base di un pieno controllo collettivo delle trasformazioni del territorio? In che modo l’obiettivo del “diritto alla città”, nelle sue componenti della partecipazione alle scelte e dell’eguale accesso alle qualità urbane, può essere oggi proposto?

E un mare di piccole resistenze e reazioni nei luoghi più sensibili della società, ancora divise e ciascuna chiusa in se stessa. Unico segno d’una possibile reazione di massa, virtualmente capace di contare là dove si decide e di spostare equilibri di potere, è oggi il movimento per la restituzione dell’acqua alla collettività. Ma non basta. E domani è troppo tardi.

Non da oggi è iniziata la privatizzazione dei beni comuni. Come rivelano le analisi di Stefano Rodotà e di Ugo Mattei essa è il portato storico del sistema capitalistico-borghese. É stata frenata nel Nord del mondo, nel corso del “secolo breve”, dai mutati equilibri di potere tra possessori dei mezzi di produzione e possessori della forza lavoro: il welfare state ha introdotto anzi nuovi pezzi di beni comuni. Ma la fase più recente della nostra storia ha visto riprendere aggressivamente lo slancio all’appropriazione privata di ogni specie di bene comune: dal processo delle decisioni all’energia, dalla formazione dell’uomo alla sua salute, dalla conoscenza all’arte e alla cultura, dal paesaggio all’acqua. In Italia, sul terreno specifico dell’urbanistica e della politica, la ripresa della privatizzazione dei beni comuni ha avuto il suo inizio negli anni del doroteismo e del craxismo, con l’affermazione dell’”urbanistica contrattata” contro l’urbanistica democratica – dell’urbanistica degli interessi privati contro l’urbanistica delle decisioni pubbliche.

Nei lunghi anni del berlusconismo il processo ha raggiunto un’accelerazione vistosa, e ancora più rapido prosegue in questa stagione di crisi. Si approfitta anzi della crisi per afferrare quanto più è possibile dei patrimoni pubblici ereditati dalla storia, e insieme quelli costruiti nei decenni appena trascorsi con il contributo di tutti. Non è solo una rapina ad personam, causata dall’avidità personale e diretta ad accrescere il potere di questo o quell’altro dei soggetti che la promuovono e la attuano. É una rapina ideologica: si vuole accrescere la quantità di beni che, essendo comunque sottratti alla collettività, di questa diminuisce il potere. Meno Stato, e più potere per ciascun proprietario: la moltitudine dei piccoli proprietari è utile per proteggere i più grandi e potenti, per metterli al riparo dall’eventuale ripresa di uno Stato garante degli interessi collettivi.

Le iniziative del governo per l’attuazione del “federalismo” costituiscono un passo gigantesco di questo processo. Non si sa precisamente in che cosa consistano, quale o quali provvedimenti sono stati stilati e saranno approvati (ad occhi chiusi) dagli organi legislativi. Esistono indiscrezioni, testi di “letteratura grigia” ma non privi di ufficialità cui si può fare riferimento. É tipico dei regimi totalitari che la prima risorsa a essere negata sia l’informazione, formita prima che si decida?

In nessun altro paese del mondo sarebbe stato possibile pensarè ciò cui si riferiscono gli articoli che raccogliamo dalla stampa e inseriamo in eddyburg (per esempio, quelli di Sensini, di Settis, di Emiliani). Nessun altro gruppo dirigente minimamente capace di guardare appena al di là del più stretto e immediato interesse dei suoi membri (dei membri della cricca) avrebbe potuto proporlo. Si vogliono mettere in vendita, consentendone lo spezzettamento, i beni che costituiscono (che dovrebbero costituire) il più geloso patrimonio della collettività e dello Stato, l’espressione fisica della sua identità e sovranità: i beni demaniali. Perfino le coste e le sponde dei corsi d’acqua, le foreste, beni indivisibili per definizione; perfino le caserme e i demani militari, spesso parti strategiche delle città e dei loro centri, essenziali per un loro futuro migliore; perfino le aree e gli edifici resi pubblici dopo lunghe e faticose vertenze popolari, acquisiti e e realizzati con il contributo di tutti i lavoratori.

La “valorizzazione” è a senso unico: significa solo aumento del valore commerciale. Per raggiungere questo risultato si utilizza perfidamente ogni disgrazia, come il dissesto delle finanze comunali provocato dagli anni craxiani della dissipazione dei bilanci pubblici e da quelli berlusconiani dello strangolamento dei trasferimenti. L’invito ai comuni è di partecipare al saccheggio: se modificheranno le previsioni dei piani urbanistici rendendo possibili più ricche speculazioni, potranno prenderne una quota (così prevede il provvedimento annunciato dal ministro della difesa).

Oltre alle voci cui abbiamo accennato all’inizio non vediamo altri segnali forti di preoccupazione attiva. Né da parte dei sindacati dei lavoratori; il più antico e responsabile è affannato da mesi a risolvere i suoi problemi interni, degli altri non parliamo. Né da parte dei “saperi costituiti”: silenzio dalle università, silenzio dagli istituti culturali. Meno che meno dai partiti dell’opposizione. Drammatico il silenzio del maggiore di essi, quello che si presenta come l’erede principale del Pci, il partito “a vocazione maggioritaria”, il Partito democratico.

In questo cataclisma che stiamo vivendo, nel quale stanno precipitando una nazione e una storia, l’atteggiamento del Pd è sintetizzato nel refrain del bellissimo film di Sabina Guzzanti sulla tragedia del dopo terremoto dell’Aquila. L’obiettivo della regista torna reiteratamente sulla tenda del Pd: ma è chiusa, è sempre chiusa. Né apre spazio alla speranza l’atteggiamento dei vertici di quel partito sulla battaglia per la rivendicazione dell’acqua come bene comune. Il rifiuto ad aderire alla mobilitazione in corso per i referendum, alla quale pur partecipano numerosi iscritti, è un segnale preoccupante per quanti ritengono che senza le forze oggi racchiuse in quel partito nessuna vittoria sia possibile.

La responsabilità di tenere aperta la strada della speranza spetta allora a quanti vedono lucidamente quanto sia nefasto il percorso della liquidazione dei beni comuni, che distrugge insieme il nostro territorio e la nostra società, e si impegnano ad agire insieme perché la discesa nell’abisso finalmente si arresti. Nell’immediato, aderendo alla richiesta dei referendum per impedire la privatizzazione dell’acqua, che costituisce il primo tentativo di opporre un’iniziativa di massa alla rapina di un bene comune. La speranza è che abbia la stessa ampiezza dell’Onda che si levò dal mondo della scuola, una capacità di mobilitazione altrettanto e più estesa, e una maggiore capacità di durare. Per dopodomani, vedremo.

Eddyburg ha raccolto la documentazione della vicenda in una ricca cartella di notizie e commenti (“ La barbara edilizia di Berlusconi”) e nell’archivio di legislazione (“ Le leggi del piano-casa del Presidente”) . Vogliamo aggiungere un’ulteriore riflessione, trascurando il fatto che non sembra aver avuto alcuna incidenza positiva sulla crisi economica. Prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, dell’assoluta inefficienza del governo ispirato ai criteri della managerialità aziendale.

Ciò che a noi più colpisce nella vicenda del berlusconiano “piano-casa” non è la proposta in sè, ma ciò che ha rivelato. Colpisce la smemoratezza, l’ignoranza, la superficialità testimoniata da quasi tutti: giornalisti e politici, popolo e intellettuali, gente di destra e gente di “sinistra”. Soprattutto colpisce la diffusa subalternità culturale all’ideologia sottesa a quella proposta, la generale indifferenza al modo in cui realmente si pone oggi in Italia (e non solo) il problema della casa, la supina accettazione del fatto che “politica” significa ormai solo non correre il rischio di perdere pezzi di consenso anche al prezzo di negare la verità dei fatti.

