loader
menu
© 2024 Eddyburg

Mi riferisco, evidentemente, ai danni inferti alla componente fisica del patrimonio comune: il paesaggio, l’ambiente, il territorio. Raccolgo lo spunto dall’introduzione di Maria Serena Palieri a un utile libretto, che ha curato, nel quale sono raccolti contributi di Giuseppe Chiarante e Vittorio Emiliani e documenti sugli “sprovvedimenti” del governo sui beni culturali ( Patrimonio SOS – La grande svendita del tesoro degli italiani, L’Unità). Una consapevolezza sottolineata al recente convegno di Italia Nostra ( ancora “Italia da salvare”, Roma, 23 maggio 2004).

Scrive Palieri, commentando la richiesta, sacrosanta, di mettere al primo punto del programma elettorale dell’Ulivo l’impegno di cancellare tutte le leggi del governo Berlusconi: “Ma il colpo di bacchetta magica, quando sarà il momento, cancellerà le controriforme di sanità, scuola, pensioni, abrogherà la legge Cirami. Una cosa non potrà fare: restituirci il tesoro “nostro” che, nel frattempo, “loro” avranno dilapidato”.

Fanno parte del tesoro dilapidato i pezzi del demanio pubblico venduto, i paesaggi devastati dall’incentivo ricorrente all’abuso urbanistico, ma soprattutto le “opere pubbliche” realizzate scavalcando con arroganza tutti quei controlli (urbanistici, paesaggistici, ambientali) che nei paesi civili costituiscono il filtro tra le tecniche settoriali e i duraturi interessi generali. Fa parte del tesoro dilapidato la Laguna di Venezia, che comincia a essere distrutta in alcune sue parti essenziali delle opere collaterali al MoSE.

In questi giorni stanno distruggendo dighe ottocentesche tutelate ope legis e con vincoli specifici, stanno asportando 3,5 milioni di metri cubi di fondale consolidato da seimila anni (il “caranto”), stanno installando distruttivi cantieri su oasi naturalistiche protette (oggi quella di Ca’ Roman, domani quella degli Alberoni), stanno approfondendo i canali che immettono acque marine nella Laguna, stanno avviando la costruzione si una muraglia alta sette metri sulla diga nord della Bocca di Lido, dove si preparano a costruire una nuova isola di 13 ettari (in Laguna da decenni è vietato ogni nuovo interrimento) e a distruggere la celebre Secca del Bacàn. Tutto ciò per un progetto che non sarà mai completato, che se fosse completato non funzionerebbe, di cui per di più nessuno ha valutato i costi di gestione (che non saranno inferiori a quelli della gestione di un aeroporto), né ha deciso a chi accollarli.

Non c’è più tempo da perdere. Non si può aspettare un nuovo Parlamento e un nuovo governo per tentare di fermare i vandali. Occorre che le associazioni, i rappresentanti degli interessi diffusi si mobilitino concretamente. Occorre che i candidati alle prossime elezioni si impegnino ad arrestare già da subito la dilapidazione del tesoro comune.

Occorre che ciascuno di noi elettori esprima la sua preferenza per quelli, tra i candidati e tra le liste, che più chiaramente, esplicitamente e operativamente si schierino a difesa del patrimonio della nazione. Segnando una discontinuità non solo nei confronti della maggioranza berlusconiana, ma anche nei confronti degli atteggiamenti opportunistici e tatticistici – e in definitiva corrivi con il clima culturale del berlusconismo – che si sono manifestati all’interno delle precedenti maggioranze.

Vedi anche ancora Salvare Venezia

Vedi anche La Laguna di Venezia e gli interventi proposti

Secondo il presidente dell’INU il conflitto è tra due sistemi di pianificazione: “autoritativo vs contrattuale”. Vorrei cominciare ad osservare che, definire la pianificazione “classica” (come Luigi Mazza definisce quella basata sul sistema giuridico che nasce dalla legge del 1942 rivisitata nel dopoguerra e va fino alle più recenti leggi regionali) come urbanistica “autoritativa” o “autoritaria” significa scambiare i consigli comunali (e provinciali e regionali) con i carabinieri. Il sistema classico della pianificazione si basa sull’assunto che le scelte sul territorio sono appannaggio sostanziale (e non solo formale) del potere pubblico democratico. Il che significa che sono i consigli, liberamente eletti, a decidere, e che sono strutture da loro dipendenti e controllate a preparare gli atti tecnici necessari alla scelta.

