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È delle prime due che vogliamo occuparci brevemente oggi, soprattutto per il peso notevole che hanno nei confronti delle trasformazioni di un territorio prezioso e fragile quale quello dell’Italia.

Modernizzazione, innovazione: esprimono il bene, il futuro, la prospettiva verso la quale ineluttabilmente bisogna tendere. Ciò che è oggi e sarà domani, poiché è diverso da ciò che era ieri, è – deve essere – l’obiettivo di ogni azione che voglia essere legittimata dal consenso sociale. Tradizionale, passatista, conservatore diventano i termini che esprimono disvalori: sentimenti e tendenze che devono essere combattuti e sopraffatti. Ai fautori dei dogmi della modernizzazione e dell’innovazione (largamente dominanti nel Palazzo come nell’Accademia), a quanti credono che la Storia vada solo avanti e non conosca regressi il secolo scorso – e la paurosa regressione del nazismo – non ha insegnato nulla. Anzi, per essi la storia non serve: è meglio distruggerla nella memoria che trarre da essa i lineamenti e i principi di un possibile e migliore futuro.

Guardate le tendenza dell’architettura, che sempre più condizionano l’urbanistica (o trovano significativi riscontri culturali con gli urbanisti della modernizzazione). Guardate la fede indiscussa nella tecnologia, maestra d’ogni retorica e serva d’ogni individualistica bizzarria. Sembriamo tornati all’epoca in cui si nutriva illimitata fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” di un’umanità affidata alle mirabolanti capacità delle tecniche dell’acciaio e del cavallo-vapore. Come diceva Marx, la storia si ripete, ma la seconda volta è farsa.

Che cosa vuol dire oggi, per il territorio, questo ritorno all’ideologia progressista dell’Ottocento? In una realtà in cui città e territori sono intrisi di storia e in cui la sedimentazione del passato è la ragione e la matrice della bellezza e della qualità dei luoghi, esso significa devastazione e regresso. Significa trascurare le regole che secoli di cultura e lavoro hanno impresso al modo in cui furono costruite le città, e trasformarle in un’accozzaglia disordinata di oggetti che non celebrano la società ma i loro Autori. Significa violentare i paesaggi rurali e mettere a rischio le risorse della natura costruendo dovunque infrastrutture stradali, spesso immotivata e sempre indifferenti ai contesti che attraversano. Significa seppellire le campagne sotto la coltre di espansioni urbane prodotte più dalla spinta della “valorizzazione immobiliare” (o alle pratiche della “perequazione” e “compensazione”) che da oggettive necessità non risolvibile in altro modo.

A Venezia, per esempio, significa pretendere di risolvere i problemi del degrado della Laguna e del deperimento (otto-novecentesco) della sua funzione regolatrice delle acque mediante le strutture “tecnologicamente avanzate” del MoSE anziché ripristinando gli equilibri ecologici compromessi dalle “modernizzazioni” del secolo scorso (per non parlare dell’inutile ponte di Calatrava e della devastante metropolitana sublagunare) . Tra il Continente e la Sicilia significa affidare l’agevolazione dei traffici alla costruzione di un mirabolante Pontone, capace di figurare nel Guinness dei primati dopo essere apparso nei fumetti di Paperino, invece di riorganizzare seriamente i trasporti via mare e aver adeguato alla normalità la rete ferroviaria interna della Sicilia. A Torino e a Milano significa agevolare gli interessi immobiliari di alcuni operatori privilegiati mortificando gli interessi comuni della cittadinanza e, laddove esiste, la legalità urbanistica, e minacciando il tradizionale paesaggio.

Il fatto è che con questa scelta di Opere, preferibilmente Grandi e perciò appariscenti e costose, si ottengono più risultati, utili sia al Palazzo che all’Accademia. Su un versante si favoriscono gli affari delle grandi holding nelle quali la rendita immobiliare e quella finanziaria si sono saldate (e si scaricano sulle generazioni future i costi dei fallimenti dei project financing e quelli delle manutenzioni e gestione delle opere). Sull’altro versante si appagano le smanie di affermazione personale (e monumentale) delle Grandi Firme dell’Architettura, divenute i massimi esperti della “modernizzazione urbana”, si utilizzano strumentalmente le loro ambizioni di “lasciare il segno sul territorio” per coprire col pennacchio operazioni immobiliari discutibili.