Abbiamo lanciato un’accusa grave; dovremo argomentarla. Riflettiamo sui fatti. Il premier propone una legge che affronta il problema della casa consentendo a chi ce l’ha già di ampliarla in deroga agli strumenti di pianificazione: in contrasto con le regole mediante le quali si vorrebbero rendere le città meno caotiche e meno brutte, il territorio meno devastato e più ordinato, le aree fragili per le loro condizioni naturali più meno rischiose per gli uomini, le aree belle per il paesaggio e la storia che rappresentano più protette. In deroga a tutto questo – e quindi modificando sostanzialmente le leggi che disciplinano l’utrbanistica e che sono di competenza delle regioni – vuole rilanciare il “fai da te” nel settore delle costruzioni. Dimenticando che già si era seguita questa strada, in Italia, nell’immediato dopoguerra, alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso. Con ben altre motivazioni: allora le case erano state distrutte, e la ppopolazione cresceva, gli abitanti si spostavano dalle zone interne alle coste, dalle campagne alle città. Eppure si sono visti gli effetti di quel modo di costruire, interamente affidato alla spontaneità. Il Paese era stato devastato, il suo territorio distrutto, i suoi paesaggi guastati, le città rese invivibili e rischiose (per la congestione del traffico, per l’assenza di spazi verdi e degli spazi pubblici, per le minacce delle alluvioni e delle frane). Dimenticando tutto ciò che era successo e contro cui si era voluto correre ai ripari modernizzando l’Italia e generalizzando la pianificazione urbanistica, oggi di nuovo si vuole rilanciare quello spontaneismo degli interessi edilizi cui ci si era affidati allora.

Poiché non si può dire “vogliamo che chi sta già bene stia meglio a discapito degli altri”, poiché non si può dire “a noi il cittadino non interessa, nostro amico è solo il proprietario edilizio”, allora ci si copre con un alibi. Dicono il premier e i suoi supporters: vogliasmo affrontare il problema della casa. É un problema che certamente esiste. Ma è il problema di chi la casa non ce l’ha, di chi non trova un alloggio decente, in un luogo adeguato, a un prezzo commisurato alla sua capacità di spesa. É il problema del giovane lavoratore pendolare o precario, dello studente fuori sede, dell’immigrato, della famiglia disagiata, dell’anziano solo. Invece no, nulla per questi: invece di costruire abitazioni a prezzi bassi per chi ha bisogno di alloggio e non lo trova, aiutiamo chi la casa ce l’ha già (e magari ha il capannone industriale vuoto, o l’albergo che potrebbe rendere di più se avere più stanze).

E qualche imbecille paragona il piano-casa di Berlusconi al piano INA Casa del Fanfani degli anni Cinquanta, o addirittura con quelli degli anni successivi: dei gloriosi anni Sessanta e Settanta, quando si raggiunsero traguardi altissimi rapidamente dimenticati. Quando si raggiunse, con la legge dei Piani per l’edilizia economica e popolare, con la programmazione decennale dell’edilizia abitativa pubblica, con il recupero dell’edilizia esistente, con l’equo canone, il risultato di poter costruire casa a basso costo (depurate dall’incremento della rendita fondiaria) in quartieri civili. Certo, le controriforme messe in atto negli anni delle stragi di stato e della strategia della tensione hanno tentato di cancellare quelle conquiste. Ma oggi, invece di riprendere il cammino da lì, invece di affrontare il problema della casa nei suoi contenuti reali, si fanno dieci passi indietro: si ritorna a premiare il proprietario contro il cittadino, il ricco contro il povero, chi possiede contro chi non ha nulla.

Tutti dietro a Berlusconi. La prima regione che ha applicato la sua strategia è stata una regione “rossa”, la Toscana. Quella che ha fatto la legge peggiore è stata un’altra regione amministrata da ex comunisti, la Campania. E le critiche che si sono sentite da parte delle opposizioni parlamentari (e da quelle stesse extraparlamentari) sono state flebili e impacciate, del tutto inferiori al necessario. Hanno tentato di de-peggiorare uno scempio culturale prima che urbanistico, invece di denunciarlo e contrastarlo.

E la cultura, l’accademia, gli intellettuali? Si contano sulle dita di un paio di mani quelli che hanno denunciato con forza, che hanno protestato, che hanno organizzato assemblee e levato forte la voce di “quelli che sanno”. Che hanno ricordato le conquiste degli anni del “welfare urbano” e rivendicato le pratiche di pianificazione e programmazione abbandonate. Ciascuno è restato chiuso nel suo guscio, nella sua torre d’avorio sempre più lontana dai problemi reali. É come se gli intellettuali avessero perso del tutto le coordinate di una corretta gestione del territorio, delle sue trasformazioni, dei poteri che su di essi incidono, di ciò che bisogna fare perché serve ai bisogni reali dei cittadini (e non alle attese dei proprietari immobiliari). É come se, per tutti, l’uomo che interessa non è il cittadino o l’abitante, ma il proprietario e il cliente.

Morale della favola: se la strategia di Berlusconi verrà effettivamente praticata dal “mercato”, se le leggi delle regioni verranno applicate nella realtà, avremo città più caotiche e disordinate, più terreno sottratto alla natura e all’agricoltura, meno spazi per tutti. E nessuna abitazione in più per le centinaia di migliaia di persone che ne hanno davvero bisogno (se non quelle che erano già state finanziate dal governo Prodi, e che il governo Berlusconi ha semplicemente riciclato… riducendone la quantità!). Inoltre, una forte disfatta culturale: l’ulteriore conferma del dominio di quell’ideologia per la quale non ci sono, non ci sono mai state e non ci saranno mai alternative all’individualismo più sfrenato, al neoliberismo più distante dal liberalismo vero, al ripiegamento nel passato più lontano dalla modernità. Quell’ideologia per la quale il privato vale più del pubblico, il mercato più dello stato, il proprietario più dell’abitante, il cliente più del cittadino, il prepotente più del mite, l’arrogante più del solidale.

Che fare, in questa situazione? In primo luogo una battaglia culturale: raccontare, spiegare, denunciare, richiamare i principi e dimostrare chi guadagna e chi perde quando i principi del buongoverno vengono traditi, informare correttamente e svelare le mille menzogne ammucchiate ogni giorno nella coscienza (e nel subconscio) degli spettatori passivi delle potenze mediatiche. Difendere quindi le poche voci libere, che informano e formano raccontando ciò che i potenti tentano in tutti i modi di dissimulare.

Ma al di là di questo, ci sono compiti specifici da affrontare, obiettivi misurabili da proporsi: compiti e obiettivi per i quali migliaia di comitati, associazioni, gruppi di cittadinanza attiva si battono da tempo. Resistere al consumo di territorio provocato dalla corsa forsennata alla “valorizzazione immobiliare”. Resistere al continuo processo di privatizzazione d’ogni bene e ogni spazio pubblico: dall’acqua alla scuola, dalla scuola alla sanità, dalle piazze e ai luoghi d’incontro aperti a tutti. E poi (non “dopo”) poiché i problemi da risolvere ci sono, misurare quanti spazi sono necessari per le abitazioni a buon mercato, per nuove attività della produzione di beni e di merci, per i servizi alle persone e alle imprese. Ma soddisfarli recuperando per le utilizzazioni socialmente rilevanti – e non per la “valorizzazione” dei patrimoni privati – le numerosissime aree ed edifici inutilizzati o scarsamente utilizzati, disponibili in ogni realtà del nostro paese.

Parte di questo articolo sarà pubblicato nel libro Piano casa e territori resistenti, a cura di Antonello Sotgia, in corso di stampa nelle edizioni di Carta

Non c’è infatti mese che non porti il racconto di frane ed alluvioni, smottamenti di terre ed esondazione di torrenti, eventi “naturali” che portano al rovinìo di paesi e pezzi di città, allo sgretolamento di case e fabbriche, all’esodo forzoso di abitanti e troppo spesso a morti di innocenti.

Riprendiamo su eddyburg alcuni degli episodi che lo raccontano: non tutti e non sempre, sono troppi. E succede dappertutto, al Nord come al Sud e nelle Isole. Si lamenta l’assenza dei miliardi che servirebbero per sanare, senza preoccuparsi di mettere in moto ciò che servirebbe per prevenire.

Coccodrilli. Oogni volta si piange, e magari si punta il dito nella direzione giusta. Si dice: si è costruito poco accortamente, là dove non si sarebbe dovuto. Si dice: non si è tenuto conto del sovraccarico dei terreni, della precarietà delle fondazioni, dei ritmi naturali delle acque di superficie e di quelle di falda. Si dice: non si è badato, nel costruire strade e ferrovie, alle pendici tagliate, alle pianure alluvionali interrotte, al disegno dei deflussi improvvidamente interrotto. Per qualche attimo ci si rende conto che si è trasformato il territorio senza tener conto delle regole di cui l’esigenza di salvaguardarne l’integrità fisica avrebbe preteso il rispetto.