Significa questo negare la “contrattazione”? Affatto. (Evidente che parlo della contrattazione esplicita, non di quella sottobanco, giustamente perseguita dalla giustizia). La contrattazione esplicita fa parte della pianificazione classica almeno a partire dal 1967, anno della regolamentazione dei piani di lottizzazione coinvenzionata. Significa, però che la contrattazione con gli interessi privati avviene nel quadro, e in attuazione e verifica, di un sistema di scelte del territorio autonomamente stabilito dal potere pubblico democratico.

Questo rapporto tra pubblico e privato comporta almeno due vantaggi, l’uno civile l’altro tecnico. Il primo è che il potere di decidere è, nella forma e nella sostanza, nelle mani di chi è stato eletto per decidere ed esprime l’intera comunità (nei modi, certo imperfetti ma oggi non sostituibili, della democrazia rappresentativa). Il secondo è che si evita il profondo danno urbanistico del sistema basato sulla sostituzione dellla contrattazione all’autorità (alla democrazia rappresentativa): il danno, cioè, di avere il disegno e l’assetto della città determinati dal succedersi, giustapporsi e contraddirsi di una congerie di decisioni spezzettate, dovute alla promozione di questo e di quello e di quell’altro promotore immobiliare. Non è questa la ragione per cui, agli albori del XIX secolo, fu inventata l’urbanistica moderna?

E’ un sistema, quello della pianificazione classica, che funziona bene? Certo che no. Giovanni Astengo, tra i fondatori dell’urbanistica italiana ne criticò i limiti con parole che dovrebbero essere ricordate oggi (qui sotto il link). Da molti decenni gli urbanisti - una volta soprattutto gli urbanisti dell’INU - suggerivano le modifiche necessarie: una maggiore attenzione all’attuazione (“dal piano alla pianificazione”), un rafforzamento consistente delle strutture tecniche, una maggiore attenzione alla domanda e alle risorse della società e dell’economia. Risultati raggiunti solo in parte, molto modesta. Anche perché sia la politica che la cultura urbanistica hanno cominciato ad occuparsi d’altro e a inseguire altri modelli: non da oggi, se già potevo rilevarlo in un mio scritto del 1985 (qui sotto il link).

Sarò più breve sul secondo idola tribus, ribadito dal presidente dell’INU: che sia necessario “fare pressione per avere finalmente la legge statale di riforma urbanistica”. Su questo punto la mia risposta è molto semplice, ed è articolabile in pochi punti tra loro connessi:

1) una legge statale di riforma urbanistica è necessaria se è una buona legge (ho riassunto, nell’Eddytoriale 20 del 14 luglio 2003, i contenuti che una buona legge dovrebbe avere per essere utile a migliorare l’assetto delle città e del terriorio);

2) era vicina alla legge necessaria quella il cui testo unificato fu predisposto da Lorenzetti allo scadere della scorsa legislatura, e che colpevolmente i partiti che oggi compongono l’Ulivo (e anche gli altri) fecero cadere (a proposito, mi domando come fa l’INU a essere favorevole sia alla Lorenzetti che alla Lupi, che sono agli antipodi);

3) non mi sembra immaginabile che un regime il quale privilegia il privato sul pubblico, l’occasionale sul duraturo, la svendita del patrimonio comune al suo accrescimento, gli affari dei suoi leader al rispetto della legalità – che da un simile regime possa essere tollerata una legge urbanistica utile.

Vogliamo discutere su questi punti? Le pagine di Eddyburg sono aperte. Sarebbe bello se lo fossero anche quelle di Urbanistica informazioni e del sito dell’INU.

Sugli stessi argomenti:

Eddytoriale 36 del 21 gennaio 2004

Eddytoriale 38 del 2 marzo 2004

Il “testo unificato”, come si commentava nell’eddytoriale 36, “è una riproposizione peggiorata della proposta Lupi, con inserito qualche brandello della Mantini”. Ne enuclea i punti salienti il documento presentato all’audizione parlamentare dall’associazione Italia Nostra (è nella cartella dedicata alla legislazione nazionale, insieme ai documenti dell’INU e al testo Lupi). Li sintetizzo ulteriormente.