Chissà se un giorno chi decide (e chi sceglie i decisori) comprenderà che la vera modernità, la vera innovazione sono quelle che traggono dalla storia l’insegnamento di un corretto rapporto tra esigenze di trasformazione e natura dei luoghi, tra parsimonioso impiego delle risorse e appagamento delle nuove necessità sociali, tra creatività individuale e maturazione della cultura comune. Una regione del mondo la cui bellezza e la cui civiltà sono così profondamente radicate nella forma del territorio e delle città potrebbe davvero, se praticasse e predicasse un simile insegnamento, contribuire a rendere migliore un pianeta sempre più pervaso dall’anonimia, dall’omologazione, dall’appiattimento, dall’imposizione di modelli nati obsoleti, dalla cancellazione delle diversità culturali che dell’umanità costituiscono la ricchezza.

Qui lo scritto di Gustavo Zagrebelsky su valori e principi.

Prendiamo il lemma “ambientalismo”. È stata recentemente coniata, ed ha avuto larga diffusione e apprezzamento, l’espressione “ambientalismo del fare”. Si è voluta propagandare, con questa espressione, la volontà di affrontare la crisi dell’ambiente della nostra vita con un impiego massiccio di tecnologie: inceneritori, pale eoliche a go-go, degassificatori ecc.. Di affrontarla e risolverla, cioè, intervenendo a valle del processo da cui la crisi origina: operando sugli effetti trascurando le cause – e anzi, in qualche caso, addirittura aggravandole.

Prendiamo il caso dei rifiuti, che grazie alle gravissime carenze politiche e amministrative di Napoli e della Campania è esplosa e continua a impegnare i mass media. Quante voci si sono levate a porre in primo piano la questione della eccessiva produzione di rifiuti e la necessità di ridurla drasticamente – come è possibile – intervenendo nella fase della produzione e commercializzazione delle merci che diventano rifiuti? Eppure Italo Calvino l’aveva compreso 36 anni fa, quando descrisse Leonia. La società dei consumi, descritta da John K. Galbraith nel 1958, e la sollecitazione a consumi sempre più inutili, denunciata da Vance Packard nel 1957, sono realtà del tutto sconosciute ai nostri governanti e ai loro corifei; oppure costituiscono una zuppa nella quale affondano volentieri i loro cucchiai. Lungi dal proporsi di criticare il meccanismo economico nel quale viviamo, non si adoperano neppure a correggerlo intervenendo almeno - per restare all'esempio dei rifiuti - sulla riduzione degli imballaggi, che dei rifiuti rappresentano una componente rilevantissima.

L’esemplificazione potrebbe continuare. Ma dietro questa apparente ignoranza si nasconde la mistificazione di un altro lemma rilevante: “sviluppo”. Questo è un termine relativo, che acquista un significato positivo o negativo a seconda del fenomeno cui si riferisce. È certamente positivo lo sviluppo intellettuale di una persona, è certamente negativo lo sviluppo di una malattia. Ma nell’orrenda operazione compiuta sul linguaggio si è ridotto il termine sviluppo a una sola dimensione: oggi quel termine non ha più alcuna connessione con la crescita delle capacità dell’uomo di comprendere, amare, godere, essere, dare. Sviluppo significa oggi unicamente crescita quantitativa delle merci, ossia dei prodotti di una produzione obbligata a crescere sempre di più (a sfornare e a vendere sempre più merci) per non morire (per non essere schiacciata dalla concorrenza),e cresce appunto attraverso la produzione indefinita di merci finalizzate solo ad essere vendute, indipendentemente dalla loro effettiva utilità.

Come si vede, se si riflette un poco sulle cose, tra la concezione totalitaria dello sviluppo e la produzione abnorme di rifiuti (avete letto di quella nuova grandissima isola scoperta nell’Atlantico, composta unicamente di rifiuti flottanti aggregati dalle correnti?) c’è in nesso inscindibile. L’”ambientalismo del fare” è accolto e promosso perché contribuisce a produrre sviluppo (economico), cioè ad aumentare le ragioni di fondo della crisi dell’ambiente. Se esso fosse preceduto dall’”ambientalismo del pensare” si scoprirebbe che le cose che bisognerebbe davvero fare hanno connessioni strette con altre parole, dimenticate e seppellite sotto montagne di rifiuti. Parole come parsimonia, risparmio, razionalità. E con espressioni considerate ormai demoniache, come “ricerca di un’alternativa a questo sviluppo”.