Un po’ meno si piange quando per garantire (ad alcuni) i benefici dello “sviluppo del territorio” si prevedono espansioni urbane non necessarie a soddisfare la domanda di abitazioni a basso costo ma utili ad accrescere lo sviluppo dell’attività edilizia e, soprattutto, ad aumentare il valore dei patrimoni fondiari di pochi potenti proprietari (o di una moltitudine di piccoli proprietari diventati potenti per il loro numero). Un po’ meno si piange quando queste espansioni cancellano gli antichi tracciati di filari e di strade disegnati nella storia dei nostri territori dai lontani progenitori etruschi o romani, o seppelliscono sotto una pappa di villette le colline accortamente disegnate dalle vigne e dagli oliveti dei saggi agricoltori, o annullano sotto una repellente crosta di cemento e asfalto casali medioevali e ville romane, masserie fortificate e paesaggi costieri terrazzati.

Anche in quei casi,si sa comunque che ciò dipende dal fatto (inevitabile?) che l’interesse economico dei proprietari prevale sull’interesse di tutti a godere della bellezza. Si piangerà più tardi, quando l’Italia e i suoi paesaggi saranno diventati ancora più repellenti di quanto spesso già oggi siano: quando il Belpaese si sarà trasformato in “un unico tavoliere di cemento, uno stomachevole, soffocante magma di palazzine e di intensivi”, e dove gli stessi centri storici saranno divenuti degradate e impraticabili incrostazioni “in mezzo a un’immensa, informe agglomerazione, squallida e sterminata periferia, sorta nel segno della violenza privata e della complicità pubblica”, come già la vedeva de-formarsi mezzo secolo fa Antonio Cederna. Sarà scomparsa la bellezza, saranno scomparsi i turisti alle cui risorse tanto affidiamo del nostro futuro.

Oggi e domani, lacrime di coccodrillo. Siamo noi stessi che abbiamo provocato i danni inferti al territorio, alla sue fragilità, alle sue ricchezze. Lo abbiamo fatto quando abbiamo plaudito all’abbandono dei lacci e lacciuoli della pianificazione urbanistica, quando abbiamo considerato un contributo allo “sviluppo”, e quindi benemerito, qualsiasi “snellimento” capace di scatenare l’ansia di costruire dappertutto a chi ne aveva i mezzi, quando abbiamo teorizzato che esiste una “vocazione edilizia” del territorio di cui poteva impadronirsi chiunque ne fosse proprietario. Quando abbiamo irriso alla pianificazione urbanistica e quella territoriale e paesaggistica, alla quale saggi legislatori d’ogni obbedienza politica ci avevano richiamato: dal democristiano Fiorentino Sullo al socialista Giacomo Mancini al repubblicano Giuseppe Galasso, giù giù fino al berlusconiano Giuliano Urbani. Siamo un paese di coccodrilli.

Questo articolo riprende quello pubblicato sul sito web Tiscali il 18 febbraio 2010

Abbiamo compreso che i sentimenti di paura, disprezzo e arroganza per chi è diverso (perché è povero, ha la pelle di un altro colore, parla un’altra lingua) nutrono l’anima di molti italiani e conducono troppo spesso ad atti barbarici. Abbiamo compreso che razzismo, xenofobia, insofferenza per il povero, paura per lo sconosciuto sono sentimenti diffusi, che rendono più inospitale la città, più piccolo, insicuro, misero il mondo di ciascuno di noi. É anche per questo che mi hanno colpito due episodi avvenuti in Africa, che hanno a che fare col mio mestiere di urbanista e che in queste settimane sono stati riportati alla mia attenzione. Mi riferisco a due strutture sanitarie realizzate da italiani l’una a Ovest l’altra a Est nel Continente nero.

Un ospedale in Senegal, a Kaedi. Costruito secondo un modello completamente diverso da quello occidentale, dove le degenze sono realizzate per ospitare solo il paziente e consentire pochi visitatori. Lì hanno constatato che la malattia è vissuta in modo molto diverso che in Europa. Se un membro della famiglia si ammala tutta la famiglia lo segue, lo assiste, cucina per lui, gli fa costantemente compagnia. Allora a Kaedi l’architetto Fabrizio Carola e i sanitari hanno organizzato una serie di padiglioni circolari, realizzati con materiali poveri e locali e maestranze del posto, disposti secondo tre anelli concentrici. Nei padiglioni dell’anello centrale, tutti i servizi sanitari: le sale operatorie, quelle per le medicazioni, i medici e gli infermieri, i laboratori ecc.; nell’anello intermedio le degenze, destinate ai pazienti; quelli esterni sono per le famiglie. Dei collegamenti tra i padiglioni dei diversi anelli costituiscono le comunicazioni senza interferenze tra i percorsi del personale sanitario e quello delle famiglie. Convivenza e assistenza da un lato, igiene e presenza sanitaria dall’altro sono entrambe garantite. Il rispetto per una cultura diversa e l’attenzione alle risorse locali e a possibilità innovative del loro uso hanno sostituito l’imposizione di modelli calati dall’alto.

Altrettanto significativo l’altro esempio: la realizzazione di un Centro Salam di cardiochirurgia, di elevatissimo livello specialistico, nel deserto del Sudan vicino a Khartoum, realizzato da Emergency con un’equipe di medici e architetti italiani. Anche qui, nella progettazione del complesso, massima attenzione alle risorse e alle abitudini locali: un’architettura solidamente legata al luogo, realizzata con materiali semplici e con largo impiego delle tradizioni e dei materiali locali. E la formazione di personale medico e infermieristico locale, capace di insegnare a sua volta.

Ma anche qualcosa in più: una grande lezione di uguaglianza. Essa emerge dalle parole d Gino Strada (nella prefazione del libro dedicato dall’architetto, Raul Pantaleo, al diario dell’esperienza di cantiere: “Attenti all’uomo bianco”, edizioni Eleuthera, Milano 2007). Qualcuno ha definito il centro Salam una “cattedrale nel deserto”, perché si tratta “di una struttura di assoluta eccellenza, perfino innovativa per molti aspetti, dove praticare una medicina difficile e complessa, che richiede grande impegno di risorse umane ed economiche”. Meglio costruire strutture elementari, ambulatori e dispensari, cliniche di base.

“Noi ci siamo rifiutati di mettere le due scelte in alternativa”, risponde Strada. Alla periferia di Khartoum c’è un centro pediatrico di Emergency che già si occupa della medicina di base. “Ma abbiamo voluto andare oltre. Ci siamo convinti che anche in quei luoghi, dove le poche cure mediche disponibili sono solo a pagamento, sia necessario affermare il diritto a essere curati quando si è feriti o ammalati. Un diritto naturale prima ancora che un solenne principio […] Così si è radicata in noi la convinzione che curare gli esseri umani non possa essere un’attività discriminatoria, solo i neri e non i bianchi, solo le donne e non gli uomini, solo i poveri e non i ricchi”. Curare deve essere un gesto che riconosce a tutti i pazienti (pazienti, non clienti) eguaglianza in dignità e in diritti. “Non possono esistere, nella medicina, pazienti di prima e di seconda classe, cure per i ricchi e cure per i poveri del mondo. Tutti hanno diritto a cure di alto livello e gratuite”. Una lezione. Saremo capaci di seguirla nel nostro paese?

Questo articolo è stato postato suTiscali il 28 gennaio 2009, e lì riceve numerosi commenti, che invito a scorrere per comprendere come sono diventati gli italiani, nel bene e - purtroppo soprattutto – nel male.

Oggi la morte della città (almeno, della Venezia quale l’hanno conosciuta e amata chi davvero ha compreso le ragioni del suo fascino e del suo ammaestramento) è dovuta a un altro fattore: l’irruzione del cemento guidato dal trionfo delle privatizzazioni e degli affarismi. Non pretendo di fare un elenco compiuto degli eventi che, in questi ultimi anni, hanno segnato questo percorso. Annoto solo quattro episodi, tutti hard, che si aggiungono a quelli soft della mercantilizzazione invasiva e della svendita ai turisti d’ogni angolo della città.