Un elemento significativo della proposta è l’abbandono del principio (da decenni acquisito alla cultura urbanistica e al sistema legislativo italiano) secondo il quale tutto il territorio nazionale deve essere governato mediante atti di pianificazione, capaci di assicurare coerenza e trasparenza alle scelte sul territorio da chiunque compiute, assunti dagli enti territoriali elettivi.

Secondo il “testo unificato” le regioni possono invece individuare a loro piacimento sia “gli ambiti territoriali da pianificare” (e possono anche decidere che alcune aree del territorio non siano pianificate), sia “l’ente competente alla pianificazione”, cioè chi deve pianificare (articolo 5, comma 1).

Osserva Italia Nostra che “una regione potrebbe, a esempio, attribuire le competenze pianificatorie soltanto alle province, escludendo sé medesima e i comuni, mentre un’altra regione potrebbe attribuire le medesime competenze a speciali agenzie, e limitare la pianificazione solamente agli ambiti di trasformazione morfologica urbana”. Abbandono di principio, insomma, del cardine del sistema europeo della pianificazione, per cui la coerenza d’insieme e l’unitarietà del sistema delle scelte di governo del territorio sono attribuiti al loro riferirsi con certezza al sistema degli enti territoriali elettivi a rappresentanza generale (in Italia, comuni, province, regioni, stato).

Del tutto diverso l’atteggiamento dell’INU, che nel documento dell’ottobre 2003 aveva già dichiarato che “si tratta certamente di una innovazione di grande interesse, rispetto alla attuale situazione”, e si limitava ad indicare l’opportunità che “decisioni di questo tipo [siano] assunte nel contesto della concertazione istituzionale“.

Ma la scelta più significativa che emerge dallo smilzo testo legislativo è la sostituzione, agli “atti autoritativi” (che costituiscono la prassi della pianificazione urbana e territoriale come atto di governo pubblico del territorio), di “atti negoziali” tra i soggetti istituzionali e i “soggetti interessati” (articolo 4, comma 3). Nella concreta situazione italiana, ciò significa l’esplicito ingresso, tra le autorità formali della pianificazione, degli interessi della proprietà immobiliare: è evidente infatti che sono questi “soggetti interessati” che hanno la forza di esprimere la propria volontà, i loro progetti di “valorizzazione”, e di promuovere e condizionare le scelte sul territorio.

Italia Nostra osserva che una simile impostazione “è pienamente coerente con l’assunto della piena e totale mercificazione del territorio e degli immobili che lo compongono”, cioè “con un assunto che è stato respinto dai massimi teorici dell’economia liberale classica dei secoli trascorsi, in considerazione del fatto che il territorio, e gli immobili che lo compongono, non possiedono per nulla, o scarsissimamente, quei requisiti di divisibilità, riproducibilità e fungibilità che costituiscono i presupposti essenziali e irrinunciabili dell’efficiente funzionamento del libero mercato”.

Al ribaltamento della gerarchia tra interesse pubblico e interesse privato (immobiliare) applaude invece l’INU, che “condivide senz'altro che tale funzione [il governo del territorio] possa essere svolta anche con la partecipazione e il contributo diretto di soggetti privati”.

L’analisi dell’inaccettabile impostazione del “testo unificato” potrebbe proseguire (e nel documento di Italia Nostra prosegue). Voglio limitarmi a concludere che l’impostazione della “Casa delle libertà” è talmente distante da quella non solo della sinistra, ma anche di una corretta tradizione liberale europea, da risultare incomprensibile che, a sinistra e al centro, vi sia ancora chi si attarda in una logica di emendamenti e “depeggioramenti”: o, come arditamente scrive l’INU, addirittura di “miglioramenti”. Ma l’attuale gruppo dirigente dell’antico istituto degli urbanisti italiani sembra ormai pienamente conquistato dall’ideologia urbanistica negoziale e contrattuale del regime.