Torniamo un attimo, prima di concludere, sul primo termine dal quale siamo partiti: “ambiente” e “ambientalismo”. L’orrenda semplificazione del linguaggio che ottunde i cervelli e li plasma arriva al punto da leggere le battaglie ambientalistiche come “scontro frontale tra bello e utile” (A. Cianciullo, su la Repubblica del 20 febbraio). Come se il nesso tra utilità e bellezza non dovesse essere strettissimo in una civiltà non trogloditica, e se non si dovesse applicare a qualsiasi trasformazione della crosta terrestre, come suggerisce Alberto Magnaghi, quella triade di “firmitas,utilitas, venustas” che Vitruvio aveva decretato per l’architettura (con buona pace per qualche architetto pennacchione, che proclama la bellezza delle ecoballe).

Nota. La città di Leonia è descritta da Italo Calvino, Le città invisiibili , Torino 1972. Il libro di John K. Galbraith, The affluent society , Boston 1958,è stato pubblicato in italiano col titolo La società opulenta, Milano 1965. Quello di Vance Packard, The Hidden Persuaders , New York 1957, è stato pubblicato in Italia col titolo I persuasori occulti, Torino 1958.

Sui rifiuti c'è in eddyburg una cartella, Rifiuti di sviluppo, nella quale c'è molto materiale.

L'icona è un disegno di Saul Steinberg.

Questi furono introdotti nella legislazione italiana, e generalizzati nella pratica urbanistica, con una legge e un successivo decreto degli anni 1967 e 1968. Sostanzialmente consistevano (come moltissimi dei frequentatori di eddyburg sanno) nell’obbligo di vincolare, negli strumenti urbanistici generali attuativi, una determinata quantità pro capite di aree da destinare alla formazione di spazi pubblici e d’uso pubblico. Fu un risultato raggiunto dopo anni d’iniziative sociali, culturali, amministrative, nelle quali svolsero ruoli decisivi la cultura urbanistica dell’epoca, le amministrazioni locali e i partiti dell’Emilia-Romagna, il sindacato dei lavoratori e soprattutto il movimento femminile. Un ampio fronte sociale e culturale, il cui obiettivo era rendere vivibile la città, utilizzando il piano regolatore come strumento orientato a questo fine, anziché a quello di regolare (o regalare) valori immobiliari.

Si comprese presto che non bastava che i piani vincolassero le aree: era una misura indispensabile, ma non sufficiente. Occorrevano due ulteriori condizioni: doveva diventare possibile acquisire le aree necessarie senza riconoscere alla proprietà fondiaria l’incremento di valore dipendente dalle scelte pubbliche, e occorreva finanziare l’acquisizione delle aree e la realizzazione delle opere di urbanizzazione nelle quali gli standard urbanistici si traducono.

Sul primo versante (valore della indennità espropriativa e riconoscimento ai proprietari di una parte soltanto della rendita) la vertenza fu aspra e non si giunse mai a una soluzione soddisfacente. Il Parlamento non si dimostrò mai capace di rendere concreto il principio, tipico degli ordinamenti liberali e stabilito dalla legge urbanistica nazionale del 1942 (una legge del periodo fascista!) secondo il quale l’indennità espropriativa non deve compensare il maggior valore dell’area derivante dalle scelte del piano urbanistico. E la Corte costituzionale si dimostrò molto sensibile alle ragioni dell’equità nei confronti delle prerogative dei proprietari, non a quelle nei confronti dei diritti dei cittadini.