In primo luogo, le gigantesche opere del progetto MoSE, che sono state realizzate ai varchi che legano la Laguna al mare. Opere utili solo ai cementieri e alle imprese che li realizzano, e al consorzio che li rappresenta operando come “concessionari unico dello Stato”: le barriere mobili non funzioneranno mai, e intanto le condizioni della Laguna stanno peggiorando.

Poi, le “valorizzazioni immobiliari” che avvengono al Lido di Venezia. Il pretesto di trovare finanziamenti per il nuovo Palazzo del cinema ha spinto un alacre ex assessore della giunta Cacciari a operazioni distruttive, tutte approvate dal Comune: come quella di trasformare lo spazio scoperto, circondato da mura antiche, di un forte ottocentesco tutelato (il forte di Malamocco) in un villaggio turistico, e quella di riempire di costruzioni gli spazi verdi dell’ex Ospedale al mare.

Ancora, l’avvio, di un pesante insediamento in margine alla Laguna, denominato Tessera City. È una vecchia idea di Gianni De Michelis, attivissimo colonnello di Benito Craxi, avanzata alla fine degli anni 80 nel quadro della proposta di realizzare a Venezia l’Expo 200. Questa proposta allora fu bocciata dai parlamenti europeo e italiano, che raccolsero l’allarme partito da Venezia. Oggi il progetto dell’insediamento sul margine della Laguna è stato ripreso e portato alla vittoria dalla coppia bipartisan Massimo Cacciari (sindaco di centrosinistra della città) e Giancarlo Galan (presidente di centrodestra della Regione).

Infine, una metropolitana sublagunare che dovrebbe legare Tessera City a Venezia e al Lido (scaricando altre migliaia di turisti nella città storica), per ricucire il tutto e agevolare la “valorizzazione immobiliare” degli antichi sestieri.

Questi sono gli elementi materiali del contesto nel quale Venezia corre verso la sua definitiva scomparsa. Allegramente, fra poco è carnevale.

La vicenda di Tessera City è esemplare. Essa testimonia l’arroganza e la presunzione d’impunità dei suoi protagonisti, e il disprezzo che i governanti dimostrano per la legalità. È una vicenda complessa, ma l’essenziale si comprende anche attraverso una rapida sintesi. Nel 2004 il comune di Venezia approvò una variante che raddoppiava i volumi già previsti dal vigente PRG per la realizzazione di uno stadio e numerosi annessi (commercio, ricreazione, ricettività, uffici ecc.) accanto all’aeroporto Marco Polo, a Tessera. Passarono gli anni: la Regione non approvò (come avrebbe dovuto entro tempi brevi), e il comune non sollecitò (come per suo conto sarebbe stato obbligato a fare). Nel frattempo si completavano transazioni immobiliari nelle aree circostanti, dove si comprava a prezzi agricoli. A un certo punto il maggiore proprietari (la Save s.p.a, che gestisce l’aeroporto), cui si accodò subito la società di proprietà comunale (ma il sindaco ha recentemente proposto di vole vendere parte consistente delle azioni a privati) che gestisce il casinò, presentarono alla Regione una ulteriore “osservazione” alla variante del 2004. Avvennero incontri pubblici tra i rappresentanti delle due società, il sindaco Cacciari e il presidente Galan, nei quali questi ultimi dichiararono trionfalmente di condividere il piano presentato dalle società.

Nel 2009 (cinque anni dopo!) la Regione restituisce la variante del 2004 al Comune e gli dice: te l’approvo, se tu accetti formalmente la nuova soluzione delle società. Una procedura mai vista: una osservazione presentata da enti d’interesse privato (perché tale è anche il casinò, benché oggi la proprietà sia ancora del comune) anni dopo l’approvazione della variante, che è fatta propria dai portatori d’interessi pubblici. Eppure si tratta di una modifica non marginale (si tratta del quadruplicamento della cubatura iniziale del Prg, e del raddoppio di quella della Variante), e una modifica non nell’interesse pubblico (i promotori dichiarano ufficialmente che la modifica serve perché “bisogna produrre risorse”), apportati a un piano con forzando le procedure di garanzia previste dalle leggi vigenti.

Tutto questo per collocare oltre un milione di metri cubi sul margine della Laguna, in una delle aree a più alto rischio idraulico dell’intero Veneto. Un mega-affare senza nessuna relazione con qualsiasi analisi dei fabbisogni locali. Una logica meramente affaristica: una gigantesca estensione della prassi di molti comuni di vendere pezzi di territorio per fare cassa, svolgendo il ruolo di apripista per gli interessi privati. Il sindaco-filosofo dichiara (vedi il Gazzettino del 16 gennaio) “è il giorno più bello della mia vita”. Anche per i proprietari delle azioni della società che gestisce il casinò: il loro valore è aumentato in poche ore del 20%.

Questo articolo è stato postato su Tiscali il 19 gennaio 2009, e lì riceve numerosi commenti, che testimoniano come il problema della Laguna di Venezia sia assolutamente sconosciuto agli italiani, sia nella sua reale sostanza sia nelle proposte che per il suo riequilibrio da oltre un trentennio sono state avanzate. I lettori di eddyburg sanno di poter attingere alle cartelle dedicata Venezia e in particolare a quella sul MoSE.

Proviamo a crederci: il 2010 sarà "l’anno delle riforme", come annunciato solennemente dal nostro Presidente del Consiglio. Ma quali? Uscendo dalla crisi più dura del Dopoguerra non si può che pensare prioritariamente all’economia.

Sin qui le uniche misure economiche calendarizzate dall’esecutivo sono quelle rimaste fuori dalla Finanziaria, gli incentivi per i consumi e i bonus per la rottamazione di automobili, elettrodomestici e cucine. Per chiamarle riforme ci vuole, Ninetta mia, tanto, troppo coraggio. Prima della pausa natalizia, il ministro Tremonti ha tuttavia annunciato che «è arrivato il tempo di pensare alla riforma fiscale». Evviva.

Vuol dire che non è più tempo di interventi estemporanei e fra di loro contraddittori sul nostro sistema tributario, è finita l’era in cui si cambiano solo i nomi delle imposte (dall’Irpef all’Ire, dall’Irpeg all’Ires) e in cui le tasse si moltiplicano, di legislatura in legislatura. Nell’attesa di conoscere il progetto del Ministro, vorrei proporre un criterio molto semplice cui ispirare la riforma: bisogna tassare di più i più ricchi e meno chi lavora a bassi salari. È un principio, quello della progressività del sistema fiscale, scolpito nella nostra Costituzione, ma sin qui largamente inapplicato. Non è gradito al Ministro (che nel Libro Bianco del 1994 sosteneva che «la progressività ha effetti negativi sull’offerta di lavoro e causa la propensione ad evadere»). Quindi bene spendere due parole sul perché è giusto farlo e poi interrogarsi sul come farlo.

Negli ultimi trent’anni le disuguaglianze dei redditi in Italia sono aumentate soprattutto ai piani più alti. Si è parlato spesso (sovente a sproposito) di impoverimento, ma il fatto di gran lunga più marcato e rilevante accaduto alla distribuzione dei redditi in Italia è l’esplosione delle disuguaglianze fra la parte più ricca della popolazione. La quota di reddito detenuta dallo 0,1 per cento di persone più ricche è quasi raddoppiata dagli inizi degli anni ‘80 al 2004, l’ultimo anno per cui si hanno informazioni, grazie al paziente lavoro di ricostruzione di fonti sui redditi più elevati svolto da Elena Pisano, che ha appena conseguito un dottorato alla Sapienza.

Soprattutto nel nuovo Millennio la bassa crescita del Paese è stata appannaggio quasi esclusivo dei piani alti della distribuzione: nel 2004 il millesimo di popolazione più ricco, si tratta di circa 4500 persone, guadagnava in media il 20 per cento in più di solo 4 anni prima, circa il tre per cento del reddito nazionale, mentre il resto degli italiani era al palo. Questa crescente concentrazione delle risorse è andata di pari passo a una riduzione delle tasse per i più ricchi: l’aliquota più alta dell’Irpef è scesa dal 72 al 45 per cento negli ultimi trent’anni, il cuneo fiscale complessivo più elevato (tasse più contributi sociali a carico del lavoratore) è diminuito anch’esso di un terzo, dal 91 al 63 per cento, proprio mentre saliva quello dei salari più bassi.