Questi hanno trovato nuovo alimento, e indubbia grinta, nell’avvento di Berlusconi e dei suoi Viceré: primo fra tutti il “governatore” del Veneto, Galan; l’ex funzionario della Fininvest, con un inaspettato blitz, ha forzato la Commissione per la salvaguardia di Venezia a dare il parere (naturalmente favorevole, date le maggioranze) senza neppure esaminare i voluminosi dossier che compongono il progetto.

Ma essi contano alleati di rilievo nelle stesse file della maggioranza di centro-sinistra. Il sindaco ulivista Paolo Co sta è considerato non solo sostenitore del Consorzio Venezia Nuova e dei suoi progetti, ma anche disinvolto manipolatore delle volontà espresse dalla maggioranza comunale e abile utilizzatore delle sue incertezze. I quotidiani di oggi esprimono stupore per l’accordo che Costa ha trovato con Berlusconi nel formare un Ufficio di piano (incaricato di delicati compiti di coordinamento tecnico dei progetti per il riequilibrio della Laguna): un Ufficio di piano nel quale non solo i critici del MoSE, ma perfino le competenze ambientalmente orientate sono presenti in misura irrilevante (1 su 12).

Riepiloghiamo i fatti. Mentre – prevalentemente a livello locale - dopo anni di studi e di dibattiti, dopo aver compreso le ragioni per cui l’equilibrio della Laguna, conservato per circa un millennio, è divenuto precario per dissennati interventi antropici, si era trovato largo consenso su un programma di interventi molto ampio, diffuso e sostanzialmente morbido, rivolto a eliminare le cause del degrado (e quindi dell’aggravarsi del fenomeno delle acque alte), dall’altra parte –e soprattutto a livello di governo – si affrontava il problema in termini riduttivi, costosi, meramente ingegneristici e meccanici. Nel 1984 si giunse ad affidare a un consorzio di imprese di costruzione, il Consorzio Venezia Nuova (impresa leader la Impregilo) lo studio, la sperimentazione, la progettazione e l’esecuzione delle opere necessarie per “il riequilibrio della Laguna e la difesa dei centri storici dalle acque alte”. Un’anomalia assoluta in un sistema economico basato sulla concorrenza e sul mercato e in un sistema giuridico fondato sulla prevalenza degli interessi pubblici. Ma tant’è: un altro tassello dell’inquietante mosaico definito “anomalia italiana” (una illustrazione semplice degli eventi qui riassunti è nel mio scritto “La Laguna di Venezia e gli interventi proposti”).

Il Consorzio Venezia Nuova è diventato il vero potere nella città. Grazie agli ingenti finanziamenti pubblici ha tessuto una rete di relazioni negli ambienti imprenditoriali, accademici, politici, editoriali, tecnici, a Venezia e a Roma. L’oggettiva complessità della vicenda (e della stessa Laguna) ha reso distratta l’opinione pubblica nazionale, abilmente sollecitata a commuoversi invece per il rischio dell’affondamento di Venezia e delle sue inondazioni, che il MoSE miracolosamente (magia dell’eco biblica!) scongiurerebbe. Resistono le associazioni ambientaliste (in prima linea la sezione veneziana di Italia Nostra), alcuni nuovi comitati di base, e i partiti dell’area rosso-verde (peraltro incapaci di reagire alle manovre del sindaco con atti più incisivi di un sommesso brontolìo).

Una scoperta di queste ultime settimane testimonia il danno che l’appalto unico al Consorzio Venezia Nuova provoca non solo alla Laguna, ma anche al pubblico erario. E’ stato reso noto il progetto di un gruppo di ingegneri, particolarmente esperti nelle costruzioni marine, il quale ha tre attributi rilevanti: è estremamente più morbido nell’approccio tecnico, nelle soluzioni proposte, nell’impatto esercitato nell’ambiente lagunare; rispetta i tre requisiti decisivi, posti dal legislatore e non rispettati dal MoSE, della gradualità, sperimentalità e reversibilità; costerebbe da un terzo alla metà del progetto MoSE nella fase di costruzione, e infinitamente meno nella gestione (che al MoSE pone rilevantissimi problemi, ancora non risolti né quantificati). Forse è per questo che i padroni della città non lo hanno preso in considerazione.

© 2024 Eddyburg