Sul secondo versante, quello dei costi della realizzazione delle opere di urbanizzazione, si riuscì a ottenere che essi venissero accollati a chi percepiva la rendita immobiliare: nel caso di piani attuativi le aree destinate agli spazi pubblici dovevano essere cedute gratuitamente dai promotori delle lottizzazioni, i quali dovevano realizzare opere di urbanizzazione aperte a tutti i cittadini; nel caso del rilascio di licenze edilizie (poi denominate, con un passaggio non solo nominalistico, concessioni edilizie) mediante il pagamento di un prezzo corrispondente sia al costo delle urbanizzazioni necessarie per l’aggiunta edilizia, sia alle spese di urbanizzazione generale della città.

La legge 10/1977 (legge Bucalossi) stabilì espressamente che i proventi di questi oneri, come quelli delle sanzioni per gli interventi abusivi, venissero “destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, nonché all'acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali”, e prescrisse che a tal fine quei proventi fossero “versati in un conto corrente vincolato presso la Tesoreria del Comune”.

Lodo Meneghetti e Sergio Brenna hanno già raccontato ai lettori di eddyburg come sia avvenuto lo svuotamento di queste sagge disposizioni. Destra e centro-destra, sinistra e centro-sinistra, parlamento e governo dell’altro ieri, di ieri e di oggi ne sono tutti responsabili. Certo in misura diversa, ma ciò non giustifica nessuno. La responsabilità della prima iniziativa risale a una “omissione” del ministro Bassanini (centro-sinistra, 2001); la palla è raccolta, e rilanciata in porta dal ministro Tremonti (centro-destra, 2004). Né gli anni successivi hanno invertito la rotta. Adesso lo scempio si completa, con la legge finanziaria per il 2008: nonostante gli allarmi gettati (anche da questo sito) e le proposte di emendamento offerte ai parlamentari che sembravano più sensibili.

La finanziaria con la quale si è chiuso l’anno vecchio ha prorogato infatti per gli anni 2008, 2009 e 2010 la sollecitazione ai comuni di destinare i proventi degli oneri di concessione al finanziamento delle loro spese correnti. Invece di affrontare il tema del costo della città, di chi deve pagarlo, di come e con che cespiti occorre mettere i comuni in grado di farlo, si è proseguito nello smantellamento di un altro pezzo di civiltà urbana.

Una norma bestiale, l’abbiamo commentata nell’eddytorialen. 109. Indicando le ragioni della bestialità sottolineavamo soprattutto che essa spinge i sindaci ad aumentare le aree da urbanizzare, al di fuori di ogni corretta valutazione del fabbisogno. Ci soffermavamo su questa conseguenza, nella speranza che l’unanime dichiarata espressione della volontà di tutelare il paesaggio e ridurre il consumo di suolo spingesse Governo e Parlamento a correggere la bestialità. Così non è stato.

Oggi, alla vigilia dell’anno nuovo, vogliamo sottolineare particolarmente l’altra ragione. Non è in gioco solo il progressivo impoverimento del paesaggio rurale, della bellezza e della storia (e della salute) dell’Italia. Accanto a questo bene comune un altro è messo in discussione, e potenzialmente distrutto: il bene comune della città come costruzione sociale, come luogo caratterizzato dalla presenza, dall’accessibilità e dall’idoneità delle attrezzature e degli spazi dedicati alle esigenze della vita pubblica, sociale, collettiva di tutti; delle cittadine e dei cittadini, e dei forestieri; degli adulti e dei bambini, degli anziani e dei deboli; dei benestanti e dei poveri: insomma, delle persone qualificate dal loro essere, e non dal loro consumare merci.

Ci turba, ci turba profondamente che il governo e il Parlamento, che gli uomini e le donne cui, in quanto elettori, abbiamo attribuito il compito di scrivere e di attuare le leggi mostrino di agire senza rendersi conto degli effetti che le loro decisioni provocano. Nell’oblio totale, e colpevole, delle ragioni che hanno spinto a conquistare le norme che essi cancellano, del loro significato sociale e civile. La speranza che affidiamo al 2008 è che, almeno su questo argomento, qualcosa di positivo finalmente accada. Eddyburg si impegna a proseguire con maggiore costanza e attenzione la buona battaglia.

L'immagine rappresenta un'opera di Ron Rueck.

Sugli standard urbanistici vedi anche l' eddytoriale n. 101e la postilla alla relazione di Giovanni Astengo al convegno dell'UDI del 1964

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