La riduzione delle imposte sui più ricchi non è un fenomeno solo italiano. Al contrario, è comune a tutta l’Europa continentale. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito è addirittura iniziata prima, nella seconda metà degli anni ‘70, sotto Ronald Reagan e Margareth Thatcher. Come si spiega questo fenomeno generalizzato? Non solo con il crescente potere politico di questa fascia di popolazione. Il fatto è che si temeva, non sempre a torto, che tasse alte per queste fasce di popolazione avrebbero finito per ridurre il gettito fiscale. Per due motivi: primo, queste persone possono trasferirsi altrove; secondo, quando non possono trasferirsi altrove, possono comunque spostare altrove i propri capitali in modo più o meno legale. Un esempio fra tutti. Tra i plurimiliardiari ci sono molti calciatori ed è stato documentato come il regime fiscale di vantaggio istituito in Spagna per attrarre campioni stranieri (la famosa legge Beckham) abbia in effetti indotto una consistente migrazione di star calcistiche verso la penisola iberica. A parte la delusione dei tifosi, questa migrazione ha portato con sé decine (se non centinaia) di milioni di tasse da lì in poi pagate altrove.

Ma oggi la Spagna, il cui disavanzo fiscale è esploso durante la recessione, è stata costretta ad abolire la legge Beckham. E il Regno Unito porterà nel 2010 l’aliquota più alta sui redditi dal 40 al 50 per cento mentre gli Stati Uniti, su cui grava anche il debito futuro, legato alla riforma sanitaria di Obama, non potranno che seguire a ruota passando dal 35 al 50 per cento nel giro di pochi anni. Il clima è cambiato anche per quanto riguarda i paradisi fiscali. La lotta contro di loro è stata un diversivo di governi incapaci di affrontare alla radice i problemi da cui è scaturita la crisi. Ma servirà ora a rendere efficaci tasse più alte per i più ricchi, volte a ridurre l’enorme debito pubblico accumulato nella recessione. Quindi oggi, a differenza anche di soli due anni fa, è possibile tassare di più i più ricchi aumentando il gettito.

Posto che sia giusto, nel senso di equo, tassare di più i più ricchi, come farlo? Al Ministro non piace la progressività delle tasse perché ritiene che riduca l’offerta di lavoro. Si sbaglia perché in un paese come il nostro, dove molti non lavorano, tasse più basse per i poveri e tasse più alte per i ricchi aumentano la quantità di persone che lavorano. Le tasse più alte sui redditi da lavoro dei ricchi possono, tuttavia, ridurre la quantità di ore lavorate da ciascuno di loro. Ma non c’è nessun bisogno di tassare di più il lavoro dei ricchi per tassarli di più. Teniamo pure le aliquote Irpef al 45 per cento, ma aumentiamo la tassazione dei redditi non da lavoro, portandola almeno al livello dell’aliquota Irpef più bassa, vale a dire al 23 per cento.

Quanto raccoglieremmo in questo modo? Purtroppo è impossibile stabilirlo con precisione perché gli unici dati disponibili sui redditi dell’un per cento più ricco della popolazione sono di proprietà esclusiva del Ministro dell’Economia che farebbe molto bene, nell’avviare il confronto, a renderli pubblici. Ma una cosa è certa sin d’ora: l’innalzamento della tassazione delle rendite finanziarie renderebbe il sistema più progressivo perché tasserebbe soprattutto i più ricchi: almeno un terzo dei redditi dichiarati dallo 0,01 per cento più ricco proviene da redditi da capitale (la quota è molto più alta, dato che è possibile solo risalire a quelli dichiarati con l’Irpef nel 2004 che includevano al massimo il 40 per cento dei dividendi). Sappiamo anche che il 90 per cento delle azioni è detenuto in Italia dal 7 per cento più ricco, nelle cui mani si trova quasi un terzo del reddito nazionale.

Quindi aumentando anche solo del 5 per cento il prelievo su questa fascia di popolazione, si farebbe affluire all’erario circa 25 miliardi. Che potrebbero essere utilizzati per aumentare le detrazioni sul lavoro dipendente o fiscalizzare i contributi sociali a carico di chi guadagna appena al di sopra del salario minimo. Una ragione in più per istituire anche da noi una paga oraria al di sotto della quale non si può andare. È un principio quello di tassare di più i più ricchi che dovrebbe prevalere anche nel disegnare il fisco federale, ripristinando l’imposta sulla prima casa, almeno al di sopra di un certo livello di patrimonio, ricordandosi che la distribuzione delle case di proprietà è ancora più diseguale di quella dei redditi. Insomma, ci sono molti dettagli da discutere. Ma prima bisogna accordarsi sui principi. Cosa ne pensa il Ministro dell´Economia? E cosa ne pensa l´opposizione?

Innanzitutto è necessario fare ricorso alla pianificazione territoriale e urbanistica: ha perso credibilità in Italia, dove è stata sommersa dalla de-regolazione e dalla sollecitazione all’edificazione selvaggia. In Europa stati, regioni e comuni adottano la pianificazione come strumento ordinario di governo del territorio, e le regole definite dai piani sono rispettate da tutti.

La pianificazione territoriale (regionale o provinciale) deve stabilire le quantità di ulteriore edificazione ammissibile in relazione a chiari parametri di necessità sociale, e limiti invalicabili all’espansione delle città. Di queste si deve promuovere la compattezza, ponendo limiti alla densità: densità troppo basse sono perniciose perché aumentano i costi, favoriscono la disgregazione sociale, aumentano lo spreco di energia e l’inquinamento, distruggono inutilmente la natura. Occorre favorire città compatte, dai margini definiti, servite e connesse tra loro da efficienti sistemi di trasporto collettivo. Occorre coordinare le previsioni delle diverse città in relazione alle attività produttive e commerciali e alle attrezzature comuni ad ampio bacino d’utenza(dall’istruzione superiore alla sanità, dalla gestione dei rifiuti all’approvvigionamento idrico, ecc.), che non possono essere disseminate nella logica di “uno per ogni comune”.

La pianificazione urbanistica a livello locale deve a sua volta, rispettando i limiti posti dalla pianificazione d’area vasta, tracciare sul territorio il limite che separa la città dalla campagna, l’urbano dal non urbano né urbanizzabile: un limite invalicabile, rigorosamente vigilato. Città compatta non significa città fatta solo di case e strade. Una densità ragionevole si può raggiungere senza la necessità di costruire grattacieli e riservando metà dell’area a verde e spazi aperti non asfaltati. Tra le ragioni che spingono i cittadini a cercare una sistemazione nella “villettopoli” c’è anche quella di avere un migliore rapporto con la natura. Riportare la natura in città non è quindi solo una misura essenziale per il benessere dei cittadini, è anche un modo concreto di lottare contro lo sprawl.

Ma i progetti e le regole della pianificazione non bastano ad affrontare il problema. Occorrono provvedimenti statali e regionali che, sulla base di chiari indirizzi politici volti a contrastare gli sprechi, finanzino i comuni virtuosi e disincentivino quelli che non accettino di contenere l’espansione edilizia e non riducono gli sprechi. Provvedimenti che, al tempo stesso, sostengano la riqualificazione della città esistente (dai centri storici alle periferire, dalle aree dismesse ai pubblici), aiutino i comuni a dotarsi delle risorse tecniche necessarie (personale, attrezzature, informazioni) e incentivino il coordinamento intercomunale, invece di stimolarne la competizione.

Lo slogan “no al consumo di suolo”, che costituisce il vessillo di un arco sempre più vasto di associazioni, comitati, gruppi di cittadinanza attiva, sindacati presenti in moltissime aree della Penisola, non deve rimanere isolato. Deve essere accompagnato da un altro: “riqualificare le nostre città per tutti i loro abitanti”.

Non è vero che non ci siano esigenze di nuovi interventi di trasformazione delle città e dei territori. Insieme a un serio programma di difesa del suolo e di ricostruzione di ambienti compromessi bisogna dedicare attenzione e risorse alle esigenze che richiedono trasformazioni di tipo urbano (soprattutto alloggi a condizioni accessibili alle fasce meno dotate della popolazione le attrezzature collettive necessarie e, dove serve, spazi per le nuove attività produttive).

Per queste esigenze esistono in ogni comune e in ogni territorio vaste aree urbanizzate e non utilizzate: dalle caserme alle zone industriali semivuote, alle fabbriche obsolete ai servizi trasferiti altrove, dalle zone urbane degradate o compromesse dall’abusivismo. Tutte possibilità di trasformazione e ri-utilizzazione su cui è possibile impegnare le intelligenze e le capacità professionali dei tecnici, e le risorse follemente impiegate nelle devastanti Grandi opere, inutili a tutti fuorché alla crescita dell’Ego dei promotori (primi ministri o sindaci che siano) e a quella del conto in banca di quanti approfittano del banchetto.

Questo articolo è stato postato su Tiscali il 14 dicembre 2009, e lì riceve numerosi commenti.

La superficie del pianeta Terra, luogo dove vive la specie umana, è suscettibile di molte utilizzazioni. Serve per l’alimentazione degli uomini e degli animali che vi abitano; per assicurare, tramite la vegetazione, un’aria salubre che gli abitanti della terra possano respirare; per raccogliere e filtrare l’acqua piovana e ricostituire le riserve di un liquido decisivo anch’esso per la vita dell’uomo; per consentire la biodiversità delle specie e la rigenerazione dello spirito dell’uomo. E serve infine per ospitare quei manufatti che servono all’uomo per abitare, produrre, conservare i prodotti del suo lavoro, usufruire di tutti i servizi necessari per la vita individuale e sociale, per muoversi e per spostare i beni che gli servono. Dove il suolo ha quest’ultima utilizzazione esso viene sottratto alle altre possibilità: è reso sterile. Le funzioni e utilizzazioni legate alla naturalità vengono impedite: si manifesta un potenziale conflitto.

Per millenni questo conflitto non è emerso: il territorio reso artificiale (una crosta di cemento e asfalto) era una porzione molto ridotta del totale. Improvvisamente, il consumo di suolo per usi urbani è cresciuto a dismisura. Il confronto tra le carte tecniche negli ultimi sessant’anni ci dice che, grosso modo, in Italia quella crosta è aumentata da uno a dieci.

É un fenomeno che si è manifestato in molti paesi europei, con dimensioni a volte paragonabili a quelle italiane. La differenza tra l’Italia è gli altri stati è che da noi il fenomeno è più grave per la scarsità delle aree di pianura (dove si il consumo di suolo si concentra), che sono un quarto del totale, per la densità di testimonianze della storia e dell’arte, e per l’assoluta mancanza di iniziative: mancano perfino dati attendibili sulle dimensioni del consumo di suolo, se non per limitate parti del territorio. Mentre in Francia, Germania, Paesi Bassi, Gran Bretagna i governanti da anni hanno attivato politiche capaci di ridurre il fenomeno, in Italia non si fa nulla. Anzi, costruire nuove strade, nuove case, nuovi quartieri, incoraggiare la disseminazione di case e capannoni sul territorio è considerato un incentivo allo sviluppo: un fatto che si ritiene comunque positivo, indipendentemente dalla effettiva utilità di ciò che si costruisce.

Perciò cresce in Italia un vasto movimento che vuole spingere i governanti a lavorare per ridurre il consumo di suolo a ciò che è strettamente necessario. Il movimento è nato quando dal sito eddyburg.it è emersa una denuncia del fenomeno, un’analisi delle iniziative promosse da altri stati e una proposta legislativa. Un piccolo comune della periferia milanese, Cassinetta di Lugagnano, ha approvato negli stessi anni un piano regolatore “a consumo di suolo zero”, che è diventato un esempio significativo di ciò che si può fare. Su queste basi si è sviluppato un movimento popolare “Stop al consumo di territorio”, che ha già raccolto le adesioni di centinaia di comitati e gruppi di cittadini.

Combattere il consumo di suolo significa forse ridurre l’attività delle costruzioni? Tutt’altro. Esistono in tutte le città d’Italia grandi spazi vuoti, già urbanizzati, occupati da attività dismesse (come i grandi complessi militari e molte installazioni industriali obsolete), oppure da edilizia degradata spesso abusiva, che meritano di essere profondamente ristrutturate e rese più vivibili, oppure “aree di sviluppo industriale” asfaltate e inutilizzate. Sono aree “in attesa di speculazione”: potrebbero essere utilizzate invece per l’edilizia a basso costo, per i servizi e il verde essenziali per rendere le città migliori e più facile la vita, per ospitare le nuove attività economiche necessarie. Basterebbe quella determinata volontà politica che in altri paesi si è manifestata, e le leggi necessarie per privilegiare, nella gestione delle città, l’interesse della maggioranza dei cittadini su quello di chi vuole arricchirsi a spese della collettività.

Il consumo di suolo non preoccupa solo ambientalisti coerenti e urbanisti militanti, né solo chi vuole restituire salute e bellezza al territorio e ai suoi abitanti. Anche gli operatori più legati al territorio e alle sue qualità (naturali, paesaggistiche, storiche, artistiche) cominciano ad avvertire la gravità del trend sguaiatamente edificatorio che minaccia quelle qualità. É il caso recente dell’Agriturist, l’associazione degli operatori dell’agriturismo aderente alla Confagricoltura, il sindacato padronale degli agricoltori. Il convegno organizzato quest’anno nell’ambito del suo 7° Forum è stato dedicato all’argomento, e due delle relazioni si sono interrogate suelle conseguenze e le ragioni della morte del paesaggio italiano e su ciò che si può fare per evitare che la città cancelli la campagna. Il rischio è grande. Il geografo Massimo Quaini, che ha sviluppato il primo dei due temi suddetti, ha rilevato come gli effetti della globalizzazione capitalistica, aumentando a dismisura gli effetti della fase industrialista, stia cancellando i tratti del paesaggio costruito dall’applicazione saggia del lavoro dell’uomo alla natura, senza sostituire – come era successo nelle precedenti epoche – qualità comparabili a quelle distrutte. Il sottoscritto, invitato in quanto urbanista, ha affrontato il problema dal punto di vista della città e dei suoi abitanti, i quali sono anch’essi penalizzati dalla trasformazione dei paesaggi rurali nella “repellente crosta di cemento e asfalto” (per adoperare l’efficace espressione di Antonio Cederna) che sta seppellendo la campagna e il patrimonio naturale e storico che essa costituisce.

L’edificazione diffusa sul territorio - lo sprawl – che è l’aspetto principale del consumo di suolo, causa a sua volta (come l’Unione europea non si stanca di denunciare) gravissimi sprechi. Essa infatti rende obbligatorio l’impiego quotidiano dell’automobile, provoca un aumento parossistico del traffico, dei consumi energetici, della proliferazione di strade che a loro volta aumentano il consumo di suolo, aggrava l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, incide negativamente sui redditi e sull’impiego del tempo delle persone, riduce la coesione sociale, sopprime le produzioni agricole nelle aree più fertili, cancella la bellezza e la salubrità delle campagne. (Si vedano in proposito i rapporti 4/2006, 6/2006 e 10/2006 dell’ European Environment Agency, organo specializzato dell’Unione europea).

Non occorre soltanto difendere la campagna da un’espansione urbana irragionevole, priva di motivazioni socialmente rilevanti, dovuta solo alla confluenza della miopia dei pubblici amministratori e alla pressione degli interessi privati. La gigantesca espansione delle nostre città avvenuta nell’ultimo mezzo secolo (si calcola che in Italia il 90% delle aree attualmente urbanizzate sia stato realizzato dopo la fine della guerra) è stata guidata più dalla speculazione che da una corretta pianificazione urbanistica. Dalle vastissime periferie della maggior parte delle nostre città il verde è stato cancellato; adesso il processo prosegue cacciando l’agricoltura e degradando i poaesaggi anche al di là dei confini della città, oggi non più riconoscibili.

L’uomo non può vivere in modo adeguato se si taglia ogni possibilità di rapporti quotidiana con la natura. I grandi parchi urbani che la storia ci ha lasciato, quelli creati delle amministrazioni che hanno pianificato la città in modo ragionevole, i cunei di campagna che piani regolatori intelligenti hanno saputo inserire tra i quartieri urbani, non solo devono essere difesi contro ogni tentativo di cementificazione, ma devono costituire il modello da riprendere e sviluppare oggi. É necessario, ed è possibile. Come? Ne riparleremo.

Il testo riprende due articoli che sono stati messi online sul sito Tiscali il 25 novembre e il 3 dicembre.

Non bastano le Grandi opere avviate senza sapere se raggiungeranno lo sc opo (come il MoSE a Venezia e il Ponte sullo Stretto, dove i treni non passeranno mai), e intanto devastano il territorio e dilapidano le risorse finanziarie del paese (aumentando il debito di chi è appena nato o nascerà nei prossimi anni). Non basta la rinuncia a qualsiasi iniziativa che valga ad arrestare il consumo di suolo, particolarmente grave nel nostro paese grazie alla sua orografia, alla densità di lasciti della storia e al rifiuto dei governi nazionali e regionali di contrastarlo (a differenza di quanto avvieni negli altri paesi europei).

Tutto questo non basta. Ecco che arriva una vergognosa legge bipartisan che, col pretesto di costruire stadi, dà il via alla “più grande speculazione urbanistica nelle città italiane dal Dopoguerra”, come ha scritto Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente.

In Italia il pensiero prevalente ritiene che la pianificazione delle città e del territorio sia un optional: sembrano non sapere che in tutti i paesi liberali è una prassi, e un sistema di regole, praticate da due secoli, con continuità e serietà, per consentire che l’uomo, sul territorio e nelle città, viva bene, ordinatamente, senza subire il disordine, la congestione del traffico, il disagio urbano, la mancanza di servizi essenziali per la vita sociale e personale, la difficoltà di trovare alloggi a prezzi sopportabili.

In Italia solo in poche stagioni la pianificazione è stata praticata. Il suolo, la madre Terra, non è stato considerato dai più (e dai più potenti) come una risorsa scarsa da utilizzare con parsimonia, ma come una macchina per fare soldi trasformandola in terreno edificabile. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, fino a metà degli anni Ottanta, si è tentato di pianificare. I risultati devastanti del boom edilizio dei primi decenni del dopoguerra aveva fatto comprendere che bisognava cambiare strata, che il territorio va aministrato con saggezza: con la pianificazione. Negli ultimi vent’anni si è tornati al passato: via la pianificazione, ciascuno faccia del territorio ciò che vuole. Ed ecco le deroghe alla pianificazione, il condono dell’abusivismo, l’incoraggiamento al consumo di territorio, il via libera alle iniziative immobiliari.

L’ultimo colpo, l’orrenda legge, già approvata dalla commissione del Senato in sede deliberante, che sta passando adesso l’esame dell’altro ramo del Parlamento. Il titolo ipocrita è “disposizioni per favorire la costruzione e la ristrutturazione di impianti sportivi e stadi anche a sostegno della candidatura dell’Italia a manifestazioni sportive di rilievo europeo o internazionale”. Sembra una legge per favorire lo spettacolo sportivo, per ristrutturare e realizzare nuovi stadi. No. L’obiettivo della legge è consentire la realizzazione di “complessi multifunzionali”: insieme allo stadio si può costruire un nuovo quartiere, con centri commerciali, alberghi, attrezzature di svago, culturali e di servizio, insediamenti residenziali e direzionali, da realizzarsi attorno allo stadio o addirittura in aree ad esso non contigue.

Prima pesante infrazione alla legalità urbanistica e al buonsenso: si costruiscono nuove città e si cementificano centinaia di ettari al di fuori di ogni pianificazione del territorio, dell’ambiente, del paesaggio. Seconda infrazione: il potere di trasformare radicalmente l’assetto del territorio è sottratto alla pubblica amministrazione ed è attribuito a chi ha i soldi, puliti o sporchi che siano, al di fuori da qualunque interesse pubblico.

La cosa più allarmante è la scarsissima eco che questa folle iniziativa ha avuto. La proposta di legge è stata approvata all’unanimità nella commissione senatoriale. L’hanno criticata solo Legambiente, con un ottimo comunicato stampa che denuncia tutti gli aspetti devastanti del provvedimento, Roberto Musacchio e Mirko Lombardi sul quotidiano L’Altro, Vezio De Lucia su eddyburg.it. Ma i giochi non sono fatti. Non è ancora troppo tardi per bloccarla.

Questo articolo è stato postato su Tiscali l'11 novembre 2009, e lì riceve numerosi commenti. Suggerisco a frequentatori di eddyburg di andare a leggerli, perchè rivelano in modo inquietante come pensano moltissimi italiani.

É il caso, per esempio, del Ponte sullo Stretto di Messina: non solo sorge in una delle aree a più alta sismicità in Italia, ma certamente non è prioritario visto che collega tra loro due zone nelle quali (soprattutto in Sicilia) tutta la infrastrutturazione interna, soprattutto quella ferroviaria, è assolutamente insufficiente rispetto alle esigenze attuali. Si fa riferimento al sistema del project financing (in italiano, finanza di progetto). Ma pochi sanno che i finanziatori privati non si assumono nessun rischio: guadagnano sull’investimento, perché in cambio del prestito lo Stato consente loro di lucrare con la gestione dell’opera (le concessioni autostradali, i servizi ospedalieri etc.) e, se vanno in rosso, lo Stato paga il loro deficit. Insomma, paga sempre Pantalone, cioè il cittadino rispettoso delle leggi che paga le tasse.

Negli ultimi tempi si vedono anche cose peggiori: si spendono soldi (di noi tutti) per cose che con ogni probabilità non si faranno. Tre esempi: ancora il Ponte sullo Stretto, il MoSE nella Laguna di Venezia, e la recente proposta di svolgere nell’area veneziana le Olimpiadi del 2020.

In quanto al Pontone, studi attendibili raccontano che mai una ferrovia potrà passare su un ponte con una campata così lunga. Ma è il collegamento ferroviario la ragione principale per cui è stato proposto, e le Ferrovie dovrebbero finanziarne una parte consistente. Intanto, fiumi di denaro sono stati spesi, e tra poco cominceranno le opere preliminari a terra. Ne hanno scritto recentemente Ivan Cicconi, tra i massimi esperti italiani di appalti e costi delle opere pubbliche, e l’unico che rende pubbliche le sue informazioni, su il manifesto e Mario Tozzi su la Stampa, che anche per questo chiede “una moratoria per il ponte sullo Stretto”.

Secondo caso. Il MoSE è una gigantesca opera, per la quale lo Stato (cioè noi) ha già speso 4,5 miliardi di euro. Un’opera secondo molti inutile e dannosa, certamente di concezione arcaica. Comunque, anche a volerla considerarla utile, essa è tutta basata su una settantina di giganteschi portelloni d’acciaio, incernierati in quattro piattaforme di calcestruzzo poste sott’acqua in corrispondenza dei quattro varchi tra la laguna e il mare. Tutto il sistema si basa sull’efficienza delle cerniere che connettono i portelloni al basamento. Ebbene, queste cerniere ancora non funzionano, tanto che il consorzio d’imprese che ha avuto la concessione dei lavori ha chiesto due anni di proroga. Allo stato degli atti non si sa se una cerniera efficiente sarà ottenuta o no. Comunque i soldi corrono, e le opere che sarebbero necessarie se i portelloni funzionassero intanto si fanno. A spese, come al solito, di Pantalone.

Terzo caso. La proposta di tenere a Venezia le Olimpiadi del 2020, che è stata avanzata dai comuni di Venezia e Treviso, dalla Regione Veneto e dalla Confindustria. Naturalmente i consigli comunali e regionale non sono stati interpellati: hanno deciso tutto i sindaci (uno del PD e uno della Lega) e il “governatore” della Regione (Popolo della libertà). É altamente improbabile che le Olimpiadi si facciano davvero a Venezia. Ma intanto, per ottenere la candidatura si sta spendendo qualche decina di milioni per pagare gli studi professionali che confezionano i costosi dossier richiesti per presentare ufficialmente la candidatura agli organismi internazionali. E intanto la prospettiva (inattendibile) delle Olimpiadi serve a legittimare operazioni di speculazione sulla città che altrimenti stenterebbero a decollare: come un immenso (e inutile) insediamento sul bordo della Laguna. Lo spiega molto bene Paolo Cacciari in un articolo su eddyburg.it. Anche qui, paga Pantalone.

La morale: i grandi affari non si fanno solo con le Grandi opere, risolvendo il concreto problema che sembra la loro missione. Per farli basta semplicemente il loro annuncio, e un po’ di battage pubblicitario.

Questo articolo è stato postato su Tiscali il 29 ottobre, e lì riceve numerosi commenti. Vedi anche in eddyburg.it le cartelle “ SOS - Il Ponte sullo stretto” e “ Venezia e la Laguna – MoSE

Sul piano del metodo. È incredibile che oggi (mentre scrivo è martedì sera) ancora né i consiglieri regionali né la stampa abbiano il testo di una legge che è stata approvata venerdì. Sembra che stiano scrivendo gli emendamenti, che sono stati presentati oralmente, oppure su manoscritti incomprensibili. Sono stato consigliere comunale a Roma e a Venezia, e consigliere regionale nel Veneto, ma non mi è mai capitato qualcosa di simile.

Sul piano del merito. Sembra (oggi posso dire solo “sembra”, dato che non c’è ancora un testo) che sia stato stralciato l’articolo 15 nelle norme del PPR, che rendeva alle sole lottizzazioni approvate dai comuni nelle quali fosse stata stipulata in data certa e anteriore al “decreto salva coste” la convenzione e fossero state legittimamente reralizzate le opere di lottizzazione. Cancellare questo articolo significherebbe autorizzate decine di migliaia di metri cubi nelle zone più belle e delicate della costa sarda.

Ciò che invece è certo è che la discussione in Consiglio si è svolta in gran parte sulla questione se autorizzare o no gli ampliamenti nella fascia di 300 m (trecento metri) dalla costa, dando per scontato che oltre quel limite si può fare qualsiasi ampliamento. Il limite di 300 m è un limite antichissimo: deriva dalla legge Galasso del 1985, ed è stato totalmente superato sia dal decreto di salvaguardia temporanea del novembre 2004, sia dal piano paesaggistico regionale redatto in conformità ai criteri e alle disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio, chiamato Codice Urbani dal nome del ministro del governo Berlusconi che lo portò all’approvazione.

La vigente tutela della costa sarda è ben più estesa e articolata del limite geometrico dei 300 m. La aree da tutelare (anche con l'esclusione di nuove cubature e di infrastrutture) non solo è generalmente molto più ampia, (mediamente 2.000 metri, con punte fino agli 8-10mila), ma è accuratamente studiata analizzando le caratteristiche paesaggistiche (visuali, ambientali, ecologiche, funzionali) di tutti gli ambiti costieri. I limiti solo geometrici (quali i 300 m della legge Galasso 431/1985 e della successiva legge regionale 45/1989, e i 2.000 m della legge regionale 8/2004) costituiscono una salvaguardia transitoria assolutamente grossolana ("colpi di sciabola", li definiva il grande amministrativista Alberto Predieri a proposito dei vincoli della Galasso), in attesa delle più accurate determinazioni della pianificazione paesaggistica.

Sono veramente curioso di sapere se i consiglieri regionali hanno tenuto conto queste cose, oppure se hanno disgregato le norme di difesa del paesaggio costiero con una vero colpo di mano: quale quello che si perpetrerebbe se col "piano-casa" se si volesse rispettare solo il miserevole limite dei 300 metri, e per di più autorizzare le decine di milioni di metricubi di lottizzazioni costiere che nel 2004 si sono fortunatamente bloccate, salvando paesaggi che non meritano la distruzione.

Questo articolo è stato postato su Tiscali il 21 ottobre, e lì riceve numerosi commenti. Domani 23 sembra che la legge sarà pubblicata. Anche su eddyburg.

Non a caso Carlo Cattaneo definiva “non città”, ma “pompose Babilonie” gli insediamenti delle tirannidi asiatiche. Non a caso il grande risveglio che ha ingioiellato di città storiche tutte le nostre regioni è associato alla lotta per l’autonomia dei “borghi” dai domini dei Signori. E non a caso la responsabilità della pianificazione urbanistica è nelle mani delle istituzioni della Repubblica.

Sia l’una che l’altra, città e democrazia, mutano nel tempo. Dalla democrazia oligarchica, la democrazia dei pochi, siamo giunti, attraverso un percorso faticoso e ancora incompiuto alla democrazia di tutti. Oggi tutti i cittadini hanno diritto a eleggere i propri rappresentanti nei luoghi ove si decide.

Nella nostra democrazia le decisioni le prende chi rappresenta la maggioranza. Una maggioranza che può avere varie ampiezze: può essere unanime, assoluta, relativa. In quest’ultimo caso essa è costituita dalla porzione dei cittadini più ampia tra quelle nelle quali si è suddiviso il corpo elettorale. É il caso della maggioranza di oggi: il raggruppamento che fa capo all’attuale premier rappresenta il 47 % dei voti validi e il 34 % degli elettori: meno della metà dei primi, un terzo del “popolo”.

Il maggiore contributo alla democrazia dei nostri tempi lo ha dato il pensiero liberale, un paio di secoli fa. I pensatori che hanno costruito le basi e i principi della democrazia hanno compreso subito che in essa il principio della maggioranza poteva condurre a effetti letali. L’influenza di un eletto o i suoi poteri occulti potevano trasformarlo in demagogo, capace di conquistare i cittadini sulla base non della ragione ma dell’emozione, magari sollecitata dall’istigazione ai sentimenti più bassi. Dalla democrazia alla tirannide il passo non è lungo: “La democrazia finisce subito se cade sotto la tirannia della maggioranza” ha scritto Alexander Hamilton, un politico ed economista statunitense vissuto alla fine del XVIII secolo. E della democrazia fa parte integrante il principio della possibilità di ricambio dei gruppi dirigenti: questo è impedito se la maggioranza spegne le voci alternative o impedisce loro di raggiungere le orecchie di tutti.

Proprio per queste ragioni la nostra democrazia (nella quale da noi si ha tanta fiducia da pensare di esportarla con le armi) è stata costruita con un attento sistema di contrappesi, che bilanciano quello della maggioranza con altri principi. Frenano la tendenza alla “tirannia della maggioranza” due principi: il diritto delle minoranze e la separazione dei poteri. Il primo comporta la garanzia che ogni gruppo d’interesse (sociale, economico, culturale) abbia la possibilità di essere rappresentato là dove si conosce e si dibatte per decidere, potendosi esprimere con la stessa libertà consentita alla maggioranza. Il secondo principio consiste nella rigorosa autonomia di ciascuno dei tre poteri fondamentali: legiferare(parlamento), applicare le leggi (governo), giudicare (magistratura).

Ciascuna di queste tre istanze ha eguale autorità rispetto alle altre. Sostenere che una di esse primeggia significa proporre una tesi eversiva della democrazia. Eppure, è quello che è avvenuto negli ultimi giorni, quando gran parte dei politici, e degli stessi giornalisti, che hanno scritto o parlato sul “conflitto” tra capo del governo e massima istanza della magistratura, hanno accreditato la tesi che solo chi è direttamente eletto dal popolo ha il potere di decidere, e se gli altri ostacolano la sua decisione sono rei di tradimento e vanno ricondotti all’ordine.

Un urbanista non avrebbe il compito di richiamare questi concetti, ad altri spetterebbe di farlo. Ma un urbanista – come ogni cittadino consapevole – sa che se essi vengono travisati, e i principi che li esprimono violati, per la città, luogo della società, non c’è speranza.

Questo articolo è stato postato su Tiscali il 14 ottobre, e lì ricevve numerosi commenti. Era stato scritto il 10 ottobre, all'indomani delle dichiarazioni del premier e dei commenti sulla stampa.

Nei giorni successivi il tema è stato sviluppato in articoli sulla stampa, eddyburg ha ripreso quelli di Ilvo Diamanti e di Renato Mannheimer, su la Repubblica e Corriere della sera del 12 ottobre, e di Adriano Prosperi, su la Repubblica del 13 ottobre.

Sulla democrazia vedi, su eddyburg ,alcune delle parole raccolte nel Glossario (demagogia, democrazia, egemonia, governance, partecipazione, potere mediatico, tirannia), e gli articoli di Hobsbawm e di Cassano nella cartella Pensieri.

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